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Pubbl. Lun, 6 Nov 2017
Sottoposto a PEER REVIEW

Il giudice e la sua responsabilità: iudex iudicare debet!

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Andrea Senatore


La Corte Costituzionale con la sentenza n. 164 del 2017 si pronuncia sulla riforma della responsabilità civile dei magistrati: il mestiere di giudicare è difficile ma è il mestiere del giudice.


Sommario: 1. Premessa; 2. Le ordinanze di remissione; 3. La decisione della Consulta; 4. Qualche riflessione; 5. Epilogo (?).

1. Premessa

In un precedente articolo[1], ci siamo occupati di due ordinanze, 8 e 12 maggio 2015, di remissione alla Corte Costituzionale della l. 18/15 di riforma della l. 117/88 sulla responsabilità civile dei magistrati[2]. La Consulta, con la sentenza n. 164 del 12.07.2017, si è finalmente[3] pronunciata sul punto, esaminando anche le altre ordinanze nel frattempo intervenute, dichiarando l’inammissibilità (e solo in un caso l’infondatezza) delle questioni sollevate dai giudici remittenti. Si tratta di una (prima) risposta ai dubbi (o alle preoccupazioni) manifestate dagli organi giudicanti nell’esercizio della loro attività giurisdizionale a seguito della novella del 2015.

2. Le ordinanze di remissione

Con la prima ordinanza[4] il Tribunale penale di Treviso dubitava della compatibilità con la Costituzione della legge 18/15. Investito di una causa relativa alla detenzione illegale di tabacchi lavorati esteri, il giudice remittente evidenziava da un lato la carenza di prove, e dall’altro la presenza di indizi a carico del prevenuto, sottolineando che “la valutazione di elementi indiziari è, come noto, particolarmente difficile e “rischiosa” in ordine alla correttezza dell’esito del giudizio probatorio, tant’è che lo stesso legislatore, ben consapevole di ciò, ha dettato una procedura aggravata per l’utilizzabilità probatoria degli indizi[5]. Pertanto, dovendo decidere in base a degli indizi, riteneva che la riforma della responsabilità civile andasse ad incidere sul principio del libero convincimento del giudice e sulle garanzie costituzionali relative all’attività giurisdizionale (artt. 3, 25, 101, 104, 113)[6].

Con una successiva ordinanza, anche il Tribunale di Verona[7] sollevava questione di legittimità costituzionale (q.l.c.) sulla base di una visione simile a quella del Tribunale trevigiano. In primo luogo sarebbe quanto mai equivoco l’utilizzo del termine “travisamento”, non ben definito, che nemmeno corrisponderebbe al concetto utilizzato per definire l’illecito disciplinare o il vizio di motivazione della sentenza penale; in tal modo si potrebbe “censurare qualsiasi valutazione dei fatti o del materiale probatorio compiuta dal giudice nel giudizio a quo, che risulti non gradita o sfavorevole, semplicemente qualificandola come travisamento”. Anche secondo il giudice scaligero l’intero impianto della riforma contrasta con i principi costituzionali di imparzialità ed indipendenza del giudice ed anche con l’art. 3 Cost., per quanto riguarda l’obbligatorietà della rivalsa, e con l’art. 81 Cost. per mancanza di indicazione dei mezzi per far fronte ai maggiori oneri derivanti dall’applicazione della riforma.

A queste due ordinanze si sono aggiunte, nel frattempo altre tre ordinanze[8] provenienti dai Tribunali di Catania (sezione lavoro), Enna e Genova.

Il Tribunale di Catania sollevava identiche questioni nel corso di un giudizio di opposizione ad ordinanza di reintegrazione di dipendente nel luogo di lavoro e condanna al risarcimento dei danni. In sede di opposizione veniva avanzata istanza di ricusazione, rigettata dal collegio[9], di uno dei giudici che aveva già deciso[10] la fase sommaria precedente. Nelle more del giudizio interveniva la già citata riforma della responsabilità civile dei magistrati. Pure il Tribunale catanese esprime, in buona sostanza, gli stessi dubbi già espressi che “(…) appaiono, quindi, tali da minare la serenità di giudizio, l’imparzialità, il libero convincimento ex art. 116 c.p.c. del giudice (…), dati i pregiudizi, patrimoniali, quanto non patrimoniali, che potrebbero conseguire dalla mera proposizione della domanda risarcitoria per ritenuto “travisamento del fatto o delle prove””; né una, peraltro eventuale, riforma della sentenza “viziata” sarebbe idonea ad evitare l’insorgere dell’anzidetta responsabilità. Tra le norme costituzionali richiamate, oltre agli artt. 3, 24, 101-113 (sic), vi è anche l’art. 28, che vede i funzionari e i dipendenti dello Stato “direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti”. Vengono ancora criticati l’obbligo di rivalsa, la misura della stessa[11] e l’assenza del filtro. La possibilità di spiegare l’azione risarcitoria prima ancora che il giudizio ove l’asserito danno si è verificato si concluda, inciderebbe inoltre sulla serenità e del primo giudice e di quello di seconda istanza, che, viene ribadito ancora una volta, “potrebbe essere portato - anche inconsapevolmente o istintivamente - a scegliere la strada più accomodante, rispetto a quella, magari più giusta”.

