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Pubbl. Sab, 29 Apr 2017
Sottoposto a PEER REVIEW

I rapporti tra separazione e divorzio

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Graziella Soluri


Con l´ordinanza del 26.02. 2016 il Tribunale di Milano ritiene auspicabile l’assegnazione allo stesso giudice di entrambe le cause pendenti di separazione e divorzio aventi identità di soggetti e petitum, mentre la riunione dei procedimenti, in quanto connessi, si giustifica solo se la causa di separazione non sia in uno stato troppo avanzato.


Sommario: 1. La sentenza non definitiva nei giudizi di separazione e divorzio; 2. L’evoluzione normativa ed il dibattito giurisprudenziale e dottrinale; 3. L’intervento delle Sezioni Unite della Cassazione nel 2001; 4. Duplicazione dell’istruttoria quali possibili soluzioni ai fini dell’economicità del giudizio?; 5. Ordinanza del Tribunale di Milano del 26.02.2016.

1. La sentenza non definitiva nei giudizi di separazione e divorzio.

Il legislatore italiano fino al 1970 era fermo nel riconoscere l’indissolubilità del matrimonio, l’unica deroga era costituita dal riconoscimento della separazione legale. I coniugi potevano mettere fine al rapporto di coniugio per mutuo consenso manifestato o nei casi tassativi di colpa di uno dei due. Lo Stato intendeva infatti tutelare la famiglia e la sua solidità in quanto nucleo di aggregazione primario e fondamento del sistema giuridico. Con la legge 898 del 1970 (L. sul Divorzio) è venuta meno l’indissolubilità del vincolo matrimoniale. Successivamente è stata approvata nel 1975 la riforma del diritto di famiglia che ha previsto, fra le altre cose, un ampliamento dei casi in cui era possibile procedere alla separazione tra coniugi. Il legislatore cambia orientamento ed accoglie una visione privatistica del rapporto tra i coniugi lasciando ad essi la libertà di decidere quando e come domandare la cessazione del rapporto di coniugio provvedendo a difendere i soggetti deboli che subiscono le conseguenze di questa scelta (es. coniuge senza mezzi di sostentamento e prole).
Quindi, per porre fine al rapporto coniugale, non si può presentare direttamente richiesta di divorzio ma, bisogna prima procedere con la richiesta di separazione (giudiziale o consensuale). Il legislatore ha previsto, sia nel giudizio di separazione personale dei coniugi (art. 709 bis c.p.c.) sia nel giudizio per lo scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio (art. 4, co. 12, l. 898/70), che il giudice emetta una sentenza non definitiva relativa, rispettivamente, alla separazione o al divorzio. Le due norme sono state strutturate in maniera analoga utilizzando gli stessi termini(art. 709 bis c.p.c.,  2° periodo ed art. 4, co. 12°, l. divorzio). Detti articoli possono ritenersi specificazioni - con le dovute differenze - in materia di diritto di famiglia, della generica previsione di cui all’art. 277 c.p.c. (e dell’art. 279, comma 2, n. 4, c.p.c.), che riconosce al giudice la facoltà di limitare la decisione ad alcune domande proposte e, di disporre la prosecuzione dell’istruttoria per le altre.
L’obiettivo del legislatore era quello di predisporre uno strumento processuale (la sentenza non definitiva) volto a definire con sollecitudine lo status della coppia in conflitto. Inoltre, l’aver ammesso la possibilità di anticipare la decisione sulla separazione (o sul divorzio), proseguendo il giudizio per l’istruzione della domanda di addebito, o delle altre questioni, esprime la consapevolezza dello stesso legislatore che nella prassi, generalmente, la domanda principale (quella appunto relativa allo status) risulta fondata ab origine senza bisogno di istruttoria, contrariamente alle altre domande accessorie che, ben più complesse e controverse, impongono accertamenti lunghi che dilatano enormemente i tempi del giudizio. Senza una tale anticipazione, infatti, la richiesta di addebito si trasformava in uno strumento nelle mani del coniuge il quale, non avendo interesse alla rapida definizione del giudizio, ostacolava la controparte ritardando la decisione al fine di ricavarne vantaggi economici.
La sentenza non definitiva di separazione permette quindi di anticipare al massimo la proponibilità della domanda di divorzio, che prevede il verificarsi del duplice presupposto (art. 3 l.div.), della decorrenza di 1 anno dalla comparizione dei coniugi davanti al Presidente, ed il giudicato sullo status, che ben potrà formarsi anche in base alla sentenza non definitiva; a sua volta anche in sede di divorzio il giudice potrà adottare sentenza non definitiva sullo status, rendendo così, in tempi relativamente brevi, i coniugi nuovamente liberi. Infine, la descritta ratio è desumibile altresì dalla previsione normativa dell’appello immediato quale unico mezzo di impugnazione della sentenza non definitiva sia di separazione che di divorzio. L’impugnazione immediata, a ben vedere, impedisce l’utilizzo della riserva d’appello ai fini dilatatori, confermando, in tal modo, ulteriormente, la tendenza dell’ordinamento a garantire l’acquisizione rapida dello stato libero.

