• . - Liv.
ISCRIVITI (leggi qui)
Pubbl. Ven, 29 Dic 2017
Sottoposto a PEER REVIEW

La nullità del contratto per violazione di norme penali

Modifica pagina

Vanessa Moscardi


Definiti gli aspetti ontologico-giuridici della norma imperativa, dalla qualificazione della norma penale quale norma imperativa ne discende la nullità virtuale ex art. 1418 I co. c.c. del negozio posto in essere in violazione di norma penale. Segue l´analisi teorica e rimediale della truffa contrattuale e della circonvenzione di incapaci.


Sommario: 1. Norma imperativa e nullità negoziale. 2. Qualificazione della norma penale quale norma imperativa. 3. Inferenze ed interferenze tra violazione di norme penali e nullità comminata da norme civili. 4. Reati contratto e reati in contratto. 4.1. La fattispecie delittuosa concreta di truffa contrattuale e la relativa sorte del negozio: tesi della nullità e della annullabilità. 4.2. La fattispecie concreta del reato di circonvenzione di incapaci e la relativa sorte del contratto: tesi contrapposte. 5. Considerazioni conclusive.

1) Norma imperativa e nullità negoziale.

La genesi della norma imperativa va rintracciata nel diritto romano. L’analisi etimologica del termine “imperare” rimanda ad un comando, comprensivo dell’accezione in negativo del divieto.

È nel Digesto di Modestino[1] che troviamo la tralatizia definizione: “legis virtus haec est: imperare, vetare, permittere, punire” da cui si ricava la funzione della legge che ora comanda, ora proibisce, ora permette o punisce.

La funzione primaria del diritto (sebbene non l’unica), infatti, è quella di rendere certe condotte obbligatorie, vietate o permesse.

In merito poi alle fonti – giuridiche o metagiuridiche – e quindi alle giustificazioni del perché comandare o proibire, si distingue tra imperativi autonomi (quelli della morale) e imperativi eteronomi (quelli del diritto)[2].

Così la norma imperativa si distingueva dalla norma permissiva, la quale– in base ai principi della logica definitoria binaria – si ricavava per converso quale noma che invece permetteva[3].

Dipoi, in sede di redazione del Codice Civile del 1865, veniva esclusa la categoria giuridica della norma permissiva, in base al principio per cui è permesso ciò che la legge non proibisce.

Diversi teorici[4] negavano l’indipendenza concettuale delle norme permissive oppure le consideravano come semplici deroghe alle norme imperative, le sole, queste ultime, alle quali andava attribuito il carattere di “norme”[5].  

V’è da dire che altra parte della dottrina, invece, seguendo la teoria dei correlativi di Hohefeld[6], sosteneva che, dovendo a ogni divieto corrispondere necessariamente un permesso, tale binomio di contrari andasse riconosciuto non solo sul piano logico ma anche su quello stricto sensu giuridico.

Nel corso dei lavori preparatori del codice del 1942, persa sotto il profilo giuridico la distinzione tra norma imperativa e norma permissiva, emergeva la differenziazione tra norma imperativa e norma dispositiva.

Alla base della norma imperativa vi è la tutela di un interesse generale, che definisce ontologicamente tale norma, di carattere precettivo, e la distingue dalla norma dispositiva, posta a presidio di interessi individuali dei privati e perciò derogabile dagli stessi[7].

Invero il nomen omen di norma “dispositiva” sta ad indicare che, nei limiti della autonomia negoziale riconosciuta ai paciscenti ai sensi dell’art. 1322 c.c., questi possono porre in essere un contratto disapplicando il dettato di una norma non imperativa.

Tutte le norme imperative sono cogenti.

Ma non tutte le norme cogenti sono imperative.

Come ad esempio le norme di condotta che prescrivono di tenere un certo comportamento, improntato alla buona fede nella fase pre-contrattuale delle trattative e in quella di esecuzione del contratto, ma che non importano tout court la invalidità del negozio nel caso di loro violazione[8].

Sul piano delle conseguenze applicative, la violazione di una norma imperativa ne comporta la nullità, a mente dell’art. 1418, I co. c.c.

L’ordinamento risponde alla violazione di norme imperative con il più grave dei rimedi previsti dall’ordinamento: la nullità del negozio posto in essere in oltraggio a tale norma. E ciò proprio perché alla base vi è l’esigenza di tutelare un interesse generale della collettività.

L’inosservanza di una norma imperativa è pertanto punita con la nullità di tipo virtuale, di cui al primo comma dell’art. 1418 c.c.,  giacché non vi è una specifica disposizione di legge che espressamene prevede tale nullità, come viceversa avviene nel caso della nullità testuale (di cui al terzo comma del medesimo articolo) o nel caso della nullità strutturale, per la mancanza o illiceità di un elemento morfologico ed essenziale del negozio (come previsto dal secondo comma dello stesso articolo).

La nullità del negozio posto in essere ad onta della prescrizione di una norma imperativa riguarda, come sempre per questo tipo di rimedio, una patologia del negozio come atto.

In sostanza è nella fase di formazione del contratto come atto (non già come rapporto) che tale negozio – ove posto in essere in spregio ad una norma imperativa generalmente intesa, senza che siano quindi tipizzate le singole fattispecie – risulta affetto da nullità.