Anche la decisione del Tribunale ennese interviene nel corso di un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo in cui l’opponente contesta l’usurarietà degli interessi vantati dall’opposta che insisteva nella richiesta di concessione della provvisoria esecuzione. Il giudice, dopo aver delineato gli elementi indicati dall’art. 648 c.p.c. ed indicato l’interpretazione letterale della norma, ritiene che il seguire (o meno) una determinata opzione interpretativa che non si allinei con quella data dalla Corte Costituzionale in una pronuncia interpretativa di rigetto[12]potrebbe esporre (…) ad una responsabilità diretta nei confronti delle parti processuali potendosi configurare il dolo civilistico legittimante la chiamata diretta del magistrato nel giudizio di responsabilità ex legge n. 117/1988”, menomando la libertà interpretativa consacrata dalla Costituzione all’art. 101, co. 2. Pertanto il cd. “diritto vivente” che ritiene integrata la “violazione manifesta della legge” “da una scelta interpretativa della legge effettuata dal giudice a quo ricompresa tra quelle espressamente escluse da una pronuncia  interpretativa di rigetto della Corte costituzionale” violerebbe gli artt. 101, co. 2, 104, co. 1, 107, co. 3, ed anche l’art. 134 Cost.[13]

La remissione del Tribunale genovese, invece, appare maggiormente interessante in quanto pronunciata proprio in un giudizio sulla responsabilità dei magistrati[14]. Nelle more del giudizio interveniva la riforma della l. 117/88 che, tra l’altro, aboliva il filtro[15]; il collegio[16] ritiene rilevante[17] la disposizione di cui all’art. 3, co. 2, l. 18/15 che abroga il preventivo esame sull’ammissibilità della domanda, ritenendo violanti gli artt. 3, 25, 101, 104, 111 Cost. La novella, secondo i giudici remittenti, non sarebbe nemmeno “euro-unitariamente obbligata” in quanto il giudice europeo, affermando l’incompatibilità col diritto comunitario dell’esclusione della responsabilità civile nel caso in cui il danno derivi da un’errata interpretazione di norme di diritto o di valutazione del fatto o delle prove, si riferisce esclusivamente allo Stato e non alla responsabilità personale del magistrato[18]. Il Tribunale ligure ritiene che il sottoporre il giudice, anche solo potenzialmente, ad istanze risarcitorie senza filtro andrebbe ad incidere sul “giusto” processo, nel senso che non sarebbe “giusto” un processo in cui il decidente misuri la propria decisione non già con i rischi di una riforma bensì con quelli di un procedimento risarcitorio e pertanto possa vedere compromessi i principi di terzietà ed imparzialità. Si avrebbe quindi il rischio, peraltro già paventato dai giudici trevigiani e scaligeri, di una “giurisprudenza difensiva” in cui il giudice motivi in un determinato modo non già per dar conto delle proprie ragioni poste alla base della sentenza (cfr. art. 111, co. 6 Cost.), ma per evitare di essere coinvolto in una vicenda risarcitoria. Secondo il Tribunale di Genova, la norma violerebbe anche i principi di sottoposizione del giudice alla legge, dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura e della precostituzione legale del giudice naturale; in tal ultimo caso, pur non essendo prevista un’ipotesi di astensione obbligatoria o di ricusazione, si può facilmente immaginare come il magistrato, di fatto, potrebbe non più avere la necessaria serenità di giudizio[19].

Così compendiate le ragioni dei remittenti, può passarsi alla decisione della Corte Costituzionale.

3. La decisione della Consulta

La Corte preliminarmente riunisce, data la comunanza dell’oggetto e delle questioni sollevate, i ricorsi, passando poi ad esaminare le eccezioni avanzate dalla difesa erariale. L’Avvocatura dello Stato ritiene che tutte le q.l.c. siano inammissibili per difetto di rilevanza, anche per la vicenda insorta davanti al Tribunale di Genova[20]. Il punto centrale dell’argomentazione è che i rimettenti non sono chiamati a fare diretta applicazione delle disposizioni della cui costituzionalità dubitano, inoltre il pericolo alla serenità del giudice, con tutto quel che già si è detto a proposito dell’imparzialità e indipendenza della magistratura, sarebbe meramente ipotetico e giustificato dalla “pericolosità della funzione giurisdizionale”.

