Pubbl. Mer, 19 Nov 2025
Le Sezioni Unite sul riconoscimento dell´assegno anche in caso di scioglimento dell´unione civile
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Lorenzo Motta

L’ordinanza della prima sezione della Corte di Cassazione N 25495 del 17 settembre del 2025 torna a pronunciarsi sul tema, sempre attuale, dell’assegno di divorzio (art. 5, co. 6, L. N 898/1970) e del suo possibile e necessario riconoscimento nell’ambito delle unioni civili. Il presente contributo, dopo una ricostruzione dell’istituto in dottrina e giurisprudenza, si concentrerà nell’analisi degli approdi ermeneutici da cui trarre il fondamento del riconoscimento dell’assegno divorzile anche alle unioni civili.
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The ruling of the First Section of the Supreme Court No. 25495 of 17 September 2025 returns to the ever-topical issue of divorce maintenance (art. 5, co. 6, L. N 898/1970) and its possible and necessary recognition in civil partnerships. After reconstructing the institution in doctrine and jurisprudence, this contribution will focus on analysing the hermeneutic approaches from which to draw the basis for the recognition of divorce allowances also for civil unions.Sommario: 1. Assegno di divorzio: natura e disciplina giuridica nel corso del tempo; 2. Il caso odierno: L’ordinanza N° 25495 del 17 settembre 2025; 2.1 Analisi del caso; 3. Considerazioni finali
1. Assegno di divorzio: natura e disciplina giuridica nel corso del tempo
La vicenda cui, oggi, si intende sottoporre a commento, rientra in un filone dottrinale e giurisprudenziale che ha visto, nel corso del tempo, alcuni cambi di rotta. Questi cambi hanno portato a quella che oggi è l’odierna disciplina dell’assegno di divorzio, meritevole, prima di procedere all’analisi della ordinanza in commento e per fornire un quadro completo, di una lettura diacronica circa la sua natura giuridica e la disciplina.
L’istituto dell’assegno di divorzio viene introdotto per la prima volta con la Legge sul divorzio (L. N° 898/1970) all’art. 5 come misura protettiva a favore del coniuge economicamente svantaggiato[1], caratterizzato da una natura composita assistenziale, risarcitoria e compensativa, per come precisato anche dalla Cassazione a Sezioni Unite N° 1194/1974[2] che, in aggiunta, ribadiva una posizione paritaria di tutti i criteri di valutazione indicati dalla norma in piena attuazione del principio costituzionale della parità ed eguaglianza dei coniugi.
Al tempo stesso, però, la normativa non prendeva in considerazione il criterio temporale della durata del rapporto, complice la natura eccezionale dello strumento dovuta al contesto sociale del tempo, in cui prevaleva la concezione dell’indissolubilità del matrimonio e la presunzione di una lunga durata dello stesso[3].
L’esclusione del criterio della durata del rapporto veniva meno solo con la riforma contenuta nella L. N° 74/1987 che, accanto ai criteri già noti, lo riconosceva insieme alla non adeguatezza dei mezzi del coniuge che richiedeva l’assegno. Ma ancora nessun chiarimento giungeva in merito al fondamento dell’istituto. E infatti, questo intervento di riforma, di preciso l’unico intervento, portò allo svilupparsi di due opposti orientamenti giurisprudenziali[4]: il primo individuava il presupposto della “non adeguatezza dei mezzi” al tenore di vita durante il rapporto matrimoniale[5]; il secondo faceva coincidere il criterio alla necessità di un modello di vita economicamente autonomo e dignitoso[6].
Si rese, così, necessario un nuovo intervento della Corte di Cassazione a Sezioni Unite che, sempre nel 1990, inaugurava, con una serie di sentenze, un orientamento giurisprudenziale consolidatosi per circa trent’anni e che, non solo rilevava la sostanziale differenza con l’assegno alimentare; bensì sottolineava come lo stesso svolgesse una funzione esclusivamente di natura assistenziale[7], dove il presupposto per la valutazione dell’an coincideva nella non adeguatezza di mezzi propri e l’impossibilità nel procurarseli per ragioni di natura oggettiva; mentre tutti gli altri criteri, invece, avrebbero avuto una rilevanza solo in tema di valutazione del quantum da risarcire entro un tetto massimo individuato dal “tenore di vita”. In altre parole, la valutazione del riconoscimento del diritto veniva impostata su un procedimento bifasico, suddiviso in due momenti.