Siffatto sottotipo di nullità del negozio, a dispetto dell’ordine seguito dalla enucleazione delle varie tipologie di nullità di cui all’art. 1418 c.c., risulta residuale rispetto alle altre e deriva non già da un’ipotesi tipica, bensì dal contrasto tra (il contenuto dell’) atto di autonomia e (la prescrizione di una) norma imperativa.

Tale nullità conseguente alla violazione di una norma imperativa è quindi astrattamente prevista quale ipotesi generale che potremmo definire “a geometrie variabili”, in ragione della molteplicità di forme che tale tipo di invalidità può assumere rispetto al dato costante di base costituito dalla sussunzione della norma violata nella categoria delle norme imperative. Fermo restando che tale effetto invalidante del negozio può non trovar luogo laddove vi sia una specifica disposizione di legge che ne escluda l’effetto invalidante, come previsto dalla clausola di salvezza inserita a chiusura del I comma dell’art. 1418 c.c.

Il fondamento noumenico-concettuale della norma imperativa è sempre un interesse primario sovraordinato, anche nel caso di leggi speciali che prevedono la nullità di contratti lesivi dell’interesse di categorie di contraenti, considerati deboli, quali i consumatori: la protezione di tali categorie di soggetti giuridici è il mezzo per perseguire in realtà un interesse collettivo, quale è il corretto funzionamento del mercato e l’uguaglianza sostanziale dei contraenti, di cui agli artt. 41 e 3, II co, Cost.

In sostanza, anche le norme che prescrivono le c.d. nullità di protezione[9], nate nell’ambito della disciplina consumeristica, sono sì poste a presidio della violazione di norme di settore per proteggere una categoria di consociati e non tutti, ma perseguono, de iure e de facto, la tutela di interessi e valori di più ampio respiro, di carattere generale. Sul punto occorre precisare che vi è una dottrina[10], che si ritiene non condivisibile, la quale sostiene la derogabilità di suddette norme di matrice protezionistica per alcune categorie di contraenti e da ciò ne deduce la cogenza ma non la imperatività.

2) Qualificazione della norma penale quale norma imperativa.

Tanto premesso, entrando in medias res nella trattazione della questione che in questa sede ci occupa, risulta opportuno – sia sul piano assiologico e deontologico che su quello teleologico-sistematico – considerare le norme penali come norme imperative. Ciò in quanto il fatto che un precetto sia penalmente sanzionato esprime, ex se, il più alto grado di imperatività del precetto stesso perché evidentemente posto a presidio di un valore di rilevante importanza per l’ordinamento.

Cionondimeno occorre precisare che quanto detto non vale allorquando la norma penale sia posta a salvaguardia non già di un interesse generale dello Stato-comunità, bensì a tutela di esigenze dei pubblici poteri di governo, di uno scopo di polizia, di disciplina o di finanza, quindi a garanzia dell’efficienza dello Stato-persona.[11]

V’è da aggiungere, inoltre, che secondo la Normentheorie[12] di Binding non tutte le norme penali possono considerarsi imperative: vi sono norme penali che impongono un preciso divieto (queste vanno qualificate come imperative) e quelle che invece si limitano a descrivere la trasgressione e contemplano la pena per l’infrazione.

Ad ogni modo, dalla generica qualificazione della norma penale come norma imperativa, ne dovrebbe discendere la nullità del negozio posto in spregio della norma penale.

Sulle conseguenze giuridiche in sede di applicazione dell’assunto della norma penale come norma imperative sono registrabili orientamenti contrastanti che si analizzeranno di seguito.

3) Inferenze ed interferenze tra violazione di norme penale e nullità comminate da norme civili.

Orbene la tesi definita “pan-penalistica”[13] (che si ritiene condivisibile) sostiene l’equazione del contratto contrario a norma penale come contrario ad una norma imperativa e ne fa discendere la invalidità negoziale, di cui all’art. 1418 c.c. I co. c.c.

Tale indirizzo esegetico risulta rispettoso anche del principio di non contraddizione, in quanto laddove il diritto penale sanziona un comportamento assunto nella formazione o nella esecuzione del contratto in quanto costituente reato, non può il diritto civile considerare quello stesso negozio valido e produttivo di effetti tra le parti. Una diversa considerazione di siffatto negozio come valido sul piano civilistico sarebbe il frutto di un sistema schizofrenico che, da una parte vieta e punisce, e dall’altra ne legittima il contenuto e gli effetti.

Viceversa altra tesi, cd panprivatistica[14], parte dall’assunto di ordine assiologico della separatezza tra sistema di diritto civile e sistema di diritto penale, che deriverebbe da una diversità strutturale delle norme civili e penali e della loro ratio, nonché da una differenza di funzione delle relative sanzioni: la nullità negoziale avrebbe un riferimento oggettivo, mentre la sanzione penale sarebbe diretta al soggetto (al suo comportamento).