La Corte Costituzionale, salvo quanto si dirà in seguito per la q.l.c. genovese, dichiara fondata l’eccezione. In primo luogo viene sottolineata la non pertinenza del richiamo a precedenti sentenze della stessa Consulta (in particolare sent. 18/89 e 237/13) perché riguardanti diversi ambiti: il primo caso era attinente alla struttura dell’organo ed alle “distinzioni” funzionali interne ad esso[21], mentre il secondo riguardava la stessa potestas iudicandi[22]. Ciò che va valutata è la stretta relazione funzionale tra norme impugnate e giudizio a quo che “deve assumere i connotati della pregiudizialità, la quale comporta l’impossibilità di definire il procedimento pregiudicato in assenza della delibazione della quaestio pregiudicante”, secondo il Giudice delle Leggi le questioni sono state sollevate solo riguardo alla modalità di esercizio, senza valutarne la diretta ed effettiva incidenza sullo statuto di autonomia e di indipendenza.

La Corte, naturalmente, non nega che un presidio istituzionale in favore del giudice debba esserci, pena il mancato rispetto del principio di legalità cui tutti (cfr. artt. 3 e 54 Cost.), giudice compreso, sono tenuti.

Il ruolo del giudice, nell’architettura costituzionale della giurisdizione, appare infatti peculiare, non potendosi escludere a priori che norme, pur non immediatamente applicabili nel processo, vadano ad incidere in maniera evidente ed attuale sulle garanzie costituzionali della funzione giurisdizionale, così condizionando l’esercizio della relativa attività. Ciò tuttavia presuppone che tale incidenza – per qualità, intensità, univocità ed evidenza della sua direzione, immediatezza ed estensione dei suoi effetti – sia tale da determinare una effettiva interferenza sulle condizioni di indipendenza e terzietà nel decidere, a prescindere da qualsiasi profilo che possa riguardare un eventuale “perturbamento psicologico” del singolo giudice.

Tali presupposti non sono stati rinvenuti, conseguentemente le q.l.c. sopra indicate sono dichiarate irrilevanti e dunque inammissibili.

Discorso diverso fa invece la Corte per quanto riguarda l’ultima ordinanza di remissione. Le questioni inciderebbero, infatti, sulle modalità procedurali della relativa verifica, che l’abrogato art. 5 l. 117/88 regolava con disciplina ad hoc, allo stato non più applicabile e che il rimettente mira a ripristinare dubitando della legittimità costituzionale della norma meramente abrogatrice. La Consulta ritiene, pertanto, la q.l.c. rilevante ma infondata.

In primo luogo la sentenza ripercorre il percorso della Corte di Giustizia U.E. sull’obbligo degli Stati membri di riparare i danni causati ai singoli dalle violazioni del diritto comunitario commesse da organi giurisdizionali nazionali, peraltro già ripreso nelle ordinanze di remissione, ribadendo il principio della sentenza Köbler[23] a mente del quale “le condizioni stabilite dalle legislazioni nazionali in materia di risarcimento dei danni non possono essere meno favorevoli di quelle che riguardano reclami analoghi di natura interna e non possono essere congegnate in modo da rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile ottenere il risarcimento” (cfr. artt. 24, 113 Cost., 13 CEDU, 47 “Carta di Nizza”). Quindi la motivazione affronta i principi di equivalenza ed effettività[24] come delineati dalla Corte di Lussemburgo per poi passare alla questione della compatibilità costituzionale dell’abolizione del filtro.

In effetti, sembra ammettere la Corte, l’abolizione del filtro non era “unitariamente” obbligata, come pure riteneva il Tribunale di Genova. Tuttavia i principi introdotti dal “diritto vivente” comunitario hanno indotto il legislatore ad equiparare il risarcimento in parola con le altre ordinarie richieste di risarcimento danni nei confronti dello Stato[25]. La decisione di non limitarsi alle sole violazioni del diritto comunitario, prosegue la decisione, è dettata dalla necessità (costituzionale) di non creare una disparità di trattamento rispetto alle violazioni del diritto interno.

