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Pubbl. Ven, 27 Gen 2017

L'annullabilità: i vizi del consenso.

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Pierluigi Montella


Breve focus su alcuni aspetti interessanti di errore, violenza e dolo.


Tra le figure di invalidità negoziale, oltre alla nullità ed alla rescindibilità del contratto, sicuramente il profilo più interessante è rivestito dall’annullabilità. L’annullabilità è quella sanzione applicata al negozio che presenta un’anomalia all’atto della sua formazione[1]. A differenza dell’altra principale figura di invalidità - la nullità - il negozio giuridico annullabile ha un’efficacia interinale che gli consente di “vivere” all’interno del nostro ordinamento fino a quando non sopraggiunga la declaratoria di annullamento da parte del giudice oppure, il che non è un’ipotesi tanto residuale, non intervenga la prescrizione dell’azione di annullamento o la sua convalida.

Sarebbe impossibile, in un articolo che deve conciliare contemporaneamente sintesi ed adeguata pregnanza delle fonti ivi citate, pretendere di fornire una trattazione esaustiva dell’argomento. In questa sede, quindi, ci concentreremo sui profili di maggior interesse sia per la dottrina, che per la giurisprudenza.

Dunque, la distinzione tra nullità ed annullabilità aveva visto la propria genesi già nell’antico mondo romano, laddove i pretori concedevano dei particolari rimedi appartenenti allo ius honorarium avverso quei negozi validi secondo lo ius civile[2]. Successivamente, si è avuta l’elaborazione da parte della Pandettistica tedesca, la quale pose una distinzione tra “(…) negozio giuridico (…) invalido in guisa che non produce l’effetto giuridico a cui mira (…)”, cioè quella che noi chiamiamo nullità, e “negozio giuridico (…) invalido in guisa che produce l’effetto giuridico a cui mira, ma questo si appalesa inetto a produrre o a conservare quello stato di fatto che gli corrisponde (…)”[3], che collima con la nostra attuale annullabilità.

Il nostro Codice, preso atto del mutato contesto socio economico del 1942, non ci parla di annullabilità del negozio giuridico, quanto di annullabilità del contratto concluso dalle parti. Rimane ferma, ovviamente, l’invalidità negoziale posta a tutela di tutti quei negozi che, per ovvi motivi, non possono rientrare nella species dei contratti. Ad esempio, l’art. 606, comma secondo, esplicitamente indica il rimedio dell’annullamento ogniqualvolta si rientri in una fattispecie diversa dal comma primo[4].

Le prime ipotesi che il Codice civile contempla riguardano l’incapacità delle parti: difatti, il contratto sarà annullabile nel momento in cui un delle due parti fosse dichiarata legalmente incapace di contrarre. È questa una delle ipotesi tutelate maggiormente dal legislatore, a causa dell’intrinseca debolezza del soggetto coinvolto, appunto incapace. Sarà poi annullabile il contratto stipulato dai soggetti affetti da mera incapacità naturale di agire, questa volta alle condizioni, com’è ovvio, stabilite dall’art. 428 c.c.. Qui entra in gioco, del resto, il contemperamento degli interessi con i terzi soggetti che rivestono il ruolo di controparte del soggetto incapace naturale, i quali non avevano modo di informarsi preventivamente sull’eventuale difetto dalla capacità di agire del loro contraente.

Di fondamentale importanza risultano i vizi del consenso, situazioni particolari che si verificano ogniqualvolta il processo volitivo della parte sia gravemente inficiato[5]. L’ordinamento, quindi, si appresta a tutelare quei soggetti il cui consenso non sia validamente formato. Ad opinione di chi scrive, rappresenta la più grande conquista ottenuta grazie alla teoria della volontà del negozio giuridico. Se è vero che dottrina e giurisprudenza hanno ormai abbracciato teorie, come quella precettiva, che inducono a fare affidamento, il più delle volte, sulla fenomenologia dell’intento negoziale, è pur vero che alcune riflessioni raggiunte dai teorici della volontà, tra cui quella sulla necessaria corrispondenza tra intento psichico e volontà manifestata, fanno propendere per il difetto del valore negoziale laddove la manifestazione dello stesso non trovasse adeguata corrispondenza nella volontà espressa dalla/e parte/i[6]. Di conseguenza, non è valido un negozio giuridico la cui volontà non trova corretta espressione nel pensiero della parte (la cui volontà risulta appunto viziata).

