Traffico di influenze illecite. L´art. 346 bis c.p.
Modifica paginaAnalisi della disciplina del reato di traffico di influenze illecite e rapporti con altre fattispecie di reato.
Indice: 1. Introduzione. - 2. Struttura del reato. - 3. Rapporti con il reato di millantato credito ex art. 346 c.p. - 4. Rapporti con il reato di corruzione. 5. La mancata regolamentazione dell’attività di lobbying. Un’occasione mancata?
1. Introduzione.
Il reato di traffico di influenze illecite rappresenta una (relativamente) recente acquisizione nel nostro ordinamento.
La sua introduzione all’art. 346bis c.p si deve alla l. 190/2012 (c.d legge Severino), emanata con la finalità di fornire una risposta efficace e più moderna nella lotta alla corruzione, tenendo anche in debita considerazione l’evoluzione criminologica della società.
L’aspetto forse più innovativo della riforma è rappresentato dalla circostanza di non essere intervenuta solo sul piano repressivo, attraverso l’introduzione di nuove fattispecie di reato o l’innalzamento del trattamento sanzionatorio di quelle già previste, ma di aver inciso anche sul piano preventivo.
Il Legislatore non si preoccupa più soltanto di sanzionare, ma anche di ostacolare la realizzazione del mercimonio della funzione pubblica, attraverso l’affermazione del nuovo principio della totale trasparenza.
Tale finalità di rendere la Pubblica Amministrazione una “casa di vetro” viene perseguita, per esempio, attraverso l’introduzione dell’obbligo di astensione dal procedimento da parte del pubblico funzionario che versi in una situazione di conflitto d’interessi, oppure mediante l’introduzione (ad opera del successivo decreto trasparenza n.33/2013) dell’obbligo per l’Amministrazione di pubblicare sul proprio sito istituzionale una lunga serie di atti, in modo da consentire un controllo generalizzato da parte dei cittadini sulla legittimità dell’azione della Pubblica Amministrazione, a prescindere dal fatto che possano vantare o meno un interesse differenziato (che invece legittima il diverso diritto di accesso).
La legge anticorruzione è stata inoltre l’occasione per adempiere agli obblighi derivanti da fonti sovranazionali.
Nello specifico, il reato di traffico di influenze illecite è stato inserito nel codice penale, in adempimento degli obblighi di incriminazione derivanti dalla Convenzione di Merida del 2003 e dalla Convenzione penale sulla corruzione del Consiglio d’Europa.
2. Struttura del reato.
La nuova fattispecie sanziona, con la reclusione da uno a tre anni, “chiunque fuori dei casi di concorso nei reati di cui agli articoli 319 e 319-ter, sfruttando relazioni esistenti con un pubblico ufficiale o con un incaricato di un pubblico servizio, indebitamente fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altro vantaggio patrimoniale, come prezzo della propria mediazione illecita verso il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio ovvero per remunerarlo, in relazione al compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio o all'omissione o al ritardo di un atto del suo ufficio”.
Si tratta pertanto di un reato comune, come risulta evidente dall’utilizzo della locuzione “chiunque”.
La norma, inoltre, al secondo comma punisce anche chi indebitamente dà o promette denaro o altro vantaggio patrimoniale, a differenza di quanto accade nella figura affine della fattispecie di millantato credito, nella quale il soggetto in questione viene visto come vittima di un raggiro[1].
Il bene giuridico tutelato è il prestigio della Pubblica Amministrazione, che viene leso dalla circostanza che un pubblico funzionario venga indicato come incline alla corruzione e disposto a compiere un atto contrario ai propri doveri d’ufficio o ad omettere o ritardare un atto del proprio ufficio, per trarre un vantaggio personale.
La condotta posta in essere dal “mediatore” può essere onerosa o gratuita.
Nel traffico di influenze illecite oneroso, la somma di denaro o il vantaggio patrimoniale vengono promessi o elargiti direttamente all’intermediario, come compenso per la propria attività di intermediazione illecita.
Nel traffico di influenze illecite gratuito, invece, la somma di denaro o il vantaggio patrimoniale vengono promessi o corrisposti al mediatore nell’ottica di remunerare il pubblico funzionario. L’intermediario si presenta pertanto solo come un tramite materiale tra il privato e il pubblico funzionario, senza nulla pretendere per l’attività di intermediazione svolta.
La fattispecie de qua si può configurare pertanto come reato di pericolo (con una conseguente anticipazione della soglia di punibilità) che si consuma nel momento e nel luogo in cui viene raggiunto l’accordo tra l’agente e il privato, non essendo necessario che l’atto che il mediatore ha promesso di far ottenere al privato venga/sia stato effettivamente posto in essere.
Per quanto attiene all’elemento soggettivo, viene richiesto per entrambe le ipotesi previste dal primo comma l’elemento del dolo, consistente nella coscienza e volontà di ottenere il compenso a titolo di corrispettivo, per l’attività di intermediazione già svolta o da svolgere, ovvero di ottenerlo per poi consegnarlo al pubblico funzionario[2].
È doveroso inoltre ricordare che il Legislatore ha previsto due circostanze aggravanti, che ricorrono nelle ipotesi in cui l’intermediario sia a sua volta un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio e nel caso in cui l’attività di intermediazione sia commessa in relazione all’esercizio di attività giudiziaria.
È prevista, infine, anche una circostanza attenuante per il caso in cui i fatti contestati siano di particolare tenuità.
3. Rapporti con il reato di millantato credito ex art. 346 c.p.
Occorre a questo punto chiarire quali siano i rapporti esistenti tra la nuova fattispecie di traffico illecito di influenze e quella affine del millantato credito.
Il reato di millantato credito è previsto dall’art. 346 c.p e punisce, con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa da trecentonove euro a duemilasessantacinque euro, “chiunque, millantando credito presso un pubblico ufficiale, o presso un pubblico impiegato che presti un pubblico servizio, riceve o fa dare o fa promettere, a sé o ad altri, denaro o altra utilità, come prezzo della propria mediazione verso il pubblico ufficiale o impiegato”.
Come è evidente, la condotta descritta dalle due fattispecie presenta numerosi punti di contatto.
Ciò che le contraddistingue è l’esistenza reale (art.346 bis c.p) o solo “millantata” (art.346 c.p) delle relazioni esistenti con il pubblico funzionario.
Prima dell’introduzione della nuova fattispecie, pertanto, il codice penale prevedeva solamente la punibilità di chi adducesse l’esistenza di rapporti, in realtà non esistenti o esagerati, con il pubblico funzionario.
Il termine millantare significa infatti vantare con esagerazione, ostentare qualità o possibilità in realtà non possedute.
Il millantatore sarebbe, secondo l’interpretazione più aderente al dato letterale e la definizione più classica, un “venditore di fumo”.
Come osservato da attenta dottrina[3], “il criterio essenziale di questo reato è la falsità del favore”.
Proprio in quest’ottica, ben si comprende la scelta del Legislatore di non punire il c.d “compratore di fumo”, al fine di evitare che al danno, consistente nel fatto di essere stato raggirato, si aggiunga la beffa della sanzione penale.
Chi promette o corrisponde denaro o altra utilità per una mediazione illecita con il pubblico funzionario è considerato, nel reato di millantato credito, come una vera e propria vittima, anche se permane il dubbio sulla possibilità o meno di considerare il patrimonio del privato “raggirato” come bene giuridico protetto dalla norma, come accade nel reato di truffa.
Se il reato di millantato credito venisse considerato un reato plurioffensivo, lesivo quindi non solo del prestigio e del buon andamento della Pubblica Amministrazione, ma anche del patrimonio del privato, sarebbe allora da escludere l’ipotesi del concorso con la figura affine della truffa, che punisce “chiunque, con artifizi o raggiri, inducendo taluno in errore, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno”.
Secondo questa tesi, se si ammettesse il concorso formale, si finirebbe per punire due volte la stessa condotta, in violazione dei principi fondamentali del nostro ordinamento. La soluzione più opportuna sarebbe dunque quella dell’assorbimento della truffa nel millantato credito.
Tra l’altro, la tesi secondo la quale il reato di millantato credito andrebbe ad offendere più beni giuridici consentirebbe di fornire una valida giustificazione per la previsione di un trattamento sanzionatorio più severo rispetto a quello previsto per il reato di traffico di influenze illecite.
Secondo un’altra tesi, invece, il concorso tra millantato credito e truffa sarebbe in astratto ammissibile, in quanto si tratterebbe di fattispecie di reato volte a tutelare beni giuridici diversi.
Come affermato anche da una recentissima sentenza della Corte di Cassazione[4], “Il reato di millantato credito (che non comporta artifizi o raggiri) può concorrere formalmente con quello di truffa, stante la diversità dell'oggetto della tutela penale, consistente, nel primo caso, nel prestigio della pubblica amministrazione e, nel secondo, nella tutela del patrimonio.” [5]
Secondo questa tesi, quindi, sebbene il soggetto illuso dal millantatore sia una vittima non punibile, il suo patrimonio non costituirebbe bene giuridico tutelato dall’art. 346 c.p.
Nel reato di traffico di influenze illecite, invece, il soggetto che paga o promette denaro o altro vantaggio patrimoniale al mediatore non è una vittima, proprio perché le relazioni vantate dall’intermediario sono reali.
Il mediatore, in questo caso, non è un millantatore, ma è quello che viene definito un faccendiere.
