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Pubbl. Mer, 5 Apr 2017

L´appello penale, un atto pieno di insidie. Come evitare la temuta inammissibilità

Giuseppe Ferlisi
AvvocatoUniversità degli Studi di Salerno


In questo articolo si analizza il quadro normativo dell´atto di appello penale, le regole afferenti all´ammissibilità, alla forma, al deposito ed alle preclusioni.


Per molti giuristi e studiosi, l'appello penale presenta delle vere e proprie trappole determinate dal fantasma dell'inammissibilità, spettro questo molto temuto allorquando si stia disquisendo spesso in merito alla libertà personale di un imputato.

Per molti giuristi e studiosi, l'appello penale presenta delle vere e proprie trappole determinate dal fantasma dell'inammissibilità, spettro questo molto temuto allorquando si stia disquisendo spesso in merito alla libertà personale di un imputato.

L'inammissibilità è una ipotesi di invalidità genetica della domanda, disciplinata in via generale per tutti i mezzi dell'impugnazione dall'art. 591 c.p.p., che individua i requisiti minimi che esso deve possedere.
L'impugnazione è inammissibile:
a) quando è proposta da chi non è legittimato o non ha interesse;
b) quando il provvedimento non è impugnabile;
c) quando non sono osservate le disposizioni degli articoli 581, 582, 583, 585 e 586;
d) quando vi è rinuncia all'impugnazione.
2. Il giudice dell'impugnazione, anche di ufficio, dichiara con ordinanza l'inammissibilità e dispone l'esecuzione del provvedimento impugnato.
3. L'ordinanza è notificata a chi ha proposto l'impugnazione ed è soggetta a ricorso per cassazione. Se l'impugnazione è stata proposta personalmente dall'imputato, l'ordinanza è notificata anche al difensore.
4. L'inammissibilità, quando non è stata rilevata a norma del comma 2, può essere dichiarata in ogni stato e grado del procedimento.

Tale vizio viene di norma rilevato dal giudice dell'impugnazione - anche ex officio ed in qualunque stato e grado del procedimento - impedendo la trattazione del merito e producendo la formazione del giudicato.
Tale ordinanza del giudice di seconde cure, impedisce:
- l'applicazione della legge più favorevole eventualmente sopravvenuta;
- la dichiarazione di prescrizione del reato;
- il riconoscimento di altre cause di non punibilità quale ad es. il difetto originario dell'atto di querela.
Consente invece:
- la dichiarazione di estinzione del reato in seguito a remissione della querela;
- accertamento dell'abolitio criminis o della dichiarazione di illegittimità costituzionale;
- disapplicazione della normativa nazionale per violazione delle normale comunitarie.

Chi può fare appello?

Il primo punto fissato dall'art. 591 c.p.p. stabilisce la proponibilità dell'appello da chi ne abbia legittimazione, ossia il pubblico ministero e l'imputato, e di riverbero il difensore dell'imputato, il responsabile civile, il civilmente obbligato, la parte civile ed il querelante. In tema di sequestro, si riconosce poi tale diritto a chi subisce il sequestro, chi ha diritto alla restituzione e l'ente responsabile dell'illecito amministrativo per un fatto di reato commesso dal suo dipendente.
L'imputato può fare appello anche a mezzo di un procuratore speciale diverso dal difensore; nel caso sia incapace, vi provvede il tutore od il curatore speciale nominato ad hoc.
Il difensore, invece, ha diritto di proporre appello in funzione della propria qualità ed è quindi un diritto proprio che non richiede il rilascio di alcuna procura speciale; tale procura è invece necessaria per il civilmente obbligato, il responsabile civile, la parte civile ed il querelante.

L'interesse a fare appello deve essere attuale, concreto (ossia corrispondere a situazione pratica migliore che si renderà possibile mediante l'eliminazione del provvedimento impugnato) e diretto.
Non sussiste per l'imputato detto interesse allorquando egli sia stato assolto con formula piena ex art. 530 co. 2 c.p.p., in quanto la relativa statuizione resterebbe invariata e la formulazione relativa alla mancanza, insufficienza o contraddittorietà della prova non comporta residui dubbi sull'innocenza dell'imputato; altresì, l'imputato ha invece interesse a impugnare la sentenza che lo abbia assolto con la formula "il fatto non costituisce reato" al fine di ottenere la formula "perchè il fatto non sussiste", purchè alleghi lo specifico e concreto interesse in riferimento agli effetti pregiudizievoli che la prima può avere nei giudizi civili o amministrativi di risarcimento del danno ed in quello disciplinare.
 

Si può appellare tutto?

