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Pubbl. Dom, 31 Gen 2016
Sottoposto a PEER REVIEW

L’utopia della verità nel processo penale: il binomio tra verità sostanziale e verità processuale

Fabio Zambuto


Tra le molteplici questioni che possono interessare il processo penale, interessante appare quella relativa alla verità del processo. Non di rado accade infatti di chiedersi se l´accertamento dei fatti, così come cristallizzato nella sentenza, corrisponda pienamente a quanto effettivamente avvenuto nella realtà.


Sommario: I. Premessa – II. Le concezioni filosofiche relative all’idea di “verità”: La tesi Corrispondentista del “realismo ontologico” –  II.I. La teoria Consensuale – II.II. La teoria Coerentista – II.III. La teoria Semantica – III. Il concetto di verità nell’ottica costituzionale ed il passaggio dal rito inquisitorio al rito accusatorio – IV. La verità materiale trasfigurata nell’”accertamento dei fatti” – V. Il nodo della questione: la verità “del” processo e la verità “nel” processo

Sommario: I. Premessa – II. Le concezioni filosofiche relative all’idea di “verità”: La tesi Corrispondentista del “realismo ontologico” –  II.I. La teoria Consensuale – II.II. La teoria Coerentista – II.III. La teoria Semantica – III. Il concetto di verità nell’ottica costituzionale ed il passaggio dal rito inquisitorio al rito accusatorio – IV. La verità materiale trasfigurata nell’”accertamento dei fatti” – V. Il nodo della questione: la verità “del” processo e la verità “nel” processo

I. Premessa

Quid est veritas? O meglio, qual è l’idea di verità? L’essere umano è inevitabilmente condizionato dall’idea razionalistica per la quale la verità è un insieme di proposizioni evidenti da cui si potrebbero ricavare delle conoscenze fondate su valori certi. Per converso, però, molta parte del relativismo contemporaneo rifiuta l’idea stessa di una verità uguale per tutti perché continua a concepirla in modo razionalistico trovandola, così, insostenibile[1].

Nell’analizzare i rapporti tra “verità” e processo occorre preminentemente interrogarsi su cosa debba intendersi per verità e al contempo avere coscienza della difficoltà di riuscire a pervenire ad una nozione univoca e oggettivamente condivisibile. 

L’uso del termine “vero”, anche nella sua accezione più comune e colloquiale, assume ampiezze diverse a seconda dei differenti contesti in cui è adoperato[2]. Einstein stesso, dopo aver premesso che alla base di ogni ricerca scientifica si trova la convinzione che il mondo è fondato sulla ragione e può essere compreso, precisa che il significato della parola “verità” è diverso a seconda che esso si riferisca a fatti psicologici, ad una proporzione matematica o ad una teoria di scienza naturale[3], e ciò potrebbe riferirsi anche a fatti di interesse e rilievo penale.

Storicamente sono sempre state prospettate due verità, una Verità con la V maiuscola, volta ad esprimere una nozione “vaga ed eminentemente metafisica” ed una verità con la v minuscola, a cui si fa riferimento comunemente nell’agire quotidiano[4], nella ricerca di un criterio certo al quale rapportare le affermazioni della comunità.

Deve osservarsi che ormai viene esclusa la possibilità stessa di pervenire ad una verità “assoluta” [5], poiché essa, al più può essere intesa come , «realtà divina, oppure come estremo limite tendenziale, astratta creazione dell’intelletto o simbolo operativo (come l’infinito matematico) […] la verità alla quale l’uomo può aspirare e della quale vive, come verità umana, appunto, è di necessità parziale e relativa, concretamente condizionata[6]».

Anche in ambito processuale tentare affannosamente di giungere alla Verità con la V maiuscola sarebbe discutibile. Ricordando ancora Einstein sul significato cangiante della parola “verità”, va in proposito ricordato il valore contingente delle proposizioni vere, utilizzando l’esempio citato da Popper sul colore del piumaggio dei cigni: tutti i cigni sono bianchi, però, ne basta uno solo “nero” (black swan), per negare valore assoluto all’asserzione [7]. Bisogna selezionare a riguardo l’antitesi sussistente tra due opposte concezioni [8].

II. Le concezioni filosofiche lativree all’idea di “verità”: La tesi Corrispondentista del “realismo ontologico”

La prima concezione che viene in evidenza è quella classica su cui si fonda la tesi corrispondentista del “realismo ontologico”e che considera la verità come adaequatio rei et intellectus per cui un asserto può essere definito vero solo qualora la realtà, intesa come dato empiricamente accertabile, corrisponda alle sue enunciazioni[9]. Secondo questa concezione è naturale che la conoscenza che l’uomo ha di ciò che lo circonda corrisponde effettivamente alla realtà delle cose, ad una “realtà in sé”. 

