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Pubbl. Mer, 6 Apr 2016

I dialoghi sul diritto: giustizia, certezza e processo

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Ludovica Di Masi


Un tema di indubbio fascino è rappresentato dalla giustizia in relazione alla certezza del diritto, intesa come affidamento del cittadino allo ius. Che rapporto sussiste tra giustizia e certezza del diritto? Di quale certezza parliamo? Possiamo avere un affidamento incondizionato nei confronti del diritto? Ludovica Di Masi, studentessa di giurisprudenza e autrice di camminodiritto.it ne ha parlato con il Prof. Jordi Nieva-Fenoll, docente ordinario di diritto processuale all´Università di Barcellona.


Nel contributo che segue i due interlocutori, partendo dal concetto di certezza del diritto, si chiedono quale sia il volto della giustizia odierna e se la "Scienza Giuridica" possa costruire, nell'Io interiore dei cittadini, un senso di certezza del diritto e della pena.

Per arrivare ad una conclusione, necessarie sono le riflessioni sulle strategie processuali, sulla formazione del giudice, e sul così detto "fattore umano" quale punto nodale dell'applicazione del diritto.

***

Ludovica Di Masi: Da sempre si è pensato alla certezza del diritto come un principio immanente nell'ordinamento e garanzia assoluta di giustizia. Per certezza del diritto si intende chiarezza delle norme al punto tale che un cittadino può preventivamente conoscere le conseguenze giuridiche delle sue azioni od omissioni.

Collegato al concetto di certezza del diritto è quello di certezza della pena (nulla poena sine lege): la pena è certa se il reo viene punito con la pena stabilita dalla legge.

Indubbiamente, il senso di certezza costruisce nei cittadini un senso comune di giustizia, una giustizia formale che non guarda tanto ai particolari del caso concreto ma che garantisce applicazioni di leggi generali, sulla base del principio di uguaglianza e della sussunzione della fattispecie concreta nella fattispecie astratta: in altre parole, dalla certezza deriverebbe un senso di protezione.

Dobbiamo domandarci, però, se i principi di certezza del diritto e di certezza della pena ad oggi non risultino solo delle formule vuote e se questa giustizia formale basti oppure si debba guardare ad una giustizia sostanziale.”

Jordi Nieva-Fenoll: Sono d’accordo con il bisogno di certezza del diritto e sul fatto che la stabilità della legge contribuisca a questa certezza. Comunque, non condivido l'idea che la presenza della legge, specificamente quella penale, dia ai cittadini un senso di giustizia. I cittadini purtroppo non conoscono il diritto perchè di diritto non si parla normalmente a scuola. Studiamo letteratura, matematica, física, storia, etc, ma non si riserva spazio per il diritto nell’insegnamento preuniversitario.

Dunque, il senso della giustizia dei cittadini rimane, secondo me, schiavo dell’educazione dei genitori e di conseguenza di quello che hanno imparato dalla religione perchè a scuola, come detto, non si impara il ragionamento giuridico, ma si trasmettono certezze proprie delle scienze naturali. Con la religione, invece, si apprendono i valori morali che senza dubbio sono alla base dell’ordinamento giuridico, anche di un ordinamento laico. Ma l’approccio della religione non è scientifico e neanche pretende di esserlo. Invece il ragionamento giuridico deve essere non solo scientifico, ma anche argomentativo e l'argomentazione è un elemento poco usato sia nella religione che (sorprendentemente) nelle scienze naturali.

Credo che questo metodo d'insegnamento sia in qualche modo difettoso e provochi disorientamento nei cittadini in ordine alla formazione interiore del senso di giustizia.

LDM: A dire il vero, in Italia l'insegnamento del diritto avviene anche prima di approdare all'Università, con l'Educazione Civica ma indubbiamente, essendo l'Italia sede della cristianità, è sottintesa una immistione della fede anche nella formazione delle "coscienze giuridiche" degli studenti.

Non è questa la sede per poter approfondire un discorso simile e per tornare a noi, credo che per arrivare ad una soluzione in ordine al rapporto giustizia-certezza bisogna capire prima di quale certezza stiamo parlando.

