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Pubbl. Mer, 20 Set 2017
Sottoposto a PEER REVIEW

Disciplina e natura giuridica della comunione de residuo

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Giusy Tuzza


Finalizzata a contemperare le ragioni della comunione legale con l’esigenza di preservare una sfera di autonomia e indipendenza per i coniugi, la cd. comunione de residuo conserva ancora quel carattere di efficacia a tutela del singolo coniuge?


Sommario. 1. La comunione legale; 1.1.Il regime transitorio ex art. 228 L. 151/1975; 1.2. Disciplina della comunione legale; 2. La comunione de residuo; 2.1. Nozione e ratio; 3. Natura della comunione de residuo; 3.1. Il problema dell’onere della prova; 4 Conclusioni.   

1. La comunione legale.

In sede di riforma del diritto di famiglia, avvenuta con la nota Legge n. 151/1975, si è optato per la comunione legale quale regime patrimoniale della famiglia, al fine di realizzare un modello familiare che valorizzasse la comunità di vita tra i coniugi, anche sotto il profilo patrimoniale. Secondo la dottrina maggioritaria, la ratio di tale scelta (concretizzatasi negli artt. 177, 178 e 179 c.c.) consiste nel ritenere, in astratto, un modello rispondente al principio di solidarietà ed uguaglianza nel matrimonio (1). Il fondamento razionale delle norme in esame deve quindi essere ricercato nell’opportunità di equiparare e riequilibrare le risorse economiche dei coniugi, indipendentemente dal fatto che ciascuno di essi impieghi le proprie energie lavorative all’esterno o all’interno della famiglia, sul presupposto che entrambi abbiano contribuito, seppure eventualmente in modo indiretto, al raggiungimento del risultato (2).

È pur vero che nulla impedisce ai coniugi di prediligere un diverso regime, qualora lo ritenessero più conforme alla propria situazione (3). Dalla lettura dell’art. 177 c.c. emerge chiaramente che diventano immediatamente comuni i beni acquistati, anche singolarmente da ciascuno dei coniugi, dopo il matrimonio, mentre restano personali i beni di cui ciascun coniuge era già proprietario prima del matrimonio. L’acquisto di un bene da parte di un coniuge durante il matrimonio determina quindi la contitolarità del bene stesso da parte di entrambi gli sposi. Il bene acquistato cade perciò in comunione immediata.

In ciò sta la natura della comunione legale, che a detta di dottrina e giurisprudenza (tra le altre Cass. Civile S.U. sentenza n. 17952/2007) è più corretto descrivere il rapporto fra i coniugi e la proprietà del bene comune come proprietà solidale, nel senso che ciascuno dei coniugi si considera titolare di diritti ed obblighi per intero e non solo nei limiti di una quota. La legge, in tal modo, determina una modifica dei normali effetti degli atti posti in essere dal coniuge che vive in regime di comunione legale: gli acquisti da lui compiuti producono automaticamente ed i loro effetti anche nella sfera giuridica dell’altro coniuge. Ne consegue che il coniuge dell’acquirente non è litisconsorte necessario nelle azioni relative al contratto di compravendita, poiché egli rimane estraneo all’atto pur partecipando agli effetti, mentre è litisconsorte necessario nelle controversie in cui si chiede al giudice una pronuncia che incida direttamente e immediatamente sul diritto acquistato (4). Peraltro non sussiste un diritto di prelazione a favore dei coeredi nel caso in cui uno di essi alieni la propria quota ad un altro coerede coniugato in regime di comunione dei beni (5).

1.1. Il regime transitorio ex art. 228 L. 151/1975.

Un breve approfondimento può riguardare la complessa questione attinente l’interpretazione dell’art. 228 della legge di riforma del diritto di famiglia, soprattutto per i risvolti pratici che la stessa comporta. In particolare ci si chiede se il regime di comunione operi ex tunc dall’entrata in vigore della riforma del diritto di famiglia, ma sia retroattivamente risolvibile in conseguenza della dichiarazione intervenuta prima della scadenza del termine previsto dall’art. 228 c.c.; oppure se il regime di comunione si instauri con efficacia retroattiva solo a partire dal giorno successivo alla scadenza del termine, purché sia intervenuta la dichiarazione. Nel primo caso la dichiarazione avrebbe efficacia di condizione risolutiva della condizione (e l’acquisto intervenuto nel periodo intermedio richiederebbe l’intervento di entrambi i coniugi), nell’altro condizione sospensiva (l’atto compiuto dall’altro coniugi sarebbe valido ed efficace anche senza il consenso dell’altro).
Ad una prima interpretazione nel senso che l’eventuale dichiarazione unilaterale di rifiuto verrebbe a determinarsi quale condizione risolutiva ex tunc della comunione tra i coniugi, si contrappone l’orientamento prevalente per cui ai coniugi già sposati prima del 1975 si continua ad applicare il regime di separazione dei beni fino a tutto il 15 gennaio 1978. Dopo di che il regime di comunione legale si applica solo se si sia verificato il meccanismo sospensivo negativo, ossia determinato dall’omessa dichiarazione di rifiuto (6).

