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Pubbl. Mar, 10 Gen 2017

La disciplina del piccolo imprenditore nell'ordinamento italiano

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Mattia De Lillo


Analisi dei tratti principale della figura del piccolo imprenditore quale categoria fondamentale dell´assetto dell´impresa italiana.


Il principio cardinale per discriminare la disciplina degli imprenditori è quello dimensionale: in base a questo, infatti, avviene la fondamentale distinzione tra la piccola impresa e quella medio-grande.

La categoria del piccolo imprenditore ha carattere sostanzialmente residuale in quanto tale figura viene esonerata da diversi tratti endemici dell’imprenditore di dimensioni maggiori: il piccolo imprenditore non è vincolato alla tenuta di scritture contabili, non può fallire o essere soggetto alle altre procedure concorsuali , anche se è comunque sottoposto allo statuto generale dell’imprenditore.

La figura finora descritta si è in passato rivelata abbastanza problematica. Perché? Innanzitutto per l’assenza di una univoca definizione.

In primo luogo, infatti, salta all’occhio, nel quadro normativo, l’art. 2083 del Codice Civile che recita: “Sono piccoli imprenditori i coltivatori diretti del fondo, gli artigiani, i piccoli commercianti e coloro che esercitano un’attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia”.
Da queste parole è possibile ricavare il famoso criterio della prevalenza del lavoro personale e familiare rispetto a quello di terzi derivante senza dubbio dal periodo di emanazione del Codice del ’42.
In secondo luogo, tuttavia, un’altra definizione veniva data dalla prima versione della legge fallimentare (poi rivista con il d.lgs. 5/2006 e successivamente con il d.lgs. 169/2007) all’art. 1 co. 2: “Sono considerati piccoli imprenditori, gli imprenditori esercenti un’attività commerciale, i quali sono stati riconosciuti, in sede di accertamento ai fini dell’imposta di ricchezza mobile, titolari di un reddito inferiore al minimo imponibile. Quando è mancato l’accertamento ai fini dell’imposta di ricchezza mobile, sono considerati piccoli imprenditori, gli imprenditori esercenti un’attività commerciale nella cui azienda risulta essere investito un capitale non superiore a lire novecentomila.
I criteri di tipo finanziario quindi, risultavano univoci in quest’ultima definizione, ma la dottrina si adoperò per armonizzare queste nozioni: il reddito inferiore al minimo imponibile fu, nel 1974, soppresso (e sostituito dall’IRPEF), abrogando implicitamente quindi il primo criterio della Legge Fallimentare; il secondo, invece, fu dichiarato incostituzionale nel 1989 a causa della svalutazione monetaria dell’epoca.

Il legislatore del 2006 e del 2007, intervenendo come detto sulla Legge Fallimentare, creò un sistema che si poggiava su criteri quantitativi e monetari dettando, nel testo di legge, non più una definizione di piccolo imprenditore, bensì, meri parametri dimensionali al di sotto dei quali l’imprenditore non è soggetto a fallimento.

Per quanto concerne questa categoria due sono i tipi di imprese di particolare interesse: l’impresa artigiana e l’impresa familiare.

L’impresa artigiana si caratterizza per la natura artistica o usuale dei servizi o dei beni forniti; passa quindi in secondo piano il principio della prevalenza che risaltava per le imprese generali dei piccoli imprenditori.
Nella legge quadro per l’artigianato (l. n. 443/1985), la definizione di tale impresa ha un duplice fondamento: l’oggetto dell’impresa e il ruolo prevalente dell’artigiano stesso all’interno dell’impresa andando così a conciliare la visione più generale presente nel Codice Civile, con quella più particolare che si riferisce alla natura dei beni e servizi.

L’impresa familiare (regolata dall’art. 230 bis del Cod. Civ.) è quella dove i familiari collaborano all’attività economica. Per familiari si intende il coniuge, i parenti fino al terzo grado e gli affini fino al secondo grado.
Questo tipo di impresa, tuttavia, non deve essere confusa con la più generale piccola impresa.
Può senz’altro succedere che un’impresa familiare rientri anche nella categoria di piccola impresa ma non per questo lo fanno tutte; è inoltre possibile che una impresa non piccola si possa definire come familiare.
Problema spesso peculiare dell’impresa familiare era il costante abuso del lavoro dei parenti, abuso che ha portato il legislatore a ricorrere ad una tutela minima per questo tipo di lavoratori.
Tale tutela è riconosciuta a tutti i familiari che lavorino in modo continuo nell’impresa e si articola nella riaffermazione di diritti patrimoniali (mantenimento, partecipazione agli utili, diritto di prelazione sull’azienda, etc.) e diritti amministrativi (decisioni adottate a maggioranza dei familiari lavoratori).

L’impresa familiare, tuttavia, resta un’impresa individuale, infatti, i beni dell’azienda restano di proprietà esclusiva dell’imprenditore e la gestione ordinaria rientra nella competenza esclusiva di quest’ultimo.
Inoltre l’imprenditore e datore di lavoro, nel caso di impresa commerciale non piccola, sarà l’unico soggetto esposto al fallimento.