Si entra così sul difficile terreno del bilanciamento degli interessi che vede da un lato la posizione del soggetto asseritamente leso da un provvedimento giudiziario tesa ad ottenere il ristoro del pregiudizio patito e dall’altro la salvaguardia delle funzioni giudiziarie. Ritiene la Corte che nella l. 18/15 questo bilanciamento ci sia stato, attraverso una netta distinzione tra la responsabilità dello Stato e quella del magistrato, superando la “coincidenza oggettiva e soggettiva” delle due responsabilità. Il legislatore ha quindi ampliato il perimetro della responsabilità statuale, nei limiti della ragionevolezza, abolendo il filtro e continuando ad escludere l’azione diretta nei confronti del magistrato; secondo la Consulta

Non è costituzionalmente necessario, infatti, che, per bilanciare i contrapposti interessi di cui si è detto, sia prevista una delibazione preliminare dell’ammissibilità della domanda (…) quale strumento indefettibile di protezione dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura. Tale esigenza può essere infatti soddisfatta dal legislatore per altra via: ciò è quanto accaduto con la legge n. 18 del 2015, per un verso mediante il mantenimento del divieto dell’azione diretta contro il magistrato e con la netta separazione dei due ambiti di responsabilità, dello Stato e del giudice; per un altro, con la previsione di presupposti autonomi e più restrittivi per la responsabilità del singolo magistrato (…); per un altro ancora, tramite il mantenimento di un limite della misura della rivalsa. Tanto vale a stornare il paventato pericolo che l’abolizione del meccanismo processuale in esame determini un pregiudizio alla “serenità del giudice” come pure la temuta deriva verso una “giurisprudenza difensiva”, ipotesi, questa, che evidentemente oblitera l’elevato magistero proprio di ogni funzione giurisdizionale (…).

Sono anche ritenuti infondati i dubbi sulla violazione dell’art. 25 e dell’art. 111 Cost. Quanto al primo caso la sentenza richiama il “diritto vivente” della Cassazione che esclude che vi sia un’ipotesi di astensione o ricusazione ovvero un rapporto diretto parte-magistrato, che qualifichi quest’ultimo come debitore della prima. Relativamente alla irragionevole durata, nel senso che - abolito il filtro - il processo dovrebbe seguire i tempi “ordinari” della giustizia, osserva la Corte che questo dubbio è comune per tutti i giudizi civili “non preceduti da meccanismi di preliminare delibazione della domanda”.

4. Qualche riflessione

La sentenza sembra allontanare l’Hannibal ad portas lanciato dai giudici remittenti (in particolare dai primi quattro). Probabilmente non sarà l’unica pronuncia del “circuito” delle Corti superiori ad intervenire sul punto, dato che l’infondatezza è stata limitata alla sola abolizione del filtro senza peraltro riguardare le altre q.l.c. perché, per l’appunto, giudicate irrilevanti. E come si faceva autorevolmente notare[26] sul punto non si è formato ancora un “diritto vivente”, infatti “la legge è efficace da poco tempo, e non ne è ancora stata chiarita esattamente la portata interpretativa[27].

Tuttavia si può chiaramente affermare come la Consulta parta dal presupposto che solo un giudice nel pieno possesso ed esercizio dei propri poteri giurisdizionali possa svolgere correttamente e serenamente il proprio lavoro e ciò non soltanto da un punto di vista formale ma anche da un punto di vista sostanziale: l’indipendenza del giudice è ribadita come una delle primarie esigenze di civiltà giuridica, direttamente discendente dal principio di legalità e da quella funzione di interpretazione ed applicazione della legge. Tutto questo, però, non può risolversi in una irresponsabilità assoluta: il giudice è, come tutti, sottoposto alle leggi né può più ripetersi l’adagio noto ai giuristi inglesi the King can do no wrong[28]. Allora il giudice, la cui funzione è caratterizzata da alta professionalità[29], deve prendere la propria decisione solo in base alla legge. Rimane tuttavia, a parere di chi scrive, il rischio che in concreto il giusdicente possa, inconsciamente, prendere la via più breve e più semplice per arrivare ad una decisione che non sia quella giusta in relazione al caso concreto ma magari più facile da motivare e che metta al riparo da istanze risarcitorie[30]. In realtà quello che sembra trasparire dalla pronuncia della Corte in esame, e che viene detto con un grande pudore istituzionale, è che il giudice deve “semplicemente” rendere giustizia. Ed è in quel semplicemente, volutamente virgolettato, che sta l’altissima funzione del giudice ma questo dover raggiungere le alte vette del diritto per interrogarsi sulla praticabilità di una determinata soluzione ermeneutica deve, al contempo, lasciare l’interprete con i piedi saldamente ancorati al suolo (i.e. il caso concreto da decidere). Volendo essere ancora più espliciti la Consulta dice ai giudici di “non avere paura” di giudicare, perché quello è il loro lavoro[31], perché è naturale che dovendo prendere una decisione, si potrà scontentare una delle parti, ma se questo avviene con la dovuta preparazione, dopo il dovuto esame del fascicolo processuale e con correttezza morale e giuridica (che dovrebbe contraddistinguere chiunque indossi una toga), ci sarà ben poco spazio per un macroscopico errore che cagioni un “danno ingiusto”[32].