La figura del faccendiere si è sviluppata soprattutto nella fase successiva allo scandalo di Tangentopoli, divenendo la persona di fiducia della quale il pubblico funzionario incline alla corruzione si avvale per entrare in contatto con il potenziale corruttore, evitando un più rischioso rapporto diretto con lo stesso.
Prima dell’introduzione dell’art. 346bis c.p, l’attività tipica del faccendiere risultava, stando ad un’interpretazione letterale, non punibile.
In questo senso, pertanto, è sicuramente encomiabile l’intervento del legislatore volto a colmare un inaccettabile vuoto normativo.
Non si può tuttavia esaminare il rapporto tra i reati di millantato credito e di traffico illecito di influenze limitandosi al solo dato letterale della norma, senza considerare l’interpretazione che della prima venne data da copiosa giurisprudenza proprio per colmare tale deficit di tutela.
La giurisprudenza infatti, forzando il principio di tipicità e ispirandosi ad una finalità di giustizia sostanziale, ritenne spesso configurabile il reato anche nel caso in cui le relazioni millantate esistessero veramente e fossero realmente efficaci.
Questa interpretazione estensiva trovava la sua giustificazione anche nelle frequenti difficoltà di distinguere concretamente tra il credito realmente esistente, quello totalmente inventato e quello esistente ma esagerato. In altre parole, quanto deve essere esagerato il credito per rientrare nella millanteria e non nella relazione realmente esistente?
Come osservato da attenta dottrina[6], invece, il chiaro riferimento dell’art. 346bis c.p alle “relazioni esistenti” pone il nuovo reato in un rapporto di alternatività con la fattispecie del millantato credito.
In questo modo, il nuovo reato si pone in chiave preventiva, nell’ottica di evitare futuri accordi illeciti, mentre il millantato credito recupererebbe la sua natura originaria di tutela del prestigio della Pubblica Amministrazione e degli interessi della vittima.
Chiarito questo aspetto, rimane però da risolvere il problema relativo ai profili di diritto intertemporale.
Rispetto al faccendiere che abbia ricevuto la dazione o la promessa di denaro o altra utilità in epoca antecedente all’entrata in vigore della legge 190/2012, l’art. 346 bis c.p si pone, se guardiamo al dato letterale, come nuova incriminazione e quindi risulterebbe inapplicabile ex art. 2 comma 1 c.p.
Tuttavia, proprio il fatto che l’art. 346 c.p fosse interpretato in passato in modo estensivo e comprensivo anche della condotta di chi avesse prospettato una mediazione veritiera, pone il dubbio se si possa prospettare di fatto una continuità normativa, con conseguente applicazione dell’art. 2, comma 4 c.p[7].
La tesi della continuità normativa è stata per esempio affermata da recente giurisprudenza di legittimità[8], secondo la quale “i fatti commessi prima dell'entrata in vigore della legge n. 190/2012, nei quali il soggetto attivo ha ottenuto la promessa o dazione del denaro vantando un'influenza sul pubblico ufficiale effettivamente esistente, che pacificamente ricadevano sotto la previsione dell'art. 346 cod. pen., devono ora essere ricondotti nella nuova fattispecie descritta dall'art. 346 bis cod. pen., che, comminando una pena inferiore, ha realizzato un caso di successione di leggi penali regolato dall'art. 2, comma quarto, cod. pen., con applicazione della norma più favorevole al reo”.
4. Rapporti con il reato di corruzione.
Per quanto attiene ai rapporti tra le fattispecie di traffico di influenze illecite e di corruzione, il primo reato non può trovare applicazione nell’ipotesi in cui il pubblico funzionario accetti la promessa o la dazione del vantaggio patrimoniale per il tramite del faccendiere.
In quest’ultima ipotesi, infatti, si configurerebbe un concorso nel reato di corruzione da parte del privato, del mediatore e del pubblico funzionario.
Nel caso in cui, invece, il mediatore promettesse il vantaggio patrimoniale al soggetto pubblico, ma quest’ultimo lo rifiutasse, sarebbe integrata la fattispecie di istigazione alla corruzione.
Il Legislatore non ha pertanto voluto, attraverso l’art. 346 bis c.p, tipizzare la specifica condotta dell’intermediario nella conclusione del pactum sceleris, ma ha inteso punire piuttosto quelle condotte prodromiche al patto corruttivo, nell’ipotesi in cui quest’ultimo non si sia perfezionato.
Oltre al dato che attiene alla progressione criminosa, secondo autorevole dottrina[9], l’elemento che contraddistingue il reato di cui all’art. 346 bis c.p rispetto alla corruzione sta nel fatto che il corrispettivo della mediazione non è diretto al pubblico funzionario, ma è volto a remunerare unicamente l’opera del mediatore. Nel caso in cui quest’ultimo provvedesse invece a versare per conto del privato tale prezzo al funzionario pubblico, risponderebbe di concorso in corruzione attiva.
Questo assunto parrebbe essere in contrasto con l’ipotesi del traffico di influenze gratuito.
L’aderenza al dato normativo si recupera in realtà ipotizzando che il denaro o il vantaggio patrimoniale corrisposto versato all’intermediario non sia poi stato né promesso né corrisposto al pubblico agente.
Rimane infine da chiarire un ulteriore aspetto.
La clausola di riserva iniziale (“fuori dei casi di concorso nei reati di cui agli articoli 319 e 319 ter”) attribuisce una funzione sussidiaria della nuova fattispecie rispetto a quella di concorso nel reato di corruzione. Si tratta quindi di una norma di chiusura.
Ciò che desta sorpresa è però il richiamo alle sole ipotesi di corruzione propria e corruzione in atti giudiziari. È stato invece escluso il riferimento all’art. 318 c.p, ovvero al reato di corruzione impropria.
La scelta del legislatore ha provocato reazioni divergenti in dottrina.
Alcuni autori hanno apprezzato tale esclusione, evidenziando che i confini della corruzione per l’esercizio della funzione sarebbero talmente sfumati che un arretramento della punibilità avrebbe finito per porre in serio pericolo il rispetto del principio di offensività.
Altri autori hanno invece desunto da tale esclusione la possibile configurazione del concorso formale tra i reati di cui agli artt. 346 bis e 318 c.p.
In realtà, la soluzione probabilmente più convincente appare quella secondo la quale il reato di cui all’art. 318 c.p non è stato incluso nella clausola di riserva, non in quanto si ritenga possibile il concorso dei due reati, ma proprio perché, essendo preordinata l’intermediazione ad ottenere dal pubblico funzionario il compimento di un atto contrario ai doveri del proprio ufficio oppure il ritardo o l’ omissione nel compimento di un atto del proprio ufficio, non si ritiene configurabile in astratto un traffico di influenze illecite finalizzato all’esercizio della funzione in conformità ai doveri d’ufficio.
5. La mancata regolamentazione dell’attività di lobbying. Un’occasione mancata?
La disciplina oggetto della presente trattazione, pur avendo avuto il merito di colmare un vuoto normativo prima esistente, non ha mancato di suscitare delle perplessità in dottrina.
In particolare, è stato da taluni evidenziato come la norma non abbia preso in considerazione l’attività di lobbying, un’attività di rappresentanza di interessi particolari, che viene esercitata in maniera lecita e alla luce del sole presso le istituzioni e le amministrazioni pubbliche (anche a livello internazionale e comunitario).
In particolare, l’attività di lobbying può essere esercitata attraverso due modelli di riferimento, che prendono il nome di regolamentazione-trasparenza e regolamentazione-partecipazione[10].
Il primo modello (in uso in Inghilterra) è volto a garantire la trasparenza del processo decisionale, sia attraverso norme relative ai gruppi di pressione, quali l’istituzione di un apposito registro con l’indicazione dei lobbisti o la previsione di appositi codici di condotta per gli stessi, sia mediante norme dirette ad assicurare un controllo sull’attività svolta dai parlamentari (per esempio, con la pubblicazione, all’inizio di ogni legislatura, del registro degli interessi di cui i parlamentari sono direttamente o indirettamente portatori).
Il secondo modello (utilizzato negli Stati Uniti e presso il Parlamento Europeo) è volto invece a realizzare un coinvolgimento nel processo decisionale dei lobbisti.
Le proposte di legge presentate in materia in Italia (circa una trentina, la prima delle quali risale al 1976) sembrano perseguire sia esigenze di trasparenza che esigenze di coinvolgimento nel processo decisionale, ma fino ad ora nessuna di esse ha avuto seguito, con l’evidente risultato che l’attività delle lobbies continua ad essere svolta comunque nell’ombra e senza alcuna regolamentazione.
Viene pertanto sottolineata da più parti la necessità di individuare una linea di confine tra l’attività di influenza esercitata in maniera legittima e quella svolta indebitamente[11], in modo da evitare delle distorsioni nel processo decisionale del potere pubblico provocate da sovrapposizioni nocive tra attività lecite e illecite.
Note e riferimenti bibliografici
[1] In questo senso, VIGANò, La riforma dei delitti di corruzione, Libro dell’anno del diritto, Treccani, 2013.
[2] R. GAROFOLI, Manuale di diritto penale, Tomo 1, 2013, p.333 e seg.
[3] CARRARA, Programma del corso di diritto criminale , pt. Spec., V, Pisa, 1905, par. 2591.
[4] Cass. Pen. Sez. VI. sent. 16/02/2016 n. 12545.
