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Pubbl. Gio, 31 Mar 2016

Le Sezioni Unite sul criterio risarcitorio in materia di pubblico impiego e precarizzazione

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Giovanni Sicignano


Sentenza n. 5072/2016 delle SS.UU.: adottato il criterio risarcitorio di cui all´art. 32 comma 5 della legge 183/2010 che prevede un´indennità compresa tra un minimo di 2,5 e un massimo di 12 mensilità dell´ultima retribuzione globale del lavoratore.


Le Sezioni Unite si pronunciano sul criterio risarcitorio adottabile nel pubblico impiego per la reiterazione della precarizzazione.

1. Introduzione; 2. Il caso; 3. I motivi di ricorso; 4. Il punto controverso; 5. Il ragionamento delle Sezioni Unite; 6. La giurisprudenza della Corte di Giustizia e il danno risarcibile; 7. La norma di tutela e la massima delle Sezioni Unite.

INTRODUZIONE - Nella recente sentenza n. 5072/2016 le Sezioni Unite della Cassazione hanno avuto modo di pronunciarsi sull’importante questione della reiterazione dei contratti a termine nell’ambito del pubblico impiego. La sentenza in esame mette finalmente un po´ di chiarezza intorno al criterio risarcitorio da adottare per riparare il danno subito dal lavoratore che si è visto reiterare il contratto a termine, poiché in Italia nel pubblico impiego non è prevista la conversione del rapporto di lavoro (a differenza dell’impiego privato).

IL CASO – Nel caso in esame due lavoratori avevano adito il Tribunale di Genova per far dichiarare l’illegittimità del termine apposto ai loro contratti di lavoro con l’ASL, chiedendo la conversione del rapporto in rapporto di lavoro a tempo indeterminato, con la successiva reintegra nel posto di lavoro, oltre alla richiesta di condanna del datore di lavoro al versamento di un’indennità non inferiore a 15 mensilità e risarcimento del danno non inferiore a 5 mensilità. Nel caso in esame il Tribunale di Genova “previo incidente di pregiudizialità comunitaria, in ordine alla compatibilità con la direttiva 1999/70/CE della disciplina interna nella parte in cui preclude per il settore pubblico (a differenza del settore privato) la tutela della costituzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato in caso di violazione delle norme in tema di apposizione del termine” ha statuito l’illegittimità dell’ultimo contratto stipulato dai lavoratori. L’unica differenza ha riguardato la liquidazione del danno per i due lavoratori. Successivamente la Corte d’Appello di Genova ha respinto il ricorso dell’Asl. Di conseguenza l’Asl avverso la sentenza d’appello ha proposto due ricorsi per Cassazione, basati su quattro motivi analoghi. La Sezione Lavoro della Cassazione pertanto ha trasmesso gli atti alle SS.UU. segnalando l’importanza di definire la parametrazione del danno risarcibile ex art. 36 d.lgs. 165/2001 e segnalando il contrasto giurisprudenziale sorto sui criteri di liquidazione da adottare.

I MOTIVI DI RICORSO - Con il primo motivo di ricorso, l’ASL censura la Corte Territoriale per essere incorsa nella extrapetizione, essendosi pronunciata sul risarcimento del danno nonostante la mancata richiesta. Col secondo motivo di ricorso, la ricorrente lamenta che la Corte Territoriale si sia pronunciata sul risarcimento del danno in via equitativa in assenza di una specifica domanda delle parti. Col motivo successivo l’ASL censura il comportamento della Corte Territoriale per avere liquidato un danno maggiore di quello sofferto poiché i lavoratori avevano trovato occupazione nel frattempo. E infine l’Asl lamenta la contraddittorietà della motivazione su un punto decisivo della controversia poiché, a detta della ricorrente, la Corte di Appello avrebbe riconosciuto la tutela prevista dall’art. 18 legge 300/1970 in un caso non riconducibile al licenziamento. La Corte di Cassazione ha deciso di riunire i due ricorsi poiché sono entrambi avverso la stessa sentenza.