Una distinzione fondamentale all’interno della teoria corrispondentista risiede nel fatto che la verità è intesa in senso sostanziale o formale, «nel primo caso essa è la verità del caso specifico, è un dato assoluto e totalizzante, e si pone come referente oggettivo dell’indagine, sia che la si ritenga raggiungibile e comprensibile pienamente, sia che la si ritenga avvicinabile solo per approssimazione. Nel secondo caso la verità è quella che consegue ad un giudizio interno ad una determinata procedura, e tale per cui le ipotesi vengano sì valutate sulla base di un criterio esterno e oggettivo, ma affatto formale e contingente[10]».

Al contrario, le correnti post-positiviste, «caratterizzate principalmente dalla demitizzazione delle certezze date per acquisite[11]», enfatizzano l’infondatezza dell’impostazione classica nella misura in cui questa ritiene la conoscenza un insieme di operazioni di catalogazione dei dati della realtà.

La seconda impostazione mira invece a far comprendere l’irragionevolezza di una ricerca della verità tesa ad afferrarla nella sua supposta datità, poiché non esiste una realtà oggettiva, indipendente dall’uomo, della quale sia possibile fornire una rappresentazione fedele perché essa è “contaminata” dai mezzi espressivi utilizzati per descriverla[12].

L’aspetto linguistico appare in questa, e in altre teorie del medesimo stampo opposto a quello classico, come un limite intrinseco dell’animo umano alla scoperta della verità poiché comporta una assoluta impossibilità di pervenire ad una sicura comprensione dei fatti reali, oggettiva e veritiera del mondo circostante[13]. Questa ideologia si oppone fermamente al mancato scetticismo delle teorie positivistiche e neo-positivistiche, che operavano a guisa dell’”empirismo logico” caratterizzate dall’esaltazione della scienza e della valorizzazione dell’esperienza, per le quali era possibile pervenire alla scoperta della verità fattuale valutata come effettiva corrispondenza ad una realtà empiricamente controllabile.

Si affermava che l’analisi scientifica fosse in grado di eliminare ogni dubbio sull’intima struttura dei fatti. Non sono mancate nel corso dell’ultimo secolo impostazioni concettuali accomunate dallo sforzo diretto a pervenire ad un realismo critico mediante l’elaborazione di un concetto di verità inteso in un accezione ridotta tale da evitare obiezioni.

II.I La teoria Consensuale

Merita un accenno il “criterio del consenso generalizzato” utilizzato dalla teoria consensuale della verità, antitetica alla concezione corrispondentista classica.

Secondo la teoria consensuale[14], la fondatezza di una proposizione, la sua verità, esigerebbero come condizione la “potenziale approvazione” di tutti gli altri consociati. Tale consenso, sorgendo in un contesto ideale privo di coercizioni risulterebbe fondato sulla forza del miglior argomento. Ciò che può criticarsi a quest’impostazione è che non sempre è l’argomento migliore a suscitare un generale consenso, potendo esso derivare da fattori diversi; invero, in base ad uno stesso enunciato prima ritenuto vero, in quanto sorretto dal consenso generalizzato, potrebbe divenire falso qualora questo venisse a mancare, e allo stesso tempo ci sarebbero proposizioni né vere né false sulle le quali non si è ancora formato alcun accordo[15].

II.II La teoria Coerentista

Altra concezione è proposta dalla teoria “coerentista” della verità per la quale la coerenza rappresenta un generale canone di razionalità e altresì un criterio epistemologico focalizzando l’attenzione sulle relazioni tra diversi enunciati. In particolare si afferma che la coerenza significhi assenza di contraddizioni e congruenza volta ad esigere in particolare la sussistenza di un “mutuo sostegno implicativo” inteso nel senso di interdipendenza delle preposizioni.

«Tale teoria applicata all’ambito processuale porta a ritenere che la decisione si riduca ad una scelta di una “story tra le diverse che le parti e i loro difensori hanno sottoposto al giudice”, sulla base di un criterio di maggiore persuasività e coerenza nella struttura argomentativa della narrazione più convincente[16]».

Anche in questo caso, l’obiezione che viene mossa mira a screditarne la struttura poiché si ritiene che anche una favola o un romanzo di fantasia possano essere coerenti, e comunque il dato di partenza dal quale scaturiscono le implicazioni potrebbe anche non essere vero pertanto potrebbe al più parlarsi di “presunzione” di verità[17]

In aggiunta a ciò la prova stessa del processo assumerebbe una «rilevanza meramente retorica, nel senso che essa pure non vale in quanto “riferita – a” qualcosa nel mondo di cui possa attestare l’esistenza o una qualche caratteristica, ma vale nella misura in cui riesca a persuadere il destinatario e l’interlocutore di una certa tesi, di una certa affermazione, di una certa narrazione relativa ai fatti rilevanti per la decisione[18]». 

II.III La teoria Semantica

Dal punto di vista filosofico si è poi fatto ampio riferimento alla definizione “semantica” di “enunciato vero” elaborata da Alfred Tarski[19] secondo la quale «P è vero se e solo se p è vero», dove “P” sta per il nome di un enunciato e “p” per l’enunciato medesimo: per esempio, «l’enunciato “la neve è bianca” è vero se e solo se la neve è bianca»[20]

La teoria semantica della verità realizzata da Tarski[21] «risulta essere la teoria della verità più adeguata in ambito giudiziario[22]».