Anche in questo caso vige il principio di tassatività, per il quale sono appellabili solo i provvedimenti suscettibili di gravame (art. 568 c.p.p. - art. 591 c.p.p.).
Sono appellabili:
- sentenze di condanna;
- sentenze di proscioglimento;
- ordinanze in materia di misure cautelari personali fuori dai casi di riesame;
- ordinanze in merito di sequestro preventivo;
- provvedimenti del magistrato di sorveglianza in merito alle misure di sicurezza;
- dichiarazione di abitualità, professionalità o tendenza a delinquere;
- sentenza di condanna dell'ente alle sanzioni per illecito amministrativo (ex d.lgs. 231/01);
- provvedimenti in materia di misure cautelari;
- decreto del Tribunale in materia di misure cautelari applicate all'ente per illecito amministrativo;
- decreto del Tribunale in materia di misure di prevenzione personale e patrimoniale.


I termini di appello

Anche questi sono egualmente importanti perchè una loro violazione produce la medesima conseguenza dell'inammissibilità ai sensi dell'art. 585 c.p.p.
Essi sono sostanzialmente tre, ossia 15, 30 e 45 giorni, ai quali si aggiunge il termine di 10 giorni per i procedimenti di prevenzione antimafia.
Il termine di 15 giorni si applica all'appello di sentenze con decorrenza dalla lettura in udienza della motivazione contestuale (anche nei procedimenti del giudice di pace) oppure dalla notificazione dell'avviso di deposito della decisione assunta in camera di consiglio.
Il termine di 30 giorni decorre, invece, in caso di termine ordinatorio per il deposito della sentenza o notificazione del deposito tardivo.
Il termine di 45 giorni decorre dalla scadenza del termine superiore a 15 giorni per il deposito della sentenza.


Forma e deposito dell'appello

Ovviamente è necessaria la forma scritta, con indicazione del provvedimento impugnato, data e giudice che lo ha emesso.
Deve contenere poi i capi o punti della decisione che si appella, le richieste ed i motivi (le ragioni di diritto o degli elementi di fatto).
I capi o punti si riferiscono l'uno (il capo) alla pronuncia dotata di autonomia che potrebbe essere scissa dalle altre e può da sola acquisire valore della cosa giudicata, mentre l'altro (il punto) al singolo tema di decisione; tale individuazione è decisiva giacchè permette di individuare il tema del giudizio di appello secondo la regola fissata dall'art. 577 c.p.p, seppur la devoluzione al giudice di appello, gli permette di riesaminarli in base a tutte le questioni, senza essere vincolato ai motivi o alle ragioni dell'atto di parte.
Ovviamente, come noto, esiste il divieto di reformatio in pejus in caso di appello del solo imputato, evitando un trattamento sanzionatorio più severo, mentre non viola tale divieto una qualificazione giuridica più grave del fatto e neppure un diverso percorso motivazionale che conduca ad una ricostruzione dei fatti meno favorevole per l'imputato.
Tale divieto non riguarda le statuizioni civili, giacchè a volte una strategia difensiva corretta può essere quella di rinunciare all'appello laddove la statuizione civile sia contenuta nell'ammontare.
Quanto ai motivi, una copiosa giurisprudenza è intervenuta per fissarne la specificità arrivando a stabilire alcune linee guida:
- non è sufficiente l'enunciazione di motivi in cui si denuncia semplicemente violazione di legge (Cass. n. 21873/11);
- non sono permessi motivi prospettati in forma dubitativa o alternativa (cfr. Cass. n. 32227/10);
- devono essere indicati con chiarezza le ragioni di diritto e gli elementi del fatto, con esplicito riferimento al caso concreto;
- il riferimento a materiale probatorio deve essere specifico nel senso che non può riferirsi a prove afferenti a più soggetti.

Il deposito dell'atto di appello avviene nel luogo dell'impugnazione e presso la cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento con eccezioni per l'imputato internato o detenuto - che può presentare appello anche presso il direttore del carcere - e la persona in arresto o agli arresti domiciliari - che può presentarlo con atto ricevuto da un ufficiale di polizia giudiziaria.
Riguardo le ordinanze di custodia cautelare personale e sequestro preventivo, esso va depositato presso la cancelleria del giudice competente a decidere.
Se sono violate le regole sul luogo e ufficio del deposito, la conseguenza è sempre quella dell'inammissibilità.