2. L’evoluzione normativa ed il dibattito giurisprudenziale e dottrinale.

L’art. 4, L. Div., come sostituito dall’art. 8 della L. 74 del 6.3.1987 e poi modificato dall’art. 2 del D.L. 35/05, è stata la prima norma a disciplinare la sentenza non definitiva, ma limitatamente al giudizio di divorzio. La sua introduzione ha fatto sorgere una serie di questioni circa la sua applicabilità anche ai giudizi di separazione. In quest’ultimi, tuttavia, verrà cristallizzata dal legislatore solo nel 2005 - con la L. 263 del 28.12.2005 - con l’inserimento degli ultimi due periodi dell’art. 709 bis c.p.c., andando a confermare una prassi consolidata nei tribunali. All’origine del dibattito era proprio l’eccessiva lungaggine che subiva il giudizio di separazione quando, alla domanda principale, rapidamente valutabile, si aggiungeva la richiesta di addebito, e/o le altre richieste accessorie, che costringeva, come già detto, i coniugi a posticipare l’avvio del giudizio di divorzio di anni e addirittura all’esito dei tre gradi di giudizio. Si riteneva infatti inscindibile la pronuncia della separazione da quella di addebito, prolungando indefinitamente un vincolo matrimoniale ormai in crisi, mortificando il termine (allora) triennale di separazione previsto dalla l. Div. e costringendo un coniuge a subire la pratiche dilatatorie avversarie.
Il dibattito iniziò con la sentenza del Tribunale di Milano del 29.9.1994 che, per primo, sostenne l’opportunità di un disgiungimento delle due pronunce. Il Tribunale sostenne la possibilità di emettere sentenza non definitiva e di proseguire la causa per accertare a chi fosse addebitabile la separazione. La giurisprudenza di merito, seguita dalla maggior parte della dottrina, si orientò per l’ammissibilità della soluzione descritta. In tale prospettiva, assunse rilievo l’art. 4, co. 12. l. div. - relativo alla sentenza non definitiva prevista in sede di divorzio - che fu ritenuto applicabile, in base all’art. 23, l. 74/87, al giudizio di separazione, in quanto con esso compatibile. Per i giudizi nei quali, invece, una pronuncia di separazione fosse già stata emessa in primo grado, si ammise la domanda di divorzio nel caso in cui la sentenza di separazione fosse stata impugnata per i soli capi relativi all’addebito ed alle statuizioni accessorie.
La Cassazione invece si oppose a questa possibilità. La prima sezione si pronunciò sempre negando la scindibilità della pronuncia di separazione da quella di addebito anche all’interno dello stesso processo, sostenendo l’inammissibilità della sentenza non definitiva di separazione con la consequenziale inidoneità della stessa, ove adottata e non impugnata, a costituire giudicato, e ritenendo improponibile “la domanda di divorzio anche quando il giudizio di separazione prosegua in fase di impugnazione, sia pure con censure che investano soltanto l’addebito” (Cass. Civ., sez. I, n. 8106/00; n. 3718/98).
L’impostazione tradizionale, seguita dalla Cassazione richiamata sosteneva l’inscindibilità affermando il principio secondo il quale nel nostro ordinamento non sarebbero ravvisabili due distinte figure di separazione, l’una senza addebito e l’altra con addebito, ma un unico modello di separazione incentrato sull’accertamento del fatto oggettivo dell’intollerabilità della convivenza. In tale ottica, secondo la Corte, l’addebito rappresentava una mera modalità o variante accessoria ed eventuale della separazione, costituendo l’oggetto di un’indagine del giudice che non si sviluppa in modo autonomo rispetto a quella relativa all’accertamento dell’impossibilità di proseguire la convivenza. Da un punto di vista letterale, poi, la Cassazione ribadiva la propria scelta traendo argomentazione dall’art. 151, co. 2, c.c., secondo il quale il giudice decide sull’addebito “pronunziando la separazione”, esprimendo così una chiara opzione per la contestualità delle pronunce. 
Infine, anche la dottrina si schierò con la posizione seguita dalla giurisprudenza di merito. In primis, sostenne la natura di domanda giudiziale dell’istanza di addebito, e non un mero elemento accidentale all’accertamento dell’improseguibilità della convivenza. Tale tesi trovava, e trova, conferma nel regime processuale; innanzitutto, infatti, per ottenere una pronuncia sull’addebito è necessario proporre una domanda specifica, poi, la richiesta da parte del convenuto costituisce domanda riconvenzionale, ed infine il giudice d’appello che, senza tener conto della rinuncia delle parti alle rispettive istanze di addebito, confermi la sentenza di separazione con addebito, incorre nel vizio di ultrapetizione. In secondo luogo la dottrina evidenziò come le due domande si differenziassero nella causa petendi (intollerabilità della convivenza nell’una e violazione dei doveri coniugali nell’altra), e nel petitum (costituito in un caso dalla pronuncia della separazione con le relative conseguenze di carattere personale e patrimoniale, nell’altro dall’accertamento positivo e sfavorevole alla controparte dal quale discendono gli effetti ulteriori della perdita del diritto al mantenimento e dei diritti successori.