1.2. Disciplina della comunione legale.

Brevemente e per completezza è necessario identificare i caratteri della comunione legale. Innanzitutto basta dire che essa ha un carattere non universale, sia perché non si estende agli acquisti anteriori al matrimonio sia perché lascia ciascuno dei coniugi titolare di beni essenziali per garantirgli una sfera di libertà in campo professionale e personale ex art. 210 comma 3 c.c. La disciplina della comunione legale, peraltro, differisce da quella della comunione ordinaria trattandosi di comunione senza quote e giustificata dalla diversità di regime (7). Controverso, poi, è il concetto di acquisti destinati ad entrare nella sfera della comunione legale. La giurisprudenza tende ad escludere gli acquisti a titolo originario, in particolare quelli per accessione (la costruzione sul suolo del solo coniuge è bene personale) (8), mentre per i soli casi di usucapione si deve guardare alla maturazione del termine legale d’ininterrotto possesso. Ancora sarebbero esclusi dalla comunione i diritti di credito, anche se nascenti da un contratto preliminare stipulato da uno solo dei coniugi, poiché relativi e personali e, dunque, insuscettibili di essere qualificati come beni in senso proprio, posto che la comunione deve avere ad oggetto l’acquisizione di un bene ai sensi degli artt. 810,812 e 813 c.c. (9). Infine sono senz’altro favorevoli all’inclusione, nella comunione immediata, delle partecipazioni sociali sia Cass. Civ. n. 9355/1997 che Cass. Civ. n. 2569/2009, in forza della prevalenza del carattere di investimento patrimoniale di tal operazioni.

L’amministrazione dei beni in comunione (da cui sono esclusi i beni ex art. 179 c.c.) spetta inderogabilmente ai coniugi disgiuntamente, per gli atti di ordinaria amministrazione, mentre per quelli di straordinaria amministrazione spetta ai coniugi congiuntamente e l’eventuale dissenso di uno dei due può essere superato con un provvedimento dell’autorità giudiziaria.

Lo scioglimento della comunione è determinato da eventi che comportano il venir meno della comunione di vita (morte, annullamento matrimonio, divorzio, ecc.) oltre che dal mutamento convenzionale del regime patrimoniale e dal fallimento di uno dei coniugi. Ne deriva una comunione legale sui beni oggetto della comunione legale e, se il matrimonio persiste, si avrà separazione dei beni e, qualora i coniugi o voglia, la divisione dei beni ex art. 194 comma 1 c.c.

2. La comunione de residuo.

Dalla comunione immediata restano esclusi i frutti dei beni propri e i proventi dell’attività separata ai sensi dell’art. 177 lett. b) e c). Questi beni è noto che rientrano in comunione solo al momento del suo scioglimento ed esclusivamente in quanto ancora non consumati. In questi casi si parla di comunione de residuo, laddove l’opinione prevalente ritiene che il coniuge che percepisce tali frutti e proventi possa utilizzarli e consumarli a suo piacimento, una volta assolto il proprio dovere di contribuzione, fermo restando che gli acquisti effettuati con essi cadono in regime di comunione legale. È evidente che dalla comunione attuale dei beni acquistati da un coniuge durante il matrimonio va, dunque, distinta la comunione differita dei frutti dei beni personali e dei proventi dell’attività separata di ciascun coniuge, cioè dei redditi prodotti dal coniuge nell’esercizio della sua attività lavorativa. La coesistenza nel nostro ordinamento della comunione differita a fianco della comunione immediata costituisce un tratto di originalità del sistema italiano nel panorama europeo. Pertanto rientrano nella comunione de residuo per esempio i canoni di locazione dei beni personali, i dividendi delle azioni personali di un coniuge, lo stipendio, le parcelle professionali, gli utili netti dell’esercizio di una impresa, i frutti dell’utilizzazione di un diritto  d’autore o di opere dell’ingegno, i frutti civili che non siano ancora stati percepiti sebbene siano già maturati al momento dello scioglimento della comunione.

