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Pubbl. Lun, 9 Ott 2017

La responsabilità del medico alla luce dei recenti interventi legislativi e giurisprudenziali

Chiara Anna Pia Giordano


Come la stabilità paventata da codici, dottrina e giurisprudenza fino a qualche anno fa, è ora messa in discussione dal naturale processo evolutivo al fine di tutelare il paziente


La medicina è certamente la scienza più antica ed affascinante, che tenta di perscrutare il mistero dell’essere umano e, nel suo continuo evolversi, si spinge verso nuovi confini cercando di vincere la morte. I medici, che in qualsiasi epoca hanno praticato tale scienza, hanno, a ragione, sempre goduto di grande rispetto essendo il loro fine quello di preservare il bene più prezioso, ossia la salute[1]. Tale alto fine ha imposto una certa benevolenza di giudizio nei confronti dell’errore medico: nel tentativo di contemperare gli interessi in gioco, emergeva un sostanziale favore per il medico, titolare esclusivo dello ius vitae ac necis nei confronti dell’ignaro paziente[2].

La medicina è certamente la scienza più antica ed affascinante, che tenta di perscrutare il mistero dell’essere umano e, nel suo continuo evolversi, si spinge verso nuovi confini cercando di vincere la morte. I medici, che in qualsiasi epoca hanno praticato tale scienza, hanno, a ragione, sempre goduto di grande rispetto essendo il loro fine quello di preservare il bene più prezioso, ossia la salute[1]. Tale alto fine ha imposto una certa benevolenza di giudizio nei confronti dell’errore medico: nel tentativo di contemperare gli interessi in gioco, emergeva un sostanziale favore per il medico, titolare esclusivo dello ius vitae ac necis nei confronti dell’ignaro paziente[2].

L’evolversi di una diversa sensibilità nei confronti del c.d. soggetto debole, ha gettato le basi per il progressivo superamento del paternalismo, fino a giungere al modello attuale del rapporto medico – paziente: il personalismo. Dunque, il paziente esce dalla situazione di minorità nella quale versava, per poi poter creare con il sanitario un’alleanza terapeutica, in una continua dialettica tra informazione e decisione.

Il diritto civile, da tradizione, distingue la responsabilità in contrattuale ed extracontrattuale, o aquiliana[3]. Nella prima, l’aggettivo “contrattuale” mira a ricomprendere in questa categoria tutte le forme di responsabilità scaturenti da qualsiasi rapporto obbligatorio preesistente: contratto, legge, atto unilaterale. Essa si differenzia, appunto, dalla responsabilità extracontrattuale perché questa non presuppone alcun rapporto preesistente, ma deriva da un atto illecito contrario al generale principio del neminem laedere.

La responsabilità contrattuale trova il proprio fondamento nell’articolo 1218 c.c. con i temperamenti offerti dall'art. 2236 c.c., che dispone che il medico risponde, in caso di problemi tecnici di speciale difficoltà, solo in caso di dolo o colpa grave. È possibile al medico liberarsi della responsabilità per inadempimento solo ove la prestazione sia impossibile e tale impossibilità non gli sia imputabile (art.1218 c.c.), dunque l’onere probatorio grava in capo al medico. La prescrizione è decennale e decorre dal momento in cui il soggetto abbia acquisito conoscenza della riferibilità causale dell’evento dannoso al comportamento colposo di un terzo.

Esempio tipico di tale forma di responsabilità è quello della struttura ospedaliera presso la quale il soggetto si rivolge circa la soluzione di una patologia.

La responsabilità extracontrattuale consegue ad una condotta umana – attiva od omissiva- illecita che abbia determinato un danno ad un terzo a prescindere da un preesistente rapporto giuridico tra danneggiato e danneggiante.

Tale modello, ex art. 2043 c.c., rinviene la responsabilità soprattutto nelle situazioni di urgenza durante le quali la prestazione medica prescinde da una preesistente obbligazione nei confronti del beneficiario. Tale disciplina prevede l’inversione dell’onere della prova, motivo per cui, il danneggiato dovrà dimostrare il fatto, l’azione, il danno ingiusto, ed il nesso causale. Il termine prescrizionale è quinquennale, salvo la maggior durata della prescrizione penale.