3. L’intervento delle Sezioni Unite della Cassazione nel 2001.

Finalmente, nel 2001 intervengono le S.U. della Cassazione che, con le due note sentenze n. 15248 e n. 15279, mutano definitivamente il precedente orientamento delle sezioni semplici e affermando finalmente che “nel giudizio di separazione personale dei coniugi, la richiesta di declaratoria di addebitabilità della separazione stessa, ha natura autonoma, pure se logicamente subordinata alla pronuncia di separazione, in quanto non sollecita mere modalità o varianti dell'accertamento già devoluto al giudice con la domanda di separazione, né mira a semplici specificazioni o qualificazioni di detta pronuncia, ma amplia il tema dell'indagine su fatti ulteriori ed indipendenti da quelli giustificativi del regime di separazione, ed inoltre tende ad una statuizione aggiuntiva, priva di riflessi sulla pronuncia di separazione e dotata di propri effetti di natura patrimoniale, e che, pertanto in carenza di ragioni o norme derogative dell'art. 277, comma 2, c.p.c., il giudice del merito può limitare la decisione alla domanda di separazione, se ciò risponda ad un apprezzabile interesse della parte e se non sussista per la domanda stessa la necessità di ulteriore istruzione”. Ed ancora “poiché la richiesta di addebito ha natura di domanda autonoma, qualora la sentenza sulla separazione e sull'addebito sia stata impugnata con esclusivo riferimento all'addebito, si forma il giudicato sulla separazione e diviene possibile chiedere il divorzio”.
Tenuto conto delle posizioni della dottrina maggioritaria e della giurisprudenza di merito, le Sezioni Unite hanno, in primo luogo, riaffermato l'unicità dell'istituto della separazione, non alterata dalla sussistenza o meno di una pronuncia di addebito, ed hanno confermato la necessità che la domanda di addebito sia proposta e decisa nell'ambito dello stesso giudizio introdotto dalla domanda di separazione, escludendo la possibilità di iniziative processuali volte ad ottenere l'addebito al di fuori del giudizio di separazione. In ordine a tali aspetti hanno confermato la validità dell'indirizzo espresso finora dalla sezione prima civile dal quale si sono, però, discostate negando la necessità che la pronunzia di separazione e quella di addebito siano contenute, oltre che nello stesso giudizio, anche nella stessa sentenza. A ben vedere però, le Sezioni Unite, pur paragonando il rapporto sussistente tra pronuncia di separazione e addebito da un lato e pronuncia di divorzio e assegno dall’altro, ha preferito non ritenere estensibile al giudizio di separazione l’art. 4, co. 12, l. div., bensì applicabile l’art. 277, co. 2, c.p.c.
Questa scelta è stata oggetto di critica da parte della dottrina in quanto contro una sentenza non definitiva di separazione pronunciata ex art. 277, co. 2, c.p.c. sarebbe possibile, a differenza delle sentenze emesse ex art. 4, l. div., differire l’appello per mezzo della riserva di cui all’art. 340 c.p.c. permettendo così al coniuge che non ha interesse ad una rapida definizione, di rinviare la formazione del giudicato, impedendo, all’altro, la proposizione della domanda di divorzio. Tuttavia non si può non apprezzare l’importante novità apportata dalle due pronunce che ha permesso il consolidamento di questo orientamento poi ufficialmente riconosciuto dal  legislatore del 2005 con la previsione degli ultimi due periodi dell’art. 709 bis c.p.c., in cui si è finalmente ammessa la sentenza non definitiva anche nel giudizio di separazione, e su cui continua a formarsi costante e concorde giurisprudenza.
Dal riconoscimento dell’autonomia della domanda di addebito rispetto a quella di separazione ne è derivato l’inevitabile corollario, con evidenti richiami all’art. 329 c.p.c., della possibilità di appellare la sentenza definitiva di primo grado, contenente la pronuncia su entrambe le domande, per il solo capo relativo all’addebito, permettendo alla statuizione sullo status di passare in giudicato con l’effetto di avviare il giudizio di divorzio pur in pendenza dell’appello sulle altre questioni.
Momento in cui va pronunciata la sentenza non definitiva. La sentenza non definitiva deve essere emessa una volta che il giudice ha valutato che il processo debba proseguire per le altre questioni diverse e ulteriori dallo status, quindi una volta che è definito il thema decidendum, allo scioglimento della riserva sui mezzi istruttori ex art. 183, co. 6, c.p.c. E’ pur vero che, passata in giudicato la statuizione sulla separazione, e trascorso un anno, le parti possono chiedere il divorzio, nonostante continui – anche in appello – il giudizio sull’addebito o sugli altri aspetti. Nulla questio se la causa di divorzio si conclude prima di quella di separazione, in questa diverrebbe inevitabile la dichiarazione di cessazione della materia del contendere. Ben più complicato è il caso in cui il giudizio di divorzio debba risolvere le stesse questioni pendenti nella causa di separazione, per esempio un affidamento.