Questa teoria, partendo dall’assunto della primazia del diritto civile rispetto al diritto penale, sostiene che la definizione degli elementi strutturali degli istituti di diritto civile è prerogativa della legislazione civile e che il giudizio sulla validità del negozio non possa dipendere da norme penali[15]. Tale prospettiva si basa su una concezione prettamente sanzionatoria del diritto penale (che affonda le sue radici sulla summenzionata teoria sanzionatoria di Binding) per cui le norme penali devono limitarsi a stabilire le pene che operano per le violazioni del divieto in esse contenute, o finanche del divieto contenuto in disposizioni degli altri rami del diritto, ma non possono spingersi fino a considerarsi essere stesse norme che abbiano delle implicazioni sul sistema del diritto civile.

In particolare, secondo tale filone ermeneutico, seppure il disvalore della condotta oggetto del divieto della norma penale debba far qualificare quest’ultima come norma imperativa, ciò non equivale a ritenere automatico l’effetto della nullità del negozio posto in contrasto con la norma penale. Occorre, cioè, un'altra ed ulteriore valutazione per ritenere la norma penale come imperativa anche sul piano degli effetti civilistici invalidanti. Più precisamente, bisogna considerare non solo il dato letterale-nominalistico che qualifica una determinata norma come penale ma anche analizzare il contenuto intrinseco della norma penale stessa, per valutare – caso per caso – se il contenuto dell’enunciato nomologico, a prescindere dal nomen iuris, integri anche una fattispecie patologica e perciò sanzionabile dal punto di vista civilistico[16].

Tale tesi risulta seguita e suffragata anche dalla recente giurisprudenza di legittimità[17] che, prendendo le mosse dall’analisi del tipo di interesse tutelato dalla norma penale, tra queste ultime distingue tra quelle che hanno ad oggetto la protezione di un interesse pubblico e quelle che invece mirano a tutelare un interesse privo di rilevanza pubblica. A titolo esemplificativo, nel reato di truffa di cui all’art. 640 c.p., il bene tutelato è il patrimonio del soggetto passivo, non già un interesse collettivo, come avviene nella fattispecie di circonvenzione di incapaci, ex art. 643 c.p.

Di talché solamente le fattispecie del tipo di quella di cui all’art. 643, ovvero quelle in cui v’è un’esigenza di carattere collettivo, comportano sul piano civilistico la nullità del negozio effetto della commissione di tali reati.

Ma una norma penale, in quanto tale, non trascende mai – quantomeno mediatamente – da interessi di ordine pubblico. Non fosse altro per la vocazione genetica e tralatizia del diritto penale: la razionalità strumentale dell’ordinamento penale, che ha ascendenze illuministiche, è quella di attuare un sistema di delitti e di pene che non si limita ad uno scopo puramente astratto di tutela e di giustizia, ma che si spinge fino allo scopo di attuare una effettiva protezione di interessi e beni di rilevanza pubblica, dalla cui tutela dipende la garanzia di una convivenza pacifica della collettività[18].

Occorre considerare poi che le disposizioni penali, al pari di quelle civili, sono norme giuridiche, ovvero proposizioni giuridiche astratte che contengono (nel precetto) comandi e divieti imposti dallo Stato ai cittadini. La previsione della pena contenuta nella norma penale attiene (solo) all’aspetto degli effetti e quindi dell’attuazione applicativa dello specifico comportamento imposto o vietato dalla disposizione stessa.[19]

Di guisa che il disvalore contenuto nella violazione di un precetto penale non può non essere considerato, indi delegittimato sul piano civilistico; e l’unico modo che ha il diritto civile di delegittimare una situazione giuridica contraria ai primari valori dell’ordinamento è quella di inficiare l’atto di autonomia sul piano della sua validità e di privarlo di effetti giuridici. Diversamente opinando si giungerebbe a delle conseguenze paradossali per cui sarebbe ammesso, nell’esercizio della autonomia negoziale, porre in essere un reato ed essere puniti sul piano penalistico, pur rimanendo l’atto stesso integro ed indenne da effetti invalidanti sul piano civilistico.

A ben vedere, infatti, la invalidità del negozio, quale nozione speculare rispetto a quella della validità, rimanda alla contrapposizione tra essere e dover essere del negozio; tra fattispecie concreta e conformità della stessa allo schema legale astratto di riferimento. E se si pone in essere un contratto violando una norma penale, di certo si pone in essere un contratto contrario al dover essere di quell’atto negoziale.

Pertanto, la violazione da parte del contratto di una norma penale non può che comportare, sul piano applicativo-rimediale, un effetto di tipo demolitorio, avuto riguardo sia al momento strutturale della regolare formazione del contratto, valutato sotto il profilo dei prescritti essentialia negotii e della loro liceità, sia sotto il profilo virtuale-funzionale della loro legalità.

Occorre cioè distinguere tra contratto illegale ex art. 1418 I co., c.c. e contratto illecito, ex art. 1418 II co. c.c[20].

Segnatamente, dall’analisi dei due diversi commi dell’art. 1418 c.c., si evince anzitutto, a dispetto del loro ordine di enucleazione, che la disposizione di cui al primo comma risulta essere “residuale” rispetto alle ipotesi descritte nel secondo capoverso, tant’è che queste ultime sono specificamente individuate dal legislatore e tant’è che a chiosa del primo comma vi è una clausola di salvezza per cui il contratto è nullo se contrario a norme imperative, ma “salvo che la legge disponga diversamente”.

