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Pubbl. Sab, 26 Nov 2016

Allah è grande! tra ragion di Stato e religione: sbattere contro gli steccati normativi del terrorismo

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Fabio Giuseppe Squillaci


Riflessioni a margine della sentenza della Cassazione n. 48001/2016 con la quale viene legittimata l´attività di proselitismo islamico.


Il codice Rocco contiene, all’art. 8, co. 3, un’espressa definizione normativa di delitto politico, secondo cui «agli effetti della legge penale, è delitto politico ogni delitto, che offende un interesse politico dello Stato, ovvero un diritto politico del cittadino. È altresì considerato delitto politico il delitto comune determinato, in tutto o in parte, da motivi politici». La norma ha rappresentato una significativa novità rispetto alla precedente tradizione legislativa italiana discostandosi dall’idea romantica del delinquente politico quale eroe nello stato oscurantista illiberale. La norma di cui all’art. 8, co. 3, c.p. svolge, allora, nell’ambito del sistema attualmente vigente, tre funzioni: una relativa all’applicabilità della legge penale italiana ai delitti politici commessi all’estero, una di tipo categoriale-classificatorio ed un’ultima, controversa, in materia di estradizione. Le iniziative legislative volte alla repressione del terrorismo abbracciano una serie di interventi dal respiro non solo nazionale, realizzati in un arco temporale piuttosto ampio. A meno di non ricadere in una logica politico-criminale che finisca per ricondurre il delitto politico all’archetipo del crimen laesae majestatis, deve ammettersi che tra il comune delitto politico, e i delitti, commessi con metodo terroristico intercorre una differenza sostanziale, ravvisabile nel contenuto d’offesa ad essi, rispettivamente, riferibile.

Nell'affrontare i temi in diritto posti dalla sentenza della Cassazione n. 48001/2016 vanno fatte alcune premesse relative alla normativa italo-comunitaria in materia di terrorismo. Il rilievo di dette fonti, fermi restando i limiti correlati al principio di sovranità e alla necessaria osservanza dei principi costituzionali interni, non è certo secondario nel settore qui considerato e ciò proprio in rapporto alla natura del fenomeno e alla necessaria omogeneità delle norme repressive nei diversi paesi coinvolti, con rischio di vanificazione degli scopi di tutela dei beni giuridici protetti (essenzialmente il diritto alla vita e alla incolumità dei singoli cittadini) in ipotesi di diversità della singola legislazione interna. In tal senso - e ferma restando la scontata, doverosa osservanza dei principi di tassatività e determinatezza della norma incriminatrice interna - va in effetti ricordato come la Convenzione di Varsavia del 2005 promuova (all'art. 11) la effettiva penalizzazione di numerose condotte definibili - in senso lato - come preparatorie (rispetto al compimento del singolo atto terroristico) e dunque di istigazione in forma pubblica, di addestramento (training) e di «reclutamento» (recruitment), qualificate dalla particolare finalità di terrorismo.