4. Duplicazione dell’istruttoria quali possibili soluzioni ai fini dell’economicità del giudizio?

Nei tribunali, normalmente, le cause procedevano autonomamente, con duplicazione dell’istruttoria (vengono espletate due ctu, due indagini tributarie, etc) e violazione del principio dell’economia processuale. Una soluzione prospettata avrebbe potuto essere la sospensione, una volta emessa la sentenza non definitiva di divorzio, dello stesso giudizio per quanto riguarda l’accertamento delle ulteriori domande, in attesa che si concluda la causa di separazione ancora pendente.
La giurisprudenza negava, però, la sospensione del giudizio fuori dai casi previsti dalla legge (art. 295 c.p.c. sosp. necessaria in caso di pregiudizialità giuridica, che non ricorre nel caso de quo, e art. 296 c.p.c., sosp. facoltativa ammessa per un periodo non superiore a quattro mesi). Un’altra soluzione ritenuta preferibile in dottrina, era quella della continenza delle due cause ex art. 39, co. 2, c.p.c., che, a ben vedere, si configurerebbe nel caso in esame, con traslatio iudicii al primo giudice adito.
La continenza presuppone infatti l’identità dei soggetti e la parziale coincidenza tra gli oggetti; specificatamente, secondo un orientamento l’identità dovrebbe riguardare anche la causa petendi ma non anche il petitum, mentre secondo un’altra interpretazione basterebbe anche una parziale coincidenza della causa petendi.
Nei due giudizi in ipotesi, si sarebbe avuta identità sicuramente di soggetti e di petitum (assegno e affidamento sono contenuti analoghi nelle due cause), e si sarebbe potuto considerare parzialmente coincidenti le rispettive causae petendi (l’intolleranza della convivenza non differisce infatti troppo dalla impossibilità di ripristinare la comunione di vita), essendo peraltro entrambe connesse al matrimonio. Tale soluzione avrebbe potuto risolvere il problema della duplicazione dei giudizi e degli accertamenti, ma, sarebbe stata utilizzabile solo se le cause fossero state entrambe pendenti in primo grado, in caso contrario la questione sarebbe rimasta aperta.

5. Ordinanza del Tribunale di Milano del 26.02.2016.

Tuttavia il Tribunale di Milano, con una recente ordinanza, afferma che se pendono contemporaneamente la causa di separazione e quella di divorzio tra i coniugi, i due procedimenti possono essere riuniti. Come noto, un recente intervento legislativo ha ridotto i tempi necessari per poter chiedere il divorzio, in particolare, sei mesi, se la precedente separazione è avvenuta consensualmente o un anno, se la precedente separazione sia avvenuta in via giudiziale.  