Dipoi, ciò detto, occorre soffermarsi ad un’indagine sul piano semantico.

Il secondo comma dell’art. 1418 utilizza il termine “illecito” per riferirsi sia alla causa, che ai motivi del contratto, i quali ne determinano la nullità.

Ebbene se il contratto con causa e motivi illeciti può definirsi illecito, diversamente il contratto contrario a norme imperative potrà definirsi “illegale”. Ciò anzitutto per motivi di differenziazione e quindi di definizione delle due forme di contrarietà al diritto: quella della antigiuridicità o difformità rispetto al diritto e quella della specifica ed espressa violazione di un divieto assoluto.

Entrambi sono manifestazioni sine iure con un coefficiente diverso a seconda che il negozio violi una norma imperativa di tipo proibitivo o ordinativo (1418 I co, cc) o trasgredisca un norma sicuramente proibitiva contenente un divieto assoluto (1418 II co.).[21]

Rispettivamente il contratto illegale si atteggerebbe come una forma di violazione più tenue, stante anche la riserva finale di legge che può escluderne la nullità; mentre il contratto illecito costituisce di certo la forma più grave di trasgressione ed è in ogni caso nullo, attesa anche la mancanza di qualsivoglia clausola di salvezza che disponga in senso contrario.

4) Reati contratto e reati in contratto.

Quanto sinora detto costituisce la premessa logico-giuridica per affrontare la distinzione dogmatica tra reati contratto e reati in contratto. Invero, corollario di quanto supra è che gli istituti del reato e del contratto sono riconducibili a diversi ambiti dell’ordinamento e rispondono ad esigenze diverse, ma poiché l’ordinamento giuridico non è a compartimenti stagni, bensì collegato nei vari riparti da un collegamento osmotico derivante dai principi generali dello stesso, si registrano costanti interferenze tra il settore civilistico e quello penalistico. Ne costituisce un esempio significativo l’esame della tematica che in questa sede ci occupa, dove la stipula di un contratto o il comportamento antecedente alla sua conclusione, costituisce un illecito penalmente rilevante.

Orbene, entrambe le summenzionate categorie di reati hanno a che fare con la stipulazione di un accordo contrattuale.

Nei reati-contratto ciò che è penalmente rilevante e che si incrimina è la stipulazione contrattuale in sé: è l’accordo stesso a costituire il fatto penalmente sanzionato. Tali fattispecie delittuose si caratterizzano per essere a cooperazione necessaria, ovvero plurisoggettivi propri[22].

Nei reati in contratto, fattispecie plurisoggettiva impropria, la condotta che viene sanzionata non è la formazione dell’accordo in sé, ma il comportamento tenuto nella fase delle trattative antecedente alla manifestazione di volontà dei contraenti o nel momento successivo di esecuzione del contratto.[23]

5) La fattispecie delittuosa concreta di truffa contrattuale e la relativa sorte del negozio: tesi della nullità o annullabilità.

Dal generale al particolare, tra le ipotesi concrete di reati in contratto si annovera il reato di truffa contrattuale, species del più ampio genus di truffa di cui all’art. 640 c.p.

La disposizione in esame sanziona la condotta di “chiunque con artifizi o raggiri, inducendo taluno in errore, procura a sè o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno”.

La testé descritta condotta, calata in una situazione di formazione del vincolo contrattuale tra le parti, riguarda il comportamento che una parte assume nei confronti dell’altra per carpirle il consenso ed indurla in errore, così da stipulare un contratto che – in assenza delle circostanze e dell’atteggiamento fraudolento posto in essere – non sarebbe stato concluso o comunque sarebbe stato concluso a condizioni diverse.

Una parte della dottrina[24] ritiene nullo il negozio che comporti una truffa contrattuale.

La questione rimanda al tema della differenza tra regole di validità e regole di condotta, ove rispettivamente per le prime s’intendono quelle prescrizioni che attengono alla struttura dell’atto e pongono alle parti oneri da osservare in vista della valida conclusione del contratto; le seconde, invece, si atteggiano come clausole generali destinate al rispetto di standards comportamentali e misurano la legittimità dell’esercizio di un potere verso un soggetto determinato[25]. Le differenze tra le due categorie inducono ad affermare l’autonomia delle une rispetto alle altre. Per cui generalmente la violazione di una regola di comportamento non influisce sulla (in)validità del negozio[26]. Ciò in quanto le regole di condotta, seppure vadano considerate quali norme imperative, ineriscono al comportamento delle parti, non già all’atto negoziale[27]. Ne costituisce un esempio la violazione della buona fede precontrattuale, ex art. 1337 c.c., che non determina l’invalidità dell’atto ma è fonte di responsabilità.[28]

Purtuttavia parte della dottrina ritiene che vi sono regole di condotta che sono poste a presidio di preminenti interessi di carattere generale, da cui se ne desume la nullità del negozio posto in essere in spregio a tali regole.