Essa, infatti, «senza necessariamente comportare implicazioni ontologiche o metafisiche, sembra ben capace di esprimere l’eventuale conformità tra asserzioni decisorie fattuali e asserzioni probatorie fattuali[23]». Per una corretta applicazione di questo enunciato, secondo Tarski occorrerebbe ricorrere a linguaggi “formalizzati” grazie ai quali «sia possibile distinguere con chiarezza il linguaggio al quale appartiene la proposizione p dal metalinguaggio al quale appartengono sia il nome p di quella stessa proposizione sia il predicato “essere vero” come avviene nella fisica, nella matematica o nella logica, scienze dotate di un linguaggio formalizzato [24]».

Se poi attraverso il processo si cerca di ottenere una ricostruzione fattuale il più possibile approssimata alla realtà, ovvero caratterizzata da una plausibilità esplicativa coerente con lo stato delle risultanze proceduralmente conseguite, che la rende preferibile rispetto ad altre, allora la concezione semantica della verità risulta essere quella più adeguata anche in ambito giudiziario[25]. Sembra così tornare in auge la concezione corrispondentista della verità della cui versione classica, peraltro, la definizione tarskiana intendeva espressamente essere una riproposizione. In tal senso, la definizione tarskiana «consente come possa prospettarsi la corrispondenza con la realtà, non cioè come dato immediatamente osservabile, quanto piuttosto come criterio di verificazione degli enunciati fattuali che devono essere provati.

Legittimandone l’accoglimento o il rigetto sulla base della conformità con gli enunciati probatori, un siffatto criterio funge non solo da principio regolativo della decisione giudiziale sul fatto, ma altresì quale suo principio orientativo, perlomeno nella misura in cui ogni giustificata revisione delle precedenti conoscenze possa considerarsi come un passo avanti nel cammino che conduce alla verità. Possono pertanto esservi gradi diversi di corrispondenza del giudizio di fatto alla realtà empirica dei fatti rilevanti [26]».

III. Il concetto di verità nell’ottica costituzionale ed il passaggio dal rito inquisitorio al rito accusatorio

Ciò che oggi può dirsi, senza comunque screditare gravosamente le teorie predette, è che la verità costituisce un’”idea guida”, regolativa, dell’agire umano, un limite ideale [27], praticamente irraggiungibile ma al quale occorre accostarsi e verso cui bisogna tendere.

Se le varie discipline scientifiche non tendessero alla comprensione e alla rivelazione della verità nell’ambito del mondo reale circostante sarebbero prive della fondamentale valenza conoscitiva [28]. Proprio nel settore del diritto, poi, un sistema processuale senza verità non verrebbe sicuramente compreso e accettato dalla comunità.

L’attuale codice di rito, probabilmente in considerazione dei dubbi derivanti dall’utilizzo di un termine impegnativo come quello di verità ha preferito limitare entro ambiti ridotti il ricorso a tale nozione [29], facendo uso della «più asettica espressione “accertamento del fatto” [30]» senza menzionare la ricerca della verità come fine proprio dell’attività probatoria ed in ciò discostandosi dal codice abrogato [31].

Dall'interpretazione sistematica delle norme costituzionali in tema di giurisdizione penale emerge un modello sostanzialmente garantista, in cui i suoi quattro assiomi di riferimento risultano essere i seguenti: nulla poena, nulla culpa sine iudicio; nullum iudicium sine accusatione; nulla accusatio sine probatione; nulla probatio sine defensione [32].

In un’ottica Costituzionale, quindi, strumento positivo e mezzo di raggiungimento della verità è il processo penale che ha appunto come «fine primario ed ineludibile […] quello della ricerca della verità […] Il sistema accusatorio positivamente instaurato ha prescelto la dialettica del contraddittorio dibattimentale quale criterio maggiormente rispondente all’esigenza di ricerca della verità[33]».

Il processo penale attuale è così disciplinato da un codice che non ha quell’ossessione di verità che aveva qualificato il codice abrogato e che, forse, aveva contribuito a provocarne la crisi[34].

«Il passaggio dal rito inquisitorio a quello accusatorio, ha dato un impulso decisivo nella concezione dicotomica della verità. Infatti alla dialettica tra pubblico ministero e giudice, con intervento della difesa in un ruolo minore ed essenzialmente critico degli accertamenti dell'accusa, è stata sostituita la dialettica tra accusa e difesa, con parità delle armi pure per i poteri investigativi, davanti ad un giudice terzo ed imparziale. Proprio i poteri investigativi del difensore hanno reso necessario ed attuale il dibattito sui rapporti tra l'avvocato e la verità.

Dalla trasformazione in processo di parti deriva che anche il processo penale tende a risolvere i conflitti con una decisione giurisdizionale, pur rimanendo sempre l'accertamento della verità materiale la base sulla quale può fondarsi un “giusto processo”. Infatti una decisione fondata sulla menzogna non può certamente definirsi giusta, tanto che è prevista, in determinati casi, in materia penale la revisione della sentenza irrevocabile di condanna (artt. 629 e s. c.p.p.)[35]».