2.1. Nozione e ratio.

Appare chiaro che il termine comunione de residuo indica quella comunione meramente residuale e differita che viene a formarsi all’atto stesso dello scioglimento del regime legale, a condizione che i beni che ne costituiscono l’oggetto non siano stati consumati prima di tale momento, secondo quanto stabilito dagli artt. 177, lett. b) e c), nonché 178 c.c. (10). La dottrina individua una duplice ratio dell’istituto (11) per ciò che attiene alle ipotesi descritte dall’art. 177 c.c. quella di reperire un compromesso tra il principio solidaristico che dovrebbe informare la vita coniugale (art. 29 Cost.), da un lato, e la tutela della proprietà privata e della remunerazione del lavoro, dall’altro (artt. 35, 41, 42 Cost.); rispetto all’art. 178 c.c., invece, vengono in rilievo anche motivi di opportunità, che hanno suggerito la soluzione di non coinvolgere il coniuge non imprenditore nella posizione di responsabilità illimitata dell’altro, e di garantire a quest’ultimo la piena libertà d’azione nell’esercizio della sua attività d’impresa. E discussioni in dottrina a proposito della ratio della comunione de residuo data dalla legge di riforma sono state tante: da quella che punta sulla remunerazione del lavoro femminile, alla tesi per cui il regime della comunione mirerebbe all’attuazione del principio di parità tra coniugi stabilito dall’art. 29 Cost. Di contro si può però osservare che, se tale asserzione fosse vera, si dovrebbe ritenere incostituzionale il sistema di separazione dei beni. La tesi maggioritaria, invece, si è concentrata sulla constatazione per cui la ratio della scelta legislativa va individuata nella volontà di parificare la partecipazione dei coniugi alle ricchezze conseguite post nuptias, agli incrementi patrimoniali realizzati durante la vita matrimoniale, la cui attribuzione “al solo coniuge che ne abbia procurato l’acquisto significherebbe (...) ignorare il contributo, diretto o indiretto, materiale o morale, che l’altro coniuge di solito (...) ha prestato alle fortune familiari, con propri sacrifici o rinunce, incentivando il risparmio comune, sostenendo, anche psicologicamente, l’attività del partner” (12). Questa impostazione sembra essere condivisa pure dalla Suprema Corte, a detta della quale, con una delle tante sentenze (13) pronunciate a favore della definitiva sepoltura della presunzione muciana, prescrive che il regime legale è “finalizzato al raggiungimento di un’eguaglianza economica dei coniugi con riferimento agli acquisti durante il matrimonio (sul presupposto legale di un eguale contributo, anche economico, di entrambi i coniugi alla realizzazione di essi) e proprio per questa ragione non si concilia con la disposizione dell’art. 70 della legge fallimentare, se si riflette che la presunzione dell’appartenenza del denaro al coniuge imprenditore è combattuta e vinta dal principio giuridico dell’attribuzione degli acquisti stessi ad entrambi i coniugi, a prescindere dall’accertamento della provenienza del denaro, anzi sulla opposta presunzione che il prezzo sia la risultante di un eguale apporto dei coniugi”.