Già Kelsen affermava che la certezza del diritto fosse un'illusione, perchè risulta impossibile per un cittadino prevedere la decisione di un giudice, considerato il tasso più o meno alto di discrezionalità che s'insidia nell'interpretazione di una norma.

JNF: Certo. In effetti, molto, se non tutto, finisce col dipendere dal giudice. L’ordinamento può essere il più preciso, il più certo possibile, resta il fatto che siamo sempre nelle mani del giudice, come hanno dimostrato i realisti, fra gli altri. E penso che le sue decisioni siano spesso incomprese per due fattori principali. Prima di tutto, anche il giudice è schiavo di questa educazione tradizionale della quale ho già parlato, con tutti i suoi difetti. Il secondo aspetto è che, anche quando il giudice non sbaglia, usando correttamente il metodo scientifico nella applicazione della legge, la gente non approva la sentenza se non coincide con le sue aspettative. E le aspettative dipendono dall'educazione. Si forma così un circolo vizioso pericolosissimo del quale siamo vittime da secoli.

LDM: Si, in effetti il background culturale e l'educazione dei cittadini sono una zavorra molto pesante per il giudice, a maggior ragione oggi che si è diffuso il problema dei processi mediatici.

C'è da dire, però, che in passato il giurista ha sempre cercato di semplificare il lavoro del giudice e di renderlo neutrale il più possibile. Ha sempre cercato di coniare tecniche e metodi per raggiungere la certezza giuridica. La volontà degli studiosi del diritto era, infatti, sempre quella di avvicinare la scienza giuridica alle altre scienze che usano un metodo applicativo direi automatico e preciso: la matematica, ad esempio. Dal momento in cui Galileo, ne "Il Saggiatore", asserisce che il libro della natura è scritto in "lingua matematica" (1) ha avuto inizio il processo di matematizzazione che coinvolge non solo la fisica e la chimica ma anche le scienze umane, e a mio avviso, di sicuro anche la scienza giuridica. La matematica appare a molti una scienza esatta ed è per questo che la si vuole applicare al diritto.

Come nella matematica, il diritto ha i suoi metodi (metodo induttivo, metodo deduttivo), il giurista deve possedere un metodo, inteso come l'insieme dei procedimenti intellettuali che si utilizzano per interpretare e prima ancora, costruire le norme. Certo è che anche se possedere un metodo risulta necessario, non è detto che averlo ci consenta di districarci nella complessità dell'ordinamento.

Nell'ambito del formalismo giuridico, un metodo che guarda al diritto come forma negando importanza al contenuto, troviamo il dogmatismo che guarda alle norme come dogmi, valide solo perchè esistenti. Anche su questo punto il richiamo alla matematica, e forse ad altri saperi, è chiaro. Il dogma è una verità assoluta che non va dimostrata, la si trova nei teoremi e nelle loro dimostrazioni, laddove il dogma è l'unico punto certo di partenza per risolvere, ad esempio, un problema geometrico.

Nel tempo si è cercato di dare una sistemazione certa il più possibile dell'ordinamento giuridico: la suddivisione in codici, capi, titoli, norme, articoli e commi sono esempi chiari dell'incessante volontà di schematizzare il sistema.

La terminologia difficile e fuorviante ha come scopo la creazione di un linguaggio (una lingua) a sè stante: il linguaggio giuridico.

Quest'ultimo presenta espressioni attinte dalle scienze naturali: si pensi a termini come fisiologia, patologia, dogma, negozio giuridico, corpo giuridico, organo, prescrizione, sistema (giuridico).

Ma il diritto è diverso dalle altre scienze.

JNF: Mi piace molto che parli di “altre scienze”, perchè il diritto è una scienza come le altre. Il diritto deve utilizzare il così detto metodo scientifico. Fin ora questo metodo si è normalmente allontanato dai nostri studi, perchè è stato usato il riferimento agli“argomenti di autorevolezza”, cioè il metodo scolastico, la cui origine religiosa è indiscutibile.