Si dirà, certo, che quanto sopra detto vale per “il migliore dei tribunali possibili” che, purtroppo, non corrisponde allo stato dell’arte dell’applicazione del diritto ed a volte quanto dettato dai codici rimane solo sulla carta. Questo è innegabilmente vero, ma verrebbe da chiedersi se un giudice monocratico che abbia sul ruolo 40 cause ad udienza possa avere, umanamente, all’ultima causa la medesima concentrazione della prima[33], eppure anche quell’ultima causa ha la stessa dignità della prima. È vero anche che, forse, questo non è un momento felice per la giurisdizione: i noti carichi di lavoro che portano a rinvii lunghi o alla prescrizione del reato e quindi sostanzialmente ad una mancata o ritardataria giustizia[34], per le critiche che seguono a provvedimenti giurisdizionali non avvertiti come “socialmente giusti” da parte della collettività[35], ma in ogni caso la figura del giudice, lo dice chiaramente la Consulta, è garanzia di soluzione pacifica delle controversie, di controllo dell’azione dell’amministrazione, di verifica delle condotte umane e della sottoposizione ad una pena “umana” (art. 27, co. 3, Cost.)[36].

Del resto in alcuni casi si può notare come dietro l’interpretazione pura e oggettiva del diritto vi sia l’umanità del giudice[37], che non deve mai svolgere le funzioni di un burocrate bensì quelle di attento esaminatore del caso concreto e dei valori giuridici che sono in discussione. Ritorna allora quell’idea[38] di giudice sacerdote, appartenente ad un ordine monastico, quasi romita in mezzo alla collettività? Sicuramente no, il giudice ha, come tutti, le proprie idee, le proprie convinzioni personali, che però, durante munere, deve lasciare da parte per essere, il più possibile, pura funzione; certo è che il modello del giudice non deve essere Azzeccagarbugli e nemmeno Don Abbondio.

5. Epilogo (?)

Il commento delle ordinanze di remissione cominciava evocando la nota espressione “ci sono dei giudici a Berlino”, usata come sinonimo di imparzialità e di soggezione del magistrato soltanto alla legge. Dietro quella frase, tuttavia, c’è un’altra storia che potrebbe stimolare ulteriori riflessioni. Secondo questa fonte[39], infatti, accadde che il povero mugnaio Arnold dovette rivolgersi a Federico il Grande per ottenere giustizia.

Il suo Mulino del Gambero (Krebsmühle), a seguito di alcuni lavori svolti dal suo vicino soprastante, un barone, non macinava più regolarmente per carenza d’acqua. Arnold, quindi, si trovò nella condizione di non poter pagare l’affitto del mulino che fu venduto all’asta e, indirettamente, comprato proprio dal vicino. La moglie di Arnold si rivolse al sovrano e questi li rimandò ai giudici. Dopo una serie di Corti e ricorsi, l’originaria sentenza viene sostanzialmente confermata: è inalterabile salvo l’intervento di un giudizio superiore. Finalmente, dopo altre richieste, il monarca incarica la più alta istanza giurisdizionale del suo regno, il Kammergericht di Berlino[40], di istruire rapidamente la causa e di deciderla definitivamente. Con lodevole celerità il relatore, tale Rannsleben, dopo un’intera giornata e nottata di studio dell’incartamento è in grado di riferire: la sentenza è giusta e va confermata, dunque “in nome del re” la si conferma.

Sempre secondo la nostra fonte, Federico non la prende bene: avuta la sentenza, convoca immediatamente il collegio giudicante e il gran cancelliere, rivolgendo loro una solenne ramanzina (a dire poco). Il sovrano non esita a definire la sentenza come ingiusta, visto che il povero Arnold era stato posto nell’impossibilità di macinare, se non per pochi giorni in primavera ed autunno, perdendo così il mulino. La corte di Berlino, invece di correggere l’immoralità intrinseca della vicenda, “abusa” del nome del sovrano per confermarla. Per Federico il Grande “un tribunale ingiusto è più pernicioso d’una banda di ladri; contro questi potete difendervi, non così contro quello”. Il cancelliere viene destituito seduta stante, i giudici di Berlino e quelli di appello, tranne quello che si era pronunciato in favore di Arnold e il Rannsleben, vengono reclusi nella fortezza di Spandau, destituiti e condannati al risarcimento dei danni in favore del mugnaio. Il sovrano stesso, siamo in un’epoca in cui tutti i poteri erano ancora nominalmente e sostanzialmente in capo al re, pronuncia un nuovo provvedimento con cui Arnold viene rimesso in integrum nel suo mulino; la notizia fece scalpore e si diffuse in tutta Europa.