Con le sentenze n. 254 e n. 255 del 3 giugno 1992, la Corte Costituzionale statuì rispettivamente la illegittimità degli artt. 500 commi 3 e 4, e 513 comma 2 c.p.p., nella parte in cui non prevedevano la possibilità di acquisire al fascicolo per il dibattimento e di utilizzare a fini probatori le dichiarazioni utilizzate per le contestazioni e rese nel corso delle indagini del testimone ovvero dall’imputato in procedimento connesso, anche nell’ipotesi in cui quest’ultimo si fosse rifiutato di rispondere in dibattimento [36].

L’effetto dirompente di tali pronunce fu il superamento del principio della rigida separazione delle fasi procedimentali e dalla ontologica inidoneità dell’atto di indagine ad assumere valenza probatoria: le dichiarazioni rese unilateralmente in fase di indagini preliminari alla polizia ed al pubblico ministero diventavano utilizzabili a fini probatori ed acquisibili al fascicolo per il dibattimento. Veniva anche specificato che il fine primario e ineludibile del processo penale è, e deve rimanere, quello della ricerca della verità. In merito a questa pronuncia, non mancarono le critiche.

In particolare, è stato osservato che l’attuale codice, nella sua impostazione originaria, risulta caratterizzato da una concezione “debole” e relativistica della verità: non esiste una verità oggettiva, assoluta, totale dei fatti; esiste una verità probabilistica, condizionata da regole, limitata nel suo oggetto e relativa ai singoli soggetti del processo; veniva in particolare censurato il fatto che a questa concezione della verità la Corte Costituzionale avesse inteso contrapporre l’idea di una verità unica, invariabile, valevole erga omnes: una verità che deve essere ricercata comunque, insofferente a vincoli e regole di esclusione, rilevandosi che la Costituzione non offre alcun riferimento che imponga una scelta tra i due concetti di verità: la Corte Costituzionale sceglie laddove la Costituzione aveva demandato la scelta alla discrezionalità legislativa.

Proprio partendo da questo  concetto “forte” di verità, la Corte può affermare l’esistenza di “un principio di non dispersione dei mezzi di prova” [37].

Nella Carta Costituzionale non esiste alcun espresso riferimento alla verità, ma nell’art. 111, come modificato dalla legge Costituzionale 23 novembre 1999, n. 2, è costituzionalmente garantito il giusto processo e sono dettate alcune regole sulla struttura del processo sia civile che penale: contraddittorio tra le parti in condizione di parità; giudice terzo ed imparziale; ragionevole durata. Inoltre altre regole sono dettate per il processo penale, tra le quali sono qui rilevanti il principio del contraddittorio nella formazione della prova ed il diritto dell’imputato di interrogare o di fare interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico.

È stato osservato che il pur lungo art. 111 Cost. non contiene alcun accenno alla verità, e anche nella forma attenuata di accertamento dei fatti, e che le regole particolari per il processo penale sopra indicate non possono essere dirette in modo univoco all’accertamento della verità perché ad esse l’imputato può rinunciare.

Va subito precisato che sotto il vigore del rito inquisitorio era del tutto pacifico che il processo penale avesse come fine l’accertamento della verità materiale, mentre per il processo civile era ed è altrettanto pacifico che il suo fine precipuo è la risoluzione dei conflitti tra le parti con una decisione giurisdizionale. Il passaggio dal rito inquisitorio a quello accusatorio ha attenuato il fine di raggiungere la verità materiale. Infatti alla dialettica tra pubblico ministero e giudice, con intervento della difesa in un ruolo minore ed essenzialmente critico degli accertamenti dell’accusa, è stata sostituita la dialettica tra accusa e difesa, con parità.

IV. La verità materiale trasfigurata nell’”accertamento dei fatti”

A proposito dell’accertamento della verità materiale è sintomatica la questione di legittimità Costituzionale del divieto agli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria di deporre sulle dichiarazioni acquisite dai testimoni, come recitava il testo originario del comma 4 dell’art. 195 c.p.p., dichiarato costituzionalmente illegittimo dalla Corte Costituzionale perché sfornito di ragionevole giustificazione [38].

Con la l. 7 agosto 1992 n. 356 il legislatore intervenne attenuando gli effetti delle pronunce della Corte ed introducendo il principio secondo cui le dichiarazioni provenienti da persone informate sui fatti, rese nel corso delle indagini, assunte unilateralmente, ed acquisite tramite contestazioni, avrebbero sì potuto essere utilizzate a fini probatori ma la prova dei fatti in esse rappresentati poteva essere considerata raggiunta solo attraverso una regola di valutazione predeterminata e diversa, quella di cui all’art. 500 comma 4 c.p.p., e, cioè, solo ove vi fossero stati riscontri che ne confermassero l’attendibilità. Corollario di questo sistema fu quello per cui un imputato poteva essere condannato senza aver mai visto in faccia il proprio accusatore o senza aver mai potuto interrogare, atteso che le dichiarazioni rese nel corso delle indagini potevano assumere valenza probatoria in tutti i casi in cui il dichiarante, e quindi la fonte da cui provenivano, rimaneva silente in dibattimento senza dare, quindi, alla difesa la possibilità di svolgere il controesame [39].