IL PUNTO CONTROVERSO –  L’ordinanza della Sezione Lavoro evidenzia il punto focale della controversia. Infatti secondo la Corte di Giustizia dell’Ue la normativa interna che non permette la conversione del rapporto di lavoro per i contratti a termine abusivi alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni risulta astrattamente compatibile a dare tutela ai lavoratori purchè sia “assicurata altra misura effettiva, proporzionata, dissuasiva ed equivalente a quella prevista nell’ordinamento interno per situazioni analoghe.” La Corte Territoriale ha ritenuto che il parametro di cui all’art. 18, commi 4 e 5, fosse il più idoneo a dare tutela. Il problema però concerneva il criterio da adottare per la liquidazione del danno ex art. 36 d.lgs.165/2001. Infatti la Suprema Corte in un caso ( Sez. Lav., 21/8/2013 n. 19371) ha utilizzato come criterio risarcitorio l’art. 32, commi 5 e 7, legge 4/11/2010 n.183 che prevede un’indennità omnicomprensiva per i danni causati dalla nullità del termine. In un altro caso la Cassazione (Cass. Sez. Lav. 30/12/2014 n. 27481) ha utilizzato il criterio dell’art. 8 legge 15/7/1966 n.604, facendo riferimento al danno comunitario che viene inteso come una sorta di sanzione prevista ex lege in capo al datore di lavoro.

IL RAGIONAMENTO DELLE SEZIONI UNITE – Dopo un ampio excursus normativo, la sentenza ribadisce il principio consolidato secondo il quale nel pubblico impiego non è consentita la conversione del rapporto di lavoro poiché vige il divieto di cui all’art. 36 d.lgs. 165/2001 e pertanto il lavoratore può giovarsi solo del risarcimento del danno subito, ferme restando le disposizioni che riguardano la responsabilità patrimoniale del dirigente cui sia ascrivibile l’illegittimo ricorso del contratto a termine. Successivamente le Sezioni Unite si soffermano sulla direttiva n. 1999/70/CE e in particolar modo sulla clausola numero 5 che prevede misure di prevenzione degli abusi. La direttiva nell’ottica di prevenire gli abusi, stabilisce che se non vi sono ragioni opportune che giustifichino il rinnovo dei contratti a termine bisogna introdurre nella legislazione nazionale una durata massima dei contratti ovvero un numero di rinnovi massimi. La clausola però è lacunosa in quanto non disciplina le conseguenze dell’abuso, lasciando piena discrezionalità ai legislatori nazionali. Quindi il legislatore è libero di scegliere se accordare la tutela della conversione del rapporto, o il risarcimento del danno o entrambe le tutele. Il d.lgs. 368/2011 ha recepito la direttiva prevedendo strumenti idonei (nell’impiego privato) a contrastare l’eccessivo ricorso ai contratti a termine. L’art. 4 disciplina la proroga del termine, prevista solo nel caso in cui la durata iniziale del contratto sia inferiore a 3 anni ( si può richiedere solo una volta e per condizioni oggettive). L’art. 5 ha previsto poi la conversione del rapporto di lavoro a determinate condizioni. Inoltre l’abusivo ricorso ai contratti a termine è fonte di danno risarcibile. Quando il risarcimento del danno si accompagna alla conversione del rapporto, il risarcimento è contenuto nella misura fissata dall’art. 32 della legge 183/2010, stabilendo un’indennità compresa tra 2,5 e 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riferimento ai criteri dell’art. 8 legge 604/66. Il problema concerne il pubblico impiego poiché non è consentita la conversione del rapporto di lavoro. Secondo la giurisprudenza di merito, poiché si accede al pubblico impiego tramite concorso, a tutela del buon andamento e imparzialità della Pubblica Amministrazione, la limitazione prevista nel pubblico impiego è ragionevole e dettata da motivi di pubblico interesse. Per quanto concerne il risarcimento da accordarsi, secondo la Corte Costituzionale (sentenza 199/2005) deve trattarsi di una misura adeguata. In tal caso il ricorso ai criteri di cui all’art. 8 legge 604/66 permette di valutare caso per caso l’indennità da corrispondere tenuto conto delle peculiarità dei singoli rapporti.

LA GIURISPRUDENZA DELLA CORTE DI GIUSTIZIA E IL DANNO RISARCIBILE – La Corte di Giustizia dell’Ue ha ritenuto che la clausola numero 5 della direttiva non ponga assolutamente un obbligo di conversione del rapporto di lavoro perché mira soltanto a reprimere gli abusi legati alla reiterazione dei contratti a termine. Resta ferma pertanto la discrezionalità del legislatore nazionale nel disciplinare la materia. Pertanto ben può accadere che la disciplina del pubblico impiego sia divergente rispetto a quella dell’impiego privato. Successivamente la sentenza in esame passa ad analizzare il danno risarcibile ai sensi dell’art. 36 d.lgs.165/2001. Poiché la norma non aggiunge altre indicazioni, si ritiene che operi la regola posta dall’art. 1223 c.c. che riguarda sia il danno emergente e lucro cessante. La sentenza stabilisce che poiché nel pubblico impiego per legge non è prevista la conversione del rapporto di lavoro, il danno risarcibile può solo riguardare l’illegittimo ricorso al contratto a termine e non un danno derivante dalla perdita del posto di lavoro. Tuttavia il lavoratore che lavora in una situazione di effettiva illegalità (proroga, rinnovo o ulteriori reiterazioni contra legem) subisce degli effetti pregiudizievoli e quindi un danno patrimoniale. Secondo la Corte è possibile ipotizzare un danno da perdita di chanche poiché il lavoratore avrebbe potuto trovare altri impieghi. E’ inoltre possibile anche rinvenire altri tipi di danni, la cui prova è posta sempre in capo al lavoratore. La Corte, nella sentenza in esame, stabilisce che prima di sollevare una questione di legittimità costituzionale, bisogna sforzarsi di trovare un’interpretazione adeguatrice costituzionalmente orientata. La sentenza in esame è molto importante perché chiarisce che la norma di tutela per il lavoratore che nel pubblico impiego abbia subito i danni della reiterazione del contratto a termine è la norma di cui all’art. 32 comma 5 della legge 183/2010.