Alla vicenda, però, manca ancora la parola fine. Il ceto forense, com’è facile immaginare, non accolse bene l’intervento diretto del re negli affari di giustizia. Con l’avvento di Federico Guglielmo II, la questione fu ancora una volta riferita al sovrano, stavolta da parte del vicino che ottenne un nuovo giudizio, dall’esito completamente opposto. Il barone aveva diritto all’acqua per la sua peschiera, Arnold doveva restituire il risarcimento ai giudici e, inoltre, versare o il mulino o il prezzo al barone. Queste somme furono, infine, pagate dal sovrano. Il cancelliere ed giudici destituiti furono invece richiamati ai loro posti.

Se da quanto sinora detto si può trarre uno spunto di ulteriore riflessione, potremmo allora dire che la responsabilità civile dei magistrati, esseri umani come tutti ma con funzioni peculiarissime, si ricollega non solo all’ambito, tutto civilistico, della responsabilità civile e delle responsabilità “speciali”, ma anche al rapporto tra poteri dello Stato che involge questioni pubblicistiche, di teoria generale e filosofiche che porterebbero troppo in là il nostro discorso. L’antico mulino di Sanssouci non esiste più, al suo posto sono state costruite varie repliche, l’ultima degli anni ‘90. Rimane, però, il simbolo e la frase che, a chi scrive, piace pensare come prova di fiducia nella magistratura, consci sempre del fatto che giudicare è una delle attività più difficili che l’essere umano possa affrontare.

Note e riferimenti bibliografici

[1] La riforma della responsabilità civile dei magistrati all’esame della Consulta, in questa Rivista, il 12.06.2015. Ci si prende la libertà di rinviare a quell’articolo, e alla bibliografia ivi contenuta, anche per quanto riguarda l’evoluzione normativa e la riforma attuata con la l. 18/15.

[2] Il testo della l. 117/88, anche nella versione previgente, è consultabile al sito normattiva.it.

[3] La causa è stata trattata nella camera di consiglio del 9.11.2016, decisa il 3.04.2017, la sentenza è stata depositata il 12.07.2017 e quindi pubblicata in G.U. n. 29 del 19.07.2017.

[4] Prima anche in ordine cronologico, il testo dell’ordinanza è disponibile nell’articolo sopra citato assieme a quella del Tribunale di Verona (rispettivamente iscritte nel registro ordinanze della Corte ai nn. 198/15 e 218/15).

[5] Che secondo quanto previsto dall’art. 192 c.p.p. devono essere gravi, precisi e concordanti.

[6] V. p. 2 ss. dell’ordinanza di remissione.

[7] Nell’ambito di un procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo.

[8] Rispettivamente iscritte nel registro delle ordinanze della Consulta ai numeri 113/16 (G.U. 8.06.2016, n. 23), 126/16 (G.U. 6.7.2016, n. 27) e 130/16 (G.U. 6.7.2016, n. 27) e consultabili sul sito della Corte (www.cortecostituzionale.it).

[9] Sul rilievo che la fase di opposizione, prevista dall’art. 1, co. 51, della stessa legge, non costituisce un giudizio di impugnazione bensì un giudizio ordinario di cognizione in materia di lavoro e dunque la vicenda sarebbe diversa da quella già decisa dal giudice ricusato.

[10] Ex art. 1, co. 47 ss., l. 92/12.

[11] Che secondo il remittente sarebbe irragionevole e pregiudicherebbe le garanzie di imparzialità ed indipendenza, oltreché – citando “la dottrina costituzionalistica” – evidenziante il carattere “punitivo” della riforma.

[12] Nella specie C. Cost. ord. 25.05.1989 n. 295, in www.cortecostituzionale.it. L’effetto vincolante erga judices delle ordinanze interpretative di rigetto della Corte Costituzionale è stata affermata da Cass., Sez. Un. civ., sent. 16.12.2013, n. 27986 in Ced. Cass..

[13] In tal modo, sostiene il remittente, la Consulta potrebbe diventare “il giudice detentore del monopolio interpretativo della compatibilità tra legge e Costituzione”.

