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Pubbl. Gio, 17 Mag 2018

Il danno da lesione alla reputazione è danno-conseguenza: deve essere allegato e specificamente provato

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Laura Martinelli


La Cassazione, con ordinanza n. 9385 del 16.04.2018, ha ribadito l´orientamento, ormai dominante, in tema di danno da lesione alla reputazione, secondo il quale tale danno non può essere qualificato come danno-evento ”in re ipsa”, dovendo essere allegato e specificamente provato dal danneggiato.


Sommario: 1. Brevi cenni sul danno non patrimoniale  2. La risarcibilità del danno da lesione alla reputazione

1. Brevi cenni sul danno non patrimoniale.

L’art. 2059 c.c. ammette la risarcibilità del danno non patrimoniale “solo nei casi determinati dalla legge”. Tale disposizione disegna una risarcibilità della suddetta categoria di danno, pertanto, nelle sole ipotesi strettamente tipiche, ossia direttamente previste dalla legge: si pensi all’art. 185 c.p., che ammette la risarcibilità di tutti i danni, patrimoniali e non patrimoniali, che siano conseguenza della commissione di una fattispecie di reato. In effetti, al di là delle ipotesi di danni discendenti dalla commissione di un reato, sono ben rare le ipotesi in cui la legge delinea una specifica risarcibilità dei danni non patrimoniali. In un primo momento, questo sistema di risarcimento del danno non patrimoniale nelle sole ipotesi tipicamente previste si poneva in perfetta continuità e coerenza con la logica sottesa al Codice Civile del 1942, in base al quale il diritto privato deve intervenire esclusivamente a tutela di interessi eminentemente economico-patrimoniali.

Ben presto, tuttavia, i binari della tipicità del danno non patrimoniale diventarono troppo stretti per garantire una tutela adeguata di determinati valori costituzionalmente rilevanti, la cui lesione doveva essere suscettibile di determinare conseguenze risarcitorie, a prescindere da una specifica disposizione di legge in tal senso. Il primo sintomo di questa insofferenza nei confronti della stretta tipicità dell’art. 2059 c.c. si manifestò con il famoso “caso Gennarino”, riguardante il figlio di un calzolaio che, a seguito di incidente stradale il cui responsabile non fu mai individuato, aveva riportato lesioni fisiche irreversibili: la tutela risarcitoria di tali lesioni fisiche non poteva essere agganciata all’art. 2059, come risarcimento di un danno non patrimoniale, poiché nel caso di specie non era stata accertata la sussistenza di una fattispecie di reato; né poteva essere sussunta nel generale risarcimento del danno patrimoniale ex art. 2043, sub specie di propagazione oggettiva patrimoniale della lesione subita, poiché, in considerazione delle prospettive lavorative del danneggiato (destinato a compiere la professione di calzolaio), le riportate lesioni fisiche non avevano compromesso in alcun modo le sue aspettative di guadagno futuro.

Per superare la descritta problematica, intervenne la Corte Costituzionale, con storica sentenza n. 184 del 1986, con cui si sancì che la lesione del diritto alla salute dovesse trovare tutela risarcitoria non in base all’art. 2059 c.c., ma già in base all’art. 2043 c.c., norma diretta a tutelare il patrimonio inteso in senso estensivo, come comprensivo non solo dei beni patrimoniali in senso stretto, ma anche del bene salute, costituzionalmente tutelato all’art. 32 Cost. In base a questa sentenza, poi, la giurisprudenza arrivò a riconoscere la risarcibilità anche del cd. danno esistenziale, in base all’art. 2043 c.c., e dunque a prescindere dall’accertamento della commissione di un reato: tale danno si sostanziava nella lesione dei diritti fondamentali riconosciuti e tutelati dall’art. 2 Cost.