[5] Nello stesso senso, ex multis, Cass. Pen. Sez. VI sent. 29/01/2015 n. 8994: “i delitti di truffa e di millantato credito si differenziano per la diversità dell'oggetto della tutela penale, che è il patrimonio, nella prima, e il prestigio della pubblica amministrazione, nel secondo (Sez. 6, n. 9470 del 05/11/2009, dep. 10/03/2010, Rv. 246399). Le due violazioni, pertanto, anche se unite in un'unica azione, caratterizzata, oltre che da vanterie di ingerenze e pressioni nei confronti di pubblici ufficiali corruttibili, anche dalla messa in campo di ulteriori artifizi e raggiri, quali l'utilizzo di falsa documentazione e di falsi strumenti, idonei ad ingenerare maggiore affidamento nei soggetti passivi (nel caso in esame, peraltro, rappresentati sia dai singoli utenti, che dagli organi periferici della stessa amministrazione finanziaria), producono due distinti eventi criminosi, con il conseguente concorso formale dei reati.
[6] I. MERENDA, Il Traffico di influenze illecite: nuova fattispecie e nuovi interrogativi, in Diritto Penale Contemporaneo, rivista trimestrale, 2013, fascicolo 2 del 2013.
[7] In questo senso, DOLCINI-VIGANò, Sulla riforma in cantiere dei delitti di corruzione, in Diritto Penale Contemporaneo, rivista trimestrale 2012, fascicolo 1., secondo i quali si dovrebbe prospettare una continuità normativa con l’orientamento giurisprudenziale dominante, con conseguente applicazione della norma più favorevole (in questa circostanza, l’art. 346bis c.p)
[8] Cass. Pen. Sez. VI sent. del 11/12/2014 n. 51688.
[9] FRANCESCO PRETE , Prime riflessioni sul reato di traffico di influenze illecite (art. 346 bis c.p), in Diritto Penale Contemporaneo, rivista trimestrale 2012.
[10] PETRILLO, Democrazie sotto pressione. Parlamenti e lobby nel diritto pubblico comparato, Milano, 2011, p. 48.
[11] I. MERENDA, Il Traffico di influenze illecite: nuova fattispecie e nuovi interrogativi, in Diritto Penale Contemporaneo, rivista trimestrale, 2013, fascicolo 2 del 2013.
1. Nozione ed evoluzione dell’autotutela amministrativa
L’autotutela amministrativa è il potere dell’amministrazione di verificare la validità dei suoi provvedimenti e controllare la propria azione, rimuovendo unilateralmente gli ostacoli che si frappongono alla realizzazione dell’interesse pubblico, impedendo così il permanere di provvedimenti illegittimi.
Nell’impostazione originaria l’autotutela era espressione del potere autoritativo della Pubblica Amministrazione e traeva origine nello Stato assoluto ove il sistema era improntato nella concentrazione dei poteri – legislativo, giurisdizionale e amministrativo – nelle mani del sovrano che li esercitava tramite i propri organi. Nello Stato moderno, invece, il potere di autotutela costituisce un residuo della funzione giurisdizionale che un tempo era attribuita alla stessa amministrazione.
L’autotutela è un istituto elaborato inizialmente da dottrina e giurisprudenza e solo nel 2005 si è proceduto alla sua codificazione.
La prevalente dottrina ha elaborato, nel corso degli anni, un’ampia nozione di autotutela distinguendo tra autotutela esecutiva e decisioria che a sua volta si divide in necessaria e spontanea.
L’autotutela esecutiva è quell’attività dell’amministrazione diretta all’esecuzione coattiva degli atti provvedimentali, un esempio è dato dagli artt. 21-ter[1] e 21-quater[2] della Legge 241/1990.
L’autotutela decisoria c.d. necessaria è quel potere espletato dall’amministrazione nell’ambito della funzione di controllo e si sostanzia nella verifica del rispetto dei requisiti di legittimità e di merito degli atti amministrativi ad opera di un’autorità diversa da quella che ha adottato l’atto.
Invece, l’autotutela decisoria c.d. spontanea è la vera e propria funzione di riesame attribuita alla P.A. e consistente nella rivalutazione delle situazioni di fatto e di diritto poste alla base di un dato provvedimento amministrativo effettuata della stessa autorità che ha adottato l’atto originario, o da diversa autorità. Quest’ultima forma di autotutela ha natura discrezionale non essendo finalizzata solo ed esclusivamente al ripristino della legalità bensì strumentale alla cura degli interessi pubblici affidati all’azione della P.A.
Nell’espletamento di tale funzione, e prima che intervenisse la riforma del 2005, il potere di riesame si esplicava nell’adozione dei cc. dd. provvedimenti di secondo grado, ovvero tutti quegli atti con cui l’amministrazione “torna su una propria decisione”. Gli atti di secondo grado solevano dividersi in quattro tipologie:
- annullamento;
- revoca;
- decadenza;
- mero ritiro.
Il legislatore con la L. n. 15 del 2005 ha provveduto a codificare gli istituti della revoca, dell’annullamento e della convalida. Successivamente la disciplina è stata oggetto di ulteriori modifiche normative avvenute con la L. n. 165/2014 e con la più recente L. n. 124/2015. La ratio dei recenti interventi legislativi è stata quella di limitare l’esercizio dei poteri di autotutela, restringendo i casi in cui la P.A potesse agire, predisponendo un meccanismo che permettesse di limitare gli spazi di applicabilità dell’autotutela e ridefinendo i rapporti tra autorità e libertà, tra P.A. e privato, in termini più garantistici per quest’ultimo.
Nello stesso tempo i recenti interventi legislativi hanno messo in evidenza l’importanza dell’istituto dell’autotutela in generale. L’autotutela, infatti, è un istituto nel quale si scontrano due opposte esigenze: da un lato la necessità della P.A. di continuare a perseguire l’interesse pubblico, intervenendo su un provvedimento già adottato, e quindi annullandolo o revocandolo, e dall’altro l’interesse, più o meno qualificato, del soggetto privato a mantenere il provvedimento che la P.A. vuole invece modificare o revocare.
2. Natura giuridica del potere di riesame della P.A.
Molto si è discusso in merito alla natura giuridica del potere di riesame e al relativo fondamento[3].
In dottrina sono emersi vari indirizzi in merito. Un primo orientamento, il potere di riesame va inquadrato nell’ambito della funzione di controllo della legittimità e, in alcuni casi, della convenienza stessa degli atti. Un secondo orientamento considera il potere di ritiro quale potestà di secondo grado esercitata nell’ambito di un procedimento avente ad oggetto una precedente determinazione amministrativa.
Un terzo filone riconduce il potere di riesame al c.d. potere di auto impugnativa. Pertanto, l’amministrazione, secondo questa impostazione, impugnerebbe dinanzi a sé il provvedimento e deciderebbe sullo stesso così come accade in sede giurisdizionale.
L’orientamento maggioritario riconduce il potere di riesame nella più ampia categoria del potere di autotutela, quindi l’amministrazione può risolvere le controversie, attuali o potenziali, relativi ai propri provvedimenti senza necessità di ricorrere all’autorità giudiziaria. Aderendo a quest’ultima tesi secondo cui il potere di ritiro è una species del potere di autotutela, la conseguenza è che l’amministrazione, nell’adozione dell’atto di secondo grado, potrà tener conto di interessi pubblici diversi da quelli che hanno giustificato l’adozione dell’atto di primo grado, in quanto il potere di riesame è un potere diverso da quello originariamente esercitato.
Infine, per un ulteriore orientamento, il potere di riesame è una forma di esercizio successivo dello stesso potere di amministrazione attiva posto in essere con l’adozione del primo provvedimento, quindi un nuovo esercizio del potere originario. La conseguenza di tale impostazione è che l’amministrazione non potrà tener conto di interessi diversi e ulteriori rispetto a quello perseguito originariamente.
In tale contesto si inserisce l’intervento del legislatore, che con L. n. 15 del 2005 ha, non solo, codificato le varie tipologie di provvedimenti di secondo grado, ma ha anche posto fine ai dubbi sulla riconducibilità del potere di riesame alla nozione di “autotutela”.
3. La revoca
Il comma 1, dell’art. 21-quinquies, della legge 241/1990 nel testo novellato dall’art. 25, co.1, lett. b-ter, del D.L. 11 novembre 2014, n. 133, convertito con modificazioni dalla L. 11 novembre 2014 n. 164, dispone: “Per sopravvenuti motivi di pubblico interesse ovvero nel caso di mutamento della situazione di fatto non prevedibile al momento dell’adozione del provvedimento o, salvo che per i provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici, di nuova valutazione dell’interesse pubblico originario, il provvedimento amministrativo ad efficacia durevole può essere revocato da parte dell’organo che lo ha emanato ovvero da altro organo previsto dalla legge. La revoca determina la inidoneità del provvedimento revocato a produrre ulteriori effetti. Se la revoca comporta pregiudizi in danno dei soggetti direttamente interessati, l’amministrazione ha l’obbligo di provvedere al loro indennizzo.”
Il potere di revoca è attribuito all’organo che ha emanato l’atto, ovvero ad altro organo previsto dalla legge.
La revoca si riferisce ad un provvedimento di primo grado del tutto legittimo. Essa, infatti, può essere motivata solo da ragioni di opportunità, escludendone implicitamente l’esercizio del relativo potere nei casi di provvedimenti affetti da vizi di legittimità.
