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Pubbl. Gio, 31 Mar 2016

Negozio di accertamento, contratto preliminare e contratto normativo.

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Daniela Fusco


Analisi disciplinare e differenze tra negozio di accertamento, contratto preliminare e contratto normativo.


Il negozio di accertamento.

Il negozio di accertamento è quel contratto atipico mediante il quale le parti, per prevenire una lite, si accordano e definiscono in maniera non contestabile l’interpretazione del contenuto del contratto. Esso si distingue dal contratto di transazione in quanto, nel primo, non ci sono reciproche concessioni.

La dottrina dubita sulla configurabilità giuridica del contratto di accertamento ritenendo che il contratto debba necessariamente essere caratterizzato da un contenuto dispositivo. L’ammissibilità di uno spazio di autonomia negoziale (art. 1322 c.c.) che si esplichi con un’efficacia riconducibile all’eliminazione di una questione incerta, dubbia, non è generalmente negata: non si ritiene cioè indefettibile il ricorso all’autorità giudiziaria allo scopo di pervenire all’emissione di una pronunzia dichiarativa. (Cass. Civ. Sez. II, 600/76; Cass. Civ. Sez. II, 1572/71). La giurisprudenza tende invece ad ammettere il negozio di accertamento, riconoscendo meritevolezza all’interesse di rendere non contestabile il nuovo contenuto impresso al rapporto giuridico, a patto che la fonte di quel rapporto giuridico resta l’originario contratto e non il contratto di accertamento. Deve, in ogni caso, distinguersi il negozio d’accertamento dalla confessione di cui all’art. 2730 c.c. che ha esclusivamente una funzione probatoria e non negoziale.

Il contratto di accertamento è un negozio giuridico di secondo grado destinato, quindi, a perdere efficacia in caso di nullità o di inefficacia del contratto originario. In caso di annullabilità del contratto originario, invece, posta la conoscenza della causa d’annullamento, il contratto d’accertamento ha l’effetto di convalidare il contratto stesso. Il problema fondamentale è quello degli effetti. Secondo un’opinione, esso produrrebbe un’efficacia meramente dichiarativa, come la sentenza del giudice rispetto alla quale esso si pone come succedaneo. Secondo un’opinione contrastante, nella misura in cui la situazione all’esito della convenzione debba ritenersi non più contestabile, anche quando possa essere provata ex post la divergenza di quanto pattuito rispetto alla realtà, gli effetti di queste convenzioni devono essere considerati come costitutivi o traslativi rispetto ai diritti accertati. Altra opinione è, poi, quella i cui fautori hanno ritagliato, ad hoc, la descrizione degli effetti della figura in esame come preclusivi (Cass. Civ. Sez. II, 2611/96). Sulla base di queste considerazioni, una volta raggiunto l’accordo e perfezionato il negozio di accertamento, la questione risolta non potrebbe più essere sottoposta all’attenzione di un giudice come controversa. Vi è inoltre consonanza di vedute tra gli interpreti circa la retroattività degli effetti degli atti in questione. La res dubia, cioè l’incertezza, verrebbe eliminata fin dall’inizio, come nel caso della divisione, contrassegnata dalla retroattività degli effetti (art. 757 c.c.). Tale retroattività viene spiegata con la ritenuta natura dichiarativa dell’atto divisionale, il nodo problematico fondamentale del tema dell’accertamento negoziale.

L’art. 763 c.c. prevede che è possibile rescindere la divisione concernente i beni ereditari quando taluno tra i coeredi dia la prova di aver subito lesioni pari ad oltre il quarto rispetto alla misura della quota spettantegli. In tanto l’azione è ammissibile, in quanto si possa avere un raffronto fra l’entità della quota astrattamente assegnata e la concreta assegnazione dei beni. Diverso è il caso della transazione, l’atto con il quale le parti, facendosi reciproche concessioni, prevengono l’insorgenza di una controversia o la dirimono, la cui natura dispositiva la escluderebbe dal novero dei negozi di accertamento. Ai sensi dell’art. 1969 c.c., l’impugnabilità del negozio di transazione, per errore di diritto, è esclusa, né può essere impugnata per lesione (art. 1970 c.c.). Pertanto, una volta definita la vertenza non è dato di poter rimettere in discussione l’accordo raggiunto in forza di una nuova valutazione dei presupposti e degli antecedenti di fatto o di diritto. Oggetto del negozio di accertamento è la res dubia, oggetto della transazione è invece la res litigiosa: la prima si distingue dalla seconda per l’incertezza che non vale ancora a connotare la questione come contenziosa. Si pensi, ad esempio, al fatto che la transazione potrebbe essere stipulata anche soltanto per prevenire possibili liti. La questione principale è quindi quella della dichiaratività ovvero della costitutività degli effetti.