Ovviamente, la valutazione del quantum e le modalità di applicazione dei criteri erano attribuite alla discrezionalità del giudice, permettendo questi potessero essere meglio adattati al caso concreto. Proprio per questo, forte impatto nella definizione dell’assegno proveniva dal criterio della durata del rapporto. Non pochi, infatti, i casi in cui la stessa Corte di Cassazione è arrivata a escludere l’assegno sulla base della breve durata del matrimonio[8]. Altre volte, complice l’ampio margine di apprezzamento e la perdurante concezione tradizionale della indissolubilità del matrimonio, il criterio della durata veniva ritenuto irrilevante a fronte della primaria esigenza di far prevalere il principio solidaristico[9].
Orientamento granitico, quello introdotto dalla Suprema Corte nel 1990, perdurato fin quando la Cassazione decide di ritornare su questa tematica con un nuovo intervento a Sezioni Unite nel 2017, che ha portato alla pronuncia contenuta nella sentenza, la N° 11504 del 10 maggio, e annunciata dalla stessa dottrina come un “terremoto”[10].
Una sentenza dalla portata rivoluzionaria, in pieno contrasto con il precedente orientamento poiché andò ad individuare un criterio diverso ai fini del riconoscimento dell’assegno, ovvero della “indipendenza o autosufficienza economica” della parte richiedente. Pertanto, il criterio del tenore di vita, ritenuto totalmente in contrasto con la ratio del diritto all’assegno, veniva superato e si iniziava, così, a dare rilievo alla natura meramente assistenziale dell’assegno e alla prevalenza del principio di autoresponsabilità. Tutto ciò confermando il riconoscimento al solo coniuge non in possesso di mezzi adeguati a vivere una vita dignitosa e che si trovi nell’impossibilità oggettiva di procurarseli.
In ogni caso, anche con la statuizione del 2017, permaneva ancora una valutazione bifasica del diritto all’assegno divorzile, considerata la possibilità di procedere ad analizzare gli altri criteri determinativi ai fini del quantum solo all’esito positivo della sussistenza del presupposto introdotto dalla Cassazione[11].
Ma, anche con il superamento del precedente criterio del “tenore di vita”, oramai necessario vista la profonda evoluzione della società e l’assenza di riferimenti normativi precisi, e la sua sostituzione con quello della “adeguatezza dei mezzi”, l’orientamento del 2017, comunque, non portò ad alcuna definizione del corretto inquadramento dell’assegno di divorzio. Anzi, la scelta assunta dalla Cassazione portò ad un ampio dibattito in dottrina[12] e fondato sulle non poche critiche mosse verso il nuovo criterio della adeguatezza dei mezzi e del forte rilievo riconosciuto all’autosufficienza e, quindi, al principio di “autoresponsabilità” che, limitato esclusivamente alla fase patologica del rapporto[13], rischiava, e non poco, di legittimare eventuali compressioni eccessive del diritto in capo al coniuge richiedente. Per di più, medesimo disorientamento si era notato in seno anche alla giurisprudenza giunta, complice la buona flessibilità dei criteri e dalla discrezionalità riconosciuta ai giudici, ad assumere posizioni e soluzioni tra loro differenti, passando da una riduzione estrema dell’assegno in alcuni casi e al riconoscimento esteso in altri[14].
In questo coacervo di opinioni e posizioni, veniva a prender forma un nuovo contrasto interpretativo tale da rendere necessario un nuovo intervento chiarificatore delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione.