Orbene, il potere di revoca si esercita nel caso di sopravvenuti motivi di interesse pubblico, mutamento della situazione di fatto, o nell’ipotesi di nuova valutazione dell’interesse pubblico originario ovvero nel caso di una diversa valutazione dei medesimi interessi e della medesima situazione che la P.A. compie in relazione all’interesse originario.
La revoca, a differenza del caso di annullamento, ha efficacia ex nunc ossia elimina gli effetti del provvedimento solo dal momento in cui viene adottato l’atto di revoca.
La L. n. 164/2014 ha previsto, rispetto al passato, che il potere di revoca possa essere esercitato ogniqualvolta il mutamento della situazione di fatto non fosse stato prevedibile al momento dell’adozione del provvedimento stesso. Emerge chiaramente la volontà del legislatore di ridurre le ipotesi di revoca in autotutela e di rafforzare il principio dell’affidamento del privato.
Prima delle novelle legislative la nuova valutazione dell’interesse pubblico originario era di per sé idonea a giustificare la revoca in autotutela. Il legislatore, nonostante abbia mantenuto questa ipotesi di revoca, l’ha esclusa esplicitamente per i provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici perché è evidente che, con riferimento a questi provvedimenti con cui si rimuove un ostacolo per l’esercizio di un diritto, vi è un affidamento particolarmente importante del privato rispetto al quale la possibilità di agire in revoca in autotutela viene del tutto sterilizzata.
In tutte le ipotesi di revoca previste dalla norma, la P.A. ha il potere di revocare il provvedimento di primo grado con ampia discrezionalità, ma allo stesso tempo su di essa incombe un obbligo di motivazione, ai sensi dell’art. 3, della L. 241 del 1990. L’amministrazione dovrà, infatti, effettuare una rigorosa comparazione di tutti gli interessi, pubblici e privati, rilevanti nel caso concreto, tenendo contro, altresì, dell’affidamento che il privato ha legittimante riposto sul provvedimento del tutto legittimo.
Ed infatti, se la revoca determina un pregiudizio, la P.A. sarà tenuta a riconoscere al privato un indennizzo. È un’ipotesi di pregiudizio da atto lecito. Successivamente al 2005 il problema che si è posto è se tale indennizzo debba essere necessariamente previsto nel provvedimento che dispone la revoca o possa essere oggetto di un successivo provvedimento della P.A.
Secondo consolidata giurisprudenza,[4] l’indennizzo è una conseguenza della revoca legittima ma non necessariamente deve essere disposto con la stesso atto di revoca; se nell’atto di revoca, infatti, non è contemplato l’indennizzo, questo non è ragione di illegittimità della revoca.
Riguardo ai criteri per la quantificazione dell’indennizzo, sono state introdotte rilevanti novità dal decreto-legge c.d. Bersani bis, d.l. n. 7 del 2007 che ha aggiunto all’art. 21-qunquies il comma 1-bis prevedendo che “Ove la revoca di un atto amministrativo ad efficacia durevole o istantanea incida su rapporti negoziali, l’indennizzo liquidato dall’amministrazione agli interessati è parametrato al solo danno emergente e tiene conto sia dell’eventuale conoscenza o conoscibilità da parte dei contraenti della contrarietà dell’atto amministrativo oggetto di revoca all’interesse pubblico, sia dell’eventuale concorso dei contraenti o di altri soggetti all’erronea valutazione della compatibilità di tale atto con l’interesse pubblico.”
Il legislatore, in riferimento alle revoche dei provvedimento che incidono sui rapporti negoziali, ha definito i criteri di calcolo dell’indennizzo, stabilendo che esso debba essere parametrato al solo danno emergente, ovvero alle spese affrontate dal privato che ha confidato nella perdurante efficacia del provvedimento successivamente revocato.
La norma individua, altresì, i parametri per la valutazione dell’intensità dell’affidamento da parte del privato, ritenendo rilevante la conoscenza o conoscibilità, da parte del destinatario del provvedimento da revocare, della contrarietà dell’atto all’interesse pubblico; e l’eventuale concorso del contraente all’erronea valutazione della P.A. in ordine alla compatibilità del provvedimento revocato all’interesse pubblico.
Le controversie relative alla determinazione e corresponsione dell’indennizzo sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ex art. 133 c.p.a.
4. L’annullamento d’ufficio
L’art. 21-nonies, comma 1, così come novellato dall’art. 25, co.1, lett. b-quater, l. n. 164 del 2014 e poi dall’art. 6, co.1, l. n.124 del 2015 dispone: “Il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell’articolo 21-octies, esclusi i casi di cui al medesimo articolo 21-octies, comma 2, può essere annullato d’ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole, comunque non superiore a diciotto mesi dal momento dell’adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici, inclusi i casi in cui il provvedimento si sia formato ai sensi dell’articolo 20, e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall’organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge. Rimangono ferme le responsabilità connesse all’adozione e al mancato annullamento del provvedimento illegittimo.”
L’annullamento d’ufficio, come emerge, è un provvedimento di secondo grado con il quale la PA rimuove, con effetto retroattivo, un suo precedente atto ab origine illegittimo.
In passato la dottrina ha sostenuto l’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione di annullamento, ma oggi sembra prevalere la tesi secondo cui l’amministrazione esercita il potere di annullamento con discrezionalità. Affinché possa esercitarsi il potere di annullamento, occorre osservare alcune regole, ed in particolare:
- l’obbligo di motivazione;
- la sussistenza di concrete ragioni di pubblico interesse non riconducibili alla mera esigenza di ripristino alla legalità;
- la valutazione dell’affidamento delle parti private destinatarie del provvedimento oggetto di riesame, tenendo conto del tempo trascorso dalla sua adozione;
- il rispetto delle regole del contraddittorio procedimentale;
- un’adeguata istruttoria.
La P.A. dovrà valutare se l’esercizio del potere di annullamento risponda ad interesse pubblico, se sia possibile esercitarlo in un termine ragionevole e comparare l’interesse del destinatario del permesso a mantenere il provvedimento su cui ha fatto affidamento e quello dei controinteressati a ottenerne la rimozione. Il potere di annullamento in via generale, deve essere esercitato dallo stesso organo che ha emanato l’atto e ciò a dimostrazione anche che il presupposto dell’annullamento d’ufficio è la cura dello stesso interesse pubblico che aveva giustificato l’adozione del primo provvedimento. La P.A., inoltre, è tenuta a seguire lo stesso procedimento previsto per l’adozione del primo provvedimento, dando comunicazione di avvio del procedimento al privato e consentendogli di partecipare. L’annullamento d’ufficio produce effetti ex tunc, quindi con effetti retroattivi, con la salvezza delle posizioni giuridiche dei terzi di buona fede.
Occorre evidenziare che la nuova formulazione della norma esclude che l’annullamento possa intervenire nei casi di cui al comma 2 dell’art. 21-octies[5]. Prima della L. n. 124/2015 in merito ai rapporti esistenti tra l’art. 21-nonies e l’art. 21-octies erano emersi due differenti tesi.
Secondo un primo orientamento infatti, c.d. autonomistico, l’annullamento d’ufficio poteva essere esercitato ogni qualvolta il provvedimento fosse annullabile ex art. 21-octies, anche se rientrava nelle ipotesi del comma 2 dell’art. 21-octies cioè nelle ipotesi in cui il giudice non avrebbe potuto annullare il provvedimento qualora l’amministrazione avesse dimostrato in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.
Una seconda posizione, invece, c.d. del collegamento, sosteneva che la P.A., in presenza di un provvedimento illegittimo rientrante nelle ipotesi di cui all’art. 21-octies, comma 2, non potesse agire in autotutela. La L. n. 124 del 2015, facendo prevalere quest’ultimo approccio sostanzialista, ha esplicitamente escluso che l’annullamento d’ufficio possa essere esercitato nei casi del 21-octies, comma 2.
Infine, la norma fa riferimento ai casi in cui il provvedimento si sia formato ai sensi dell’art. 20 e quindi alle ipotesi in cui si è formato il c.d. silenzio assenso. Si tratta di un aspetto particolarmente delicato, in quanto già da tempo la P.A. nei casi di silenzio assenso poteva intervenire in autotutela secondo un principio di carattere generale. Oggi, invece, la norma prevede espressamente che la P.A. possa intervenire non solo su un provvedimento espresso, ma anche su un atto che si è formato a seguito di silenzio assenso della P.A.
La norma fa anche riferimento alle responsabilità connesse all’adozione e al mancato annullamento del provvedimento illegittimo. Ciò sta ad indicare che, nonostante l’esercizio del potere di annullamento, non si esclude la responsabilità in capo al funzionario che ha adottato l’atto illegittimo o di quello che, potendo attivarsi per rimuovere un provvedimento illegittimo fonte di pregiudizio è rimasto inerte.
Un’altra importante novità introdotta dalla L. 12472015 è il c. 2-bis dell’art. 21-nonies: “I provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato, possono essere annullati dall’amministrazione anche dopo la scadenza del termine di diciotto mesi di cui al comma 1, fatta salva l’applicazione delle sanzioni penali nonché delle sanzioni previste dal capo VI del testo unico di cui al d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445.”