Il legislatore italiano, spronato dall'onda emotiva e dalle preoccupazioni di ordine pubblico provocate dalle drammatiche vicende dell'11 settembre, ha varato in via d'urgenza il decreto legge n. 374/2001 con l'intento, da un lato, di colmare la lacuna normativa preesistente e dall'altro, di approntare metodi di indagine e di repressione più pervasivi. Il decreto legge, in questione, colma un vulnus sanzionatorio venutosi a creare nell'impossibilità di adattare fattispecie incriminatrici, già presenti nel nostro ordinamento (in particolar modo l'art. 270 bis c.p.), alla nuova di un terrorismo transnazionale. Si è inteso seguire un’impostazione fortemente repressiva, anticipando notevolmente la soglia di punibilità e ritenendo che la mera integrazione della condotta tipica, per il solo fatto di esporre al pericolo beni supremi quali le istituzioni e l’ordine democratico, è punibile indipendentemente dal realizzarsi di un’effettiva lesione. L’esigenza di fronteggiare tempestivamente l’emergenza terroristica internazionale ha in definitiva indotto il Legislatore ad operare scelte che paiono “sacrificare” la libertà individuale sull’ “altare” della sicurezza collettiva. Segnatamente, ai nostri fini, il pacchetto Pisanu (L.155/2005), oltre che per una serie di misure di prevenzione e di semplificazione procedurale, ha il merito di aver introdotto nuove fattispecie di reato: 1) arruolamento con finalità di terrorismo, anche internazionale; 2) addestramento ad attività con finalità di terrorismo anche internazionale (art. 270 quinquies del Codice Penale); 3) condotte con finalità di terrorismo[1] (art. 270 sexies del Codice Penale). Il sistema di tutela in esame, pur senza includere l'analisi delle ulteriori modifiche apportate di recente (il D.L. del 2015, per quanto di interesse, introduce la punibilità del soggetto arruolato, con doppia clausola di riserva espressa sia in rapporto alla fattispecie di cui all'art. 270 bis che a quella del 270 quinquies e pena inferiore nel massimo a quella relativa al partecipe dell'associazione o all'addestrato, nonché incrimina - art. 270 quater 1 - in via autonoma l'organizzazione di trasferimenti per finalità di terrorismo realizzata anche tramite propaganda, oltre a punire l'autoaddestramento caratterizzato da univoca finalizzazione al compimento di atti di terrorismo..) appare dunque decisamente orientato a realizzare una tipizzazione di figure delittuose autonome rispetto alla prova della partecipazione.

I fatti.

Con la sentenza impugnata, in parziale riforma della sentenza del Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Bari del 24/09/2014, veniva confermata l'affermazione di responsabilità di Hachemi Ben Hassen Hosni, Mohsen Hammami, Nour Ifaoui e Harndi Chamari per il reato di cui all'art. 270 bis cod. pen., commesso dall'Hosni dirigendo ed organizzando e dagli altri partecipando ad un'associazione di matrice islamica, operante dal 2008 in Andria e altrove, e finalizzata al compimento di atti di terrorismo in Italia e all'estero. Gli imputati ricorrenti deducevano la violazione di legge ed il vizio motivazionale sull'affermazione di responsabilità per il reato di cui all'art. 270 bis cod. pen.. Il ricorrente Chamari in particolare lamentava che, escludendo la rilevanza delle circostanze per le quali le intercettazioni risalivano a cinque anni prima dell'arresto, da quella data non risultavano ulteriori contatti fra gli imputati; il Chamari conosceva solo un tale Ali che lo tempestava di telefonate deliranti ed, essendo cittadino italiano, riferiva di essersi recato più volte nel Paese di origine nei menzionati cinque anni senza commettere alcun fatto illecito.

I reati previsti dall'art. 270 bis cod. pen., lo si rammenta, si configurano nelle condotte di promozione, costituzione, organizzazione, direzione, finanziamento o partecipazione ad associazioni che si propongono il compimento di atti di violenza con finalità di terrorismo o di eversione dell'ordine democratico; finalità di terrorismo, in particolare e per quanto qui specificamente interessa, che il terzo comma dell'articolo identifica anche nelle condotte dirette contro Stati esteri ovvero istituzioni o organismi internazionali. Tenuto conto di questa disposizione estensiva, i criteri dettati dal successivo art. 270 sexies per la riconducibilità di una condotta alla finalità terroristica sono riferiti anche a Stari esteri o organizzazioni internazionali. Criteri indicati nella potenzialità della condotta, per la natura o il contesto della stessa, ad arrecare grave danno ad uno Stato o ad un'organizzazione internazionale; nella riconducibilità della condotta a taluno degli scopi indicati dalla norma in termini di intimidazione della popolazione di quello Stato, di costrizione dei poteri pubblici dello stesso o dell'organizzazione a compiere o ad astenersi dal compiere determinati atti e di distruzione o destabilizzazione delle strutture costituzionali, politiche, economiche e sociali dello Stato o dell'organizzazione; e, in alternativa alle condizioni appena indicate, nell'espressa definizione della condotta come terroristica in convenzioni o altre norme di diritto internazionali vincolanti per lo Stato italiano. I dati descritti connotano indubbiamente i delitti in esame come reati di pericolo presunto. La giurisprudenza ha avuto modo di precisare che la ravvisabilità della condotta associativa, se non richiede la predisposizione di un programma di azioni terroristiche, necessita tuttavia della costituzione di una struttura organizzativa con un livello di effettività che renda possibile la realizzazione del progetto criminoso[2]. E' determinante in tal senso il fatto che, nella previsione normativa, la rilevanza penale dell'associazione sia legata non alla generica tensione della stessa verso la finalità terroristica o eversiva, ma al proporsi il sodalizio la realizzazione di atti violenti qualificati da detta finalità. Costituiscono pertanto elementi necessari, per l'esistenza del reato, in primo luogo l'individuazione di atti terroristici posti come obiettivo dell'associazione, quanto meno nella loro tipologia; e, in secondo luogo, la capacità della struttura associativa di dare agli atti stessi effettiva realizzazione.