Mi infastidisce moltissimo quando i giuristi dicono che un' affermazione è certa perchè lo dice un altro autore, o perchè la giurisprudenza conferma questo risultato. Questo modo di operare è basato su un errato calcolo statistico della coincidenza di parerierrato perchè non vi è una visione d'insieme: alcuni autori, ma non tutti. Parte della giurisprudenza, ma di nuovo non tutta. Ma anche quando si fa un calcolo statistico completo di pareri, il risultato è ugualmente basato sulla fallacia dell’autorevolezza. E' sbagliato considerare certa una conclusione perchè lo dice una persona “autorevole”, oppure perchè lo dice il popolo: una conclusione è certa perchè tutti pensano univocamente che lo sia? L’epistemologia ha dimostrato come sono errate queste strategie di pensiero.

Il diritto è una scienza che deve formulare ipotesi che poi devono essere confermate da un'analisi sulla realtà sperimentale, senza dimenticare una adeguata argomentazione. Il giorno che si capirà questo, le leggi si faranno in modo migliore perchè verranno precedute da ricerche sul campo, applicando la legge in situazioni sperimentali prima di essere approvate. Se seguiamo questa linea di pensiero,penso che per i cittadini sarà più facile capire meglio cosa sia il diritto e, finalmente, la giustizia.

LDM: Il punto è che si è molto dibattuto sulla cosiddetta "sussunzione sotto leggi scientifiche", facendo riferimento alle leggi scientifiche di copertura. Il problema è che quando non vi è una legge universale da cui attingere per capire se quella condizione è da considerare causa dell'evento (limitata efficacia euristica), l'unica soluzione è quella di riferirsi ad una legge statistica e quindi guardare alla probabilità. Il passaggio fondamentale è quello di non fermarsi ad una probabilità statistica ma di proseguire con un giudizio di logica che verifichi la reale credibilità dell'applicazione di quella legge statistica a quel caso (Sentenza Franzese). Ecco che il lavoro del giudice richiede uno sforzo che va oltre la mera applicazione di una legge scientifica.

Poi, lo sforzo del giudice è maggiore anche perchè deve tener conto di un elemento (il più importante) che differenzia il diritto dalle altre scienze: il fattore umano, la Persona.

Se il compito del matematico è quello di calcolare, ragionare e giungere ad una conclusione che sarà ferma nella sua datità, la soluzione del giurista non sarà mai valevole per tutte le altre situazioni. Nei paesi anglosassoni vige il criterio del precedente giuridico vincolante: è solo una semplificazione perchè nessun fatto sarà mai uguale ad un altro. Ha ragione il prof. Pietro Perlingieri a dire che l'applicazione analogica è un passaggio obbligato dell'interpretazione ma resta sempre il fatto che una soluzione potrà essere adeguata oggi ma domani non lo sarà più. Questo perchè il diritto non è fine a se stesso, non è scevro dalle altre scienze.

Quindi sono d'accordo con lei nel dire che la scienza giuridica è una Scienza, ma a mio avviso sarebbe meglio configurarla come un tertium genus, a metà strada tra le scienze logico-matematiche e le scienze umanistiche.

Concordo nel ritenere inadeguato il metodo meramente statistico e/o autorevole. Prima di tutto perchè "nelle indagini gli errori statistici si presentano con una frequenza incredibile" (Ray Hill) anche perchè spesso avvocati e magistrati hanno una preparazione statistica scarsa. In secondo luogo, la certezza giuridica non sembra poter sfociare dall'utilizzo del linguaggio matematico se si pensa che in realtà anche nell'ambito della stessa matematica "ogni misurazione è affetta da errori". (2)

Ergo, il linguaggio giuridico non può essere considerato alla stregua del linguaggio matematico.

JNF: Sono d’accordo, ma credo che il diritto possa essere “preciso”, o quantomeno più preciso, tenendo conto anche del “fattore umano”. Quando si parla di fattore umano ci riferiamo a quell'nsieme di reazioni e situazioni della persona talmente denso da risultare inafferrabile fino ai suoi ultimi confini. Io credo, comunque, che dobbiamo abbandonare la conclusione per cui il fattore umano sia del tutto incontrollabile. La psicologia cognitiva (Tversky e Kahneman, tra gli altri) ha dimostrato come sia basico il nostro pensiero, come le decisioni che normalmente prendiamo siano basate su alcune –poche – generalizzazioni statistiche. Decidiamo quasi sempre quello che crediamo sia più frequente – più normale – perchè lo abbiamo fatto sempre così o perchè lo abbiamo visto nel comportamento degli altri. Oppure crediamo che un fatto sia più frequente perchè lo ricordiamo meglio, e spesso il ricordo è più vivo perchè il fatto è più impressionante rispetto ad altri (si pensi agli incidenti gravi, per esempio). È per questo che le persone hanno più paura quando volano che quando guidano, anche se guidare è statisticamente molto più pericoloso.