La ratio di tale disposizione è quella di prevedere l’annullamento in tutti i casi di provvedimenti conseguiti sulla base di false dichiarazioni, pur senza responsabilità della P.A. e dunque può essere annullato d’ufficio, come tutti i provvedimenti illegittimi, ma se viene scoperta la falsità, l’annullamento può avvenire anche oltre i 18 mesi. La P.A. potrà agire anche oltre il termine di 18 mesi, ma avrà la necessità di motivare sulla sussistenza degli altri presupposti per attivare l’annullamento d’ufficio (concrete ragione interesse pubblico, comparazione dell’interesse pubblico e privato, etc.).
5. Profili distintivi tra revoca ed annullamento.
Una volta tracciati i caratteri generali dei provvedimenti di secondo grado disciplinati agli artt. 21-quinquie e 21- nonies della Legge n. 241 del 1990, è opportuno metterne in evidenza gli elementi di diversità[6].
In primo luogo, il diverso motivo che induce l’amministrazione ad adottare l’atto di ritiro. Come già evidenziato l’annullamento d’ufficio non è ammissibile per motivi di opportunità a differenza della revoca che, invece, è motivata solo da ragioni di opportunità e interviene a fronte di provvedimenti del tutto legittimi.
In secondo luogo, le conseguenze patrimoniali che derivano dall’atto di ritiro: mentre l’atto revocato, essendo originariamente legittimo, fa sorgere in capo alla P.A. l’obbligo di indennizzare il privato, viceversa l’annullamento d’ufficio di un atto illegittimo fa sorgere in capo al privato il diritto al risarcimento del danno.
In terzo luogo, il ruolo attribuito all’affidamento vantato dal privato: nella disciplina dettata dall’art. 21-nonies, l’affidamento rappresenta un limite al potere di annullamento; viceversa, nella disciplina contenuta nell’art. 21-quinquies l’affidamento costituisce il parametro di valutazione dell’indennizzo da corrispondere a favore del privato.
Note e riferimenti bibliografici
[1] Art. 21-ter, L. n. 241/1990: Nei casi e con le modalità stabiliti dalla legge, le pubbliche amministrazioni possono imporre coattivamente l’adempimento degli obblighi nei loro confronti. Il provvedimento costitutivo di obblighi indica il termine e le modalità dell’esecuzione da parte del soggetto obbligato. Qualora l’interessato non ottemperi, le pubbliche amministrazioni, previa diffida, possono provvedere all’esecuzione coattiva nelle ipotesi e secondo le modalità previste dalla legge. Ai fini dell’esecuzione delle obbligazioni aventi ad oggetto somme di denaro si applicano le disposizioni per l’esecuzione coattiva dei crediti dello Stato.
[2] Art. 21-quater, L. n. 241/1990: I provvedimenti amministrativi efficaci sono eseguiti immediatamente, salvo che sia diversamente stabilito dalla legge o dal provvedimento medesimo.
L’efficacia ovvero l’esecuzione del provvedimento amministrativo può essere sospesa, per gravi ragioni e per il tempo strettamente necessario, dallo stesso organo che lo ha emanato ovvero da altro organo previsto dalla legge. Il termine della sospensione è esplicitamente indicato nell’atto che la dispone e può essere prorogato o differito per una sola volta, nonché ridotto per sopravvenute esigenze. La sospensione non può comunque essere disposta o perdurare oltre i termini per l’esercizio del potere di annullamento di cui all’articolo 21-nonies.
[3] Compendio superiore di Diritto Amministrativo, R. Garofoli, Nel Diritto Editore, 2015;
[4] Consiglio di Stato, Ad. Plen. 24 maggio 2007, n. 7
[5] Art. 21-octies, comma 2, l. n. 241/1990: Non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. Il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell’avvio del procedimento qualora l’amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.
[6] “La revoca dei provvedimenti amministrativi” di Daniele Giannini;
Sommario: 1. Introduzione; 2. Una breve premessa sulla schiavitù negli Stati Uniti; 3. Il caso Dred Scott; 3.1. Le prime azioni giudiziarie; 3.2. Il processo davanti alla Corte Suprema; 4. Cosa accadde dopo; 5. Considerazioni conclusive.
A ba'
1. Introduzione
Il concetto di libertà, ai giorni nostri, sembra avere pochissime e determinate limitazioni. Siamo quasi abituati a ricercare in ogni modo la (nostra) felicità, cercando di rinvenire nell’Ordinamento lo strumento giuridico per raggiungerla. Non sempre è stato così e tra i tanti momenti difficili che il principio di libertà, che cammina necessariamente a braccetto con quelli di uguaglianza, non discriminazione e pari dignità, ce n’è anche uno che ha visto coinvolta una delle più note corti statunitensi.
Il 6 marzo dell’anno prossimo, infatti, saranno trascorsi centocinquanta anni dalla celebre pronuncia della Corte Suprema degli Stati Uniti d’America Dred Scott contro Sandford1 una sentenza che va al di là della decisione del caso concreto ed entrata in tutti i libri, non soltanto di diritto. In questi centocinquanta anni gli Stati Uniti hanno attraversato tanti eventi che hanno poi coinvolto il mondo intero ed elencarli in questa sede porterebbe troppo lontano il nostro dire, ma questa pronuncia cambiò in un certo modo il destino di quell’ancor giovane Paese. Forse è l’unico provvedimento giurisdizionale che rientri tra le cause, prossime o remote, di una guerra civile durata più di quattro anni, con centinaia di migliaia di morti da entrambe le parti ed i cui postumi, dopo tanto tempo, ogni tanto riemergono2.
2. Una breve premessa sulla schiavitù negli Stati Uniti
Il primo episodio relativo alla schiavitù nel nord America risale al 1619, quando venti africani giunti oltreoceano su una nave da carico furono acquistati dalla colonia della Virginia3, e ben presto tale pratica si diffuse in particolare nelle zone in cui la manodopera era maggiormente richiesta per la fertilità del terreno e quindi per i lavori nelle piantagioni. Una pronuncia di una corte coloniale del 1640 utilizza l’espressione “servire il predetto padrone o chi per lui per la durata della vita”. Altre decisioni coeve hanno affrontato il problema dello status degli schiavi, come ad esempio il caso John Graweere nel 16414 o quello di Philip Cowen nel 16755.
Ancora, nel 1662, la colonia della Virginia approvò la legge del ventre (partus sequitur ventrem), a mente della quale ogni persona nata da una schiava avrebbe acquisito automaticamente lo status servile, indifferentemente dalla posizione del padre. Una simile legge era in contrasto con la pratica del common law inglese che concedeva lo status libertatis in relazione al padre ma ripresa dall’articolo 13 del c.d. code noir di Luigi XIV (1685)6. In quel periodo alcune colonie predisposero corpus legislativi per regolare la materia degli schiavi e del loro rapporto con i padroni7, mentre durante la campagna per l’indipendenza entrambe le parti promisero la libertà agli schiavi che avessero combattuto per le rispettive fazioni.
Del resto il lavoro degli schiavi andava a coprire quello dei debitori volontari (indentured servant)8, una volta che questi ripagavano il proprio debito privando i loro precedenti proprietari di uno dei fattori della produzione, vale a dire il lavoro. Nemmeno la raggiunta indipendenza, proclamata nel 1776, portò all’abolizione della schiavitù che anzi fu istituzionalizzata con riferimento ad gruppo etnico con origini africane. Quando nel 1789 fu ratificata la Costituzione federale solo un ristretto numero di persone libere di colore faceva parte dei votanti.
Prima dell’entrata in vigore della Costituzione federale era stata emanata l’Ordinanza del nordovest (1787, modificata nel 1789) che fissava, tra l’altro, nel fiume Ohio il confine tra Stati schiavisti e non9.
Dal 1° gennaio 1808 fu proibita l’importazione di schiavi negli Stati Uniti, tuttavia nemmeno questo significò l’abolizione della schiavitù, ma solo il divieto di far entrare nuovi schiavi negli U.S.A. e dunque non si applicava ai soggetti ridotti in schiavitù che già si trovavano nel Paese (art. 1 sez. 9 Cost. federale). All’incirca dal 1820 iniziarono a sorgere le prime associazioni abolizioniste mentre di contro negli Stati del sud si sosteneva che tutte le civiltà importanti avessero utilizzato la schiavitù, ricorrendo anche ai testi sacri per giustificarla10.
Furono inoltre promulgate delle leggi che prevedevano la riconsegna degli schiavi fuggiti al loro legittimo proprietario11.
Nel nostro discorso si inserisce anche l’espansione degli Stati Uniti, verso l’ovest ed il sud e le sue relazioni con gli altri Stati. È di quel periodo un’altra nota sentenza della Corte Suprema, nel caso Amistad12, sulla posizione di alcuni schiavi che si erano liberati a bordo dell’omonima nave spagnola poi presi in consegna da una nave militare statunitense. A seguito di una lunga ed appassionata battaglia legale, condotta anche dall’ex presidente John Quincy Adams, gli schiavi furono infine liberati e poterono ritornare in Africa13.
Nel 1846 fu proposta la c.d. clausola Wilmot (dal nome del congressista che l’aveva ideata) che non contemplava la schiavitù nei territori acquisiti dopo la vittoriosa campagna contro il Messico14. In precedenza, nel 1819, il deputato di New York Talmadge propugnò l’ammissione del Missouri nell’Unione a patto che avesse gradualmente abolito la schiavitù; tale proposta fu approvata dalla Camera ma bocciata dal Senato. Nell’anno successivo si giunse alla mediazione di Henry Clay per riequilibrare il rapporto tra Stati schiavisti e Stati abolizionisti: il Missouri entrò nell’Unione come Stato schiavista mentre il Maine fu separato dal Massachusetts e diventò uno Stato abolizionista. Si tratta del c.d. compromesso del Missouri (o Missouri compromise)15, che tra l’altro prevedeva che al di sopra della latitudine 36°30’ N, vale a dire a nord del confine meridionale del Missouri, non sarebbe stata consentita la schiavitù.