L'appello della parte civile

La parte civile è legittimata a proporre appello, sia contro la sentenza di condanna - esclusivamente per i capi della sentenza che riguardano l'azione civile - sia contro quella di proscioglimento - ai soli effetti della responsabilità civile (art. 576 c.p.p.).
In caso di giudizio abbreviato, invece, la parte civile può non accettare il rito, uscire dal processo penale e mantenere in piedi il solo giudizio civile, che sarà autonomo da quello penale.
Non possono essere appellate le sentenze quali quella di non luogo a procedere, quelle di estinzione del reato per prescrizione o amnistia, né quelle di proscioglimento per improcedibilità dell'azione penale dovuta a difetto di querela od a violazione del divieto di ne bis in idem (Cass. n. 32983/14).
È evidente che l'appello della parte civile si svolgerà come critica alla pronuncia di primo grado e dovrà assumere, nelle forme, le caratteristiche dell'appello del P.M. in quanto presuppone la responsabilità dell'imputato.
Può appellare anche in caso di rinuncia al gravame della Procura, ma in tale caso sarà escluso il giudizio sulla penale responsabilità dell'imputato; tuttavia, si continuerà a dibattere rispetto alla sua responsabilità del fatto-reato poichè requisitito ineludibile per la responsabilità civile dello stesso.
Il giudice di appello potrà occuparsi delle censure sui capi civili della sentenza, in quanto sia investito della questione di responsabilità; soltanto a queste condizioni il giudice di gravame potrà rinnovare l'accertamento dei fatti posti a base della decisione assolutoria.
La parte civile deve indicare le ragioni, che in concreto giustificano la riforma del provvedimento impugnato, pena l'inammissibilità.
Può appellare ogni pronuncia che metta a rischio il diritto ad ottenere il risarcimento del danno, potendo così impugnare le sentenze di assoluzione perché il fatto non sussiste, perché l'imputato non lo ha commesso oppure perché il fatto è stato commesso nell'adempimento di un dovere o di una facoltà legittima.
Tali sentenze, infatti, sono le uniche che avrebbero un effetto decisivo sul giudizio civile.
Un discorso a parte merita la formula "perché il fatto non costituisce reato", pronunciata allorquando manchi l'elemento soggettivo del reato o vi sia una presenza di causa di giustificazione. In tale ultimo caso, dobbiamo differenziare le scriminanti di cui all'art. 51 c.p. che precludono il giudizio civile di danno, mentre ciò non si verifica per le altre, le quali pur comportando l'adozione della medesima formula assolutoria, non hanno tale effetto preclusivo per precisa scelta del legislatore.
In definitiva, nell'appello della parte civile, deve essere indicato l'interesse concreto ad impugnare - il quale non viene soddisfatto dal mero richiamo alla formula assolutoria, ma deve avere un quid pluris, ossia l'allegazione degli effetti pregiudizievoli della pronuncia penale rispetto al diritto nonchè dei suoi effetti preclusivi in un successivo giudizio civile.

Concludendo, il giudice di appello può affermare la responsabilità del prosciolto agli effetti civili e condannarlo al risarcimento danni o alle restituzioni.
Nel caso, invece, in cui la parte civile non faccia appello, ma questo sia proposta dalla Procura, la Cassazione ha stabilito con la sentenza delle Sezioni Unite penali n. 30327/02, che "il giudice di appello ha il dovere di decidere sulla domanda di risarcimento della parte civile anche se questa non ha impugnato autonomamente la sentenza di proscioglimento".


L'appello incidentale

La parte che non ha proposto appello, può proporre appello incidentale entro 15 giorni dalla comunicazione o notificazione dell'appello principale (art. 595 c.p.p.); esso si presenta nelle forme e nei modi dell'appello principale ed ha natura accessoria rispetto a quest'ultimo.
Ciò significa che mentre l'appellante principale opera censure in merito alla sentenza impugnata, l'appellante incidentale - come affermato dalla Corte Costituzionale nella sent. n. 280/05 - "calibra le sue censure avuto riguardo a quella che potrebbe essere una sentenza futura a seguito dell'appello principale dell'altra parte".
Importante evidenziare in questa sede che se l'appellante incidentale è la Procura, non opera il divieto di reformatio in pejus e la cognizione del giudice di appello risulta essere più ampia. Di talché, ove vi sia un coimputato non appellante, in merito a questo vige ancora quel divieto, beneficiando dell'eventuale esito positivo dell'appello senza rischiare di subire un aggravamento della propria condanna.
Resta esclusa la legittimità a proporre appello incidentale per chi non ne è investito nemmeno per quello principale (es. procura dopo giudizio abbreviato).
La legittimità è di ciascuna parte che non ha esercitato autonomamente appello e che ne abbia ricevuto notizia; tale legittimità deve essere tramutata in interesse ad impugnare, allineando l'appello incidentale alle censure di quello princiaple con riferimento ai capi ed ai punti delle doglianze, in quanto esso ha natura accessoria e le sue sorti sono agganciate a quello principale.