Questo quadro di riferimento mutò radicalmente a seguito dell’emanazione della legge 7 agosto 1997 n. 267 con cui si recuperò nel procedimento di formazione della prova il principio del contraddittorio ridotto fino ad allora a metodo accusatorio ed eventuale, incapace di incidere sul modello inquisitorio restaurato in ossequi al dogma della non dispersione della prova e della funzione accertativa del processo penale.

Venne quindi novellato l’art. 513 c.p.p. introducendo il divieto di utilizzare le dichiarazioni rese nel corso delle indagini dall’imputato accusatore che si fosse avvalso in dibattimento della facoltà di non rispondere, salvo il consenso della controparte nei cui confronti quelle dichiarazioni avrebbero dovuto essere utilizzate. Il profilo relativo al contraddittorio veniva così accentuato e reso strumentale alla formazione della prova, seppur solo in un accezione negativa.

La Corte Costituzionale, chiamata a valutare il testo del novello art. 513 c.p.p., con la sentenza n. 361 del 1998 [40], riaffermò in primo luogo la propria concezione sui limiti operativi del contraddittorio e sulla valenza del principio di non dispersione della prova, e dichiarò la incostituzionalità della nuova disciplina nella misura  in cui non prevedeva la possibilità di acquisire, a seguito di contestazioni, le precedenti dichiarazioni etero accusatorie rese unilateralmente nel corso delle indagini e non confermate in dibattimento.

Successivamente, con l’art. 4 l. 1° marzo 2001, n. 63, il divieto è stato reintrodotto, ma limitatamente alle dichiarazioni acquisite con determinate modalità che escludono il contraddittorio. Questa volta la Corte Costituzionale ha dichiarato infondata la questione di legittimità Costituzionale, indicando, tra l’altro, come ragione principale l’intervenuto mutamento del quadro di riferimento Costituzionale, che con il novellato art. 111 Cost. ha riconosciuto formalmente rango Costituzionale al principio del contraddittorio nella formazione della prova, come metodo di conoscenza dei fatti oggetto del giudizio [41].

Ma era opportuno inserire esplicitamente nel giusto processo anche il riferimento alla verità come fine dell’accertamento dei fatti?

La risposta è negativa per diverse ragioni. Anzitutto perché, come si è visto, non può sussistere un processo giusto fondato sulla menzogna. Poi perché il cammino del processo è segnato da regole che tendono appunto a raggiungere non una qualsiasi decisione ma una decisione giusta, che per essere tale deve essere fondata sulla verità. Quindi le regole sono dettate proprio per evitare che siano commessi arbitri ed errori e per garantire, mediante il contraddittorio, il controllo della formazione delle prove valide ai fini del giudizio e della decisione.

La possibilità di attenuazione o di esclusione del contraddittorio nella formazione della prova in determinati casi (consenso dell’imputato, impossibilità oggettiva della ripetizione dell’accertamento, provata condotta illecita), per le ultime due ipotesi è proprio diretta alla conservazione ed alla genuinità degli accertamenti, mentre il consenso dell’imputato non sembra incidere in modo decisamente negativo sull’accertamento della verità.

Deve riconoscersi che trova profonde radici nella cultura giuridica contemporanea e nelle tendenze evolutive degli ordinamenti europei l’affermazione della Corte Costituzionale secondo cui il fine primario ed ineludibile del processo penale è quello della ricerca della verità, e la scelta in favore della dialettica del contraddittorio dibattimentale dipende dalla maggiore rispondenza di questo metodo di formazione della prova rispetto allo scopo conoscitivo del processo. Ed è un orientamento che conserva piena  validità anche dopo l’inserimento dei principi del giusto processo nell’art. 111 della Costituzione. La Corte Costituzionale si è già pronunziata sul punto con la sentenza n. 440 del 12 ottobre 2000, osservando che il principio del contraddittorio nella formazione della prova in seno al processo penale è ora espressamente enunciato nella sua dimensione oggettiva, cioè quale metodo di accertamento giudiziale dei fatti, oltre ad essere richiamato nella sua dimensione soggettiva, come diritto dell’imputato di confrontarsi con il suo accusatore [42].

V. Il nodo della questione: la verità “del” processo e la verità “nel” processo

Che la ricerca della verità costituisca il fine primario del processo, è principio consolidato. Il problema infatti non risulta essere questo.

Il vero problema è quello di verificare come la verità deve essere ricercata. La differenza tra il paradigma accusatorio e il modello inquisitorio non sta nel fine da perseguire ma nei mezzi da adottare per pervenire ad un giusto risultato.