Essendo il prius la possibile configurabilità di entrambe le forme di responsabilità, bisogna ora specificare l’ambito operandi dell’una e dell’altra. In realtà, in ogni caso l’obbligazione[4], contrattuale o non, che insorge nel medico al momento in cui si accinge ad intervenire professionalmente nell’interesse del paziente, è costituito, oltre che da un’attività diligente rivolta verso un risultato utile per la sua integrità psico-fisica anche ad una serie di doveri complementari all’obbligazione principale, rivolti alla correttezza, alla segretezza, al generale rispetto della persona umana: la prestazione dovuta dal sanitario non si esaurisce nella prestazione di cure mediche e chirurgiche, ma si estende ad altre, quali la messa a disposizione di personale medico e paramedico, di medicinali e di tutte le attrezzature tecniche necessarie, nonché di quelle lato sensu alberghiere ed ingloba anche obblighi di protezione ed accessori. La violazione di queste obbligazioni accessorie dà luogo, in ogni caso, alla responsabilità extracontrattuale, anche se l’obbligazione principale –di origine contrattuale- sia stata diligentemente adempiuta.

Dunque, la scelta di quale delle due azioni esperire è rimessa alla valutazione discrezionale del soggetto leso, fermo restando che possono anche coesistere.

La responsabilità da contatto sociale è una forma particolare di responsabilità contrattuale, che nasce però non da un contratto, bensì da “contatto sociale”, ovverosia da un rapporto che si instaura tra due soggetti in virtù non di un accordo, ma di un obbligo legale derivante dal fare affidamento sulle competenze professionali che fanno capo ad una delle parti. In altre parole è una forma di responsabilità contrattuale che nasce però non da un contratto, ma da un altro rapporto giuridico di fatto[5].

Le differenze sopra analizzate tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, secondo parte della dottrina, rappresentano ormai una querelle – del tutto formale – superata; da ciò deriva una maggiore “socializzazione” del tema che tende ad avvicinarsi sempre più alla tutela della parte debole.

Con la sentenza Cass. Sez. III, n. 589/1999, tale nozione è stata applicata al rapporto tra il medico del pronto soccorso, dipendente di un ente ospedaliero, e il paziente. In particolare il medico non è un quisque de populo tenuto all’obbligo di non danneggiare l’altro, al pari di qualsiasi altro soggetto dell’ordinamento; al contrario, costui è obbligato in virtù di precise disposizioni di legge, nonché in virtù del contratto stipulato con l’azienda ospedaliera, a tutelare la salute del paziente e ad operare affinché avvenga la guarigione, altrimenti risponderà per culpa in non faciendo. Inoltre, a partire dalla fine degli anni ’90, al fine di evitare diversificazioni ingiustificate per prestazioni sostanzialmente identiche, la giurisprudenza fa rientrare in questa fattispecie anche il caso del medico dipendente dal servizio sanitario. Ciò è giustificato dalla giusta considerazione secondo la quale, in caso di danno al paziente per non diligente esecuzione della prestazione medica, non può esservi solo responsabilità aquiliana, poiché questa non nasce dalla violazione di obblighi ma dalla lesione di situazioni giuridiche altrui: quando ricorre la violazione di obblighi, la responsabilità è necessariamente contrattuale poiché il soggetto –rectius, il medico – non ha fatto ciò cui era tenuto in forza di un precedente vinculum iuris. Non a caso, la Cassazione a Sezioni Unite ha ritenuto che "tra il paziente ed il medico dipendente si instaura un contatto sociale, il cui inadempimento è sottoposto al regime di cui all’art. 1218 c.c.". Da ciò deriva che al fine del riparto dell’onere probatorio, il paziente danneggiato deve limitarsi a provare il contratto (o contatto sociale) e l’aggravamento della patologia o l’insorgenza di un’affezione ed allegare l’inadempimento del debitore.

La tematica della responsabilità penale del sanitario è stata interessata di recente da una riforma che ha provocato fin da subito numerosi commenti da parte della dottrina: si tratta del Decreto Sanità (Disposizioni urgenti per promuovere lo sviluppo del Paese mediante un più alto livello di tutela della salute) messo a punto dal ministro Balduzzi -decreto legge n. 158 del 2012- poi convertito in legge l’8 novembre 2012 –legge n. 189 del 2012.

L'art. 3 comma 1, nella versione originaria del decreto in questione, testualmente recitava:"Fermo restando il disposto dell'art. 2236 del codice civile, nell'accertamento della colpa lieve nell'attività dell'esercente le professioni sanitari il giudice, ai sensi dell'art. 1176 del codice civile, tiene conto in particolare dell'osservanza, nel caso concreto, delle linee guida e delle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica nazionale e internazionale".

La legge di conversione contiene, invece, un'importante modifica concernente il diritto penale rispetto al testo del decreto legge, in quanto dispone:"L'esercente le professioni sanitarie che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l'obbligo di cui all'art. 2043 del codice civile. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo". Mentre, dunque, la versione originaria della disposizione contenuta nel decreto legge aveva esclusiva rilevanza civilistica, il testo risultante dalla conversione in legge fa un chiaro riferimento alla responsabilità penale dell'esercente le professioni sanitarie, escludendo la sua responsabilità penale nell'ipotesi in cui il medico si sia attenuto alle linee guida e alle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica.