Oralità e prove in appello

Il nostro sistema penale, che dagli studi universitari abbiamo imparato essere accusatorio, vede il proprio presupposto nel principio di oralità e nell'immediatezza; ebbene, il nostro giudizio in appello - dove un giudice a differenza di quello di prime cure non guarda i testimoni, non ne guarda gesti né sente il tono di voce - sembrerebbe violarlo, basando il proprio giudizio solo sulle "carte".
L'eventualità, infatti, che una prova si formi in giudizio di appello sono limitate all'art. 603 c.p.p. - norma peraltro interpretata in maniera restrittiva - atteso il presupposto della completezza del giudizio di primo grado.
Il sistema mostra i propri limiti proprio in seguito ad appello della Procura rispetto ad una sentenza di proscioglimento, giacchè una sentenza favorevole con la garanzia dell'oralità potrebbe essere sostituita da una contraria, senza tale garanzia.

Ma quali sono i casi di rinnovazione? Essenzialmente sono tre.
Il primo - noto come rinnovazione discrezionale - riguarda la riassunzione di prove già acquisite nel dibattimento di primo grado, ovvero di prove mai precedentemente esperite, ma conosciute e conoscibili dalle parti prima del giudizio di primo grado. Tali prove potranno essere rinnovate a condizione che una delle parti ne abbia fatto richiesta o che il giudice di appello ritenga di non poter decidere allo stato degli atti.
Il secondo caso riguarda la cd. rinnovazione obbligatoria, afferente a prove sopravvenute o scoperte dopo il giudizio di primo grado, che possono essere ammesse sulla base di presupposti quali non superfluità, rilevanza, legittimità, diversità di fatti e circostanza rispetto a quello delle precedenti dichiarazioni per soggetti già sentiti.
L'ultima ipotesi invece riguarda il caso in cui il giudice ritiene la rinnovazione "assolutamente necessaria", venendo così disposta d'ufficio.
Da tale quadro, è evidente come la rinnovazione in appello sia un evento, non la regola: anzi, nelle Corti di Appello la rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale è a dir poco circostritta e limitata, al massimo, ad acquisizioni documentali; questo perchè l'assunzione di nuova prova pare essere limitata dalla stessa giurisprudenza al caso di "decisività".
La rinnovazione può essere comunque richiesta sia nell'atto di appello che nei motivi presentati.

Rispetto a tale argomento, è intervenuta la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, la quale nella nota sentenza Dan contro Moldavia, ha statuito che costituisce violazione dell'art. 6 Cedu, la rivalutazione in senso negativo di una testimonianza a carico dell'imputato sulla base della semplice rilettura della disposizione senza procedere direttamente all'ascolto.
Tale sentenza, che ha sua rilevanza anche al di fuori del caso discusso, e quindi anche per l'Italia, ha inevitabilmente portato alcune discussioni in seno alle giurisprudenza, la quale ha elaborato dei principi tendenzialmente rivolti a mantere la rinnovazione nei casi di eccezionalità.
In particolare è stato stabilito che :
- l'obbligo di rinnovazione riguarda solo la prova dichiarativa e non tutte quelle documentali (Cass. n. 29452/13);
- la prova dichiarativa deve essere decisiva (Cass. n. 32145/14);
- l'obbligo di rinnovazione si concretizza solo laddove si avverta la necessità di valutare l'attendibilità del teste (Cass. n. 47106/13);
- non sussiste obbligo di rinnovazione se le prove sono state non considerate o giudicate inutilizzabili dal primo giudice (Cass. n. 32368/13).
È innegabile quindi che la nostra giurisprudenza abbia più volte dichiarato la compatibilità dell'art. 603 c.p.p. con l'art. 6 Cedu, erigendo una vera e propria barriera rispetto alle istanze europee che ne criticano la "cartolarità", ma che nei fatti suggeriscono alla difesa di chiedere la rinnovazione delle prove orali sulle quali si basa la sentenza impugnata ed al giudice di appello di motivare adeguamente un eventuale rifiuto.
Anzi, tale rinnovazione potrebbe essere ancor meglio sorretta dalle indagini difensive, consentite dal nostro ordinamento in ogni stato e grado del procedimento, le quali potranno essere base per una richiesta di rinnovazione maggiormente ragionata, soprattutto ascoltando eventualmente persone non coinvolte nel giudizio di primo grado.