Ma il vero, definitivo passo in avanti è stato compiuto dalla Cassazione, che, a partire dal 2003, ha ripensato completamente il sistema del risarcimento del danno non patrimoniale. Il ragionamento dei giudici di Piazza Cavour è stato sostanzialmente il seguente: il fondamento normativo richiesto dall’art. 2059 c.c. per la risarcibilità dei danni non patrimoniali può essere rinvenuto nelle singole norme costituzionali che tutelano i valori fondamentali della persona. In tal modo, si superano i binari della stretta tipicità del danno non patrimoniale, arrivando ad ammettere che, laddove il danno in questione concerna interessi costituzionalmente tutelati, esso possa essere risarcito anche in assenza di accertamento della commissione di un reato. Viceversa, nei casi in cui il danno non patrimoniale concerna interessi non costituzionalmente rilevanti, riemergono i binari della tipicità delineati prima dell’intervento della Cassazione, e, pertanto, il danno sarà risarcibile solo in presenza di un reato.

2. La risarcibilità del danno da lesione alla reputazione.

Nell’ambito dei danni ritenuti risarcibili dalla giurisprudenza, sulla base del combinato disposto dell’art. 2059 c.c. e le norme costituzionali che tutelano i valori fondamentali della persona, spicca il danno da lesione alla reputazione, o cd. danno all’immagine. Il fondamento costituzionale di tale danno, in particolare, è stato rinvenuto dalla Cassazione negli artt. 2 e 3 Cost., che tutelano rispettivamente i diritti fondamentali della persona e l’uguaglianza formale e sostanziale tra gli individui. Il danno da lesione alla reputazione lede la dignità della persona e mina l’immagine che di sé presenta al mondo, insinuando elementi e circostanze, non corrispondenti al vero, che incidono sulla sua immagine sociale.

In merito al danno da lesione alla reputazione, si è ingenerato un dibattito in giurisprudenza con riguardo, in particolare, alla natura giuridica di tale danno e alla conseguente ripartizione dell’onere della prova.

In un primo momento, infatti, la Cassazione aveva qualificato il danno alla reputazione come danno-evento, ovverosia come lesione diretta di un interesse giuridicamente (e costituzionalmente) rilevante dell’individuo: ne discendeva, di conseguenza, la non necessità di una prova specifica delle conseguenze che il danno avesse prodotto nella sfera giuridica del danneggiato, bastando la prova della condotta potenzialmente lesiva della reputazione del soggetto, la quale veniva considerata in astratto (cfr. Cassazione n. 16543 del 28.09.2012; cd. danno da lesione alla reputazione in re ipsa).

Successivamente, tuttavia, si iniziò ad avvertire un’esigenza di superamento del concetto di “danno-evento”, il quale deve essere inteso come elemento costitutivo dell’illecito aquiliano ex art. 2043 c.c., sub specie di danno ingiusto, rilevando, perciò, sotto il profilo dell’an del diritto al risarcimento del danno; tuttavia, ai fini della valutazione del quantum del risarcimento spettante al danneggiato, si dovrà guardare al cd. danno-conseguenza, consistente nel complesso delle conseguenze pregiudizievoli cagionate nella sfera giuridica dell’individuo, tanto patrimoniale quanto non patrimoniale, a causa dell’illecito subito. In questa ottica, pertanto, si è accolta una nozione di danno da lesione alla reputazione non più come danno-evento, sussistente, perciò, in re ipsa, ma come danno-conseguenza. Rilevanti le ricadute in punto di onere probatorio: mentre, come si è detto, affermando la natura di danno-evento del danno alla reputazione, il danneggiato avrebbe avuto solo l’onere di provare il fatto causativo del danno ingiusto alla sua “immagine sociale”; sostenendo, invece, la sua natura di danno-conseguenza, viene addossato sul danneggiato un onere probatorio decisamente più rigoroso, dovendosi provare non soltanto il fatto illecito, ma anche le conseguenze pregiudizievoli che lo stesso abbia prodotto alla reputazione dello stesso. Si pensi, ad esempio, alla perdita di un’occasione lavorativa, dipendente dalla cattiva reputazione di “fannullone”, acquisita a causa di altrui diffamazione.