Il decreto Balduzzi, viene, però, abrogato dal recente disegno di legge Bianco-Gelli. Le principali novità previste dalla legge di riforma si propongono di mettere ordine in uno dei settori più problematici della responsabilità civile, interessato negli ultimi anni da una vastissima produzione giurisprudenziale e dottrinale.

Nel codice penale è introdotta la nuova fattispecie della “Responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario” ex. art. 590-sexies c.p., in virtù della quale: << Se i fatti di cui agli articoli 589 e 590 sono commessi nell'esercizio della professione sanitaria, si applicano le pene ivi previste salvo quanto disposto dal secondo comma. Qualora l'evento si sia verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali >>.

A rilevare è una sostanziale depenalizzazione dell'errore. Il medico che sbaglia, infatti, non dovrà rispondere di omicidio o lesioni personali colpose, causato per imperizia, se ha rispettato le linee guida e le buone pratiche clinico-assistenziali.

Importanti novità sono previste in tema di responsabilità civile della struttura sanitaria e dell'esercente la professione: viene da un lato sancita la natura contrattuale della responsabilità della struttura; per contro, la responsabilità del sanitario viene attratta nell'orbita dell'illecito aquiliano: il sanitario infatti risponderà del proprio operato in base all'art. 2043 c.c., salvo che abbia agito nell'adempimento di obbligazione contrattuale assunta con il paziente.

La diversa natura - rispettivamente contrattuale ed extracontrattuale - della responsabilità della struttura e del sanitario comporta notevoli ricadute sul piano sostanziale (si pensi al diverso regime della prescrizione: decennale in caso di responsabilità contrattuale, quinquennale per quella aquiliana) e processuale (ad es. per quanto concerne l'onere della prova della responsabilità e del danno).

L’art. 7, infatti, stabilisce una netta bipartizione delle responsabilità dell’ente ospedaliero e della persona fisica per i danni occorsi ai pazienti.

La struttura sanitaria assume una responsabilità di natura contrattuale ex art. 1218 cod. civ. mentre il medico, salvo il caso di obbligazione contrattuale assunta con il paziente, risponde in via extracontrattuale ex art. 2043 c.c.

Niente affatto secondarie le conseguenze pratiche di tale qualificazione. Sul piano probatorio anzitutto, poiché nel primo caso al paziente danneggiato basta provare il titolo (che dimostri il ricovero e dunque l’assunzione dell’obbligazione da parte dell’ospedale) ed allegare l’inadempimento, il resto spettando all’ente convenuto. Mentre nel secondo caso l’onere dell’attore abbraccia tutti gli elementi della pretesa, e dunque tanto quello oggettivo, nella sua triade condotta – evento – nesso di causa, tanto quello soggettivo, consistente nella colpa. La descritta bipartizione agisce altresì sul piano della prescrizione dell’azione, decorrendo quella contrattuale nell’ordinario termine decennale (art. 2946 cod. civ.) e quella aquiliana nel più breve termine quinquennale (art. 2947 cod. civ.).

La riforma in commento intende dunque diversificare in modo netto le due posizioni, spostando il rischio sul soggetto maggiormente capiente. Ciò, a ben vedere, va a vantaggio tanto dell’esercente la professione sanitaria, il quale risponde solo dei danni integralmente provati dal paziente, tanto del paziente medesimo che viene invitato ad agire contro chi più facilmente può ristorare i danni.

In caso di decesso del paziente, subentra il problema della configurabilità o meno del danno tanatologico iure hereditatis.

Le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 15350 del 22 luglio 2015, tornano ad affrontare il delicato tema della risarcibilità o meno del danno tanatologico richiesto dagli eredi della vittima.

Il danno tanatologico viene considerato come danno in sé, causato dalla perdita della vita.

Al riguardo la giurisprudenza di legittimità, sin dal 1925, ha ritenuto la non risarcibilità del suddetto danno; in merito si è espressa anche la Corte Costituzionale (Corte Cost., 27.10.1994, n. 372) che ha affermato il principio in base al quale, diversamente dalla lesione del diritto alla salute, la lesione immediata del diritto alla vita non può configurare una perdita a carico della vittima ormai non più in vita, onde è da escludere che un diritto al risarcimento del cd. "danno biologico da morte" entri nel patrimonio dell'offeso deceduto e sia, quindi, trasmissibile ai congiunti in qualità di eredi.

Ben conscia del consolidato orientamento giurisprudenziale, la Terza Sezione della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 1361 del 23 gennaio 2014, in aperto e consapevole contrasto, ha affermato il principio secondo cui deve ritenersi risarcibile iure hereditatis il danno da perdita della vita.