[14] In particolare, dall’ordinanza di rimessione si ricava che il ricorrente si doleva del fatto che il Tribunale di Firenze, nel dichiarare il fallimento di una s.a.s., avesse esteso il fallimento anche nei suoi confronti, quale socio illimitatamente responsabile. Riguardo a tale declaratoria, riteneva che non gli fosse stato dato valido avviso dell’udienza a seguito della quale la stessa era stata pronunciata: in particolare i giudici di primo grado avrebbero errato in fatto, affermando che dalla data di spedizione della notifica ex art. 140 c.p.c. a quella dell’udienza fossero decorsi sette giorni liberi. Inoltre, una volta proposto reclamo, i giudici di secondo grado avrebbero errato a loro volta, in quanto - essendo intervenuta dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 140 c.p.c. - avrebbero dovuto ritenere la notifica perfezionata soltanto dopo che si era svolta l’udienza di primo grado.

[15] Ritenendo che l’abolizione fosse immediatamente applicabile anche agli illeciti pregressi ma la cui domanda sia stata proposta dopo l’entrata in vigore della riforma del 2015. L’ordinanza sul punto richiama Cass., sez. III civ., sent. 15.12.2015, n. 25216, in Ced. Cass., il cui principio di diritto testualmente recita “(…) la sopravvenuta abrogazione [del filtro] non esplica efficacia retroattiva, onde l’ammissibilità della domanda di risarcimento dei danni (…) deve essere delibata alla stregua delle disposizioni processuali vigenti al momento della sua proposizione (…). Il giudizio di ammissibilità (…) pertanto prosegue secondo le norme poste da questa disposizione qualora la domanda sia stata avanzata con ricorso depositato prima del 19 marzo 2015, data di entrata in vigore della l. n. 18 del 2015” (punto 1.6 della motivazione).

[16] Anche inserendo una rapida panoramica di diritto comparato in subiecta materia.

[17] In quanto ritiene di dover aderire alla giurisprudenza di legittimità (Cass., 25216/15, cit.), secondo cui la soppressione del filtro opera anche rispetto alle domande proposte dopo l’entrata in vigore della riforma ma relative agli illeciti pregressi: circostanza che comporterebbe la restituzione della causa al giudice istruttore per la prosecuzione del giudizio.

[18] Cfr. C.G.U.E., sentenze 13.06.2006 in C-173/03, 30.09.2003 in C-224/01 e 24.11.2011 in C-379/10, tutte in curia.europa.eu.

[19] “(…) La proposizione di un ricorso, in un sistema privo di filtro, potrebbe così costituire uno strumento per ottenere la modifica dell’assegnazione della causa, magari dopo che un giudice aveva preso decisioni interinali che facevano presagire la soccombenza di una delle parti. Instaurare il processo di RC può essere quindi uno strumento di coazione indiretta nei confronti del giudice (…)”.

[20] Secondo l’Avvocatura dello Stato il collegio avrebbe potuto comunque definire nel merito la controversia.

[21] Ad es. la figura del relatore nelle composizioni collegiali degli uffici giudicanti e la partecipazione dei laici all’amministrazione della giustizia.

[22] Si trattava della nota vicenda di “razionalizzazione” o riduzione degli uffici giudiziari, attuata con d.lgs. 156/12.

[23] C.G.U.E. sent. 30.09.2003 in C-224/01, cit.

[24] Secondo il primo principio, le condizioni stabilite dalle legislazioni nazionali in materia di risarcimento dei danni nei confronti dello Stato per violazione del diritto comunitario attraverso un provvedimento giudiziario, non possono essere meno favorevoli di quelle riguardanti analoghi reclami di natura interna, vale a dire delle altre azioni risarcitorie esercitabili dai cittadini nei confronti dello Stato in altre e diverse materie. Il secondo principio, invece, richiede che i rimedi, per l’appunto, siano effettivi e non rendano sostanzialmente impossibile l’azione o il risarcimento.

[25] Ad es. se l’auto di Tizio viene tamponata da un veicolo appartenente alla Pubblica Amministrazione l’azione risarcitoria ex art. 2054 c.c. non è certo soggetta ad alcun filtro di ammissibilità.

[26] Cfr. Guida dir., 27.05.2015, in www.diritto24.ilsole24ore.com.

[27] La responsabilità civile dei magistrati alla Consulta, in QG, 18.05.2015.

[28] Peraltro tale brocardo va considerato in qualche modo superato, in civilis, dal Crown Proceedings Act del 1947 che prevede la responsabilità del Governo di Sua Maestà (e non personale del sovrano) per gli illeciti sia di natura contrattuale che extracontrattuale.