C’è chi ha sostenuto che sia possibile ed utile optare per una distinzione del termine “verità” in due accezioni: la verità “del” processo, quella della sentenza (unico atto del giudizio suscettibile di assumere il carattere dell’irrevocabilità) e, quindi, della verità/validità; la verità “nel” processo, inteso in senso lato, ovvero quella “verità” delle prove e dei corrispondenti (o non corrispondenti) strumenti di ricerca della prova, la “verità” delle sommarie informazioni testimoniali, la “verità” della prova testimoniale, in particolare.[43]

Il giudice giudica vero il fatto oggetto dell’ipotesi accusatoria in funzione delle prove, pertanto si ritiene che «la verità “del” processo debba in qualche misura corrispondere con la verità “nel” processo.[44]»

Sono state individuate[45] anche cinque modalità attraverso le quali la verità ricorre nel processo, con specifico riferimento al giudizio civile, delle quali, quindi, per ragioni di attinenza si elencheranno solo le prime quattro fin tanto che risultino congruenti: la prima è la verità del giudizio, che in senso generico viene identificata come la verità dell’intero processo «non identificabile son l’assoluta verità delle cose, eppure tendente ad essa[46]»; la seconda è la verità del giudicato, legata essenzialmente alla prima e da essa dipendente in quanto non scaturente da un ulteriore ricerca o interpretazione della realtà, corrisponde ad «una verità che l’ordinamento pone come certezza[47]»; la terza verità è quella del testimone, e per esso è necessario che vi sia un alto grado di affidabilità accompagnato alla propria dedizione di riportare il vero per permettere al giudice di accostarsi effettivamente alla realtà dei fatti; altra verità è quella del consulente tecnico d’ufficio che «è chiamato a guidare il giudice verso la realtà dei fatti, verso un’adeguata comprensione di essi, ma a differenza del teste la sua non è opera di presentificazione del passato, bensì un’operazione di chiarificazione tecnica[48]». 

Il carattere essenziale del modello garantista recepito nella Costituzione è nel concetto di verità che esso fa proprio: il concetto di verità processuale, deducibile dalla Costituzione, non è quello di una verità sostanziale, assoluta, materiale, bensì quello di una verità formale, debole, relativa perché umana, “che non pretende di essere la verità”.  

La verità “del” processo è sì corrispondenza, ma alla verità “nel” processo e solo alle condizioni di validità previste dal diritto processuale penale[49], non alla verità sostanziale. La verità razionalmente conseguibile in sede processuale è una realtà ottenibile nonostante la limitatezza umana e dunque una verità relativa, meramente approssimativa e probabile[50] che si traduce in un grado particolarmente elevato di verosimiglianza.[51] «Il modello garantista respinge dunque il mito della verità come “corrispondenza”, riconoscendogli al massimo la natura di principio limite, mai compiutamente raggiungibile. In aderenza alle più accreditate risultanze epistemologiche, anch’esso sposta l’accento dalla verità al rigore ed eleva le regole procedurali da mere condizioni di validità delle decisioni giudiziarie, a vere e proprie condizioni di verità delle stesse.[52]» 

Il processo penale, dunque, non può che accertare –  e tendere a – una verità processuale, una “verità limitata, umanamente accertabile e umanamente accettabile del caso concreto”.[53]

La verità processuale, dunque, deve essere per forza approssimativa; l’idea contraria, secondo la quale si possa giungere in ambito processuale ad una realtà assoluta e certa, viene definita come «un'ingenuità epistemologica, che le dottrine giuridiche illuministiche del giudizio come applicazione meccanica della legge condividono con il realismo gnoseologico volgare.[54]».

I connotati della verità, poi, dipendono fortemente dal quadro probatorio, «se le prove non offrono al giudice la certezza che la verità nel processo decreta la colpevolezza dell’imputato, la verità del processo sarà l’assoluzione.

L’assenza di verità nel processo non impedisce la formazione di una verità processuale, sia perché il giudice nel processo penale non può astenersi dal giudizio sia perché soccorre l’assioma: in dubio pro reo.[55]» Sotto questi aspetti va quindi superato «lo sterile contrasto […] tra una supposta verità materiale ed una cosiddetta verità formale frutto di una malintesa contrapposizione tra forma e contenuto, in quanto, a ben vedere, entrambe le nozioni si basano su una visione erronea ed obsoleta.[56]»

Sarebbe insidiosa  l’impostazione per la quale sia ipotizzabile una doppia verità, l’una convenzionale scaturita dai dettami processuali e l’altra “vera” risultante da tutti i mezzi conoscitivi messi a disposizione della comunità.[57] Che il meccanismo probatorio processuale sia non di rado nelle circostanze oggettive di non poter ricostruire “fedelmente” il fatto storico oggetto dell’imputazione è una circostanza difficilmente controvertibile, ma che «questa constatazione giunga a delineare due verità differenti, quasi che nel processo si costruisca qualcosa di diverso e avulso dalla realtà è sbagliato, oltre che pericoloso. 