L’intervento giunse in poco tempo nel 2018 con la sentenza N° 18287 del 11 luglio dove: da un lato si apprezzava il rivoluzionario lavoro posto in essere dalla prima sezione della Cassazione con la sentenza del 2017 che aveva portato al superamento del parametro del “tenore di vita” per la valutazione del criterio della “adeguatezza dei mezzi” mediante la sua sostituzione con il parametro della “autosufficienza economica”, a sua volta strettamente legato alla “autoresponsabilità” quale principio fondamentale dell’assegno divorzile; dall’altro, però, rilevava attentamente come la prima sezione avesse commesso un grave errore nel momento in cui andava a legare l’autoresponsabilità solo alla fase patologica del matrimonio, poiché avrebbe sicuramente ridotto la portata dell’istituto e avrebbe fatto venire meno la vera funzione dello stesso.
La Cassazione, infatti, riteneva come l’autoresponsabilità, nonché l’autodeterminazione, fosse un elemento caratterizzante l’intera vita matrimoniale per cui, legandolo quale criterio di riconoscimento dell’assegno, esso avrebbe dovuto necessariamente dare rilievo non solo alla fase patologica, bensì a tutte le scelte libere e condivise, perciò anche le rinunce e i sacrifici posti in essere, durante l’intero rapporto matrimoniale. In tal modo, la sussistenza del requisito della “non adeguatezza dei mezzi” si sarebbe rilevata solo se causalmente dipendente «dal sacrificio di aspettative professionali e reddituali fondate sull’assunzione di un ruolo consumato esclusivamente o prevalentemente all’interno della famiglia e del conseguente contributo fattivo alla formazione del patrimonio comune e a quello dell’altro coniuge».
In altre parole, le SS. UU. giungono ad assumere una soluzione intermedia, per essere più precisi ad una lettura composita della normativa sull’assegno di divorzio[15], dove, accanto alla funzione assistenziale, viene posta in via preminente una funzione di tipo perequativo-compensativa che trova fondamento nel principio costituzionale della solidarietà e della pari dignità dei coniugi (artt. 2, 3 e 29 cost.). Ciò impone di tener conto non solo delle condizioni economiche dei coniugi, bensì soprattutto del concreto contributo fornito nella realizzazione del progetto familiare, al fine di veder garantita l’equa compensazione dei sacrifici effettuati valutati sulla base delle reciproche ragioni e degli interessi contrapposti.
Giunge così un nuovo orientamento, che andava a sostituire definitivamente quello introdotto negli anni ’90, che trovò sin da subito un ampio riscontro positivo nella giurisprudenza successiva, sia di merito che di legittimità. E che permise, a sua volta, proprio sulla scorta della nuova concezione dell’assegno divorzile visto come strumento di riequilibrio delle condizioni dei coniugi e di compensazione per l’apporto dato nella realizzazione del progetto familiare[16], di affrontare ulteriori problemi relativi proprio la sua applicazione e spinsero la nuova visione dell’assegno ad assumere connotati sempre più caratteristici.
Tra questi, forte rilievo all’ipotesi del convivente più debole che, dopo il divorzio, abbia costituito una nuova famiglia di fatto mediante convivenza stabile che rese necessario un nuovo intervento a SS. UU. della Cassazione con sentenza resa nel 2021[17]. Qui gli ermellini, vista la rilevanza ampia assunta dalla nuova funzione perequativo-compensativa dell’assegno divorzile, furono indotti a rivedere la posizione assunta in precedenza affermando come la nuova convivenza non potesse determinare di per sé l’automatico rigetto dell’assegno divorzile. Il fondamento di tale affermazione lo si ritrovava proprio nella funzione compensativa che, per le SS. UU. del 2021, non andava semplicemente ad affiancarsi alla funzione assistenziale, bensì assumeva un carattere autonomo e distinto poiché essa discendeva direttamente dal principio solidaristico e dall’esigenza di compensare i sacrifici posti in essere nel precedente progetto familiare. In altre parole, l’assegno non aveva come scopo quello di ricostituzione del tenore di vita avuto in costanza del rapporto matrimoniale, bensì anche solo quello di riconoscere il ruolo e il contributo dato dall’ex coniuge economicamente più debole alla formazione del patrimonio familiare e personale dell’ex coniuge[18].
Pertanto, con il 2021 si giungeva ad una scissione delle funzioni sia per la valutazione dell’an che del quantum dell’assegno: quella assistenziale aveva come punto di riferimento il raggiungimento dell’autosufficienza verso le esigenze del vivere quotidiano; mentre quella perequativo-compensativa al contributo fornito nel progetto familiare oramai concluso.