3. Il caso Dred Scott
Dred Scott era uno schiavo di colore nato intorno alla fine del XVIII secolo in Virginia che nel 1830 venne ceduto a John Emerson, medico militare che lo portò con sé nelle varie sedi di servizio16, tra queste l’Illinois ed il Wisconsin, rispettivamente Stato e territorio abolizionisti, dove la schiavitù non era consentita e in base all’ordinanza del nordovest e in base al compromesso del Missouri. Quando il dott. Emerson fu trasferito a St. Louis lasciò Dred e la moglie17 presso l’ultima sede dove i loro servizi venivano “affittati”. È il caso di osservare come Emerson avesse, secondo alcuni, agito in contrasto con la normativa su citata spostando degli schiavi in luoghi abolizionisti senza che questo mutasse il loro status.
Nel 1843 Emerson venne a mancare e la moglie di quest’ultimo, Eliza Irene Sanford, ereditò anche gli Scott che furono fatti lavorare per conto terzi per poi essere richiamati a St. Louis dove la coppia si presentò spontaneamente. Nel 1846 Dred tentò di comprare la libertà per sé e per la famiglia ma Irene rifiutò. Il 6 aprile 1846 Dred e sua moglie presentarono alla corte locale un’azione per chiedere la loro liberazione. Il procedimento si basava su uno statute del Missouri che consentiva a chiunque fosse tenuto illegalmente in schiavitù di adire l’autorità giudiziaria, dettando analitiche regole di procedura. Tra queste la necessità di fornire delle garanzie per la copertura delle spese18 ed una verifica del fumus da parte della corte. Il giudice Krum, anche se filo-schiavista, ammise l’azione che gli Scott avevano firmato con un crocesegno.
3.1. Le prime azioni giudiziarie
Il procedimento intentato dagli Scott contro Irene Emerson si basava sul tort di false imprisonment19, dal momento che gli attori assumevano di essere uomini liberi illegalmente detenuti. Secondo un autore “chiunque fosse pratico delle leggi del Missouri avrebbe detto che gli Scott avevano argomenti molto validi a loro favore. Per lungo tempo la più alta corte dello stato aveva statuito che qualora un padrone avesse portato il suo schiavo a risiedere in uno stato o territorio in cui la schiavitù era vietata lo avrebbe in tal modo emancipato”20. In tal senso infatti si era schierata la giurisprudenza21 sostenendo che una volta acquistata la libertà questa non poteva essere perduta (libero una volta, libero per sempre), anche se tale orientamento era andato scemando; di contro la giurisprudenza della Corte Suprema del Missouri era concorde nel ritenere l’applicabilità dell’ordinanza del nordovest.
Il processo, tuttavia, si concluse nel giugno del 1847 contrariamente alle aspettative: la richiesta di Scott fu ritenuta carente di prove e dunque rigettata. Nel dicembre dello stesso anno il giudice Hamilton concesse a Scott di riproporre la questione in aula, ma il processo fu rinviato al gennaio 1850, a causa di un grande incendio, un’epidemia di colera ed il carico dell’ufficio. Nelle more del giudizio gli Scott furono posti in “sequestro conservativo” presso lo sceriffo della contea che monetizzò le prestazioni lavorative della coppia trattenendo il ricavato come acconto di garanzia.
Il nuovo processo, superato il vizio procedurale, fu favorevole agli attori, anche sulla base delle nuove testimonianze. Irene Emerson decise di appellare la sentenza e nel frattempo aveva ceduto gli Scott al fratello John Sanford22. Anche il processo di appello fu movimentato, tra rinvii e scadenze di mandato per i giudici.
Nel frattempo la questione da giudiziaria stava diventando politica23 ed il 22 marzo del 1852 la Corte Suprema del Missouri emise la propria decisione24 con voto a maggioranza (2-1): Dred Scott e la sua famiglia erano ancora schiavi. Una simile decisione ribaltava decenni di giurisprudenza contraria ma secondo il chief justice William Scott
“i tempi non sono oggi come lo erano quando furono prese le precedenti decisioni in materia. Da allora non solo gli individui ma anche gli Stati sono caduti preda di un oscuro e crudele spirito riguardo alla schiavitù, la cui soddisfazione si risolve in modalità tali da comportare come inevitabile conseguenza il rovesciamento e la distruzione del nostro governo. In tali circostanze lo Stato del Missouri non deve mostrare la minima approvazione per ogni provvedimento che possa compiacere questo spirito (...)”25.
La sentenza di primo grado venne così ribaltata ma i giudici non si soffermarono sull’ordinanza per il nordovest o sul compromesso del Missouri, limitandosi a dire che gli attori avrebbero dovuto proporre l’actio libertatis dove la schiavitù non era ammessa e che essendo ritornati volontariamente a St. Louis mantenevano la loro condizione servile26.
Emessa la sentenza, i legali della Emerson ne chiesero l’esecuzione ma il giudice Hamilton rigettò la richiesta, senza però motivarla. La questione, ancora una volta, stava per andare al di là del singolo caso e si cercava una risposta precisa alla questione agitata nel processo, vale a dire se fosse o meno sufficiente il passaggio a seguito del padrone in un luogo abolizionista per acquisire la libertà (e a contrario privare il proprietario di un bene). Si poneva anche l’ulteriore problema se una persona “di colore” avesse o meno il diritto ad essere cittadino degli Stati Uniti27.
Nel frattempo John Sanford era tornato a New York e questo diede agli Scott la possibilità di una nuova azione, stavolta a livello federale in base all’art. 3, sez. 2 della Costituzione federale, basandosi sulla diversità di giurisdizione tra le parti appartenenti a Stati diversi dell’Unione. Tuttavia alla giuria della corte federale di New York venne detto di rifarsi alla legge del Missouri per quanto riguardava la libertà di Scott e dunque il verdetto fu nuovamente sfavorevole. A Scott e alla sua famiglia non rimaneva che ricorrere alla Corte Suprema degli Stati Uniti d’America.
3.2. Il processo davanti alla Corte Suprema
Nel frattempo il dibattito politico non si era affatto sopito, con strascichi anche violenti nel Kansas dove si contarono anche numerose vittime (c.d. bloody Kansas). Il Congresso non era in grado di risolvere la questione della schiavitù; nel 1856 vinse le elezioni presidenziali James Buchanan, democratico nordista ma a favore della schiavitù. Buchanan credeva che bastasse una pronuncia del vertice giudiziario dell’Unione per poter risolvere la questione superando il problema politico28 e per rassicurare tutti disse nel suo discorso prima del giuramento che si trattava solo di una questione giudiziaria e che sarebbe stata presto risolta definitivamente dalla Corte Suprema29.
In realtà gli storici hanno poi scoperto che Buchanan si era interessato attivamente alla questione ed anzi sarebbe già stato al corrente di quella che sarebbe stata la decisione della Corte30. Infatti nello spazio di tempo intercorrente tra l’istruzione della causa (11-14 febbraio e 15-18 dicembre 1856) e la decisione della stessa (6 marzo, due giorni dopo il giuramento del nuovo Presidente), il Presidente eletto chiese ad un suo amico, l’associate justice Carton, se la decisione sarebbe stata presa prima del giuramento. Ed in seguito fece pressioni su un justice nordista, Grier, perché votasse con la maggioranza per non dare l’impressione di una sentenza decisa solo da “sudisti”31.
Come detto in precedenza, il perno attorno cui ruotava tutta la vicenda era se dichiarare o meno che il passaggio degli Scott da uno Stato schiavista ad uno abolizionista ne avesse determinato la libertà. In un caso precedente32 la Corte non si era soffermata sul compromesso del Missouri ed aveva risolto la questione dichiarandosi vincolata alla legge dello Stato nel quale la persona al momento si trovava. Si trattava di un cavillo procedurale che consentiva alla Corte di rimanere estranea alla questione e di lasciare la soluzione del problema (o più malignamente: il cerino) alla politica. Una maggioranza della Corte33 era già pronta a ripercorrere la medesima pilatesca strada ma quando si seppe che justice McLean era pronto ad una forte dissenting opinion (o opinione dissenziente) si pose la necessità di affrontare il problema.
Il primo aspetto da affrontare era quello della legittimazione ad agire, difatti in base alla su citata diversità di giurisdizione le parti devono essere cittadini di Stati diversi dell’Unione. Ciò però implicava il riconoscimento di Scott come “cittadino”. L’opinione della maggioranza della Corte (7-2) fu che né Scott né alcuna persona di origine africana potesse essere cittadino di uno Stato dell’Unione e pertanto in grado di adire la Corte in base all’art. 3 sez. 2 della Costituzione USA.