La verità è una e tale rimane anche quando deve essere ricostruita nell’ambito del processo penale: tutte le discrasie che possono rinvenirsi nel corso dell’istruttoria dibattimentale sono evenienze processuali cui rimediare con le regole decisorie proprie del processo penale. Se residuano dubbi sulla ricostruzione del fatto in termini di colpevolezza il soggetto imputato dovrà essere mandato assolto.[58]» 

Eppure, autorevole dottrina aveva contrapposto alla verità “vera” e “pura”, una verità “formale”, valutata alla stregua di una mera apparenza di verità sostenendo che «basta un minimo limite alla libertà di ricerca del giudice perché il processo di ricerca della realtà degeneri in processo formale e di fissazione[59]» Lo stesso autore sosteneva altresì che a causa di eventuali regole di esclusione probatoria poteva rimanere ignoto un fatto estremamente rilevante laddove, al contrario, qualora il giudice fosse stato pienamente libero egli sarebbe stato nelle condizioni di pervenire alla scoperta di quella verità che è di per se occultata dalla necessità di seguire la regola giuridica della ricerca.

Appare oramai scontato che i limiti posti dalle disposizioni processuali alla possibilità di pervenire all’accertamento dei fatti mediante l’uso di determinati meccanismi, vietati dal legislatore, non rappresentano futili ostacoli preposti per impedire l’accertamento del fatto e il raggiungimento di una verità assoluta, ma sono posti a garanzia dell’individuo.

Difficilmente l’opinione pubblica potrebbe accettare una metodologia giudiziaria che, partendo dal corretto presupposto in base al quale truth is the foundation of justice, giungesse finanche a sacrificare il rispetto delle garanzie individuali al fine di pervenire comunque ed a qualsiasi costo all’individuazione dei colpevoli[60].

Il fine non giustifica i mezzi, e «l’accertamento della verità non è […] in sé e per sé, il fine ultimo del processo, ma il presupposto per poter adeguatamente decidere.[61]»

La Corte di Cassazione ha più volte ribadito la regola che, nel conseguire la verità processuale, e cioè la verità limitata, umanamente accertabile e umanamente accettabile del caso concreto[62], il criterio base nella valutazione delle prove è dato dal principio che il giudice deve prendere in considerazione ogni singolo fatto ed il loro insieme, non in modo parcellizzato e avulso dal generale contesto probatorio.  Risulta pericolosamente illusorio ritenere possibile una conoscenza giudiziaria oggettiva ed una giustizia assoluta delle decisioni, infatti, a smentita di coloro che continuano a sostenere l’esistenza di una verità sostanziale e assoluta che conduca alla conoscenza di un’altrettanto assoluta “oggettività”[63], la verità oggettiva nel processo, come in qualsiasi altro campo dello scibile, rappresenta solo un irraggiungibile limite ideale. Il conseguimento di una verità sostanziale è solo un’aspirazione che non trova riscontro nella realtà scientifica e che è destinata a rimanere tale anche in campo filosofico e scientifico.