[29] Come argomentato dalla difesa erariale.

[30] Ad es. mediante il richiamo, acritico, alle difese di una delle parti, ovvero con la mera citazione di massime delle corti superiori senza che tali riferimenti riflettano un serio studio della causa. A tal proposito si ribadisce che, nonostante il diritto giurisprudenziale rivesta grande importanza – e per la C.E.D.U. nella vicenda Contrada anche “forza normativa” – l’Ordinamento italiano non è formalmente dominato dal principio del precedente vincolante, ma semmai è l’autorità del precedente e la sua applicabilità al caso concreto a renderla “diritto vivente” (v. ad es. C. Cost., sent. 18.06.2015, n. 113, in www.cortecostituzionale.it).

[31] O se si preferisce: il loro dovere.

[32] Rimane intatta, infatti, la clausola di salvaguardia prevista dall’art. 2, co. 2, l. 117/88 in base alla quale “non può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove”. In particolare, secondo la difesa erariale, per travisamento s’intende “un grave ed ingiustificato sviamento determinato da un errore di tale gravità da escluderne la scusabilità [lo] stravolgimento del dato fattuale, dovuto ad una macroscopica omissione nella percezione di fatti secondari decisivi, ovvero della regola di inferenza logica applicata” (punto 1.7.2. del Ritenuto in fatto). Secondo il dizionario il verbo travisare ha due significati: alterare il viso, l’aspetto, in modo da rendersi irriconoscibile o trarre altri in inganno, ovvero in senso figurato di fare apparire diverso dal vero, narrare, esporre, interpretare in modo contrario o diverso da quello giusto. Sul punto ci si permetta di rinviare a quanto argomentato dalle ordinanze di rimessione ed alla bibliografia contenute nell’articolo del 12.06.2015.

[33] Dopo magari aver ascoltato, ed ascoltato con attenzione, decine di testimoni in aule sovraffollate e risolto questioni processuali, anche complesse, in udienza o dopo breve camera di consiglio.

[34] Alimentando quella che viene definita la “fuga dalla giurisdizione” verso le cosiddette A.D.R. (alternative dispute resolution) come arbitrato e mediazione, magari maggiormente appetibili da chi (ad es. le imprese) hanno bisogno di una rapida risoluzione della controversia.

[35] Basta andare su qualsiasi edizione on line dei quotidiani o delle agenzie di stampa per trovare commenti altamente caustici, per non dire offensivi, avverso quel provvedimento di condanna che viene ritenuto “troppo mite” o al contrario “troppo severo” in relazione a vicende magari completamente diverse, quella scarcerazione che è segno di “debolezza” (magari ignorando i principi fondamentali consacrati nell’art. 13 Cost. e indicati dagli artt. 272 ss. c.p.p.), quella sentenza che sarebbe ispirata da ideologie non giuridiche del magistrato e via enumerando. A tal proposito, cfr. P. Calamandrei, Elogio dei giudici scritto da un avvocato, III ed. (ristampa), Milano, 2003, p. XIV.

[36] È quasi d’obbligo la citazione di U. Foscolo, Dei Sepolcri, v. 91-93, “Dal dì che nozze e tribunali ed are diero alle umane belve esser pietose di se stesse e d’ altrui (…)”.

[37] Questo in casi piuttosto ardui in cui sono dibattuti i valori cardine della persona umana. Si pensi, ad es., alla pronuncia di Cass., sez. I civ., sent. n. 21748 del 16.10.2007, in Ced. Cass. e a tutti i provvedimenti collegati (si trattava del “caso E.”, in particolare v. par. 7.5), oppure all’indagine, ex art. 133 c.p., sulle condizioni di vita dell’imputato.

[38] Cfr. P. Calamandrei, op. cit., passim.

[39] E. Broglio, Il Regno di Federico di Prussia, detto il Grande, vol. II, cap. IV, Roma, 1880, citato dal sito taninoferri.com.

[40] La prima menzione del termine Kammergericht è del 1468 ed indicava la corte del margravio del Brandeburgo che giudicava, appunto, nelle stanze (kammer) del principe elettore. Fu istituita come suprema corte del regno di Prussia e dal 1735 ospitata nella Collegienhaus nel distretto di Kreuzberg. Tra i suoi presidenti va ricordato Samuel von Cocceji, noto riformatore del diritto prussiano. La corte d’appello di Berlino, unica in Germania, continua a portare la stessa denominazione, ma ha ora sede in un diverso edificio. Su quello originale è posta una targa con la celebre espressione “il y a des juges à Berlin”.