In particolare secondo chief justice Taney gli “appartenenti a quella sfortunata razza” (sic) “sono stati considerati per più di un secolo come esseri di un ordine inferiore e del tutto del tutto inidonei ad essere associati con la razza bianca sia socialmente che politicamente e tanto inferiori da non essere titolari di diritti al cui rispetto l’uomo bianco fosse tenuto (sic)”34. Le “persone di colore” non sarebbero nemmeno contemplate nella Dichiarazione d’indipendenza dalla celebre frase “tutti gli uomini nascono uguali”. Prosegue Taney che se si accogliesse l’istanza di Scott
“si darebbero alle persone di razza negra (sic) (…) il diritto ad entrare in qualunque Stato (…) di soggiornarvi a loro piacimento, di andare dove volessero (…) la piena libertà di parola in pubblico ed in privato su tutte le materie su cui i cittadini potrebbero parlare, di tenere pubbliche riunioni su questioni politiche e di tenere e portare armi dovunque volessero (…) con il rischio di mettere in pericolo la pace e la sicurezza dello Stato”35.
La sentenza, già di per sé criticabile (per non dire esecrabile)36, avrebbe anche potuto concludersi qui una volta constatato il difetto assoluto di giurisdizione. Tuttavia, proprio per risolvere definitivamente la questione, il provvedimento prosegue affrontando, sia pure incidentalmente, la questione del compromesso del Missouri. Si giunge quindi alla seconda37 dichiarazione di incostituzionalità di un atto del Congresso: il legislatore non poteva acquisire territori e creare governi oltre a quelli indicati dall’ordinanza del nordovest e quindi la decisione di incidere sul territorio della Louisiana (acquistata dopo l’entrata in vigore della Costituzione) eccedeva i poteri del Congresso; inoltre il compromesso andava a ledere il V Emendamento38 privando senza un procedimento legale un soggetto dei propri beni (gli schiavi) per il loro semplice transito nei territori liberi.
Infine la residenza di Scott in un territorio libero non lo rendeva un uomo libero in quanto la Corte si ritenne vincolata alla legge del Missouri che lo considerava ancora uno schiavo.
I giudici dissenzienti, Curtis e McLean, rilevarono in primo luogo che una volta rilevato il vizio di giurisdizione l’esame della Corte si sarebbe dovuto arrestare, senza affrontare le ulteriori questioni. In particolare McLean ritenne che non vi fossero basi legali per sostenere che le persone di colore non potessero essere considerate cittadini, ciò in quanto all’atto della ratifica della Costituzione costoro potevano votare in cinque Stati (su tredici) e dunque erano cittadini sia dello Stato che dell’Unione. McLean, inoltre, riprese l’idea che un soggetto una volta libero è libero per sempre39.
4. Cosa accadde dopo
La (disastrosa) decisione della Corte, paradossalmente, non ebbe risvolti negativi per la famiglia di Dred Scott. Durante le trattazioni dei vari ricorsi, Irene Emerson si era nuovamente sposata, ironia della sorte, con un congressista abolizionista del Massachusetts, Calvin Chaffee che scoprì, dalla pioggia di critiche che gli cadde addosso, di essere al centro dell’attenzione politica e giornalistica. Chaffee trasferì immediatamente gli Scott a Taylor Blow politico di St. Louis40 ed il 26 maggio 1857 furono ufficialmente liberati. Scott trovò impiego presso un albergo come fattorino e la moglie come lavandaia. Purtroppo Dred non poté godersi a lungo la libertà: il 17 giugno del 1858 morì di tubercolosi. Alcuni suoi discendenti, al 2010, vivevano ancora a St. Louis.
C’è tuttavia chi ritiene che la vicenda di Scott sia stata utilizzata per creare un caso pilota41. Le seconde nozze di Irene Emerson con Chaffee sarebbero sospette, a favore della tesi del caso pilota ci sarebbe anche il fatto che le circostanza delle cessioni degli Scott siano poco chiare. John Sanford, dunque, avrebbe acconsentito ad essere citato in giudizio anche davanti alla Corte Suprema pur non essendo l’attuale proprietario degli Scott.
In ogni caso questa pronuncia anziché risolvere il conflitto tra schiavisti ed abolizionisti produsse l’effetto contrario, causando un’escalation della crisi. In particolare è celebre il caso di John Brown che nel 1859 tentò un’insurrezione di schiavi in Virginia venendo condannato a morte e giustiziato. Nel 1860 Lincoln vinse le elezioni presidenziali; poco tempo dopo sette stati del Sud votarono la secessione dagli Stati Uniti dichiarando che l’elezione di Lincoln era una minaccia per la schiavitù e violava lo spirito della Costituzione: iniziava il percorso che avrebbe portato alla guerra42.
5. Considerazioni conclusive
È noto che il conflitto si concluse favorevolmente per il Nord e l’Unione venne infine faticosamente ricomposta.
Con l’approvazione del XIII, XIV e XV Emendamento43 fu formalmente abolita la schiavitù negli Stati Uniti, assicurata la cittadinanza ed il diritto di voto. Sarebbe ingenuo, a dire il meno, credere che tutto fu risolto dal comando del legislatore e infatti il problema dei rapporti “razziali” proseguì per lungo tempo, anche con episodi di violenze (basti pensare al Ku Klux Klan). A causa della dottrina del “separati ma uguali”, de facto i liberti statunitensi erano “cittadini di serie B” rispetto alla popolazione “bianca”44.
Dopo molti anni, e due guerre mondiali, intervenne nuovamente la Corte Suprema. In un clima che vedeva la lotta per i diritti civili muovere i primi passi il vertice giudiziario degli Stati Uniti affrontò ancora una volta la questione nel celebre caso Brown v. Board of Education45. Anche qui la vicenda trascese l’aspetto giuridico e si riversò nel sociale e tuttora la questione dell’integrazione dei cittadini “di colore” e la loro partecipazione alla vita del Paese è di scottante attualità, pur sotto l’amministrazione Obama.
Non si può però dire che la segregazione razziale sia solo un problema statunitense. Anche il Vecchio Continente, pur patria di insigni filosofi e letterati di ogni epoca, ha conosciuto simili discriminazioni dall’ilota spartano agli slavenvolk tedeschi passando per le leggi sulla difesa della razza in Italia. Come si è detto poc’anzi non basta il tratto di penna, invece occorre che certi principi e valori pervadano il tessuto sociale, ma questo è un procedimento lento che però deve essere costante, pena il ripetersi di certi errori.
A seguito delle recenti vicende politiche statunitensi, e in certa parte anche nostrane, potremmo dire che Dred Scott è ancora attuale ed a fronte di tutte le problematiche, più o meno evidenti, sottese alla questione vale la pena ricordare, noi tutti, il monito del poeta “je ne suis pas qu’ un homme (…) l’homme qui te ressemble”46.
Note e riferimenti bibliografici
1) Dred Scott v. Sandford, 60 U.S. 393 (1857). Per ulteriori approfondimenti e bibliografia si rimanda alla scheda, in lingua inglese, della Libreria del Congresso all’indirizzo http://www.loc.gov/rr/program/bib/ourdocs/DredScott.html.
2) Ad esempio, in seguito alle polemiche relative alla strage di Charleston (dove nel giugno del 2015 furono uccise nove persone), la rete televisiva Columbia Boardcasting System decise di bloccare la messa in onda del noto telefilm Hazzard per la presenza della bandiera confederata sull’auto dei protagonisti. V. a tal proposito l’articolo del 2 luglio 2015 su La Stampa, Stop alla serie tv “Hazzard”, sulla Dodge c’è la bandiera sudista.
3) V. a proposito il sito www.pbs.org.
4) L’attore chiese il permesso di comprare la libertà di suo figlio per poterlo crescere nella religione cristiana, nonostante la madre del bimbo fosse una schiava la richiesta venne accolta.
5) L’attore, uno schiavo di colore, era stato ceduto mortis causa con l’onere di liberazione dopo un determinato periodo di servitù che l’avente causa prolungò per ben due volte, l’ultima di nove anni. Cowen ricorse alla corte per essere dichiarato libero e la corte dispose in tal senso.
6) Si ricordi che all’epoca la Francia manteneva possedimenti coloniali nel Nord America, tra cui anche la Louisiana, ceduta agli Stati Uniti nel 1803-1804. Proprio nella Louisiana fu emanato un code noir nel 1724, a sua volta ispirato a quello del 1685 per le Antille francesi.
7) Tra questi il Maryland (1664), la Virginia (1705) e la Carolina del Sud (1712). Quest’ultimo, ispirato al codice di Barbados del 1688, servì a sua volta da modello per gli altri codici come ad esempio quelli della Georgia e della Florida.
8) Si trattava di persone che pagavano il viaggio per il Nuovo Mondo con le proprie prestazioni lavorative. Questo sistema permetteva di affrontare la spesa del viaggio, altrimenti proibitiva, in cambio della loro futura prestazione lavorativa, con un sistema di cessione di contratto d'opera.
9) Per ulteriori informazioni si rimanda alla scheda, in lingua inglese, della Libreria del Congresso all’indirizzo http://loc.gov/rr/program/bib/ourdocs/northwest.html.
10) Cfr. R. Mitchell, The American civil war, 1861 - 1865, 2001, trad. it. a cura di L. Pece, La guerra civile americana, Bologna, 2003, p. 13. Si rimanda all’opera citata anche per la genesi del conflitto ed il suo sviluppo e per i riferimenti bibliografici in materia.