Insomma, un istituto, quello del divorzio, che nel corso del tempo è stato oggetto di un ampio dibattito e studio ma, soprattutto, di evoluzione dovuto sicuramente in parte all’evoluzione socio-culturale che ha interessato la società italiana a partire dagli anni 70 del ‘900, caratterizzati ancora da una concezione indissolubile del matrimonio e da una visione negativa del divorzio stesso, sino ad arrivare ai giorni nostri dove, non solo la visione sul divorzio sembra essere cambiata, ma anche la famiglia stessa e gli stessi legami familiari, non più limitati alla sola famiglia basata sul matrimonio, ma diversi sono i progetti familiari, come ad esempio le famiglie omosessuali, che hanno spinto ad una necessaria evoluzione dell’istituto per cercare, quantomeno, una forma di tutela adeguata sulla base del caso concreto.
Ovviamente, il tutto è stato reso possibile anche, forse soprattutto, dalla norma di riferimento che, nel corso del tempo, salvo l’unico intervento di riforma avutosi nel 1987, non ha mai avuto ulteriori modifiche circa la sua struttura. È rimasta, invece, immutata rendendo così possibile per la giurisprudenza la possibilità di adoperare nel tempo sempre nuovi mutamenti di indirizzo.
E la sua evoluzione non si è conclusa, ma ha continuato nel tempo al verificarsi di quelle che sono le esigenze della società che variano e assumono sempre nuove declinazioni, rendendone così necessario un adattamento ai sempre nuovi casi concreti. Ed è proprio su quanto appena detto che occorre fare un passo verso un altro settore che ha riguardato l’assegno di divorzio, ovvero quello delle unioni civili e del problema venutosi a creare con il criterio della “durata del rapporto” contenuto nella disciplina dell’assegno e di come questi dovesse intendersi nell’alveo delle unioni civili.
Un dibattito, non ancora sopito, che è giunto sino alla recente ordinanza resa dalla prima sezione della Cassazione, giunta a confermare una soluzione[19] che stava, man mano, assumendo un importante rilievo.
2. Il caso odierno: l’ordinanza N° 25495 del 17 settembre 2025
Dopo un excursus sullo sviluppo e l’adattamento nei vari periodi storici della disciplina dell’assegno di divorzio a partire dalla sua introduzione del 1970 sino ai giorni nostri, arriviamo alla tematica del commento che si intende offrire in questa sede, il tema dell’assegno di divorzio nel contesto delle unioni civili. Commento che si incentrerà sulla recente ordinanza della Corte di Cassazione, come in epigrafe indicata, assunta per fornire chiarimenti relativi la corretta applicazione dell’assegno di divorzio nelle unioni civili e inserendosi in un discorso già inaugurato nel 2023 dalle SS. UU. con la sentenza N° 35385.
Ma prima di proseguire, occorre una piccola premessa volta ad incentrare meglio il discorso. L’antefatto che ha portato allo sviluppo di questa nuova “problematica” lo si ritrova nella disciplina delle unioni civili. Essa, infatti, venne introdotta dalla L. N° 76/2016 che, tra i diversi aspetti, si occupò anche di disciplinare il loro scioglimento. Ed è noto che la disciplina dello scioglimento faccia rinvio, all’art. 1, co. 25, all’art. 5, co. 6, L N° 898/1970, ovvero a quella dell’assegno di divorzio nei rapporti matrimoniali che, tra i criteri, include anche quello della “durata del matrimonio”.
Il rinvio, perciò, portò necessariamente a chiedersi se il legislatore, nell’operare il rinvio, avesse voluto rapportare gli effetti patrimoniali dell’unione civile al solo periodo in cui questi si fosse svolta, oppure se bisognasse adoperare un indirizzo ermeneutico diverso.