Conoscere il “fattore umano” dipende dal conoscere bene questi stimoli, dall'essere più consapevoli di come funziona la mente umana. Quando una situazione reale è sconosciuta, manca semplicemente l'indagine sulla realtà. Questo studio porta sempre ad avvicinarsi alla verità, alla soluzione corretta, e finalmente a quello che chiamiamo “giustizia”. Non dobbiamo rinunciare mai a conoscere, a sapere.

LDM: Certo. Credo, però, che siano necessarie alcune precisazioni.

Regolare la vita sociale (dalla quale il diritto non può prescindere) è difficile. Una norma quando nasce è ormai vecchia perchè alla sua base ci sono esigenze che ormai, nel tempo in cui si è provveduto a scrivere la norma, sono già cambiate. Il fatto è che per un giudice è molto più semplice applicare la norma allargandola e restringendola come un ventaglio.

Nell'ambito del processo (sia civile che penale) sono stati ideati dei programmi informatici che, seguendo le regole della probabilità, comparano il caso da risolvere con altri già risolti e danno come risultano una possibile assoluzione o condanna. In effetti a partire dal XVII secolo "è stato riconosciuto che la matematica possa giocare un ruolo fondamentale anche in questioni che attengono al caso puro e semplice." (3) Sono state date tante definizioni e formule della probabilità ma in fondo il caso resta sempre caso. Jerome Frank, allora, ben faceva a dire che la certezza del diritto è irrealizzabile perchè il diritto è composto da decisioni giudiziarie che sono assolutamente imprevedibili.

Il diritto risulta una scienza colma di "fattori variabili" (come quei principi che nascono dalla prassi) e per questo incerta per natura.

JNF: Come detto, mi sembra che l’approccio statistico sia giusto. Ma non deve essere basato sulla soluzione di altri casi. Questo modus operandi (il precedente giuridico vincolante) può essere considerato un esempio di come una idea giusta – lo studio statistico – possa vedersi contaminata da una fallacia argomentativa: “l’errore di autorevolezza”. Assumere che i giudici hanno deciso in maniera corretta soltanto perchè sono giudici è ovviamente sbagliato. Invece, cercare di capire le circostanze sociali che sono alla base di ogni caso giudiziario porta allo studio di questi “fattori variabili”. Se non rinunciamo a conoscere quello che veramente possiamo conoscere, anche con grande sforzo, cadiamo nuovamente nel dogma, nel “mistero”, insomma negli errori che fanno le persone e di conseguenza i giudici.

LDM: Il punto è che se l'incertezza del diritto porta ad un senso di ingiustizia, paradossalmente anche laddove riuscissimo a raggiungere un criterio di certezza, i cittadini potrebbero approdare al senso di ingiustizia. Mi riferisco ad una certezza intesa come pedissequa applicazione della norma, risultato di una giustizia formale, quale artefizio del legislatore per "deresponsabilizzare" il giudice.

A mio avviso, più ci avviciniamo ad un utilizzo della scienza giuridica come scienza naturale – e dunque come scienza pseudocerta – più ci allontaniamo dal raggiungimento della giustizia.

Tenendo sempre presente la naturale connessione tra giustizia, processo e certezza del diritto, richiamo l'art. 111 della Costituzione italiana al primo comma che afferma che la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. Dunque, il processo penale si ritiene giusto quando segue alla lettera il dettato della norma, ripercorrendo un ideale di giustizia fondata sulla certezza delle norme.

Siamo soddisfatti da questa idea di giusto?

Come può essere sempre e comunque giusto un processo che segue le norme, considerato che le norme sono fatte dagli uomini che per loro natura sono limitati? E' qui che deve intervenire la coscienza del giudice, che da "peritus peritorum" deve spesso scavalcare gli schemi giuridici, raggiungere l'anima della controversia, considerare la Persona ­– e non più la parte –, interrogarsi sui suoi bisogni e realizzarne gli interessi. A mio avviso, il processo è "giusto" nel momento in cui va a soddisfare la vittima, la persona offesa dal reato e la collettività.

