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Pubbl. Dom, 12 Giu 2016

Il procedimento di esclusione del socio nelle società di persone

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Pasqualina Mandia


L´art. 2287 c.c. : l´esclusione del socio deliberata a maggioranza e la controversa possibilità di applicare alle società di persone il metodo assembleare


Nella disciplina delle società di persone, la Sezione V del Capo II del codice civile è dedicata allo scioglimento del rapporto sociale limitatamente ad un socio.

Il principio ispiratore che domina tutte le vicende in questione, ovvero la cessazione del rapporto sociale per morte, recesso o esclusione, è dato dalla conservazione dell’ente societario. Esse comportano l’esigenza di definire i rapporti patrimoniali  tra i soci superstiti e il socio uscente o gli eredi del socio defunto, attraverso la liquidazione della quota sociale.

Il principio di conservazione della società si impone anche nel caso in cui resti un solo socio, come si può notare dal disposto di cui all’art. 2272, comma 4, c.c., in virtù del quale il venir meno della pluralità dei soci opera come causa di scioglimento della società solo se la pluralità non è ricostituita nel termine di sei mesi.

La logica della conservazione della società e dei valori produttivi costituiti dalla stessa pervade l’intera materia che qui si analizza[1].

L’ipotesi dell’esclusione del socio di società di persone è disciplinata dagli artt. 2286 e ss c.c..  

Le cause di esclusione possono suddividersi in due categorie: cause di esclusione di diritto e cause di esclusione facoltative.

Nel primo caso, come previsto dall’art. 2288 c.c.,  è escluso di diritto :

  1. Il socio che sia dichiarato fallito, salvo  che non si tratti di fallimento conseguente al fallimento della società.
  2. Il socio il cui creditore particolare abbia ottenuto la liquidazione della quota, nei casi consentiti dalla legge.

Nel secondo caso, è l’art. 2286 c.c. a disciplinare le cause che legittimano la società a deliberare l’esclusione del socio. Esse devono essere previste dal contratto sociale, ragion per cui qualora ciò non avvenga il verificarsi di una di esse non comporta l’esclusione automatica.

Le cause di esclusione facoltativa possono suddividersi in tre categorie:

  1. Gravi inadempienze degli obblighi che derivano dalla legge o dal contratto sociale. Tra queste può ricomprendersi il comportamento ostruzionistico del socio che, ad esempio, si opponga sistematicamente ad ogni operazione sociale, paralizzando l’attività della società e tenendo un comportamento che viola il generale principio di buona fede. La gravità delle inadempienze legittimanti l’esclusione del socio ricorre non solo quando le stesse siano di consistenza tale da impedire il perseguimento dell’oggetto sociale, bensì anche quando le stesse abbiano inciso negativamente sulla situazione dell’ente, rendendo disagevole il raggiungimento dei fini sociali[2].
  2. interdizione, l’inabilitazione del socio o la sua condanna ad una pena che comporti l’interdizione anche temporanea dai pubblici uffici.
  3. sopravvenuta impossibilità di esecuzione del conferimento per causa non imputabile agli amministratori.  In questa ipotesi rientrano il perimento della cosa che il socio era obbligato a conferire in proprietà, prima che la proprietà stessa venisse acquistata dalla società, oppure il perimento della cosa conferita in godimento per causa non imputabile agli amministratori.

In ordine al procedimento di esclusione, occorre fare riferimento all’art. 2287 c.c.

Si tratta di una formula di risoluzione parziale del contratto, una reazione dell’ente alle inadempienze di cui sopra.

La caratteristica principale di tale procedimento si rinviene nel ribaltamento della regola decisionale comune per le società di persone, ovvero l’unanimità di cui all’art. 2252 c.c. Nel caso di specie, infatti, l’esclusione è deliberata a maggioranza dei soci calcolata per teste, non computandosi nel numero dei soci quello da escludere.

La questione più dibattuta che emerge da tale disciplina concerne la possibilità di adottare tale decisione nel rispetto del metodo assembleare, tipico di altre forme societarie caratterizzate da un’organizzazione di tipo corporativo, a fronte di quella di tipo personalistico.

La dottrina ha ampiamente discusso in ordine all’essenzialità del metodo assembleare nelle società di persone, per comprendere la natura giuridica e gli effetti di questa decisione di esclusione. La norma parla espressamente di deliberazione , ma è opportuno precisare le differenze sostanziali circa il procedimento decisionale previsto nella società di persone, rispetto a quello caratterizzante le società di capitali. Nella disciplina legale delle società di persone manca la previsione dell’organo e del metodo assembleare,  ragion per cui nel procedimento de quo non è necessario  che siano consultati tutti i soci, né che questi manifestino la propria volontà attraverso una delibera unitaria; al contrario, è sufficiente raccogliere tutte le volontà idonee a formare la richiesta maggioranza e comunicare la decisione di esclusione al socio escluso, in modo che questi sia posto nella condizione di esercitare la facoltà di opposizione dinanzi al Tribunale[3].

La norma suddetta afferma , infatti, che la deliberazione di esclusione ha effetto decorsi trenta giorni dalla data della comunicazione al socio escluso. Entro questo termine, il socio escluso può fare opposizione davanti al tribunale, il quale può sospendere l’esecuzione.

Il Tribunale potrebbe anche sospendere l’esecuzione della delibera; qualora il socio non ottenga tale sospensiva, il socio cessa di far parte della società, ma in caso di accoglimento della domanda, egli è reintegrato nella società con effetto retroattivo, partecipando dunque ai risultati raggiunti medio tempore dalla società. [4]

Nel caso in cui la società sia composta da due soli soci, non si applica il procedimento di esclusione suddetto ma, come previsto all’ultimo comma dell’art. 2287 c.c., l’esclusione di uno di essi è pronunciata dal tribunale  su domanda dell’altro.

Il procedimento di esclusione del socio non implica, quindi, la necessità di adottare un vero e proprio metodo collegiale, in quanto è la somma delle volontà determinanti l’esclusione del socio a conferire unità all’atto e a renderlo riferibile alla società. Tale posizione, confermata soprattutto dalla giurisprudenza, è stata contrastata da una parte della dottrina tendente a favorire il metodo collegiale. Ciò in quanto qualsiasi collettività organizzata dovrebbe garantire un giusto procedimento che offra agli appartenenti alla stessa una garanzia di tutela della propria posizione, quale appunto il metodo assembleare, come forma ideale. Tale conclusione non sarebbe in contrasto, a detta di tale dottrina, con le esigenze di celerità e snellezza che caratterizzano le società di persone, in quanto non vi sarebbe ragione per non ritenere applicabili quelle regole che sono espressamente destinate a garantire la partecipazione alla decisione e al perseguimento dell’interesse sociale di tutti gli aventi diritto.[5]

Nonostante i contrasti dottrinali, la giurisprudenza è rimasta ferma nella propria posizione, per cui la formazione della volontà nelle società di persone, anche nelle ipotesi particolari come quella in esame, è determinata dalla semplice raccolta, anche separata, di un numero di consensi idonei a determinare la maggioranza richiesta dalla legge.

 

[1] Campobasso, Diritto Commerciale, Diritto delle Società, 2012

[2]  Tribunale di Roma, 8 febbraio 2013

[3]  Cass. Civ. pronuncia del 10 gennaio 1998, n.153

[4] Cass. Civ. pronuncia del 22 dicembre 2000, n. 16150

[5] SALVATI, L’ammissibilità del metodo assembleare nelle società di persone, in Diritto Fallimentare, 2005