La questione venne affrontata dalle SS UU nel 2023 che, sulla scorta della giurisprudenza precedente, sia nazionale e internazionale, e dell’evoluzione del contesto sociale in cui si era avuta una diffusione sempre maggiore delle convivenze di fatto come momenti prodromici all’instaurazione del vincolo coniugale, giunge ad assumere una concezione ampia del criterio, ricomprendendo anche il periodo di convivenza di fatto precedente il rapporto, in quanto nella fase di riconoscimento dell’assegno dovevano assumere rilievo le “concrete” modalità di svolgimento della vita familiare, di certo non limitata al solo periodo contraddistinto dall’unione, visto e considerata la possibilità che molte scelte di vita relazionale potessero benissimo essere prese ancora prima della instaurazione dell’unione civile, soprattutto se si considera relazioni familiari di coppie omosessuali nate prima della stessa disciplina del 2016 che, proprio per l’assenza di questa, non potevano ottenere idoneo inquadramento e rilievo giuridico. Circostanza, che non poteva assolutamente impedire alle stesse di prender forma nel concreto.
La questione sembrava esser stata risolta, tuttavia, a seguito del rinvio adoperato dalle SS UU del 2023 alla Corte d’Appello competente per la nuova valutazione sulla base del principio di massima statuito, si andò a verificare una vicenda non del tutto coerente con quanto statuito.
La nuova dinamica venutasi a creare ha, infatti, comportato un nuovo intervento della Cassazione confluito nell’Ordinanza che ora andremo ad analizzare
2.1 Analisi del caso
La premessa sopra operata si è resa necessaria per poter meglio comprendere il sostrato fattuale e giuridico in cui si è sviluppata la vicenda in commento. Ed ora è possibile procedere, oltreché opportuno, all’analisi del processo ermeneutico che ha portato gli ermellini ad assumere la statuizione oggetto del presente contributo.
La fattispecie processuale sorge quando Alfa decideva di convenire in giudizio Beta al fine di poter addivenire allo scioglimento della loro unione civile contratta il 17 dicembre 2016. Controparte non si opponeva allo scioglimento ma, al tempo stesso, proponeva domanda riconvenzionale al fine di vedersi riconosciuto un assegno.
Il tribunale di Pordenone accertava lo scioglimento dell’unione e riconosceva l’assegno in capo alla parte richiedente nella misura di Euro 550,00 con sentenza resa il 29 gennaio 2020. Ma la sentenza veniva impugnata da Alfa e la Corte d’Appello di Trieste, invertendo la posizione assunta dal giudice di prime cure, andò a respingere la domanda di riconoscimento dell’assegno.
A questo punto, Beta decide di proporre ricorso dinanzi la Corte di Cassazione che, statuendo a SS UU, arrivava ad accogliere il ricorso con la sentenza N° 35969 del 27 dicembre 2023 e procedeva a rinviare alla Corte d’Appello di Trieste, in diversa composizione, per un nuovo accertamento dei presupposti fondamentali per il riconoscimento dell’assegno sulla base del seguente principio: “in caso di scioglimento dell’unione civile conclusa ai sensi dell’art. 1, comma 25, della L. N° 76 del 2016, la durata del rapporto – individuata dall'art. 5, comma 6, della L. n. 898 del 1970 (richiamato dal citato comma 25) quale criterio di valutazione dei presupposti necessari per il riconoscimento del diritto all'assegno in favore della parte che non disponga di mezzi adeguati e non sia in grado di procurarseli - si estende anche al periodo di convivenza di fatto che abbia preceduto la formalizzazione dell'unione, ancorché lo stesso si sia svolto, in tutto o in parte, in epoca anteriore all'entrata in vigore della predetta L. n. 76 del 2016".
La vicenda ritornava, perciò, dinanzi la Corte d’Appello di Trieste che, tenendo conto la convivenza tra le due parti fosse iniziata a novembre 2013, andava a rilevare l’elemento della disparità economica tra le due, visto che Beta era dipendente ATA con uno stipendio pari ad Euro 1.300,00 mensili e un risparmio pari ad Euro 90.000,00 in comune con il proprio padre e viveva in un immobile in locazione con canone pari ad Euro 650,00 mensili, mentre Alfa godeva di uno stipendio di Euro 5.000,00 mensili e possedeva una casa di proprietà e un risparmio pari ad Euro 200.000,00. Provvedeva, successivamente, a rilevare i sacrifici sostenuti da Beta e la perdita di chance lavorativa nell’ambito della convivenza per la conclusione dell’incarico lavorativo con la precedente società a seguito del trasferimento a Pordenone. In tal modo, la Corte giungeva a valorizzare il carattere assistenziale – compensativo del contributo alla vita familiare e riconosceva nuovamente in capo a Beta il diritto ad un assegno pari nuovamente a Euro 550,00.