JNF: In diritto si parla del metodo grammaticale, logico, storico, sistematico e teleologico nell’interpretazione delle norme. Ma quando si giudica si utilizza quasi esclusivamente il metodo grammaticale.

Come ha detto, il giudice deve tenere conto della Persona. È curioso come cercando di essere più giusti, più prevedibili, abbiamo fatto un uso sbagliato di quello che insegnano le scienze naturali. Applicando matematicamente la norma, non siamo sicuri che i fattori che consideriamo siano assolutamente corretti. Ricalchiamo soltanto la parte facile della matematica, ma rinunciamo alla parte difficile, che sarebbe dimostrare i fattori, cioè quello che lei ha chiamato bellamente “l’anima della controversia”.

Questa anima sono i “fattori variabili” di cui abbiamo già parlato. La sociologia, la psicologia, anche la medicina hanno studiato moltissimo questi fattori. Non ha senso che i giuristi non abbiano queste materie alla base della loro istruzione. La “giustizia” dipende dalla sua essenza indubbiamente scientifica. Solo così possiamo porre al centro della protezione del sistema penale il reo (senza dimenticare la vittima), vedendo nella pena non più una punizione, nemmeno una vendetta, ma un trattamento che ripristina lo status di vita precedente alla commissione del reato. Gli sforzi più importanti si devono fare per includere il reo nella società. Ma, ripeto, senza dimenticare mai la protezione della vittima.

LDM: Si, concordo.

Il processo si allontana sempre dalla verità storica, ma questo a volte è proprio "colpa" del diritto. Il diritto è un mondo articolato e artefatto che con lo strumento-processo costruisce una verità artificiale. Che la verità raggiunta con il giudicato sia diversa da quella storica è certo ma, indipendentemente dalla verità, la decisione del giudice deve avere lo scopo di ripristinare l'ordine tra i consociati. Se ciò non avviene non vedo come la decisione – e il processo – possano ritenersi giusti.

JNF: Secondo me, il processo, il giudizio insomma, non deve mai allontanarsi della verità storica. La formazione di giudici ed altri operatori della giustizia – polizia, pubblico ministero – in scienze non giuridiche come quelle che ho citato prima – psicologia, sociologia, medicina, e criminalistica nel processo penale – farebbe di questi operatori persone più preparate per indagare e scoprire la verità storica. Così, con una dovuta applicazione del diritto, le sentenze sarebbero più giuste. Non possiamo fidarci soltanto di pareri di consulenti tecnici che noi giuristi non capiamo.

LDM: Ergo, giustizia non deve essere intesa come pedissequa applicazione delle norme ma giungere ad un punto in cui i soggetti del processo possono ritenersi minimamente soddisfatti. E per soggetti del processo intendo anche il reo, l'imputato e l'indagato. Possiamo dire che la decisione è giusta solo quando l'imputato arriva ad accettare o quantomeno a rispettare la sentenza. Ed è qui che entrano in gioco i principi fondamentali dell'ordinamento che devono essere alla base ma debbono applicarsi in relazione alla persona cioè, tenendo conto delle condizioni che hanno spinto a compiere un determinato reato. La rieducazione, come affermata nell'art. 27 Cost. al comma 3 , non solo non è abbastanza applicata dopo che la sentenza sia passata in giudicato – e già questo è un problema– ma questo principio dovrebbe impregnare anche lo stesso processo. Nel momento in cui l'imputato si dichiara colpevole, ad esempio, si potrebbe partire da subito con un programma di rieducazione. Ma in altri casi la rieducazione è una forzatura per il reo. Si pensi alla casalinga che fa esplodere la casa per una disattenzione nell'utilizzo del gas e che nell'esplosione perda la vita suo figlio. In questo caso la rieducazione risulterà superflua perché la donna avrà subito un trauma talmente forte che probabilmente la sua accortezza, la sua prudenza, in futuro saranno molto più elevate degli altri consociati. (4) Quindi bisogna guardare anche alla meritevolezza della pena e allora, il sillogismo "se fai x, paghi y" non può essere considerato alla stregua di un'equazione matematica. Non può esserci una formula valevole per tutti i casi.

