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Pubbl. Mar, 23 Feb 2016

Trasferimento del lavoratore: limiti al controllo giurisdizionale, alla luce della sentenza n. 1608/2016 della Corte di Cassazione

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Stefania Tirella


La Corte di Cassazione torna a pronunciarsi sulla ricerca del delicato equilibrio tra le ragioni tecniche, organizzative e produttive del trasferimento e le ragioni di tutela del lavoratore, individuando nel principio della buona fede l’ago della bilancia


Il potere del datore di lavoro di modificare il luogo della prestazione dovuta dal lavoratore subordinato viene regolato, in maniera alquanto laconica, dall’art. 2103 cc. All’atto dell’assunzione, la sede di lavoro viene individuata nel contratto e ne diviene una componente modificabile solo al ricorrere di determinati presupposti.

Tali condizioni, lungi dall’essere specificamente indicate in maniera tassativa, sono espresse nella clausola generale di cui all’art. 2103 cc, secondo la quale il lavoratore “non può essere trasferito da un’unità produttiva all’altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive”. È di tutta evidenza come tale clausola si presti ad interpretazioni non sempre facili, con difficoltà applicative di non poco conto. Secondo giurisprudenza costante, il trasferimento geografico è comunque da ritenersi legittimo solo qualora la presenza di quel dipendente (dotato di quella particolare professionalità) nella sede di destinazione sia indispensabile, la sua presenza nella sede di provenienza sia superflua e le ragioni poste alla base della scelta di quel dipendente e non di altri siano fondate.

In difetto di tali condizioni, il trasferimento è illegittimo e può essere annullato.

La scelta del legislatore di porre un limite al potere del datore di lavoro di modificare in via unilaterale la sede di lavoro  trova la propria ratio nella volontà di sottrarre il  lavoratore ad un uso arbitrario e potenzialmente distorto dello stesso.

Il trasferimento potrebbe infatti essere utilizzato in maniera ritorsiva, per punire indebitamente un lavoratore che, pur non avendo posto in essere alcun inadempimento contrattuale, risulti “sgradito” al datore di lavoro, magari per ragioni di natura discriminatoria, a causa di rivendicazioni sindacali o per aver preteso il rispetto di diritti individuali non riconosciuti spontaneamente.

Funzione primaria della disciplina di cui si discute è quindi quella di salvaguardare la dignità del lavoratore e di proteggere le relazioni interpersonali che ha instaurato in un determinato complesso produttivo, secondo quella logica di tutela del lavoratore (inteso come parte debole del rapporto contrattuale), che ritroviamo costantemente nel diritto del lavoro, che lo protegge ora da un licenziamento senza giustificato motivo, ora da un demansionamento evitabile, ora da una sanzione disciplinare sproporzionata o inadeguata, ecc.

Chiarito questo aspetto, occorre tuttavia mettere in rilievo come, d’altra parte, una protezione eccessiva potrebbe cagionare un eccessivo irrigidimento del rapporto di lavoro e un’inammissibile compressione del potere direttivo.

Pertanto, il giudice davanti al quale il trasferimento venga impugnato, è tenuto a limitare il proprio margine di valutazione  ad un controllo sulla veridicità e attendibilità delle ragioni addotte dal datore di lavoro (sul quale incombe l’onere della prova) e sul nesso di causalità tra le ragioni suddette e il trasferimento.

Il sindacato del giudice non può invece estendersi al merito delle scelte datoriali.

L’opportunità economica e organizzativa del trasferimento rimane oggetto di valutazione esclusiva del datore di lavoro,  nel pieno rispetto del principio di libertà di iniziativa economica privata di cui all’art.41 Costituzione.

Si pone allora il problema di comprendere entro quali confini sia accettabile una scelta svantaggiosa per il dipendente, proprio in nome della libertà imprenditoriale, posto che un trasferimento geografico può rappresentare un fattore di destabilizzazione nella vita lavorativa, privata e familiare dello stesso.

La questione è stata affrontata anche recentemente dalla Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 1608/2016.

Nel caso di specie, il lavoratore era stato licenziato in conseguenza del suo rifiuto di ottemperare al trasferimento. Tale trasferimento era stato disposto in seguito all’ordine di reintegrazione nel posto di lavoro, contenuto nella sentenza che aveva accertato un’ illecita interposizione di manodopera.

Avverso il trasferimento e il licenziamento, il lavoratore aveva agito in giudizio, ma il Tribunale di primo grado, con una sentenza confermata anche dalla Corte d’Appello, aveva rigettato la domanda.

Veniva pertanto proposto ricorso per Cassazione.