I vizi del consenso principali sono costituiti da errore, violenza e dolo (art. 1429 e ss. cc). Se può essere fatto rimando, per più ampi approfondimenti, alle principali trattazioni manualistiche e alle voci enciclopediche, sicuramente non possono omettersi alcuni profili interpretativi interessanti che tanto hanno stimolato l’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale. Fra essi, è d’obbligo almeno un cenno all’errore[7] di diritto.

Esso si sostanzia come l’errore che cade su norme giuridiche, sia per quel che concerne l’esistenza di una norma, sia per quanto riguarda l’ignoranza della parte sulla portata, sull’estensione o sui limiti di applicabilità della norma[8]. Lo stesso concetto è sottolineato identicamente dalla Cassazione, secondo la quale il contratto sarà annullabile quando il consenso è stato determinato unicamente o, comunque, principalmente, da falsa applicazione o errata supposizione di esistenza di una o più norme giuridiche, purché il vizio sia riconoscibile dalla controparte con la dovuta diligenza[9]. Stia attento il lettore, ciò non significa che l’ignoranza della parte elida l’applicazione della norma giuridica: come giustamente osservato da autorevole dottrina, la legge avrà sempre la sua efficacia ed applicazione, anche se questo facoltizzasse la parte a poter impugnare il regolamento contrattuale per ottenerne l’annullamento[10]. Volendo dare un esempio: un soggetto acquista un terreno ad un determinato prezzo ritenendolo edificabile, e scopre poi il vincolo di inedificabilità. Il contraente potrà allora chiedere l’annullamento del contratto[11].

Per quanto riguarda la violenza[12], l’attenzione dello studioso viene prontamente catturata dal disposto dell’art. 1438 cc., cioè la minaccia di far valere un diritto.[13] Amplissima la dottrina e la giurisprudenza al riguardo. Se seguiamo la definizione data da Trabucchi, notiamo che l’atto minacciato rappresenta un mezzo ingiusto se rivolto ad un vantaggio che non corrisponde allo scopo per cui il diritto lo riconosce al privato[14] (un vantaggio, cioè, ingiusto). Per capirci: se è considerato lecito minacciare un soggetto di chiederne il fallimento se non fosse ottemperato il debito con il creditore, di certo non potrebbe essere oggetto di minacce in tal senso soltanto allo scopo di ottenere la vendita di un bene strumentale dell’azienda ad un prezzo eccessivamente basso. Il vantaggio sarà ingiusto, quindi, in primo luogo quando esso è volto ad ottenere un risultato abnorme e diverso rispetto a quello ottenibile tramite l’esercizio del diritto stesso.[15] Dall’esempio summenzionato può, in secundis, dedursi che vantaggio ingiusto si abbia anche quando esso è palesemente iniquo, ravvisabile nell’evidente sproporzione tra le due prestazioni o nell’attribuzione dei diritti[16].