Tale è stato, peraltro, l’orientamento espresso dalla Cassazione, da ultimo, con ordinanza n. 9385 del 16.04.2018, nella quale si è inteso ribadire nuovamente la qualifica del danno da lesione alla reputazione come danno-conseguenza, rifuggendo dagli orientamenti che lo qualificavano come danno in re ipsa.

Il caso da cui prende le mosse la suddetta ordinanza attiene ad un soggetto che agiva in giudizio, ritenendo di essere stato leso nella sua reputazione, a causa di un’informativa pervenuta da una società di intermediazione finanziaria alla banca dati relativa al merito creditizio (cd. CRIF), per il presunto mancato pagamento delle rate di un contratto di mutuo stipulato dal ricorrente, al fine di acquistare un bene di consumo. La lesione alla reputazione si sarebbe prodotta, poiché l’inserimento del nominativo all’interno della suddetta banca dati produce l’effetto di qualificare il soggetto attenzionato come “cattivo pagatore”, con tutte le conseguenze che ne possono derivare per il futuro ottenimento di prestiti. Ebbene, il ricorrente lamentava che la segnalazione effettuata dall’intermediario finanziario si fondava, in realtà, su un contratto di mutuo sottoscritto con firma apocrifa, dallo stesso immediatamente disconosciuta. Tuttavia, nonostante la doglianza si presentasse come astrattamente fondata, in concreto la Cassazione giunge al rigetto della domanda risarcitoria avanzata dal ricorrente, per mancanza di prova. Il ricorrente, infatti, aveva genericamente richiesto il risarcimento del danno da lesione alla reputazione, senza addurre alcun elemento atto ad evidenziare le effettive conseguenze pregiudizievoli che l’iscrizione del suo nominativo al CRIF avrebbe prodotto (come, ad esempio, la difficoltà di accedere nuovamente ad erogazione di credito, ovvero l’ottenimento di credito con tassi di interesse più elevati, stante la sua reputazione di “cattivo pagatore”).

La Suprema Corte, infatti, coglie l’occasione per ribadire come il danno non patrimoniale da lesione di interessi costituzionalmente rilevanti non possa essere qualificato come danno-evento in re ipsa, dovendo essere oggetto di specifica prova da parte del danneggiato che ne richieda il risarcimento. Tuttavia, i giudici non mancano di riconoscere come, per la particolare difficoltà di ricorrere alla prova di conseguenze dannose che si produrranno solo in un momento futuro (ancora una volta si ricorre all’esempio della difficoltà, futura ed eventuale, di accedere ad erogazione di credito, a causa della cattiva reputazione formatasi), sia ben possibile ricorrere a valutazioni prognostiche, ovvero a presunzioni, purché basate su elementi oggettivi che è sempre onere del danneggiato offrire. 

La ratio che ha spinto la giurisprudenza di legittimità a superare la tesi del danno non patrimoniale da lesione di interessi costituzionalmente rilevanti come danno-evento in re ipsa può rinvenirsi nell’intrinseca natura del diritto al risarcimento del danno nel nostro ordinamento: deve trattarsi di un risarcimento volto a ristorare il danneggiato delle conseguenze dannose prodottesi nel suo patrimonio a causa del fatto lesivo, non dovendosi, invece, tradurre in un onere patrimoniale posto a carico del responsabile per il solo fatto illecito commesso, poiché altrimenti si rientrerebbe nella controversa categoria dei punitive damages. Pertanto, il danno da lesione alla reputazione può essere risarcito, in base al combinato disposto degli artt. 2059 c.c. e 2 e 3 Cost., ma il danneggiato deve offrire una prova concreta, sia pur basata su presunzioni e valutazioni prognostiche, delle effettive conseguenze dannose che il fatto illecito abbia cagionato nella sua sfera giuridica.