Il momento dal quale iniziano a decorrere i termini suddetti per potersi divorziare non decorre (come erroneamente potrebbe ritenersi) dalla fine della causa di separazione, ma dall’inizio, o meglio dalla preliminare udienza presidenziale; in essa, alla presenza dei coniugi, il Presidente del Tribunale emette i provvedimenti provvisori che la coppia deve rispettare in attesa dell’emissione della sentenza definitiva.
Alla luce di tali modifiche, è oggi possibile che si verifichino situazioni di sovrapposizione tra i due procedimenti: in altre parole, ben potrebbe essere che, mentre ancora si sta svolgendo la causa di separazione, sia già maturato il termine per chiedere il divorzio.
Si pensi, ad esempio, a due coniugi che, volendo separarsi, ma non avendo trovato un accordo consensuale, scelgano di procedere alla separazione giudiziale: in tal caso, mediante un avvocato ciascuno, dovranno presentare ricorso presso il tribunale competente e, quindi, instaurare un giudizio ordinario contenzioso. Se tuttavia la causa di separazione dopo un anno non fosse ancora conclusa, nulla vieta ai coniugi di avviare, contemporaneamente, anche il giudizio di divorzio. Che succede in questi casi? La risposta viene fornita dalla ordinanza del Tribunale di Milano.
Secondo la corte di merito, i due procedimenti (separazione e divorzio) possono essere assegnati al medesimo giudice. Ciò non solo è possibile, ma anche auspicabile: infatti, dal momento del deposito del ricorso divorzile, il giudice della separazione non può più pronunciarsi sulle questioni inerenti i figli, poiché su questi ha esclusivo potere decisionale solo il giudice del divorzio. Non solo: dal momento del deposito del ricorso divorzile, il giudice della separazione non può più pronunciarsi sulle questioni economiche se non con riguardo al periodo compreso tra la data di deposito del ricorso per separazione e la data di deposito del ricorso per divorzio. Insomma, non avrebbe senso far decidere un giudice su questioni che ormai vengono assorbite dalla  decisione della cause di divorzio. Per tali aspetti appare ragionevole concentrare in capo ad un unico giudice la trattazione dei due procedimenti, al fine di garantirne la più sollecita definizione.
L’ordinanza va poi oltre, spiegando che, qualora la separazione giudiziale sia pendente in una fase non troppo avanzata, il giudice di entrambe le cause può a questo punto anche valutare di riunione dei due processi in un’unica causa, trattandosi di cause connesse. Insomma, ci saranno udienze uniche per entrambe le controversie tra i coniugi.