Per quanto concerne l’ultimo vizio del consenso, cioè il dolo[17], è imprescindibile una brevissima riflessione su un aspetto talvolta frainteso o comunque oggetto di facili approssimazioni: il dolo lecito o dolus bonus[18]. Questo non rappresenta altro che la normale esaltazione, ad esempio in ambito commerciale, dei prodotti venduti, dei servizi forniti e delle prestazioni offerte. Proprio perché inidonea a trarre in inganno la controparte, non può costituire un vizio del consenso ma soltanto, appunto, una valorizzazione, di tipo parziale, del lavoro che si vuol realizzare per il cliente. In questo senso, come ha chiarito la giurisprudenza, il discrimen per distinguere le due tipologie di dolo è dato dal fatto che nel dolus bonus andranno a rientrare tutte quelle dichiarazioni che, in determinate circostanze, sicuramente sono state individuate come innocue dallo stipulante, a meno che, si intende, non vi siano state altre dichiarazioni a latere che facessero presuppore un artifizio od un raggiro ad opera della controparte[19]. In tal caso, infatti, ci si troverebbe nell’ambito del dolus malus.

 

 

Note e riferimenti bibliografici

[1] Cfr. Codice Civile esplicato, XX Edizione, Edizioni giuridiche Simone, Napoli, 2016, pag. 894.
[2] Cfr. C.M. Bianca, Diritto Civile, Il contratto, Vol. 3, II ed., Giuffrè, Milano, 2000, pag. 644.
[3] Cfr. Windscheid, Diritto delle Pandette, I, § 82, pag. 265.
[4] “Per ogni altro difetto di forma il testamento può essere annullato da chiunque vi abbia interesse […]”, cfr. Cod. Civ. espl., cit., art. 606.
[5] Cfr. Cod. Civ. espl., cit. pag. 895
[6] A conclusioni in parte diverse giunge Savigny, Sistema del diritto romano attuale (trad. it. Di V. Scialoja, Vol. III, Torino, 1990 (rist.), §134, pag.342
[7] Cfr. Bianca, Diritto Civile, cit., pag.645: l’errore è una falsa rappresentazione della parte relativamente al contratto od ai suoi presupposti.
[8] Cfr. Trabucchi, Errore, in NDI, VI, pag. 665
[9] Cfr. Cass. 8 gennaio 1981, n. 180.
[10] Efficacemente, nonostante la vetusta datazione del pensiero, N. Coviello, Ignoranza o errore di diritto, in Antologia giur., 1904, pag.  10.
[11] Cfr. Bocchini – Quadri, Dritto Privato, Giappichelli Editore, Torino, 2011, pag. 685. Esempio, questo, contestato dal Bianca, Diritto civile, cit., pag. 676, il quale ritiene che il vincolo di inedificabilità vada a concernere una qualità essenziale del bene. Ciò andrebbe a concretizzare una fattispecie di inadempimento, per la quale diversi rimedi (risoluzione, recesso, etc.) sono posti dalla legge a tutela della parte. Di contrario avviso è invece la giurisprudenza, che ritiene al contrario che i piani regolatori sarebbero norme obiettive di legge, per le quali sussisterebbe l’onere di conoscibilità da parte di tutti i contraenti.
[12] Cfr. Bianca, Diritto civile, cit., pag. 658: la violenza rappresenta la minaccia che costringe la persona a stipulare un contratto non voluto od a subirne un determinato contenuto.
[13] Cfr. Cod. Civ. Espl., cit., art. 1438.
[14] Cfr. Trabucchi, ult. Cit., pag. 949.
[15] Cfr. Bianca, Diritto civile, cit. pag. 661.
[16] La Suprema Corte ha evidenziato, nella sentenza 27 marzo 1979, n. 1779, che la minaccia di far valere un diritto, si sostanzia proprio nel risultato abnorme, sproporzionato ed iniquo che la parte otterrebbe attraverso l’esercizio di un suo apparentemente legittimo diritto.
[17] Come sappiamo dalla manualistica, il dolo (Bianca, Diritto Civile, cit., pag. 663) è rappresentato da qualunque tipologia di raggiro idonea ad alterare la volontà contrattuale della parte.
[18] Cfr. Ulpiano, D.4.3.1.3, che distingue tra dolus bonus e dolus malus.
[19] Cassazione, 1° aprile 1996, n. 3001, in Nuovagciv., 1997, I, 377, nota di Scarso.