Alla luce delle suesposte considerazioni, con la sentenza n. 1361/2014 viene stabilito che, sebbene appaia inconfutabile che il diritto alla vita sia altro e diverso dal diritto alla salute, ciò non comporta necessariamente la conclusione che della perdita della vita debba negarsi la ristorabilità, di guisa che la perdita della vita debba ritenersi certamente ristorabile in favore della vittima che la subisce e, per l'effetto, trasmissibile agli eredi.

Ebbene, a distanza di appena due mesi dalla pubblicazione della sentenza n. 1361, gli stessi giudici della Terza Sezione della Suprema Corte di Cassazione hanno presentato un'ordinanza di rimessione (Cass. Civ. Sez. III, Ord., 4.03.2014, n. 5056) al Primo Presidente, affinché questi valutasse l'opportunità di investire le Sezioni Unite, al fine di definire e precisare il quadro relativo alla risarcibilità iure hereditatis del danno da morte immediata.

Affrontando, dunque, il danno tanatologico, le Sezioni Unite ritengono di dare continuità al risalente e costante orientamento sul tema, conforme anche agli orientamenti della giurisprudenza europea, con la sola eccezione di quella portoghese, secondo cui non possa essere invocato un diritto al risarcimento del danno iure hereditatis.

In merito precisano che, nel caso di morte cagionata da atto illecito, il danno che ne consegue è rappresentato dalla perdita del bene giuridico vita, il quale costituisce bene autonomo, fruibile solo in natura da parte del titolare e insuscettibile di essere reintegrato per equivalente.

E poiché una perdita, per rappresentare un danno risarcibile, è necessario che sia rapportata a un soggetto che sia legittimato a far valere il credito risarcitorio, nel caso di morte verificatasi immediatamente o dopo brevissimo tempo dalle lesioni personali, l'irrisarcibilità dell'evento morte deriva dall'assenza di un soggetto al quale, nel momento in cui si verifica, sia collegabile la perdita stessa e nel cui patrimonio possa essere acquisito il relativo credito.

A parere delle Sezioni Unite non è giuridicamente concepibile che dalla vittima venga acquisito un diritto derivante dal fatto stesso della sua morte, essendo logicamente inconfigurabile la stessa funzione del risarcimento che nel nostro ordinamento civilistico non ha natura sanzionatoria bensì riparatoria o consolatoria.

La pronuncia in parola, in verità, non ha approfondito la questione, limitandosi a sostenere che non sono state dedotte ragioni convincenti che giustifichino il superamento del granitico orientamento giurisprudenziale creatosi col tempo. Difatti, con riferimento alla sentenza n. 1361, viene rilevato che questa non contiene argomentazioni decisive volte a superare l'orientamento tradizionale.

 

 

 

Note e riferimenti bibliografici

[1] Il diritto alla salute è costituzionalmente garantito. In particolare, l’art. 32 Cost nello stabilire che intende tutelare l’integrità psico-fisica di ognuno.

[2] Il termine paziente deriva dal latino patiens, participio presente del verbo patior. In tal senso paziente non era soltanto colui che sopporta la sofferenza, ma anche chi subiva passivamente l'altrui azione.

[3] Il dibattito circa la configurazione della prestazione del sanitario come contrattuale o extracontrattuale è ricco di riferimenti giurisprudenziali e dottrinali. V.si, per tutte, Cass. civ., S. U., 11 gennaio 2008, n. 577.

[4] Il dibattito circa la responsabilità medica è reso ancora più vivace se consideriamo la mai sopita oscillazione del pendolo tra obbligazione di mezzi ed obbligazione di risultato. Con la prima definizione si suole designare le obbligazioni che deducono condotte la cui corretta e diligente esecuzione non è detto produca il risultato desiderato; con la seconda invece si identificano le obbligazioni nelle quali la condotta dell'obbligato, se esplicata con la dovuta diligenza ed accortezza, deve produrre l'esito avuto di mira dalle parti. Il mancato raggiungimento del risultato previsto nelle obbligazioni di mezzi non implicherebbe alcuna responsabilità dell'obbligato: non si potrebbe ritenere inadempiente l'avvocato per non aver vinto la causa. Lo stesso evento, in relazione alle obbligazioni di risultato, determinerebbe, invece, automaticamente la considerazione dell'obbligato come inadempiente. Nel rapporto con il paziente, il medico non si obbliga con il paziente alla sua guarigione bensì si obbliga ad un comportamento professionalmente adeguato e rivolto alla guarigione o, più in generale, al miglioramento delle sue condizioni di salute. Dunque, il professionista contrae solo un’obbligazione di mezzi.

[5] Ciò è enucleato in una pronuncia della Cassazione del 1999.