Tanto premesso, dalla lettura della sentenza impugnata risulta che la Corte territoriale traeva, dall'esame delle conversazioni intercettate, la conclusione del coinvolgimento degli imputati in un comune programma criminoso, avente ad oggetto l'avviamento di correligionari islamici verso una radicalizzazione tendente a renderli dei combattenti disponibili al martirio, inteso come esaltazione e ricerca della morte insieme al maggior numero possibile di infedeli. Del contenuto di tali conversazioni, si evidenziavano in particolare i riferimenti ad un «gruppo»; la destinazione all'indottrinamento, nei termini appena descritti, di luoghi nella disponibilità dell'imputato Hosni, segnatamente la moschea di Andria ove il predetto svolgeva la propria predicazione ed il call center dello stesso gestito; l'utilizzazione dei computers installati in quest'ultimo esercizio commerciale, allorché nello stesso si trovavano i componenti del gruppo, per la connessione con siti riconducibili all'area jihadista e lo scaricamento dagli stessi di filmati su attentati e scene di guerra e documenti illustrativi della preparazione di armi ed esplosivi e delle modalità per raggiungere luoghi di combattimento e trasmettere in rete messaggi criptati; la disponibilità di documenti falsi destinati a consentire la permanenza illegale di immigrati clandestini in Italia; la manifestazione di odio verso la popolazione ebraica, l'ambiente di vita in Italia e l'attività ivi svolta dagli immigrati di fede islamica.

Sul punto, va premesso come le intercettazioni telefoniche ed ambientali intervengano direttamente in un ambito coperto, sotto diversi aspetti, da tutela costituzionale, là dove interferiscono sia con il diritto inviolabile alla libertà ed alla segretezza della corrispondenza e di "ogni forma di comunicazione" sancito all'art. 15 della Carta Fondamentale, coperto dalla doppia riserva di legge e di giurisdizione; sia con il cosiddetto diritto alla riservatezza, cui viene generalmente riconosciuta copertura costituzionale ora dagli artt. 13, 14 e 15 Cost., come combinati - di volta in volta - alle altre norme costituzionali, a presidio degli specifici interessi toccati dai dati e dalle informazioni riservate, ora dall'art. 2 Cost. - come completato dall'art. 8, della Convenzione europea dei diritti dell'uomo -, che assicura protezione ai diritti della personalità che si esprimono nella vita privata e familiare. Lo strumento d'indagine presuppone, dunque, per un verso, che sussista un quadro di elementi sufficientemente solido da tratteggiare già una notizia di reato, il che mira ad evitare che tale mezzo sia utilizzato "a strascico" per far emergere vicende delittuose ancora non denunciate né disvelate dalle indagini. Per altro verso, che l'intrusione nella privacy dell'individuo sia indispensabile ai fini della raccolta degli elementi utili per l'accertamento dei fatti e non possa essere sostituita da altro mezzo di ricerca della prova. L'evidente intento del legislatore è, quindi, quello di imporre un preventivo accertamento di serietà delle esigenze investigative che legittimano l'intrusione dell'autorità giudiziaria nella sfera dei diritti inviolabili e delle libertà di comunicazione dei cittadini[3]. Tali rigorosi presupposti normativi trovano un temperamento nei casi in cui si proceda per delitti di criminalità organizzata e di terrorismo (a norma dell'art. 13 d.l. 13 maggio 1991, n. 152, convertito con legge 12 luglio 1991, n. 203, richiamato dal d.legge 18 ottobre 2001, n.374, convertito con modifiche con legge 15 dicembre 2001, n. 438), nei quali l'intercettazione può essere autorizzata quando sussistano "sufficienti indizi" di reato (anzichè "gravi indizi") ed il mezzo di ricerca della prova sia "necessario" (e non "assolutamente indispensabile") per lo svolgimento delle indagini.