Nel caso di specie, l’interesse generale sotteso al reato di truffa contrattuale non sarebbe solo il patrimonio della parte vittima del comportamento fraudolento dell’altra, ma anche la tutela dell’interesse alla libertà negoziale. Sicché alla base vi sarebbero ragioni di ordine pubblico, ricavabili attraverso un’interpretazione sistematica e costituzionalmente orientata al combinato disposto degli artt. 41 e 42 Cost.

Viceversa, la dottrina dominante[29] e la recente giurisprudenza[30] propendono per la tesi della annullabilità del contratto, ove con lo stesso sia integrato il reato di truffa contrattuale.

Cionondimeno la nullità sarebbe comunque ravvisabile nel caso in cui la condotta tenuta nella fase di formazione del contratto risulti violativa della norma penale da ambedue le parti[31].

In particolare, seguendo la tesi dell’annullabilità, la peculiarità del delitto di truffa contrattuale è rappresentato dal dolus in contrahendo, cioè dagli artifizi e raggiri che intervengono nella formazione del consenso e così ledono la corretta costituzione e manifestazione della volontà.

Dimodoché il consenso risulterebbe viziato nella sua libera determinazione ove sussista un rapporto eziologico tra il mezzo fraudolentemente e surrettiziamente usato dall’agente e il consenso del soggetto passivo, indotto ad una determinazione negoziale che altrimenti non avrebbe scelto[32].

Peraltro la giurisprudenza di legittimità[33] ha più volte affermato che la truffa contrattuale può verificarsi non solo nel momento genetico del contratto, ma anche nella fase di esecuzione dello stesso e cioè quando l’induzione in errore non sia solo ottenuta con artifizi e raggiri messi in atto nella fase pre-contrattuale, ma vieppiù sia mantenuta, completata o determinata al momento di esecuzione del rapporto contrattuale.

Ad ogni modo, tornando all’ipotesi di truffa attinente alla fase di formazione del contratto, tale circostanza in ambito civile potrebbe quindi integrare gli estremi della patologia del negozio per vizio del consenso.

In particolare, il dolo può atteggiarsi come “incidente” (quando influenza il consenso della controparte ma non in modo determinativo) e fondare quindi un’ipotesi di responsabilità precontrattuale, di cui all’art. 1440 c.c, ovvero da contratto valido ma inutile. Sicché, in riferimento al quantum del risarcimento, questo dovrebbe consistere nell’interesse positivo differenziale: nella differenza tra ciò che il contratto è e ciò che sarebbe stato se non vi fosse stata la violazione della regola di comportamento.

Altra ipotesi è quella prevista dall’art. 1338 c.c., ovvero quella in cui il dolo risulti determinante, di talché il contratto è annullabile. In questo caso la violazione della regola di comportamento è tale, per come incide sul consenso della controparte e sull’assetto di interessi divisato dalle parti, da colpire la validità del negozio. Di guisa che possono integrarsi gli estremi di una responsabilità pre-contrattuale da contratto invalido, ove il risarcimento del danno si sostanzia nell’interesse negativo: l’interesse della parte a non concludere un contratto invalido, con il relativo dispendio di tempo, soldi e chances perse.

6) La fattispecie concreta del reato di circonvenzione di incapaci e la relativa sorte del contratto: tesi contrapposte.

Anche il delitto di circonvenzione di incapaci, di cui all’art. 643 c.p., rientra nella categoria dei reati in contratto e, tra quest’ultimi, costituisce una di quelle ipotesi criminose che possono commettersi (come la truffa contrattuale di cui sopra) nell’esercizio di un’attività negoziale.

In particolare la condotta penalmente rilevante consiste in un'attività di induzione mediante abuso della condizione di minorazione psichica in cui tipicamente si trovano i soggetti passivi del reato in esame, ovvero i minori, gli infermi e i deficienti psichici[34].

La norma in esame punisce quindi chi, abusando dei bisogni, delle passioni o della inesperienza di una persona minore, ovvero abusando dello stato d’infermità o deficienza psichica di una persona, la induce a compiere un atto che importi un qualsiasi effetto giuridico dannoso per sé o per altri. Pertanto, ai fini della integrazione del reato, non è sufficiente la conoscenza da parte del soggetto attivo dello stato di incapacità, necessitando che di essa il reo si sia avvalso consapevolmente, per l’induzione all’atto pregiudizievole.

Quanto al bene giuridico tutelato, l’indagine a tal proposito rimanda alla questione se il bene protetto dalla norma sia di carattere individuale, ossia il patrimonio del minorato, oppure di interesse generale, cioè la libertà di autodeterminazione nell’esplicazione dell’attività negoziale, valore pi più ampio respiro costituzionale, di cui al combinato disposto degli artt. 40 e 41 Cost.

Vieppiù nel caso di specie, l’interesse generale in questione risulterebbe “rafforzato” da una valutazione di giustizia sostanziale, consistente nella circostanza che tale libertà di contrattare (e di contrarre) vede interessate persone considerate deboli per l’ordinamento, quali sono quelle che versano in condizioni di menomazione fisica o psichica[35].