A seguito della nuova statuizione, Alfa decide nuovamente di proporre ricorso in Cassazione sostenendo come la Corte d’Appello avesse omesso l’esame di un fatto decisivo e, soprattutto, che la stessa avesse errato ad applicare il criterio perequativo – assistenziale – compensativo, in quanto la richiedente risultasse lavorare a tempo indeterminato, fosse di giovane età e senza figli a carico e, per di più, riteneva non sussistente la perdita di chance lavorativa e che la partner non avesse mai contribuito alla formazione del patrimonio suo e al suo successo professionale.
A questo punto, i giudici della Cassazione propendono per una analisi congiunta dei motivi giungendo ad una importante soluzione. Infatti, una volta superato il motivo dell’omesso esame, verso il quale i giudici assumevano come la Corte non avesse omesso alcun esame di fatto decisivo, bensì avesse tenuto debito conto dei diversi elementi rilevati in corso di causa, tra cui anche quelli antecedenti la formalizzazione dell’unione, procedono in una attenta analisi dell’assegno divorzile, anche in contrapposizione all’assegno di mantenimento, al fine di fornire un quadro completo della vicenda.
Il tutto partendo dall’affermazione secondo cui la Corte d’Appello avrebbe commesso un errore di diritto nella parte in cui ha ritenuto sussistente tanto il requisito assistenziale che quello compensativo sul solo presupposto della disparità economica.
L’errore per gli ermellini si era verificato nel momento in cui, dando per accertato il sacrificio fatto dal partner, ovvero la perdita di chance lavorativa, si era ritenuto integrasse il requisito assistenziale in via del tutto astratta per il semplice fatto della sussistenza della disparità economica. Gli stessi, infatti, ritenevano come fosse necessario il requisito assistenziale venisse integrato in concreto. Stesso ragionamento doveva valere per il requisito compensativo – perequativo.
Riprendendo l’orientamento consolidato, i giudici rilevavano come alla base di questo ragionamento si trovasse la diversa funzione dell’assegno di divorzio, strumento che presuppone lo scioglimento del vincolo familiare tra i coniugi e tale da far residuare un solo vincolo di solidarietà post-coniugale. Per cui, la funzione assistenziale non risponde più all’esigenza di perequare sempre e in ogni caso la disparità economica, altrimenti, si ritornerebbe a dare rilievo al criterio del “tenore di vita”. Invece, di esigenza assistenziale può parlarsi solo laddove l’ex coniuge sia privo delle risorse economiche necessarie per far fronte alle normali esigenze di vita. Ciò rende riconoscibile l’assegno di divorzio.
I giudici, però, continuano nel loro ragionamento passando alla funzione perequativo – compensativa ricordando come questa abbia fondamento nello squilibrio economico in conseguenza delle scelte fatte durante la vita familiare e, pertanto, occorre una sua parametrazione al contributo fornito dal partner alla formazione del patrimonio comune o dell’altro durante il rapporto familiare. Contributo individuabile solo attraverso una complessiva ponderazione dell’intera storia della coppia.
Ripresi questi principi, i giudici di Piazza Cavour ribadiscono come gli stessi risultino valevoli anche in tema di assegno di divorzio nello scioglimento delle unioni civili, non solo sulla base dell’esplicito richiamo della disciplina dell’assegno di divorzio nel matrimonio da parte della disciplina sulle unioni civili, ma anche, e soprattutto, in quanto specifica formazione sociale ai sensi degli articoli 2 e 3 della Costituzione espressione di una comunità degli affetti nel disegno pluralistico dei modelli familiari e, in quanto tale, meritevole di tutela e di pari riconoscimento insieme al modello tradizionale della famiglia fondata sul matrimonio.