11) Si tratta delle fugitive slave laws del 1793 e del 1850, basate sull’art. 4, sezione 2, terza clause della Costituzione federale che prevedeva la riconsegna su richiesta dell’avente diritto delle “persone tenute a servire o a lavorare in uno Stato, in base a quelle leggi, fuggite in un altro Stato”. A tal proposito mette conto citare il caso Prigg v. Pennsylvania, 41 U.S. 539 (1842). Secondo justice Story la legge della Pennsylvania che impediva la caccia e la cattura dei fuggiaschi contrastava con il diritto federale, id est l’art. 4 cit. e la legge del 1793, ma i singoli Stati non erano tenuti a collaborare per l’applicazione di quelle norme. Tale provvedimento fu tra le cause del c.d. Compromesso del 1850 con cui la California entrò nell’Unione come Stato abolizionista, ma gli Stati del nord avrebbero dovuto applicare la legge sui fuggitivi e quindi riconsegnare gli schiavi.
12) United States v. Amistad, 40 U.S. 518 (1841). La Corte decise 8-1 (dissenziente justice Baldwin) che gli ammutinati erano persone “illecitamente sequestrate, e portate a forza e con l’inganno a bordo”.
13) Nel 1997 dalla vicenda fu tratto un film, Amistad, diretto da S. Spielberg.
14) La proposta fu infine bloccata dall’amministrazione Polk.
15) Per ulteriori informazioni si rimanda alla scheda, in lingua inglese, della Libreria del Congresso all’indirizzo http://www.loc.gov/rr/program/bib/ourdocs/Missouri.html.
16) V. la scheda, in lingua inglese, dell’Archivio di Stato del Missouri, Missouri’s Dred Scott case. 1846-1857, all’indirizzo http://s1.sos.mo.gov/mdh/curriculum/dredscott.
17) Durante la permanenza in quello che oggi è il Minnesota, Emerson aveva acconsentito al matrimonio di Dred con Harriet Robinson, anch’essa schiava di colore che fu ceduta al dott. Emerson, anche se non ci sono dati precisi su come ciò avvenne (cfr. n. precedente). Da ciò si potrebbe forse inferire lo status libertatis di Scott, in quanto gli schiavi non potevano essere parte di un contract (come quello di matrimonio) in base ai principi di common law.
18) In questo Scott fu aiutato anche dai figli degli originari proprietari, i Blow. V. Missouri’s Dred Scott case, cit.
19) Si tratta di un illecito civile (cfr. art. 2043 c.c.) consistente nella detenzione di una persona in un determinato luogo senza una causa lecita (ad esempio un mandato di arresto da parte di una corte). Tale illecito si applica sia ai privati che ai soggetti pubblici e richiede la prova dell’illecita detenzione, del mancato consenso e dell’assenza di autorità o potere di detenzione (v. Restatement of Torts, II, 1965-79).
20) D.E. Fehrenbacher, Slavery, Law, & Politics: The Dred Scott Case in Historical Perspective, New York, 1981, p. 130. Traduzione dell’Autore.
21) Cfr. Somerset v. Stewart (1772 98 ER 499), Winny v. Whitesides (1 Mo. 472, 475 (1824)) e Rachel v. Walker (4 Mo. 350 (1836)), quest’ultima emessa in una vicenda analoga a quella di Scott.
22) Sanford era in effetti il cognome originario, ma per un errore di trascrizione di un funzionario della Corte Suprema è passato alla storia come Sandford. In ogni caso i particolari della cessione, come tanti altri relativi alla vicenda, non sono ancora ben chiari. V. al riguardo Missouri’s Dred Scott case, cit.
23) Cfr. W. Ehrlich, They have no rights: Dred Scott’s struggle for freedom, Westport (CT), 1979, p. 58.
24) Scott v. Emerson, 15 Mo. 576, 586 (Mo. 1852) App.
25) Traduzione a cura dell’Autore.
26) Il dissenziente justice Gamble riteneva, invece, che portare uno schiavo in un luogo dove la schiavitù non era consentita fosse una manomissione tacita.
27) V. gli artt. 2, 3 e 22 Cost. italiana, 1-7 Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo (1948), 9 Patto diritti civili e politici (1966/1976), 1 e 5 “Carta di Nizza” (2000).
28) V. R. Mitchell, cit., 17-18.
29) V. l’inaugural address del 4/03/1857, riportato al sito http://www.bartleby.com/124/pres30.html.
30) V. E.M. Maltz, Dred Scott and the politics of slavery, Lawrence, 2007 e P. Finkelman, Dred Scott v. Sandford: a brief history with documents, Boston, 1997.
31) Il comportamento di Buchanan appare improprio sia per gli standard odierni sia per quelli dell’epoca. Cfr. J.H. Baler, James Buchanan: the American Presidents series: the 15th President, 1857-1861, New York, 2004, p. 85 ss.
32) Strader. v. Graham, 51 U.S. (10 How.) 82 (1850).
33) V. U. Mattei, Il modello di Common Law, IV ed., Torino, 2014, p. 107 ss.
34) Dred Scott v. Sandford, 60 U.S. 393 (1857), p. 407 ss. Il testo integrale della sentenza è disponibile al sito https://supreme.justia.com/cases/federal/us/60/393/case.html.
35) Dred Scott v. Sandford, 60 U.S. 393 (1857), p. 416-17.
36) La decisione nel caso Dred Scott è passata alla storia come una delle peggiori della Corte Suprema federale statunitense; secondo R.G. McCloskey, The American Supreme Court, p. 94, ripreso da U. Mattei, op. cit., 108, si tratta della “più disastrosa opinion mai prodotta dalla Corte Suprema”. V. a tal proposito il sito blogs.findlaw.com, che la colloca al primo posto tra tredici, o i periodici Time, tra le dieci più controverse, e mic.com, al primo posto tra le peggiori quattro. V. anche l’analisi di P. Finkelman, Scott v. Sandford: the court’s most dreadful case and how it changed history, 82 Chi.-Kent. L. Rev. 3 (2007).
37) A distanza di 54 anni dal celebre caso Marbury v. Madison, 5 US 137 (1803).
38) Questo celebre emendamento (conosciuto ai più come “diritto a rimanere in silenzio”), fissa il principio del diritto ad un giusto processo per la privazione di alcuni diritti (come ad es. vita, libertà, proprietà). Nella parte che qui interessa, la norma recita “nessuno (…) potrà essere privato dei propri beni (lett. della proprietà) senza due process of law (…)”.
39) Il concetto era stato espresso in Marie Louise v. Marot (1836), deciso dalla Corte Suprema della Louisiana. A chi riteneva che “un cittadino di colore non sarebbe un gradevole membro della società” McLean rispondeva “È piuttosto una questione di gusti che di diritto”.
40) La legge prevedeva che la manomissione potesse avvenire solo da parte di un cittadino del Missouri. Irene Emerson diede il suo consenso al trasferimento di proprietà, a patto che le fossero versati i salari guadagnati nel frattempo dagli Scott (circa 750$), cfr. Missouri’s Dred Scott case, cit.
41) Cfr. D.E. Fehrenbacher, The Dred Scott case: its significance in American Law and Politics, New York, 2001, W. Ehrlich, Was the Dred Scott Case Valid?, The Journal of American History, 55, 2, 1968.
42) In questa sede non si narreranno gli eventi ulteriori e quindi non ci soffermerà sulla secessione e sulla guerra civile. Si rimanda per questo a R. Mitchell, op. cit.
43) Rispettivamente ratificati nel 1865, nel 1868 e nel 1870. Di seguito il testo delle norme.
XIII “La schiavitù o altra forma di costrizione personale non potranno essere ammesse negli Stati Uniti, o in luogo alcuno soggetto alla loro giurisdizione, se non come punizione di un reato per il quale l’imputato sia stato dichiarato colpevole con la dovuta procedura. (...)”.
XIV “Tutte le persone nate o naturalizzate negli Stati Uniti e soggette alla loro sovranità sono cittadini degli Stati Uniti e dello Stato in cui risiedono. Nessuno Stato porrà in essere o darà esecuzione a leggi che disconoscano i privilegi o le immunità di cui godono i cittadini degli Stati Uniti in quanto tali; e nessuno Stato priverà alcuna persona della vita, della libertà o delle sue proprietà, senza due process of law, né rifiuterà ad alcuno, nell’ambito della sua sovranità, la equal protection of the laws. (...)”.
XV "Il diritto di voto dei cittadini degli Stati Uniti non potrà essere negato né misconosciuto dagli Stati Uniti, né da alcuno Stato, per ragioni di razza, colore o precedente condizione di schiavitù. (...)”.
44) Si tratta di una dottrina sviluppatasi durante la ricostruzione al termine della guerra civile. Secondo tale pensiero le “persone di colore” erano uguali a quelle “bianche” ma dovevano restare separate da quest’ultime (ad es. nei bagni, sui mezzi di trasporto, nelle scuole, nei locali ecc.). Tale dottrina fu consacrata nella sentenza della Corte Suprema Plessy v. Ferguson, 163 US 537 (1896) (8-1).
45) Brown v. Board of Education of Topeka, 347 U.S. 483 (1954). I giudici decisero, all’unanimità, che la separazione delle classi violava il XIV Emendamento dacché separare gli studenti in base al colore delle pelle era intrinsecamente diseguale. Si superò quindi la su citata sentenza Plessy. Lo stesso giorno fu decisa un'altra vicenda analoga Bolling v. Sharpe, 349 U.S. 497 (1954), che riguardava direttamente il Governo federale. Anche Brown causò forti critiche tanto da far intervenire direttamente il Governo federale (ad es. in Arkansas nel 1957 o nel 1963 in Alabama).
46) R. Philombe, L’homme qui te ressemble. “Non sono che un uomo (…) l’uomo che ti assomiglia” (traduzione a cura dell’Autore).