La differenza consistente nel propendere per la tesi dell’interesse particolare o quella dell’interesse generale, quale bene giuridico sotteso alla ratio di tutela della norma, non è di poco conto e attiene, come visto per la truffa contrattuale, non solo al piano teorico ma ha delle riverberazioni civilistiche sul piano applicativo-rimediale.

Ai fini dell’indagine che in questa sede ci occupa, la norma penale in esame va letta in combinato disposto con la norma civile di cui all’art. 428 c.c.

Ebbene propendendo, anche per ragioni di giustizia sostanziale, per la tesi che ravvede nella disposizione penale la tutela non già dell’incapacità di per sé considerata, ma la tutela della autonomia negoziale di soggetti in condizioni di immaturità o inesperienza o deficienza psichica, tale forma di protezione dell’incapacità ha connotazioni sottilmente differenti sul piano civilistico.

Ed invero la disposizione di cui all’art. 428 c.c., al capoverso richiede la malafede del contraente ai fini dell’annullamento del contratto posto in essere con l’incapace.

Il concetto di “malafede”, dal punto di vista squisitamente semantico, ha delle accezioni sul piano estensionale ed intensionale, più limitate rispetto al concetto di “abuso” utilizzato dalla norma penale. Per “malafede” s’intende la semplice conoscenza dell’incapacità, status quest’ultimo che comunque, di per sé, porta l’altro contraente ad avere una situazione quantomeno di vantaggio cognitivo.

Ma a bene vedere tali premesse, che parte della dottrina[36] (ut supra) pone a fondamento della separazione tra le norme di diritto civile e diritto penale e quindi della non riconducibilità degli effetti civili invalidanti ai negozi posti in essere in violazione di norme penali, in realtà si ritiene siano proprio a rafforzamento della tesi contraria. O meglio, l’idea che per la norma civile sia bastevole la malafede per ravvisare un negozio soggetto ad annullamento, non fa che suffragare la tesi per cui ove vi sia in più un vero e prorpio abuso di una condizione di menomazione, allora la violazione della norma penale quale norma imperativa, giustificherebbe a fortiori l’integrazione della nullità del contratto (concluso con l’incapace) ex art. 1418 I co. c.c., attese le più gravi modalità con cui è stata violata una norma imperativa.

Dipoi, secondo il ragionamento di parte della giurisprudenza di legittimità[37], questa nel disegnare, per le fattispecie delineate dall’art. 643 c.p. e dall’art. 428 c.c., due cerchi concentrici di portata normativa, il secondo dei quali (art. 428 c.c.) di raggio minore, fa rientrare nella formula di cui all’art. 643 c.p. qualsiasi minorazione intellettiva, fisica, cognitiva o affettiva, includendo così le ipotesi del raggio minore (dell’art. 428 c.c.).

Sicché è proprio la latitudine della fattispecie dell’art. 643 c.p. a giustificare sia la gravità della pena, che la sanzione civile della nullità del contratto, nel contesto della imperatività della norma penale ex art. 1418, I co., c.c.

In particolare tale filone ermeneutico della giurisprudenza, sostenuto anche da autorevole dottrina[38] prendendo le mosse dalla considerazione della norma penale quale norma imperativa, sanziona con la nullità virtuale il contratto stipulato dal soggetto passivo del reato concependo la diretta applicazione dell’art. 1418 I co., c.c., per difetto degli estremi della riserva di cui al secondo comma del medesimo articolo.

Si ritiene, pertanto, che ragioni di giustizia sostanziale, da un lato, di ortodossa tutela della autonomia contrattuale quale valore generale dell’ordinamento e quale valore fondamentale della persona, dall’altro, debbano far propendere per la nullità del contratto posto in essere commettendo il reato di cui all’art. 643 c.p.

Con la conseguenza applicativa di considerare tale contratto, in quanto nullo, tamquam non esset e quindi originando da ciò un indebito oggettivo, ne deriverebbe il diritto alla ripetizione dell’indebito e l’eventuale risarcimento a titolo di responsabilità pre-contrattuale ex art. 1338 c.c.

Diversamente opinando, la dottrina e giurisprudenza che rintracciano un’ipotesi di annullamento del contratto, in quanto troverebbe luogo sic et sempliciter la disposizione di cui all’art. 1425 c.c., sul piano effettuale ne deriva la susseguente applicazione dell’art. 1443 per cui se il contratto è annullato per incapacità di uno dei contraenti, quest’ultimo non è tenuto a restituire all’altro la prestazione ricevuta se non nei limiti in cui è stata rivolta a suo vantaggio. Vieppiù l’azione di annullamento può accompagnarsi alla pretesa di risarcimento del danno ove ricorrano gli estremi della responsabilità pre-contrattuale.

7) Considerazioni conclusive.

A chiosa di quanto sinora esposto, risulta opportuno, sia sul piano deontologico che su quello strettamente giuridico, ritenere la norma penale quale norma imperativa.

Ne deriva l’impossibilità di un ragionamento e di una visione dell’ordinamento a compartimenti stagni, secondo cui il diritto civile e il diritto penale, con le rispettive norme, avrebbero morfologie e funzionalità a tal punto differenti, da non poter mutuare sul piano civilistico le considerazioni di disvalore approntate sul piano penalistico. Sicché, come sostiene parte della dottrina, non sarebbe possibile comminare la invalidità di un negozio qualora questo sia posto in essere in violazione di una norma penale, sì da costituire reato. Ciò in quanto vanno distinte le regole di validità (civilistiche) da quelle di comportamento (penalistiche).