Fonti:

  • Processo di separazione e divorzio, a cura di Giuseppe De Marzo, Altalex Editore, 2012;
  • Codice Commentato di famiglia, minori e soggetti deboli, a cura di Basini Giovanni, Francesco, Bonilini Giovanni, Confortini Massimo, Utet Giuridica, 2014.
  • Articolo tratto da Altalex, 11 maggio 2015, di Giulia Sferra
  • Nascosi A., Separazione giudiziale e dichiarazione di addebito:la Cassazione cambia opinione, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ. 2002, 04, 1383.
  • Dosi G., Sentenza non definitiva di separazione e rapporti tra separazione e divorzio. Un’ipotesi di continenza.
  • AA. VV. “La sentenza non definitiva nel divorzio”, in Separazione e divorzio, Guida al diritto- il Sole24Ore, dicembre 2011, pag. 112.
  • Cass. n. 1743/03, in Fam e d. 2004, 29 con nt Dalla Bontà; Trib. Ascoli Piceno del 24.3.2003, in G. mer. 2003, 1970; Trib. Vercelli dell’11.8.2000, in G. it. 2001, 1166.
  • Cipriani, in F. it. 1999, I, 2309; Dogliotti, Familia 2002, 1151 ss.; Danovi, G. it. 2002, 921 ss.; Graziosi, G. it. 1997, I, 2, 283 ss.; Nascosi, cit.; Vullo, Fam e d. 2002, 16 ss.
  • Rossetti R., Giudizio di separazione e sentenza non definitive, in Giust. Civ. 2003, 05, 163.
  • Trib. Milano, 29.9.1994, in Foro it 1995, I, 3003; in G. it. 1996, I, 2, 226, con nt Barbiera Contento, Nuovi principi dell’ordinamento del matrimonio e doverosità della pronuncia immediata sulla separazione e divorzio, scissa dalle successive pronunce su domande accessorie; in Nuov. giur. civ. comm. 1995, I, 736 ss., con nt Rimini, L’autonomia del capo della sentenza relativo alla pronuncia dela separazione personale fra i coniugi sulle questioni accessorie.
  • Salvaneschi, Sul rapporto tra domanda di separazione giudiziale e domanda di addebito, in Fam e d. 2000, 178 ss.; Graziosi, Nuovi consensi alla pronuncia immediata della sentenza di separazione tra i coniugi, in Giur. it. 1997, I, 2, 283 ss.
  • Rossetti R., Giudizio di separazione e sentenza non definitive, in Giust. Civ. 2003, 05, 163.
  • Articolo tratto dal sito la legge per tutti del  17.3.2016.
  • Il Cipriani, Impugnazione per il solo addebito e domanda di divorzio, in Foro it. 1998, I, 2142., 2145, sostiene che la dichiarazione di addebito comporta degli effetti sostanziali che non hanno nulla a che vedere con quelli della separazione poiché rivestono un carattere sanzionatorio.
  • In Foro it. 2002, I, 383, con nt. Cipriani.
  •  Cass. n. 16996/04; Trib. Bologna del 28/4/2004; Trib. Ascoli Piceno del 24/3/2003; Trib. Trani, del 24/4/2001.
  • Cass., n. 24442/11; 14639/08; 26571/2007; 16985/07.
  • Luiso F. P., Questioni varie in tema di impugnazione dei provvedimenti di separazione e divorzio, in judicium.it.
  • Cass. n. 26 del 7.1.2008, in Giust. C. 2008, I, 1935.
  • Cass. n. 3488 del 12.2.2009, in Dir. d. Fam. 2009, 1650.
  • Cass. n. 5304/06; 3836/06; 1179/06; 507/03.
  • Cipriani, in F. it. 1999, I, 1119 ss; Luiso, Diritto processuale civile, IV, 307.
  • Cass. n. 11567/03.
  • Cass. n. 65361/93; n. 5676/79.
  • Cass. n. 1178/89; n. 3397/84.
  • Trib. Milano, ord. del 26.02.2016