Nel caso in esame tra i soggetti intercettati come protagonista maggiormente attivo delle conversazioni si segnalava un personaggio non identificato, indicato solo come Ali, il quale si distingueva per il tenore particolarmente cruento delle proprie espressioni, non sempre immediatamente comprese dagli altri soggetti dialoganti. La Corte territoriale, per il vero, si faceva carico di tale critica, osservando che, a prescindere dal ruolo svolto nella vicenda dal tale Ali, i contenuti centrali del programma criminoso, ovvero l'esaltazione del martirio per la causa islamica e l'aspirazione a raggiungere i luoghi di combattimento per conseguire tale obiettivo, emergevano negli interventi di tutti gli imputati. La fonte della prova della sussistenza del vincolo associativo ne veniva tuttavia traslata dalla diretta rappresentazione, nelle intercettazioni, di comportamenti materiali in tal senso concludenti, alla impervia metodologia indiziaria della desunzione di tale vincolo dall'esistenza di una visione ideale comune agli imputati e dalla frequentazione, da parte degli stessi, di luoghi nei quali avveniva la consultazione del materiale informativo sopra specificato. Ma, a voler ritenere che tale problematicità non integri un vizio di illogicità motivazionale, la qualificazione criminosa della ritenuta associazione veniva fatta dipendere unicamente da un progetto di avviamento dei soggetti coinvolti alla ricerca del combattimento e del martirio per la causa islamica.

Orbene, se tali erano le connotazioni del programma criminoso individuato dalla Corte territoriale, la Cassazione ha giustamente osservato come le stesse non corrispondono ai requisiti indispensabili per la configurabilità di una struttura associativa riconducibile alla fattispecie di cui all'art. 270 bis cod. pen.. L'attività di indottrinamento, finalizzata ad indurre nei destinatari una generica disponibilità ad unirsi ai combattenti per la causa islamica e ad immolarsi per la stessa, non dà in primo luogo la necessaria consistenza a quegli atti di violenza terroristica o eversiva il cui compimento, per quanto detto, deve costituire specifico oggetto dell'associazione in esame. Alla vocazione al martirio è stata invero attribuita significatività ai fini della ravvisabilità del reato, ciò, tuttavia, ai limitati fini della valutazione sulla sussistenza di gravi indizi per l'adozione di misure cautelari nei confronti del singolo partecipante ad una cellula terroristica, della quale sia stata aliunde riconosciuta l'effettiva operatività e, comunque, laddove alle attività di indottrinamento e reclutamento sia affiancata quella di addestramento al martirio di adepti da inviare nei luoghi di combattimento, che attribuisca all'esaltazione della morte, in nome della guerra santa contro gli infedeli, caratteristiche di materialità che realizzino la condizione per la quale possa dirsi che l'associazione, secondo il dettato normativo già ricordato, «si propone il compimento di atti di violenza con finalità di terrorismo»[4]. In secondo luogo, continuano i Giudici, non emerge dalle conversazioni, né è peraltro evidenziato alcun elemento indicativo della effettiva capacità del gruppo di realizzare atti anche astrattamente definibili come terroristici secondo la previsione dell'art. 270 sexies cod. pen., atti, cioè, che creino la concreta possibilità di un grave danno per uno Stato, nei termini di un reale impatto intimidatorio sulla popolazione dello stesso, tale da ripercuotersi sulle condizioni di vita e sulla sicurezza dell'intera collettività, ovvero di un determinante esito costrittivo o destabilizzante nei confronti dei pubblici poteri[5]. Gli stessi elementi considerati dai giudici di merito, e rifiutati dalla S.C. danno, infatti, conto della limitazione dell'operatività del gruppo, del quale gli imputati erano ritenuti componenti, ad un'attività di proselitismo e indottrinamento, finalizzata ad inculcare una visione positiva del combattimento per l'affermazione dell'islamismo e della morte per tale causa. Attività che può costituire senza dubbio una precondizione, quale base ideologica, per la costituzione di un'associazione effettivamente funzionale al compimento di atti terroristici, ma che non integra gli estremi perché tale risultato possa dirsi conseguito. Il decorso del tempo dall'epoca delle intercettazioni, risalenti al 2009, senza che risultasse il compimento di alcun atto terroristico attribuibile all'associazione, anche nella forma minima, ed il dato della partenza di taluno degli adepti per le zone interessate da combattimenti riferibili alla guerra santa di matrice islamica sono pertanto elementi insufficienti per integrare il reato in contestazione. Dura lex sed lex, la tutela della ragion di Stato imbrigliata nelle pieghe “mobili” di una disposizione. La pronuncia si pone in aperto contrasto ad un processo di de-istituzionalizzazione dell’associazione, da concepirsi in principio e garantisticamente come centro di contro-potere rispetto al potere legale: tale de-istituzionalizzazione inficia le garanzie liberali, rivelandosi idonea a colpire singole condotte di per sé inoffensive e, però, testimoni di un’appartenenza ideale non ammessa. Si pone così lungo una linea di continuità l’ultima evoluzione della nostra disciplina, in risposta all’emergente fenomeno del foreign fighter, del cd. “lone wolf”, letteralmente “lupo solitario”. Secondo taluni infatti i giudici della Suprema Corte hanno sacrificato la punibilità degli imputati sull’ara della libertà individuale ripudiando il mito del diritto penale del nemico. Il diritto penale del nemico, per il giurista tedesco Gunter Jacobs, che per primo elaborò il concetto, è l’uso del diritto penale in funzione di lotta contro l’autore, anziché di accertamento di singoli fatti. Il mafioso, il terrorista, l’eversore del sistema democratico, ma anche il criminale di guerra sono gli archetipi più elementari di questo settore di intervento. Il diritto penale, rispetto a questi soggetti, si atteggia come un diritto penale non della colpevolezza, né della punizione, ma della pericolosità, della prevenzione e dello stigma.