Tuttavia, e si giunge alla nota dolente, i giudici della Cassazione ben notavano come la Corte d’Appello non avesse per nulla applicato i principi su espressi e si fosse limitata ad una semplice applicazione asettica del criterio della disparità economica. In altre parole, era mancato il pieno adempimento del mandato conferito dalle SS UU oltreché una non piena e idonea applicazione della disciplina ex art. 5, co. 6, L. N° 898/1970.
Alla luce del percorso ermeneutico delineato, la Cassazione, rinviando alla Corte d’Appello un ulteriore volta, adotta la seguente massima: «Nell'ambito della unione civile, non diversamente da quanto avviene nel matrimonio, l'assegno divorzile può riconoscersi ove, previo accertamento della inadeguatezza dei mezzi del richiedente, se ne individui la funzione assistenziale e la funzione perequativo- compensativa. Mentre la prima va individuata nella inadeguatezza di mezzi sufficienti ad una vita autonoma e dignitosa e nella impossibilità di procurarseli malgrado ogni diligente sforzo, la seconda ricorre se lo squilibrio economico tra le parti dipenda dalle scelte di conduzione della vita comune e dal sacrificio delle aspettative professionali e reddituali di una delle parti, in funzione dell'assunzione di un ruolo trainante endofamiliare, in quanto detto sacrificio sia stato funzionale a fornire un apprezzabile contributo al ménage domestico e alla formazione del patrimonio comune e dell'altra parte. Con la precisazione che la sola funzione assistenziale può giustificare il riconoscimento di un assegno, che in questo caso non viene parametrato al tenore di vita bensì a quanto necessario per soddisfare le esigenze esistenziali dell'avente diritto; se invece ricorre anche la funzione compensativa, che assorbe quella assistenziale, l'assegno va parametrato al contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare ed alla formazione del patrimonio comune, nonché di quello personale dell'altra parte».
3. Considerazioni finali
L’approdo ermeneutico a cui è giunta la Cassazione sembra aver consolidato ulteriormente quella che è la tesi inaugurata a partire dalle SS UU del 2018 e del 2021, ovvero della plurifunzionalità dell’assegno di divorzio. Perciò non solo assistenziale o perequativo – compensativo, ma entrambi conviventi e compartecipanti nel riconoscimento dell’assegno, senza però che l’uno possa influenza l’altro, vista anche la loro natura diversa e la presenza di criteri di attribuzione diversi.
Tuttavia, anche con la chiarezza fornita dall’evoluzione giurisprudenziale, i dubbi e le difficoltà sono rimaste, pur considerando le due funzioni tra loro autonome.
Da un lato, bisogna sicuramente riconoscere il merito nell’aver risolto la problematica relativa la corretta individuazione del criterio della “durata del rapporto” con riferimento alle unioni civili. Non era ormai più sostenibile la prosecuzione dell’idea della non rilevanza del periodo della convivenza di fatto ai fini del riconoscimento dell’assegno di divorzio, visto e considerato le nuove evoluzioni del contesto sociale che ha visto un ampio sviluppo di questi nuovi sistemi di formazioni sociali equiparabili alla famiglia in senso tradizionale e del costituire questi l’anticamera del matrimonio e dell’unione civile. Luogo in cui le prime decisioni familiari vengono assunte e, in quanto tali, suscettibili di provocare conseguenze in futuro per la vita di coloro che diverranno coniugi o uniti civilmente.
Ma dobbiamo arriviamo al tasto dolente, ovvero che tale funzione e sviluppo dell’istituto dell’assegno di divorzio è il risultato dell’attività giurisprudenziale, garantita dalla inerzia del legislatore di provvedere a riformare la normativa di riferimento e lasciando quella sempre e identica disposizione modificata solo nel 1987. Ci si chiede, quindi, fino a che punto tale indirizzo manterrà la propria stabilità e se possa esservi il rischio di nuove modifiche e regressioni, come il ritornare al criterio del “tenore di vita”. Ciò comporterebbe non pochi problemi e, sicuramente, lascerebbe ancor di più nell’instabilità l’intera disciplina.