Ma a tale visione si obietta che solo un sistema schizofrenico ed incoerente può da una parte vietare a un soggetto un comportamento e dall’altra consentire a quello stesso soggetto di violare quel divieto ma di compiere in essere un negozio immune da rimprovero giuridico.

Come se il giudizio sulla validità degli atti negoziali dovesse essere a tal punto oggettivo da prescindere dalla condotta che i soggetti pongono in essere nella formazione di quello stesso negozio. La formazione del negozio, invece, nel suo aspetto attinente alla condotta delle parti, riguarda la genesi del negozio e la sua validità. 

Pertanto non si ritiene ammissibile che un soggetto possa, nell’esercizio della sua autonomia contrattuale, violare una norma penale, considerata norma imperativa, ed essere assoggettato solo alla sanzione per il suo comportamento umano, non già negoziale. Senza contare, peraltro, quanto espressamente previsto per legge, mercé l’art. 1418 I co. c.c., che fa da sinolo – per la tutela di interessi di carattere generale – tra norme di comportamento e norme di validità.

Sicché la violazione di norme penali, nel momento di esercizio di un’attività negoziale, non può che comportare la nullità del contratto stesso, salvo che non sia diversamente previsto dalla legge, come stabilito dalla riserva finale di cui al primo comma dell’art. 1418 c.c.

In particolare la disposizione suddetta si riferisce evidentemente ai casi in cui si applicherà un diverso rimedio, come quello dall’annullamento, non già della nullità, del contratto.

Sulle contrapposte tesi della nullità o annullabilità del contratto, le fattispecie della truffa contrattuale e della circonvenzione di incapace offrono, come visto, molti spunti di riflessione sul piano teorico e applicativo-rimediale. Ad ogni modo si ritiene che alla base delle suddette ipotesi non vi sia solo da tutelare il bene giuridico patrimonio, ma un più ampio interesse di carattere generale e di valenza costituzionale, quale è il corretto e libero diritto di determinazione dell'individuo nelle scelte rientranti nell'ambito della propria autonomia negoziale.

 