La giurisprudenza della Corte di Strasburgo in tema di libertà di pensiero, di coscienza e di religione è stata riassunta in modo direi abbastanza corretto e chiaro nella sentenza della quarta Sezione nel caso Eweida and Others v. the United Kingdom. Secondo questa giurisprudenza, il diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione denota opinioni che devono raggiungere un certo livello di cogenza, di serietà, di coesione e di importanza. Raggiunto questo livello, lo Stato ha il dovere di essere neutrale e imparziale, nel senso che deve astenersi dal giudicare la legittimità di tale credo o dal pronunziarsi sul modo nel quale quel credo venga manifestato dai suoi aderenti. Ciò nonostante, non è detto che ogni atto che in qualche modo venga ispirato, motivato o influenzato dal medesimo credo costituisca necessariamente una manifestazione dello stesso. Analogamente l’art. 19 della Costituzione Repubblicana tutela la dimensione individuale della libertà di religione, prevedendo che tutti abbiano «diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume». Così declinata la libertà religiosa si compone di diritti che si riferiscono principalmente alla sua dimensione esterna, ed in particolare con il riferimento al buon costume si intende vietare non il credo in sé ma le manifestazioni rituali che presentino tale contrasto. Gli interventi normativi, allora, devono essere esternamente limitati dai principi comunitari, ed internamente deve essere garantita coerenza sistematica, profili come tali in grado di scongiurare soluzioni parziarie figlie dell’emotività. La parte speciale del diritto penale si caratterizza nel nostro tempo per le vistose deviazioni dai principi, o, peggio, per la tendenza a generalizzare singole scelte legislative per fondare nuovi modelli di diritto penale, spesso illiberali. Emblematiche, nel passato, le scelte del legislatore nazista che dettero vita ad un compiuto modello di diritto penale d’autore. Non meno emblematiche, appaiono dunque, le scelte legislative in materia di terrorismo. Fatte queste precisazioni, però, il cuore del problema rimane pur sempre quello relativo alle forme di interpretazione conforme ed il divieto di analogia. Forse il diritto sovranazionale può rendere più ardua la razionalizzazione delle risposte, ma nella sostanza non muta la problematica, almeno per il penalista. La possibilità di interpretazioni che superino la cornice normativa è da tutti negata, essendo ammessa dalla dottrina maggioritaria e dalla giurisprudenza europea soltanto l’interpretazione estensiva conforme. In concreto, gli esiti dei processi ermeneutici risultano (o possono risultare) però contrastanti. L’attività ermeneutica è di per sé analogica in quanto il giudice mantiene una sua discrezionalità creativa, derivante dalla metodologia di sussunzione del concreto nella fattispecie astratta. Nel momento in cui si dissocia la disposizione dalla norma sarà possibile disporre di interpretazioni con estensioni diverse, a parità di situazioni concrete dando luogo ad una diseguaglianza strisciante. Il criterio distintivo fra interpretazione ed analogia può allora essere ricostituito dal testo normativo interpretato in chiave sistematica. L’interpretazione sistematica segnerebbe il confine oltre il quale non è consentito andare. Nel tentare di farlo da tempo la dottrina ha segnalato la bontà di una interpretazione per principi nel tentativo di valorizzare la chiave costituzionale delle fattispecie penali in un’ottica assiologico-personalistica.