3. Natura della comunione de residuo.

I beni in comunione de residuo non possano considerarsi comuni, almeno fin tanto che non sia intervenuta una causa di scioglimento del regime legale. Più che di beni personali (ed anche per evitare confusioni con il catalogo ex art. 179 c.c.) si preferisce parlare, infatti, in tal caso di beni propri, di esclusiva titolarità del coniuge percettore. L’impiego dell’aggettivo “propri” è anche suggerito dal particolare regime giuridico cui i medesimi sono sottoposti, atteso che, in relazione ad essi, non è consentito applicare il fenomeno della surrogazione descritto nella lett. f) dell’art. 179 c.c. A tale conclusione perviene non solo la dottrina, ma anche la giurisprudenza di legittimità (14). In particolare la Cassazione nel 2003 ha apportato delle modifiche argomentative pur ribadendo la differenza tra comunione immediata e comunione de residuo, ma nel senso che i beni oggetto di quest’ultima rimangono propri del coniuge titolare sino al momento dello scioglimento, momento nel quale entreranno a far parte di una situazione di contitolarità, che costituisce il presupposto della divisione in parti uguali. Se è vero, infatti, che i beni in comunione de residuo sono e continuano ad essere propri sino al momento dello scioglimento, ne deriva che essi sono aggredibili alla stregua di beni personali da parte dei creditori personali del coniuge. Un esempio significativo è costituito da una ormai remota sentenza di legittimità, riferita ad un bene in comunione de residuo ex art. 178 c.c., che la Corte ritenne liberamente aggredibile per intero dai creditori personali del coniuge acquirente, i quali avevano dedotto e dimostrato che il bene medesimo, sebbene acquistato in costanza di regime legale, era stato effettivamente e concretamente destinato all’esercizio dell’impresa gestita dal solo coniuge acquirente e costituita dopo il matrimonio. Successivamente con la pronuncia n. 7060/2004 i giuridici di legittimità hanno previsto : “è noto che, in regime di comunione legale, tutti i beni che vengano acquistati da uno dei coniugi e siano destinati all’esercizio di un’impresa costituita dopo il matrimonio fanno parte della comunione medesima solo de residuo (art. 178 c.c.), cioè, se e nei limiti in cui sussistano al momento dello scioglimento di quest’ultima. Alla luce di tale principio, questa Corte ha già avuto occasione di chiarire che i beni acquistati e destinati all’esercizio dell’impresa sono, prima dello scioglimento della comunione, aggredibili per intero dai creditori del coniuge acquirente (Cass. 29 novembre 1986, n. 7060; Cass. 21 maggio 1997, n. 4533) per cui la conseguenza logica di ciò è che, qualora intervenga, come nel caso di specie, il fallimento del coniuge proprietario dei beni, la garanzia dei creditori necessariamente permane per l’intero su questi ultimi non essendo ipotizzabile che con la dichiarazione di fallimento la garanzia stessa possa ridursi (Cass. 2680/00)”.

Proseguendo nell’analisi della questione in oggetto è stata recentemente proposta una differente lettura dell’espressione non consumati riferita ai frutti e ai proventi di ciascun coniuge. Secondo questa tesi il reddito (sia esso costituito dai frutti di un bene o dai proventi dell’attività lavorativa) viene consumato se non si traduce in un incremento del valore del patrimonio del soggetto che lo percepisce. Ricostruita in questo modo la nozione di consumo viene proposta una nuova interpretazione dell’art. 177, lett. b) e c): l’incremento del Patrimonio di ciascun coniuge derivante dai frutti dei beni personali e dai proventi della sua attività separata è oggetto di comunione differita, e quindi deve essere diviso al momento dello scioglimento della comunione. Oggetto di comunione differita sarebbe perciò l’intero incremento patrimoniale conseguente alla percezione di un reddito, valutato al momento dello scioglimento della comunione. Una parte della dottrina ritiene peraltro che la libertà di disporre da parte di ciascun coniuge dei frutti e dei proventi da lui percepiti durante il matrimonio trovi un limite nel principio generale di buona fede: il consumo fraudolento dei frutti e dei proventi obbliga a risarcire all’altro coniuge i danni conseguenti. Con questo problema è connesso quello relativo all’onere della prova che il reddito non sia stato consumato al momento dello scioglimento della comunione. La dottrina prevalente ritiene che colui che afferma, al momento dello scioglimento della comunione, il diritto ad ottenere la metà dei frutti e dei proventi deve provare che essi sono stati percepiti e che non sono stati consumati (15).

3.1. Il problema dell’onere della prova.

Sono più che evidenti le difficoltà probatorie cui va incontro il coniuge creditore, su cui, come attore, ricade, in base agli ordinari criteri fissati dall’art. 2697 c.c., l’onere di dimostrare non solo la percezione da parte dell’altro di frutti e proventi, bensì anche di provare che tali somme si trovavano ancora nel patrimonio del percipiente al momento della cessazione della comunione. Bisogna, dunque, previamente distinguere la prova della sottrazione con quella della consumazione, specie quando la sottrazione avvenga improvvisamente, investa magari somme rilevanti e sia effettuata nel corso della crisi coniugale o, addirittura, nell’imminenza del momento di cessazione del regime legale. In tali circostanze sarà infatti più che ragionevole presumere, salvo prova contraria, che il denaro sottratto non sia stato consumato, ma sia, tutto al contrario, al sicuro difficilmente reperibile anche da parte del più astuto investigatore privato.