Note e riferimenti bibliografici

[1] Modestino, 1 Regole (D.1.3.7)
[2] La distinzione tra imperativi autonomi ed eteronomi è stata originariamente tracciata da Kant, nella sua ‘Fondazione della metafisica dei costumi’: I. KANT, Fondazione della metafisica dei costumi (1785), Laterza, Bari, 1997.
La capacità della distinzione tra autonomia ed eteronomia di far luce sulla distinzione tra diritto e morale è messa in questione, invece, da N. Bobbio, Teoria della norma giuridica, pp. 63-66. Sulla separazione tra diritto e morale si veda L. FERRAJOLI, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale (1989), Laterza, Bari, 2002.
[3] Cfr. L. FERRAJOLI, Principia iuris. Teoria del diritto e della democrazia, vol. III, Sintassi del diritto, Laterza, Roma-Bari, 2007.
[4] Per tutti, Bobbio, il quale sosteneva che le norme permissive dovessero essere intese come mere eccezioni a norme imperative: si veda N. BOBBIO, Teoria generale del diritto, Giappichelli, 1993, p. 98.
[5] Tesi poco condivisibile per le seguenti ragioni: (i) sotto il profilo logico, la modalità deontica del permesso è originaria, metalinguistica e più estesa rispetto a quella dell’obbligo. Il permesso è, infatti, condizione necessaria e non sufficiente dell’obbligo, da cui deriva che le norme permissive sono anteriori a quelle imperative. Di talché le norme imperative andrebbero lette come progressive restrizioni della sfera di libertà dell’individuo; (ii) sotto l’aspetto giuridico-positivo, le norme sono ottimizzazioni di sottoprincipi. L’operazione di ottimizzazione, si badi bene, non è solo appannaggio esclusivo delle norme imperative ma riguarda anche le norme permissive. Ne deriva che se anche le norme permissive sono norme di ottimizzazione, allora sono strutturalmente indipendenti e autonome rispetto a quelle imperative; (iii) se si assume la teoria dei correlativi di Hohefeld, poiché ad un dovere è corrisposto un diritto e ad ogni diritto è correlato un dovere o un divieto, allora la norma imperativa non possiede alcuna privilegiata autorità rispetto a quella permissiva. Al riguardo cfr. L. DI CARLO, Teoria istituzionale e ragionamento giuridico, Giappichelli, 2017, p. 158.
[6] Sul punto cfr. G. PINO, Diritti soggettivi, lineamenti di un’analisi teorica, in Materiali per una storia della cultura giuridica, 2009, 2, pp. 487-505. Cfr altresì L. DI CARLO, op.cit., p. 157 e ss.
[7] R. MOSCHELLA, Il negozio contrario a norme imperative, in Legisl. ec.,(1978-79), Studi, Milano, 1981, p. 320.
[8] Si veda sull’argomento: M. FRATINI, Manuale di diritto civile, Nel diritto Editore, Roma, 2017, p. 273 e p. 457; Cfr. L. MENGONI, Autonomia privata e costituzione, in Banca borsa, tit. cred., 1997, p. 9; Si veda C.M. Bianca, Diritto civile, III, Il contratto, 2, Milano, 2000, p. 157.
[9] Sulle nullità di protezione: genesi e caratteristiche, si veda C. CASTRONOVO - S. MAZZAMUTO, Manuale di diritto privato europeo, Giuffré, Milano, 2007, p. 474 e ss.
[10] R. MOSCHELLA, op. cit.; M. RABITTI, Contratto illecito e norma penale, Milano, 2000, p. 93 e ss.
[11] Così F. FERRARA, Teoria del negozio illecito, Milano, 1914, p. 23 e ss. Cfr sul punto anche A. GRASSO, Illiceità penale ed invalidità del contratto, Milano, 2002, p. 29. Vd. anche F. GALGANO, Diritto civile e commerciale, vol.II, t.1, Padova, 1990, p.265.
[12] Per un approfondimento sulla teoria sanzionatoria di Binding e la sua Normentheorie si veda: K. BINDING, Handbuck des Strafrecthts, Leipzig, 1885, p. 30 e ss.
[13] Cfr. sul punto. F. CARINGELLA – L. BUFFONI, Manuale di diritto civile, 2015, Dike Giuridica, p. 964.
[14] A. SPATUZZI, Norma imperativa e sua violazione. Interferenze ed effetti civili dell’infrazione della norma penale, in Riv. dir. civ., 4, 2016, p. 1028.
[15] Cfr. V. RICCHEZZA, La rilevanza degli elementi civili nel diritto penale, in AA.VV., Coordinate ermeneutiche di diritto penale, (a cura di) M. SANTISE – F. ZUNICA, Giappichelli, Torino, 2014, p. 361.
[16] Cfr. sul punto F. CARINGELLA – L. BUFFONI, op.cit. p. 964 e ss.
[17] Cass. civ. sez. III, n. 26097/2016
[18] G. FIANDACA – E. MUSCO, Diritto penale, Parte generale, Zanichelli Editore, Bologna, 2014, p. 6; cfr. sul tema della funzione del diritto penale: C. BECCARIA, Dei delitti e delle pene, Milano, 1964.
[19] Cfr. B. PETROCELLI, Istituti e termini del diritto privato nel diritto penale, in Saggi di diritto penale, Padova, 1952, p. 295 e ss.; Si veda anche: V. RICCHEZZA, op. cit., p. 362
[20] Cfr. V. ROPPO, Il contratto, in Tratt. Iudica-Zatti, Milano, 2001, p. 747.
[21] Cfr. G.B. FERRI, Ordine pubblico, buon costume e la teoria del contratto, Milano, 1970, p. 130.
[22] R. GAROFOLI, Manuale di diritto penale, Nel diritto Editore, 2014, p. 1187
[23] R. GAROFOLI, op.cit., p. 1188; A. NASTASI, Reato e struttura negoziale, in Temi di diritto penale, (a cura di) G. SANTALUCIA, Giuffrè, 2006, p. 621 e ss.
[24] A. DI MAJO, La nullità, in Tratt. Bessone, Torino, 2002, p. 203. Sulla stessa linea: F. DI MARZIO, La nullità del contratto, Padova, 2008, p. 269.
[25] M. FRATINI, Il sistema del diritto civile, vol. 3, Il contratto, Dike Giuridica, Roma, 2017, p. 220 e ss.
[26] Sul punto anche la Suprema Corte di Cassazione è arrivata a sostenere, dirimendo il contrasto giurisprudenziale in merito, che la violazione di regole di condotta non comporta la nullità del negozio posto in essere in spregio alle stesse: ex multis, Cass, n. 26725/2007.
[27] Cass. n. 19024/2005.
[28] C. CICERO, Regole di validità e di responsabilità, in Dig. Priv., Utet giuridica, Torino, 2014.
[29] C. M. BIANCA, op. cit., p. 619.
[30] Cass. n. 7785/2016; Cass. n. 26097/2016.
[31] C. M. BIANCA, op. cit. p. 618; M. RABITTI, op. cit. p. 216.
[32] V. RICCHEZZA, op. cit. p. 372.
[33] Ex plurimis, Cass. n. 28703/2013.
[34] R. GAROFOLI, Manuale di diritto penale, Parte speciale, Nel diritto editore, Roma, 2016, p. 529.
[35] Cfr. A. SPATUZZI, op. cit. p. 1065
[36] A. SPATUZZI, op. cit. pp. 1065-1066.
[37] Cass. n. 2860/2008; Cass. n. 4824/1979.
[38] D. MESSINETTI, Incapacità di intendere e volere e libertà dispositiva del soggetto, in M. BESSONE, Casi e questioni di diritto privato, I, Persone fisiche e persone giuridiche, Milano, 1993. Si veda anche V. TOMASELLI, Circonvenzione dell’incapace e sorte del contratto, in Questioni di diritto di famiglia, 4, 2010. P. 78 e ss.