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Pubbl. Ven, 27 Mag 2016

Tutela della privacy tra coniugi separati: configurabilità del reato di cui all'art. 616 c.p.

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Gemma Occhipinti


La Suprema Corte ha di recente depositato le motivazioni di una pronuncia attinente all’applicazione del reato di “Violazione, sottrazione e soppressione di corrispondenza”, di cui all’art. 616 c.p., nei rapporti tra coniugi che abbiano avviato un procedimento di separazione e, pertanto, non siano più conviventi.


Commento a Cass. Pen., V Sez., 11 febbraio 2016, [dep.3 maggio 2016], n. 18462.

Nel corso del processo in primo grado la resistente aveva lamentato l'indebita apertura della posta, da parte del marito, che aveva letto una missiva a lei indirizzata e che era stata recapitata presso l’indirizzo della casa coniugale nella quale la stessa non abitava più. Sia i giudici di primo, che quelli di secondo grado, avevano ascritto la fattispecie in esame al reato di cui all’art. 616 c.p.

Al primo comma la norma de qua prevede appunto che: “Chiunque prende cognizione del contenuto di una corrispondenza chiusa, a lui non diretta, ovvero sottrae o distrae, al fine di prenderne o di farne da altri prender cognizione, una corrispondenza chiusa o aperta, a lui non diretta, ovvero, in tutto o in parte, la distrugge o sopprime, è punito, se il fatto non è preveduto come reato da altra disposizione di legge, con la reclusione fino a un anno o con la multa da trenta euro a cinquecentosedici euro.

È di tutta evidenza che, la disposizione in esame, è giustificata dalla necessità di apprestare un’adeguata tutela, a livello di legge ordinaria (e soprattutto in ambito penale), alla libertà prevista all’art. 15 Cost. e concernente la segretezza, la corrispondenza ed ogni altra forma di comunicazione. Si tratta di libertà che non vengono tutelate in senso assoluto ma che contemplano, in modo specifico, ipotesi di legittime limitazioni; quest’ultime, in virtù della riserva di legge e di giurisdizione prevista dal co.2 dell'art. 15, presuppongono tanto il ricorrere delle garanzie previste dalla legge, quanto un atto motivato della autorità giudiziaria (ad esempio nel caso in cui venga emanato un provvedimento autorizzativo di intercettazioni di comunicazioni o di corrispondenze, necessarie ai fini investigativi). Sono evidentemente esclusi i casi in cui la violazione avvenga mediante un atto spontaneo di un privato che abbia agito senza alcuna legittimazione, o senza il consenso della persona interessata.

Il caso in esame sembra perfettamente riconducibile all'art. 616 c.p., del quale ricorrono gli elementi sia oggettivi che soggettivi: tipicità della condotta, colpevolezza e mancanza di scriminanti (quindi antigiuridicità del fatto). Proprio su quest’ultimo profilo si è soffermata la Suprema Corte, la quale ha ritenuto inammissibile la configurazione della scriminante ex art. 50 c.p. (consenso dell’avente diritto), invocata dal ricorrente. Dall’analisi del caso concreto, infatti, emerge come la moglie/resistente non abbia acconsentito, neanche implicitamente, all’apertura da parte del marito della posta a lei indirizzata. Al contrario sembra chiaro che lo avesse praticamente vietato, dato che aveva addirittura indicato un nuovo indirizzo presso il quale contava di ricevere le sue missive. Proprio tale condotta è idonea ad escludere il consenso tacito dell’avente diritto, consenso che deve invece desumersi da atti concludenti (o comunque taciti) che lascino dedurre, in maniera univoca, l’assenso del fatto lesivo. Da ciò deriva come il soggetto debba accettare non solo la condotta, ma anche l’evento (conseguenza della stessa), nonché tutti i requisiti essenziali del tipo di reato. Tra l’altro, i pessimi rapporti instauratisi tra i due coniugi a seguito della separazione, rendono palesemente illogico - e quindi certamente non desumibile presuntivamente - un consenso di tal sorta.

Per questi motivi, la Suprema Corte rigetta il ricorso proposto dal marito avverso la sentenza di secondo grado, e conferma la condanna enunciata dalla stessa.