Data questa premessa ritorniamo alla questione probatoria. Con una prima decisione (Cass. Civ. n. 8865/1996, e poi ribadita da Cass. Civ. n. 14897/2000) la S.C. aveva ritenuto che grava sul titolare dell’attività l’onere di provare che essi sono stati consumati o per il soddisfacimento di bisogni della famiglia o per investimenti caduti in comunione. In tal modo si era compiuto un notevole sforzo per venire incontro alle esigenze del coniuge del soggetto percettore delle utilità in discorso, costretto a fornire una probatio quasi diabolica. Tuttavia questo orientamento non è esente da critiche, poiché onera il coniuge che presta la propria opera al di fuori delle mura domestiche di un puntuale rendimento dei conti circa il modo con cui ha impiegato i proventi della propria attività (e quindi anche di una contabilità gravosissima, atteso che la prescrizione in materia comincia a decorrere solo dal passaggio in giudicato della sentenza che ha pronunciato la separazione dei coniugi.

Più convincente la sentenza Cass. Civ. n. 2597/2006 secondo la quale la prova liberatoria dovrebbe necessariamente consistere nel fatto che i beni oggetto della comunione de residuo sono stati consumati o per il soddisfacimento dei bisogni della famiglia o per investimenti già caduti in comunione. L’esistenza di un diritto ex communione de residuo è legato al solo fatto che determinate utilità siano ancora presenti nel patrimonio di uno dei coniugi, a prescindere nella maniera più assoluta dalle ragioni che ne abbiano determinato l’eventuale sparizione, anche solo un momento prima del verificarsi di uno degli eventi descritti dall’art. 191 c.c.

4. Conclusioni.

Per ciò che attiene all’amministrazione dei beni in comunione de residuo, occorre riferirsi al parametro espresso dall’art. 217 c.c. in relazione ai beni dei coniugi in regime di separazione, disposizione riferibile, tra l’altro, anche al patrimonio personale ex art. 179 c.c. Infatti in relazione ai beni in comunione de residuo, non ancora individuati e dei quali non è certa la loro stessa venuta ad esistenza, il coniuge non titolare non vanta alcun potere di disposizione o di amministrazione, né gli è riconosciuto il diritto al rendiconto. Questi beni costituiscono una categoria a sé stante e non sarà mai applicabile la disciplina propria dell’amministrazione dei beni della comunione ex art. 180 c.c., perché non esistendo una comunione, all’amministrazione di tali beni si applicheranno le norme di cui ai commi 2, 3 e 4 dell’art. 217.

Quali rimedi e tutele sono, dunque, previsti a fronte di un comportamento del coniuge tale da pregiudicare le aspettative dell’altro? Secondo costate giurisprudenza:
(a) l’azione diretta alla separazione giudiziale dei beni ex art. 193 c.c.;
(b) l’azione diretta al risarcimento del danno ex art. 2043 c.c.;
(c) l’azione revocatoria ex art. 2901 c.c.
Eppure tali rimedi sembrano non convincere, posto che gli stessi giudici hanno proclamato il carattere di semplice aspettativa di fatto della situazione del coniuge non percettore dei proventi oggetto della comunione de residuo (16). Una qualche forma di tutela del coniuge sarà, invece, assicurabile in presenza di atti (donazioni o contratti di mutuo), con i quali il soggetto titolare di beni soggetti alla comunione de residuo determini simulatamente la fuoriuscita dal proprio patrimonio dei beni medesimi. In tal caso al coniuge leso potrà essere riconosciuta la posizione di terzo, al quale l’ordinamento tutela l’interesse a far prevalere la realtà sull’apparenza, con quanto ne consegue per ciò che attiene alle agevolazioni sul piano probatorio . Il rimedio dell’inefficacia/invalidità non appare invece praticabile nel caso in cui l’atto sia stato posto in essere realmente, anche se con l’esclusivo intento di ledere la posizione del coniuge. Sul tema dell’applicabilità dell’art. 2043 c.c. alla fattispecie in esame (17), secondo cui la previsione del danno ingiusto quale presupposto per il riconoscimento della tutela risarcitoria postula pur sempre la lesione di un interesse giuridicamente riconosciuto, che nella presente ipotesi si stenta a rinvenire, risultando a tal fine troppo generico il riferimento agli interessi del coniuge, della famiglia o della comunione, contenuto nell’art. 193, cpv., c.c. Né sembra ammissibile, per tale via, invocare la violazione del principio del neminem laedere, visto che anche in questo caso si rende necessaria l’individuazione di una situazione soggettiva tutelata in capo a colui che lamenta la lesione rispetto al conseguimento del residuo, laddove il coniuge, nella fase precedente allo scioglimento della comunione, non vanta nessuna situazione giuridicamente protetta, né in termini di diritto relativo né tanto meno in termini di diritto di proprietà. 