 

Il contratto preliminare.

Le trattative non terminano sempre con la conclusione di un contratto definitivo, possono anche terminare con la stipulazione di un contratto preliminare, il quale obbliga le parti a concludere, in un secondo momento, un contratto necessariamente definitivo avente il contenuto già fissato nel preliminare. Non è necessario alcun accordo novativo tra i contraenti per integrare e modificare con il definitivo gli accordi conclusi con il preliminare. In questo caso, però, si tratterà di un contratto differente, liberamente concluso. La modificazione non è implicitamente deducibile dalla mancata conformità del contenuto del definitivo al preliminare. Una volta accertata la conclusione di un accordo, bisogna distinguere tra preliminare e definitivo con cui le parti si obbligano a ripetere la stipulazione, solitamente per motivi concernenti la forma per la trascrizione. 

Con il contratto preliminare nasce, tra le parti, l’obbligazione di prestare il consenso per stipulare un contratto successivo e non eventuale il quale acquisterà efficacia al momento della stipulazione. Il contratto preliminare, quindi, produce effetti obbligatori, mentre il definitivo può produrre oltre ad effetti obbligatori (es. locazione), anche effetti reali (es. compravendita). Nonostante l’oggetto del preliminare sia la prestazione del consenso, dottrina e giurisprudenza ne individuano un limite nella donazione, essendo suo requisito indispensabile la liberalità. Se infatti una donazione viene stipulata in esecuzione ad un preliminare non si ha liberalità ma doverosità. L’art. 769 c.c. prevede la c.d. donazione obbligatoria con cui il donante assume verso il donatario un’obbligazione, l’atto definitivo verrebbe però ad identificarsi con il contratto preliminare e non con il definitivo. In realtà, il c.d. contratto preliminare di donazione della proprietà non sarebbe altro che una donazione obbligatoria di dare, da concludersi per atto pubblico, alla quale dovrebbe seguire un pagamento solvendi causa nelle forme ordinarie e non per atto pubblico.

Nel preliminare non deve essere fissato, necessariamente, un termine entro il quale stipulare il definitivo, in quanto è un termine da intendersi non come elemento essenziale del contratto, ma quale adempimento dell’obbligo di contrarre. Le parti dovranno quindi rivolgersi al giudice ex art. 1183 c.c., nell’ordinario periodo di prescrizione, salvo che esso sia desumibile dalla natura dell’affare. Il contratto preliminare, ai sensi dell’art. 1352 c.c., deve avere la stessa forma che la legge prescrive per il definitivo (forma per relationem). 

In caso di inadempimento di una parte, oltre alla risoluzione, l’altra parte può ottenere, qualora sia possibile e non sia escluso dal titolo del preliminare, una sentenza dichiarativa che produca gli stessi effetti del definitivo (art. 2932 c.c.). In caso di preliminare di compravendita vi sarà quindi acquisto della proprietà a titolo derivativo. La sentenza di cui all’art. 2932 c.c. è costitutiva, avrà quindi gli stessi effetti di cui all’art 2908 c.c.. Una volta passata in giudicato, non tiene luogo del consenso, ma produce gli effetti del contratto (definitivo) non concluso. Il legislatore ha scelto questa strada e non quella della condanna all’adempimento perché la parte inadempiente avrebbe potuto persistere dell’inadempimento e l’unica possibilità sarebbe quindi stata la risoluzione del contratto e conseguente risarcimento del danno.