Tra i motivi di ricorso, in particolare, il lavoratore lamentava che all’epoca del trasferimento sussisteva la possibilità per il datore di lavoro di impiegarlo in molte altre sedi più vicine a quella di provenienza e in modo altrettanto proficuo.

Il trasferimento era invece stato disposto in una sede distante 600 km da quella originaria, senza tener conto delle condizioni economiche disagiate nelle quali il lavoratore si trovava anche a causa della inadempienza dell’impresa, che non aveva ancora corrisposto allo stesso delle retribuzioni pregresse.

Lamentava poi il ricorrente che le ragioni “tecniche, produttive e organizzative” del trasferimento non erano state provate dall’impresa.

Si deduceva inoltre che la Corte di merito non si era espressa sulla congruità del termine di preavviso di 18 giorni concesso al lavoratore, considerato dal ricorrente inadeguato e noncurante delle esigenze familiari, essendo quest’ultimo unico percettore di reddito di un nucleo familiare composto da moglie casalinga e quattro figli minori frequentanti la scuola dell’obbligo.

Il ricorrente sosteneva inoltre che la Corte di merito, violando il contratto collettivo di categoria, aveva errato nel ritenere  che l’indennità di trasferimento potesse essere corrisposta anche dopo il trasferimento e che la sua mancata erogazione non potesse costituire eccezione d’inadempimento ex art. 1460 cc.

La Corte di Cassazione dichiara fondati tali motivi di impugnazione.

La Corte censura il mancato accertamento, da parte della Corte d’Appello, delle ragioni tecniche, organizzative e produttive alla base del trasferimento. In particolare, la Cassazione sottolinea che tale verifica deve essere svolta non solamente con riferimento alla sede di provenienza, ma anche con riferimento a quella di destinazione, comportando dunque la necessità di verificare che realmente non vi sia la possibilità di assegnare il lavoratore ad  altra sede meno disagevole.

Il giudice deve pertanto verificare che vi sia una reale corrispondenza tra il provvedimento adottato e le finalità tipiche dell’impresa.

La Corte censura inoltre la sentenza di merito nella parte in cui non motiva adeguatamente sia in relazione alla reale congruità del termine di preavviso alla luce delle esigenze familiari, sia in ordine alla impossibilità per il ricorrente di sollevare eccezione di inadempimento per la mancata corresponsione dell’indennità di trasferimento.

L’aspetto più interessante della sentenza, tuttavia, è un altro.

La pronuncia in questione affronta infatti la tematica del difficile equilibrio tra contrapposti interessi e diritti nell’ambito del rapporto di lavoro: da un lato, quelli del lavoratore ad una stabilità lavorativa e personale, dall’altro quelli del datore di lavoro ad organizzare la propria attività imprenditoriale senza vincoli eccessivi.

La Suprema Corte, infatti, dopo aver ribadito (come da giurisprudenza costante) l’insindacabilità dell’opportunità del trasferimento, che può essere disposto non solamente quando sia inevitabile, ma anche quando rappresenti una delle possibili scelte concretamente adottabili, fa un’ulteriore precisazione.

In applicazione dei principi generali di correttezza e buona fede (art. 1375 cc), afferma che nel caso in cui il datore di lavoro abbia di fronte più soluzioni organizzative possibili, sia tenuto a preferire quella meno gravosa per il dipendente.

Il giusto punto di equilibrio viene quindi individuato nel necessario rispetto del principio di buona fede, che nel suo significato oggettivo, obbliga le parti a tenere un comportamento che sia ispirato a regole di onestà, lealtà e correttezza.

Si tratta di regole non scritte alla quali le parti devono attenersi e che hanno assunto un valore giuridico di alto livello soprattutto in anni più recenti.

La buona fede, da semplice regola morale, sociale ed etica è divenuta infatti regola giuridica costituzionalmente tutelata, a seguito del riconoscimento operato dalle Sezioni Unite con la sentenza del 15 novembre 2007 n. 23726, a tenore della quale viene in rilievo “l'ormai acquisita consapevolezza della intervenuta costituzionalizzazione del canone generale di buona fede oggettiva e correttezza, in ragione del suo porsi in sinergia con il dovere inderogabile di solidarietà di cui all'art. 2 della Costituzione, che a quella clausola generale attribuisce all'un tempo forza normativa e ricchezza di contenuti, inglobanti anche obblighi di protezione della persona e delle cose della controparte, funzionalizzando così il rapporto obbligatorio alla tutela anche dell'interesse del partner negoziale".

La recente sentenza n. 1608/2016 conferma quindi l’importanza cruciale di questo principio, soprattutto nei casi, sempre molto frequenti, nei quali l’interprete si trovi ad applicare delle clausole generali.