Inoltre, possiamo dire che la pena non è mai quella minacciata nella norma di riferimento. Oggi molti (Andrea Castaldo, fra gli altri) parlano di "pena virtuale" perchè ci sono dei meccanismi (rito abbreviato, patteggiamento, sconto per buona condotta, sospensione condizionale della pena etc.) che riducono la pena e la rendono spesso sproporzionata rispetto all'offesa al bene o addirittura la azzerano. Tutto ciò è un ulteriore causa dell'incertezza della pena prima e di un senso di ingiustizia poi.

JNF: Prima di tutto, credo che il giudicato non sia un problema in se, ma una garanzia necessaria della giustizia: il divieto di bis in idem. Ma condivido con lei ciò che ha detto sul reo, che io preferisco chiamare sempre reo – etimologicamente “coinvolto con la “res”, la causa, il giudizio” – perche mi sembra la denominazione più neutra, anche se sia storicamente demonizzata, supera così categorie intermedie come imputato o indagato che cercano inutilmente di identificare il reo nelle diverse fasi del processo, cercando di essere rispettosi della sua “innocenza”. Io ritengo che questo pensiero sia sbagliato perchè provoca l’effetto contrario. Un “imputato” è meno innocente di un “indagato”? Non sono tutti ugualmente innocenti fino a che non sono condannati?

Come dicevo, condivido il suo pensiero sul reo. Fin dall’inizio del processo deve essere trattato adeguatamente. Durante il processo bisogna condurre il reo verso l'accettazione della sua situazione, facendo capire i vantaggi della difesa e della presunzione d’innocenza, ma anche occupandosi delle conseguenze socialmente dannose che deriveranno per lui, per i suoi familiari ed amici, all'esito del processo penale. Dopo la sentenza, con la rieducazione non invasiva ne annullatoria della volontà.

LDM: Non condivido l'idea di indentificare reo, imputato e indagato. Preferisco, in realtà, mantenere le distinzioni così da poter essere maggiormente garantisti, perchè gli esseri umani sono spinti a ragionare per preconcetti e ormai nel linguaggio comune il termine "reo" è utilizzato in modo molto dispregiativo. A mio avviso, meglio parlare di Persona e solo in caso di sentenza passata in giudicato di reo.

Ad ogni modo, nella mia ottica di "soddisfazione dei consociati" e di "rassegnazione operosa del condannato", la giustizia si atteggia come il risultato di una metodica applicazione dei principi costituzionali ed internazionali. Solo i principi possono portarci lontano dal senso di giustizia come vendetta.

La mia idea è dunque vicina ad un'ottica personalistica, dove il giudice, come un bravo medico, deve stabilire la cura adeguata per i soggetti del processo. Ecco che l'idea di una giustizia formale sembra superata da una giustizia sostanziale.

JNF: La comparazione del giudice al medico mi sembra giusta, ma io la amplierei ai giuristi in generale. I giuristi vengono chiamati a guarire i conflitti, che sono le malattie della società.

È stato un piacere conversare con lei.

LDM: Mi sembra una conclusione più che adeguata. Ovviamente il piacere è stato mio.

 

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Note e riferimenti bibliografici

(1) tratto da "il Saggiatore" di Galileo Galilei (Pisa,1564-Arcetri,1642): "La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l'universo), ma non si può intender se prima non s'impara a intender la lingua ,e conoscer i caratteri, né quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi e altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto. “Galilei è considerato il padre del metodo sperimentale e della scienza moderna.”

(2) "Matematica per la vita. Anche dove non te l'aspetti", M.Degiovanni, R.Lucchetti, A.Marzocchi, M.Paolini. FONDAZIONE ACHILLE E GIULIA BOROLI, Studio CREE-Milano, REDINT Studio s.r.l.,2009 pag.36 

(3) Pag. 64

(4) Esempio riportato al corso di Diritto Penale Parte Generale dell'Università degli Studi di Salerno dal prof. Andrea R. Castaldo.

In copertina "Giustizia", di Ludovica Di Masi, tempera, 2016.

Descrizione dell'opera: Giustizia non è più fiera e neanche bendata. La sua bilancia ha piatti diseguali e non riesce a portare a termine il suo compito.