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Note e riferimenti bibliografici

[1] Quelle che, per la loro natura o contesto, possono arrecare grave danno ad un Paese o ad un'organizzazione internazionale e sono compiute allo scopo di intimidire la popolazione o costringere i poteri pubblici o un'organizzazione internazionale a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto, o destabilizzare o distruggere le strutture politiche fondamentali, costituzionali, economiche e sociali di un Paese o di un'organizzazione internazionale.
[2] Ex multiis Cass. Sez. 5, n. 2651 del 08/10/2015, dep. 2016, Nasr Osama, Rv. 265924; Cass.Sez. 6, n. 46308 del 12/07/2012, Chabchoub, Rv. 253943. Nonostante i numerosi tentativi definitori, è possibile comunque individuare alcuni elementi cardine nella nozione di terrorismo. Partendo da una definizione di stampo sociologico non si può non rilevare immediatamente il profondo legame intercorrente con l'aspetto lessicale del termine: il terrore è certamente il fondamento non solo etimologico, ma anche sostanziale, del fenomeno. La finalità principale dei gruppi terroristici è, infatti, quella di porre in essere azioni violente tali da generare uno stato di panico, di timore collettivo, creando al tempo stesso una notevole sfiducia nelle capacità degli organi istituzionali di garantire l'incolumità pubblica. Le definizioni di stampo prettamente penalistico, concordano nell'individuare due elementi costanti: l'uno oggettivo e l'altro soggettivo. Per quanto concerne l'aspetto oggettivo, la dottrina osserva che l'atto terroristico ha alcuni tratti peculiari per lo più riconducibili "alla qualità della persona offesa, rappresentante in qualche modo le istituzioni; alla potenzialità dell'offesa capace di rivolgersi a persone indeterminate e, quindi, di ingenerare timore nella collettività; all'estraneità delle vittime ai rapporti interpersonali del terrorista, in quanto le vittime sono scelte non per i loro individuali rapporti interpersonali con l'agente, ma per i loro rapporti con le istituzioni o per il solo fatto di essere membri della società"( C.F.PALAZZO, La recente legislazione penale, II ed., Padova, 1982; Cfr. altresì fra i molti RONCO voce Terrorismo, in Nov. Dig. It., Torino, 1987, p. 754 ss.). Dal punto di vista soggettivo, l'atto terroristico si caratterizza per la finalità ideologica che lo sorregge e per la finalità politica in vista del quale è compiuto, secondo combinazioni variabili che possono non inserirsi in alcuna strategia politica, ma mai prive del movente ideologico che promuove la condotta.
[3] Si vedano Sez. U, n. 45189 del 17/11/2004.
[4] Si veda Cass.Sez.2, n. 669 del 21/12/2004, dep. 2005, Ragoubi, Rv. 230431, Cass.Sez.6, n. 46308 del 12/07/2012, Chabchoub, Rv. 253944.
[5] Si veda Cass.Sez. 1, n. 47479 del 16/07/2015, Alberti, Rv. 265405); Cass.Sez. 6, n. 28009 del 15/05/2014, Alberto, Rv. 260076.