Si può affermare che, molto probabilmente, una volta soppresso l’unico espresso riferimento del nostro sistema normativo alla figura del coniuge debole, la Corte di legittimità con la citata sentenza del 2006 ritiene di dover rivedere una sua precedente posizione, nata proprio dall’esigenza di tutelare le aspettative della parte che, dovendo risultare avvantaggiata dai conteggi di dare e avere, in relazione a beni in comunione de residuo, veda in realtà le proprie aspettative frustrate dal compimento di sottrazioni poste in essere dall’altro coniuge in epoca anteriore a quella in cui viene a cessare il regime legale. L’odierna scelta legislativa, che anticipa lo scioglimento della comunione all’emanazione dei provvedimenti presidenziali, è stata accolta con favore dalla dottrina, poiché risponde all’intento di consentire ai coniugi, ormai non più legati da vincoli di solidarietà, di liberarsi quanto prima del regime legale, compiendo acquisti personali senza dover rendere conto all’altro coniuge ed inoltre risponde all’esigenza di contrastare comportamenti scorretti e fraudolenti da parte dei coniugi nelle more del procedimento di separazione. L’autonomia dei coniugi, che la normativa sulla comunione de residuo mira a salvaguardare, riguarda la gestione, l’utilizzo e lo sfruttamento di detti beni al fine di favorire, come detto, l’autonomia imprenditoriale e l’iniziativa economica individuale di ciascun coniuge. Tuttavia, nel momento in cui tali risorse vengono utilizzate per l’acquisto di un nuovo bene, non vi è ragione per ritenere che non si applichi la regola generale sulla comunione degli acquisti posto che, se il legislatore avesse voluto escludere tale eventualità, avrebbe dovuto e potuto prevedere una norma specifica a tal fine.

Note e riferimenti bibliografici

  1. BIANCA, La comunione legale, a cura di Bianca, I, 2ss.; BUSNELLI, R. not. 76, I,  p. 32.
  2. SCHLESINGER, Comm. dir. it. fam., III, p.73.
  3. GABRIELLI, Regime patrimoniale della famiglia, D. 4a ed., p.33.
  4. Cass. Civile n.16559/2013; Cass. Civile n. 26168/2014.
  5. AVONDOLA, Fam., pers. e succ., 2006, p.218
  6. Cass. Civile n. 2405/1979 in Vita Notarile, 1979, p. 1073; GABRIELLI, sub art. 228, in Commentrio alla riforma del diritto di famiglia, a cura di Carraro –Trabucci, II, Padova, 1976, p. 20; Cass. Civile S.U. n. 4235/1987, in Riv.Not., 1988, p. 710.
  7. Corte Cost. n. 311/1988; Cass. Civile S.U. n. 17952/2007.
  8. Cass. Civ. S.U. n. 651/1996; Cass. Civ. n. 2680/2000.
  9. Cass. Civ. n. 9513/1991; Cass. Civ. n. 1548/2008; Cass. Civ. n.799/2009.
  10. SCHLESINGER, Della comunione legale, in Commentario alla riforma del diritto di famiglia, a cura di Carraro, Oppo e Trabucchi, I, 1, Milano, 1977, p. 361.
  11. RUSSO, Considerazioni sull’oggetto della comunione, in Studi sulla riforma del diritto di famiglia, Milano, 1973, p. 11 ss.; SCHLESINGER, Della comunione legale, cit. p. 70 ss.; OBERTO, Il regime di separazione dei beni tra coniugi. Artt. 215-219, in Il codice civile, commentario fondato e già diretto da Schlesinger, continuato da Busnelli, Milano, 2005, p. 20 ss.
  12. SCHLESINGER, Della comunione legale, cit., 1992, p. 73.
  13. Cass. civ. n. 351/1990.
  14. RUSSO,op. cit.; Cass. Civ. n. 9355/1997; Cass. Civ. n.13441/2003.
  15. RUSSO, op. cit. p. 79 ss.
  16. Nel senso dell’aspettativa di diritto v. invece BUSNELLI, La «comunione legale» nel diritto di famiglia riformato, p. 37.
  17.  BUSNELLI, La «comunione legale» nel diritto di famiglia riformato, Id., Linee di tendenza della dottrina nei primi due anni di applicazione della riforma del diritto di famiglia, in Dir. fam. pers., 1979, p. 416 s.