LA NORMA DI TUTELA E LA MASSIMA DELLE SEZIONI UNITE – Nelle pagine finali della sentenza in oggetto, le Sezioni Unite ritengono che la norma di cui all’art. 32, comma 5, legge 183/2010 sia una misura dissuasiva degli abusi e che rafforza la tutela del lavoratore poiché il danno è presunto. Quindi è incongruo riferirsi alla disciplina dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, poiché non vi è perdita del posto di lavoro, mentre l’art. 32, comma 5, legge 183/2010 rappresenta uno strumento più corretto. Inoltre precisano le SS.UU che per il lavoratore privato l’indennizzo previsto dall’art. 32 contiene il danno risarcibile perché l’indennizzo può essere meno del danno che il lavoratore può conseguire secondo i criteri ordinari. Per il lavoratore pubblico invece l’indennizzo è previsto in chiave agevolativa perché la prova del danno è presunta. Ciò ovviamente permette comunque al lavoratore del pubblico impiego di agire in giudizio per ottenere il risarcimento da perdita di chanche. Pertanto nel caso in esame le SS.UU. cassano la sentenza in esame, rinviando alla Corte d’Appello di Genova con la seguente massima: “ Nel regime di lavoro pubblico contrattualizzato in caso di abuso del ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato da parte di una pubblica amministrazione il dipendente, che abbia subito la illegittima precarizzazione del rapporto di impiego, ha diritto, fermo restando il divieto di trasformazione del contratto da tempo determinato a tempo indeterminato posto dall’art. 36 d.lgs. 30 marzo 2001 n.165, al risarcimento del danno previsto dalla medesima disposizione con esonero dall’onere probatorio nella misura e nei limiti di cui all’art. 32, comma 5, legge 4 novembre 2010 n.183, e quindi nella misura pari ad un’indennità omnicomprensiva tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di atto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’art. 8 legge 15 luglio 1966,n.604.”

Ad avviso di chi scrive si tratta di una soluzione estremamente importante perché consente di superare il contrasto giurisprudenziale insorto. Anche il parametro di riferimento tiene conto delle esigenze di tutela del lavoratore in quanto permette al lavoratore del pubblico impiego di ricevere una tutela in termini risarcitori (che va da 2,5 a 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale) e lo esonera dall’onere probatorio. Si tratta, a mio avviso, di una soluzione ragionevole che tiene in debita considerazione, il divieto di conversione del rapporto di lavoro nel pubblico impiego. Tale divieto, costituzionalmente legittimo, alla luce dei criteri di imparzialità e buon andamento della Pubblica Amministrazione già risulta essere gravoso in termini di tutela per il lavoratore del pubblico impiego. Pertanto la presunzione del danno che il lavoratore pubblico subisce per effetto delle reiterazione dei contratti a termine risulta essere un istituto estremamente importante. Molto importante è anche la scelta effettuata dalle Sezioni Unite di far riferimento all’art. 32 comma 5 della legge 183/2010 come parametro di liquidazione del danno risarcibile al lavoratore del pubblico impiego avuto riguardo ai criteri indicati dall’art. 8 della legge 604/66. Infatti il contrasto giurisprudenziale che ha portato la questione all’attenzione delle SS.UU. concerneva proprio il parametro da utilizzare. In questo modo viene rispettata anche la giurisprudenza della Corte di Lussemburgo perché l’art. 32 comma 5 della legge 183/2010 è volto a reprimere gli abusi derivanti dall’illegittimo ricorso alla precarizzazione e non esclude la possibilità per il lavoratore di ottenere il riconoscimento del danno da perdita di chanche.