Insomma, sulla base di quanto appena esposto appare necessario giungere ad una conclusione, sicuramente condivisa in dottrina, ovvero della necessità di una riforma della disciplina attuale che metta fine alla strada “dei colpi d’ascia sul diritto vivente”[20]. Perché solo un intervento del legislatore potrebbe essere in grado di fornire una idonea disciplina che dia chiarezza all’istituto dell’assegno divorzile ed eviti lo sviluppo di ulteriori letture giurisprudenziali diversissime, come si è avuto modo di appurare.
Si vuole terminare con una citazione in grado di racchiudere quella che è l’esigenza della riforma: la disciplina vigente «non è più in grado di normare la vicenda divorzile, perché non tiene conto del diverso ruolo della donna nel mondo del lavoro e della frammentazione dei modelli familiari, in cui la tradizionale ripartizione dei ruoli non è più il portato dell’imposizione sociale, ma il frutto … di una scelta condivisa » [21]
[1] P. Perlingieri, Manuale di diritto civile, XI ed., Napoli, 2022, p. 1062.
[2] R. Fadda, La sorte del diritto all’assegno di divorzio nel passaggio dalla indissolubilità alla caducità del matrimonio: la Cassazione rivaluta il criterio della durata del vincolo coniugale, Famiglia e diritto, N° 6/2022, IPSOA.
[3] C. M. Bianca, La famiglia. Diritto Civile, Milano, 2014, p. 273.
[4] C.M. Nanna, Il principio di autoresponsabilità nella determinazione dell’assegno di divorzio, in Annali del dipartimento Jonico, 2021, p. 166.
[5] Cass. Civ. N° 1322/1989.
[6] Cass. Civ. N° 1652/1990.
[7] Cass. Civ., SS. UU., 11489, 11490, 11491 e 11492 del 1990.
[8] R. Fadda, opera cit., pag. 4.
[9] Cass. Civ. N° 7295/2013.
[10] C. Rimini, Il nuovo assegno di divorzio: la funzione compensativa e perequativa, in Giur. It., 2018.
[11] B. Borrillo, L’assegno di divorzio dopo l’intervento delle sezioni unite: la centralità del caso concreto (Nota a Cassazione civile, Sez. un., 11 luglio 2018, N° 18287; App. Napoli, 10 gennaio 2019, N° 52), in Diritto delle successioni e della famiglia, N° 1/2020, ESI, Napoli, pag. 274.
[12] Cfr.: S. Patti, Assegno di divorzio: un passo verso l’Europa?, in Familia, 2018, Pacini Giuridica; C. Rimini, Assegno di mantenimento e assegno divorzile: l’agonia del fondamento assistenziale, in Giur. It, 2017; E. Quadri, I coniugi e l’assegno di divorzio tra conservazione del “tenore di vita” e “autoresponsabilità”: “persone singole” senza passato?, in Corr. Giur., 2017; M. Bianca, Il nuovo orientamento in tema di assegno divorzile. Una storia incompiuta, in Il Foro Italiano, 2017
[13] E. Quadri, Assetti economici postconiugali e dinamiche esistenziali, in Nuova giur. civ. comm., 2015, p. 376
[14] R. Fadda, op. cit., pag. 5.
[15] G. Ballarani, Sulla determinazione totale della componente perequativa-compensativa dell’assegno di divorzio, in Diritto delle successioni e della famiglia, N° 2/2023, ESI, Napoli, p. 425.
[16] R. Fadda, op. cit, pag. 5.
[17] Cass. SS. UU., 5 novembre 2021, N° 32198
[18] Cass., SS. UU., 11 luglio 18287
[19] Cass., SS. UU, 18 dicembre 2023, N° 35385.
[20] F.G. Viterbo, Crisi del carattere unitario della disciplina dell’assegno di divorzio e necessità di una riforma: la proposta elaborata dalla S.I.S.D.I.C., in Diritto delle successioni e della famiglia, N° 1/2024, ESI, Napoli.
[21] U. Salanitro, La funzione compensativo – riqualificante nell’assegno divorzile. Declinazione del principio e coerenza con il sistema, in Quaderni della società italiana degli studiosi di diritto civile, a cura di G. Frezza, ESI, Napoli, 2023.