Parte della dottrina individua la costitutività della sentenza nel fatto di rendere definitivo il preliminare e non di sostituire un titolo giudiziale ad un titolo negoziale che manca. La sentenza costituisce quindi titolo traslativo trascrivibile, ma è negoziale il contratto preliminare reso definitivo. Vi è, poi, chi ritiene che il preliminare sarebbe di per sé idoneo a produrre gli effetti finali, svolgendo il c.d. definitivo solo una funzione riproduttiva e documentale, la sentenza ex art. 2932 c.c. avrebbe quindi solo la funzione di porre nel nulla tale condizione, permettendo al preliminare di produrre gli effetti finali suoi propri.

In ogni caso, l’art. 2932 c.c. non è sempre suscettibile di applicazione. Per i contratti obbligatori con prestazione di fare, il suo utilizzo è inutile, in quanto la parte inadempiente potrebbe persistere nell’inadempimento. Tanto vale quindi risolvere il preliminare, piuttosto che gli effetti della sentenza, atteso che il risarcimento del danno è lo stesso. Si parla, invece, di impossibilità di applicazione nel caso di contratti reali, per i quali non si può concepire una consegna coattiva, ex art. 2930 c.c.. Non potrebbe inoltre essere pronunciata, una sentenza costitutiva ex art. 2932 c.c., in presenza di un preliminare di vendita di immobile abusivo o altrui, salvo che nel corso del giudizio il promittente alienante acquisti la proprietà dal terzo o costui trasferisca direttamente il bene o acconsenta al suo trasferimento. Un altro caso di impossibilità si ha quando il bene alienando sia perito ovvero sia stato già alienato a terzi, purché con atto opponibile e quindi, in caso di immobili, purché trascritto a favore del terzo prima della trascrizione della domanda ex art. 2652 c.c. n.2.

Secondo un orientamento ormai superato, la sentenza costitutiva non poteva modificare il contenuto del preliminare. Di recente si è ritenuto, invece, che, ad esempio in caso di preliminare di vendita con riserva di usufrutto, se, nelle more della stipula del definitivo, il promittente venditore muore, il promittente acquirente della nuda proprietà, qualora gli eredi del morto rifiutino di stipulare il definitivo di vendita della piena proprietà, può ottenere sentenza costitutiva ex art. 2932 c.c., con la riunione automatica dell’usufrutto e della nuda proprietà. Diverso è invece se la morte interviene dopo la scadenza del termine previsto per la stipula del definitivo e successiva messa in mora, perché allora opera la perpetuatio obligationis che giustifica la fiction della riunione. Se la morte interviene prima, la soluzione più rigorosa è la risoluzione per impossibilità sopravvenuta.

Talvolta, le parti decidono di anticipare gli effetti del definitivo, pagando in tutto o in parte il prezzo oppure immettendo il promittente acquirente del godimento dell’immobile, con conseguente detenzione dello stesso. Il contratto preliminare è sottoposto alla disciplina ordinaria dei vizi contrattuali, qualche problema sorge, però, per quanto riguarda i rapporti col definitivo. Deve ritenersi che il contratto preliminare possa contenere elementi che consentano di identificare la natura e l’oggetto del contratto definitivo e utili alla ricerca del contenuto dei singoli patti e all’interpretazione dell’intero assetto di interessi emergente dal contratto definitivo. È dubbio che questa funzione possa essere svolta da un preliminare invalido, quindi, se il contratto definitivo trova la sua giustificazione causale avendo riguardo ai propri effetti tipici (causa interna), si sarà in presenza di una fattispecie negoziale e si affermerà l’irrilevanza dei vizi del preliminare qualora il definitivo sia di per sé validamente concluso; se invece il definitivo trova la propria giustificazione causale nell’adempimento dell’obbligo a contrarre, cioè in una causa esterna, si sarà in presenza di un atto dovuto e sarà caratterizzato da una causa solvendi, l’invalidità del preliminare, facendo venir meno la causa giustificative esterna, legittimerà la ripetizione di quanto indebitamente prestato. 

Nel caso di preliminare di compravendita immobiliare nullo perché orale, ad esempio, qualora le parti concludessero il contratto di compravendita per atto scritto, se esse fossero state a conoscenza della nullità, il contratto sarebbe da ritenersi concluso spontaneamente e non alla stregua di un definitivo. Se esse non fossero state a conoscenza della nullità avrebbero inteso concludere un definitivo, il quale, secondo la teoria dell’autonomia e della causa interna sarebbe valido ed efficace ma annullabile, e secondo la teoria dell’adempimento, sarebbe nullo e legittimerebbe la ripetizione di quanto prestato. Nel caso in cui il preliminare fosse stato annullabile e l’errante, scopertolo nelle more della stipula, anziché impugnarlo, avesse concluso il definitivo, non sorgerebbe alcun problema in relazione alla teoria della causa interna.

Il preliminare si può risolvere oltre che per inadempimento e risoluzione consensuale, anche per eccessiva onerosità e impossibilità sopravvenute rispetto a quanto pattuito col preliminare.

Poiché la prescrizione dell’azione revocatoria inizia a decorrere dal momento in cui l’atto di disposizione è stato reso pubblico, il preliminare può essere impugnato se trascritto ex art. 2645 bis c.c., se non trascritto, il carattere occulto viene meno solo in sede di definitivo, se con espressa causa solvendi, quindi il preliminare sarà revocabile in uno con il definitivo stesso. Per quanto riguarda i vizi della sentenza ex art. 2932 c.c., bisogna distinguere la sentenza-atto dal rapporto giuridico che ne deriva, la prima è impugnabile con i rimedi giurisdizionali (appello, revocazione, cassazione), non con quelli negoziali (nullità, annullabilità, rescissione). Contro gli squilibri del rapporto vale la risoluzione per inadempimento ed eccessiva onerosità e impossibilità sopravvenute. In caso di fraudolenza, i creditori non potrebbero agire ex art. 2901 c.c. L’eventuale invalidità o rescindibilità del preliminare andrebbe eccepita nel giudizio ex art. 2932 c.c..

 

Il contratto normativo.

La dottrina ha da tempo evidenziato l’esistenza di accordi connotati da una funzione normativa, idonei a determinare l’insorgenza di regole, di precetti ai quali le parti dovranno uniformarsi o sottostare nel compimento di una determinata futura attività. Il contratto normativo è, dunque, quel contratto con il quale le parti pur non disponendo dei loro interessi, regolano preventivamente, in tutto o in parte, il contenuto di altri contratti che eventualmente stipuleranno in futuro, senza vincolarsi alla conclusione degli stessi. Secondo un’interpretazione restrittiva, un contratto non può avere come unica finalità quella di fissare il regolamento per i rapporti giuridici eventuali e futuri, escludendo che il contratto normativo sia un vero e proprio contratto.

Esso può avere efficacia interna, vale a dire solo tra gli stipulanti, o esterna, riguarda i rapporti tra stipulanti e terzi, come nel caso dei contratti collettivi di lavoro, destinati a sortire effetto nei confronti anche di soggetti che non hanno partecipato alla stipulazione. In questa categoria rientrano anche gli accordi c.d. direttivi, con i quali le parti si danno reciproci consigli o raccomandazioni. Un esempio può essere quello del patto parasociale, l’accordo in base al quale alcuni o tutti i soci disciplinano determinati aspetti del rapporto tra essi medesimi o della loro condotta dell’ambito della vita della società o nei rapporti con i terzi (ad esempio l’esercizio del diritto di voto, limiti al trasferimento delle azioni o delle quote, la nomina alle cariche sociali). Si può inoltre parlare di contratti normativi con riferimento al regolamento della comunione (art. 1106 c.c.) e del condominio (art. 1138 c.c.), ai contratti-tipo che scaturiscono dagli accordi fra le organizzazioni dei conduttori maggiormente rappresentative e le organizzazioni della proprietà edilizia ai sensi del 3° comma dell’art. 2 della legge 431/1998.

Per quanto riguarda la funzione, esso è contratto destinato a produrre non già un effetto immediato, bensì un’efficacia che si esplica in relazione a determinate future pattuizioni. Si tratta cioè di un atto negoziale destinato a disciplinare future ed eventuali contrattazioni, fissandone il contenuto. L’inadempimento è quindi legato alla stipulazione di convenzioni che vengano concluse in maniera difforme da esso (Tribunale di Napoli 31/12/98). Il problema centrale resta quello della vincolatività del contratto normativo rispetto a soggetti diversi dagli stipulanti: sia in relazione agli effetti diretti, sia agli effetti indiretti.

È importante sottolineare che non si tratta di un contratto, come il preliminare, che obbliga a concludere un successivo contratto con contenuto già prefissato, ma di un fenomeno diverso che non tocca la libertà di concludere il contratto quanto piuttosto quella di fissarne il contenuto. Si parla impropriamente quindi di “contratto normativo”, dovrebbe parlarsi di “accordo normativo” perché le parti non dispongono dei propri interessi, ai sensi dell’art. 1321 c.c., ma fissano la disciplina di futuri ed eventuali contratti.

Esso può riguardare singole clausole o l’intero contenuto, come nel caso di contratti-tipo, quando tra le parti (ad es. impresa e fornitori abituali) si instaurano ripetuti rapporti contrattuali sempre identici. A tale accordo fanno seguito, di volta in volta, successivi accordi riferiti ai singoli contratti, il cui contenuto le parti si sono impegnate a fissare secondo quanto pattuito nell’accordo una tantum. Qualora una parte si rifiuti di contrarre secondo il contenuto prefissato pattiziamente, si avrà diritto al risarcimento del danno precontrattuale, ma non si potrà agire ex art. 2932 c.c. perché non vi è alcun obbligo a contrarre. L’accordo non è un pacto de contrahendo, ma un pacto de modo contrahendi, quel contenuto si inserirà, dunque, nel successivo contratto anche in caso di  silenzio e di assenza di clausole contrastanti.

L’accordo normativo non fa venir meno la libertà di contrarre, ma le trattative per i successivi contratti, salvo in presenza di mutazione delle condizioni di mercato, essendo in tal caso contrario a buona fede pretendere l’esecuzione dell’accordo senza rinegoziarne i contenuti, ovvero quando le parti, si accordino ad inserire clausole difformi. Le clausole difformi eventualmente pattuite, secondo una tesi ormai in via di superamento, sarebbero sostituite da quelle dell’accordo, che avrebbe efficacia non già obbligatoria ma reale, cosicché le parti in tanto potrebbero disporre diversamente, in quanto ponessero prima nel nulla, risolvendolo, l’accordo stesso. Il quale avrebbe quindi un carattere legale e non pattizio, e la sostituzione delle clausole in esso contenute sarebbe analoga a quella prevista dall’art. 1339 c.c., mentre la forza di legge di cui parla l’art. 1372 c.c. si riferisce al singolo contratto dispositivo e non già ad un accordo una tantum.

 

Conclusioni.

Come detto in precedenza, il negozio di accertamento, essendo una dichiarazione di volontà diretta a realizzare effetti giuridici, può spiegare effetti anche per il passato, in quanto la sua funzione è quella di fissare, ex post, il contenuto di un rapporto giuridico preesistente, precludendo ogni contestazione al riguardo. 

Basandosi sul principio di autonomia contrattuale deve poi essere considerato assolutamente ammissibile il contratto normativo, il quale, avendo ad oggetto la dispiplina di negozi giuridici eventuali e futuri e fissandone preventivamente il contenuto, non comporta il sorgere di un rapporto da cui scaturiscono diritti o obblighi immediati per i contraenti, ma detta solamente norme intese a regolare il rapporto nel caso in cui le parti decidano di porlo in essere.

È quindi evidente, la differenza con il contratto preliminare ex art. 1351 c.c., il quale non è più visto solo come un pactum de contrahendo ma come un vero e proprio negozio produttivo di effetti giuridici e destinato a realizzare un assetto di interessi prodromico a quello che si concluderà, in un secondo momento, con il contratto definitivo il quale viene ad assumere carattere necessario. Dal preliminare nasce quindi un'obbligazione tra i contraenti a concludere il definitivo, altrimenti si potrà agire, contro la parte inadempiente, richiedendo una sentenza ex art. 2392 c.c.