Note e riferimenti bibliografici

[1] F. CAVALLA, Prefazione a Retorica, processo, verità, in AA.VV., Retorica, processo verità, (a cura di) F. Cavalla, Milano, 2007, 12.
[2] P. F. STRAWSON, Truth, in M. MacDonald (a cura di) , Philosophy and Analysis, Oxford, 1954, 260.
[3] A. EINSTEIN, Come io vedo il mondo, la ricerca scientifica, Newton, 1975.
[4] K. R. POPPER, Congetture e confutazioni, in G. Pancaldi (trad. it. di), Bologna, 1972, 397.
[5] P. RIVELLO, Verità e processo, Riv. it. dir. proc. pen. , 3, 2010, 1233.
[6] S. PUGLIATTI, Conoscenza, Enc. dir., vol. IX, Milano, 1961, 50.
[7] L. LANZA, La motivazione della sentenza penale: decidere, scrivere, argomentare, Consiglio Superiore della Magistratura Nona commissione – tirocinio e formazione professionale, Roma, 2009, 18.
[8] N. ABBAGNANO, Verità, in Dizionario di filosofia, Torino, 1960, 890.
[9] Ad esempio Aristotele affermava che “è vero che la neve è bianca” perché essa è effettivamente bianca;  Aristotele, Metafisica, Laterza, Roma-Bari, 1973, 115.
[10] F. MACIOCE, La lealtà, Giappichelli, Torino, 2005, 192.
[11] P. RIVELLO, Verità e processo, cit., 1234.
[12] F. WAISMANN, Analisi linguistica e filosofia. Una nuova prospettiva, Ubaldini, Roma, 1970, 71.
[13] P. RIVELLO, Verità e processo, cit., 1235.
[14] P. RIVELLO, Verità e processo, cit., 1242.
[15] P. RIVELLO, Verità e processo, cit., 1243.
[16] F. MACIOCE, La lealtà, cit., 190.
[17] P. RIVELLO, Verità e processo, cit., 1245.
[18] F. MACIOCE, La lealtà, cit., 190; Si veda anche M. Taruffo, La prova dei fatti giuridici, Giuffrè, Milano, 1992, 62.
[19] A. TARSKI, La concezione semantica della verità e i fondamenti della semantica, in L. Linsky (a cura di), Semantica e filosofia del linguaggio, Il Saggiatore, Milano, 1969, 31.
[20] L. FERRAJOLI, Diritto e ragione, cit., 21.
[21] Per un approfondimento sulle eventuali critiche a questa concezione si vedano: L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit.; D. Gillies , G. Giorello, La filosofia della scienza nel XX secolo, Laterza, Roma-Bari, 1995, 16; R. Bubner, La svolta ermeneutica nel concetto semantico di verità, in G. Vattimo (a cura di), Filosofia ’88, Laterza, Roma-Bari, 1989, 162.[22] G. UBERTIS, La ricerca della verità giudiziale, in G. Ubertis (a cura di), La conoscenza del fatto nel processo penale, Giuffrè, Milano, 1992, 11.
[23] V. GAROFOLI, Il concetto di verità tra diritto e processo, relazione svolta nell’ambito del convegno dal titolo “Ragione, verità e giustizia”, Bari, 2009.
[24] P. RIVELLO, Verità e processo, cit., 1239.
[25] G. UBERTIS, Argomenti di procedura penale, cit., 82.
[26] V. GAROFOLI, Il concetto di verità tra diritto e processo, cit.
[27] L. FERRAJOLI, Diritto e ragione, cit., 24.
[28] P. RIVELLO, Verità e processo, cit., 1237.
[29] P. RIVELLO, Verità e processo, cit., 1246.
[30] F. IACOVIELLO, La motivazione della sentenza penale e il suo controllo in cassazione, Giuffrè, Milano, 1997, 135.
[31] V. L. P. COMOGLIO, Prova e lessico processuale: sospetto, indizio, prova; tema, fonte, oggetto di prova; ammissione, assunzione, in La prova penale, Quaderni del Consiglio Superiore della Magistratura, 1997, n.98, 325.
[32] E’ possibile ricavare agevolmente questi principi dalla lettura coordinata degli artt. 24, 25, 27, 101, 102, 104, 105, 111 e 112 Cost.
[33] Corte cost., 3 giugno 1992, n. 255, in Cass. pen., 1992, 2022, con nota di F. Iacoviello, Prova e accertamento del fatto nel processo penale riformato dalla Corte Costituzionale.
[34] A. GAITO, Il procedimento probatorio (tra vischiosità della tradizione e prospettive europee), in A. Gaito (a cura di), La prova penale Vol. I, Torino, 2008, 99.
[35] V. GAROFOLI, Il concetto di verità tra diritto e processo, cit.
[36] Corte cost., 3 giugno 1992, n. 255, in Riv. it. dir. proc. pen., 1992, 1132.
[37] F. M. IACOVIELLO, Prova e accertamento del fatto nel processo penale riformato dalla Corte Costituzionale, in Cass. pen., 1992, 2029.
[38] Corte cost., 31 gennaio 1992, n. 24, in Cass. pen., 1992, 462.
[39] E. APRILE, P. SILVESTRI, Strumenti per la formazione della prova penale, Giuffrè, Milano, 2009, 8.
[40] Corte cost., 1998, n. 361, in Riv. it. dir. proc. pen., 1999, 280.
[41] Corte cost., 26 febbraio 2002, n. 32, in Cass. pen., 2002, 1932.
[42] A. BALSAMO, L’istruttoria dibattimentale e l’attuazione dei principi costituzionali: efficienza, garanzie e ricerca della verità, in Cass. pen., 2002, 388.
[43] G. LOSAPPIO, La distinzione tra verità “nel” processo e verità “del” processo. Il banco di prova dei reati di false dichiarazioni (art. 371 e ss. c.p.) nella prospettiva degli incerti rapporti tra deontologia e indagini difensive di carattere testimoniale, Relazione presentata al Seminario di studi in deontologia forense “Verità, deontologia e processo penale”, Bari, 2009.
[44] G. LOSAPPIO, La distinzione tra verità, cit.
[45] F. MACIOCE, La lealtà, cit., 196.
[46] F. MACIOCE, La lealtà, cit., 197.
[47] F. MACIOCE, La lealtà, cit., 201.
[48] F. MACIOCE, La lealtà, cit., 208.
[49] V. GAROFOLI, Il concetto di verità tra diritto e processo, cit.
[50]  A detta di V. Garofoli, Il concetto di verità tra diritto e processo, cit., «Si affaccia qui il concetto di “verità probabile”, da intendersi come la verità dell’ipotesi ricostruttiva dell’avvenimento concreto in questione che, allo stato delle conoscenze, più probabilmente corrisponde alla realtà. »
[51] L. FERRAJOLI, Diritto e ragione, cit., 24; Sul concetto di verosimiglianza si veda P. Calamandrei, Verità e verosimiglianza nel processo civile, in Riv. dir. proc., 1955, 165: «quando si dice che un fatto è vero, si vuol dire in sostanza che esso ha raggiunto, nella coscienza di chi lo giudica tale, quel grado massimo di verosimiglianza che, in relazione ai limitati mezzi di conoscenza di cui il giudicante dispone, basta a dargli la certezza soggettiva che quel fatto è avvenuto.»
[52] F. CAVALLA, Prefazione a retorica, cit., 11.
[53] Cass. pen., sez. V, 25 giugno 1996, Cuiuli, in Arch. n. proc. pen., 1997, 245.
[54] L. FERRAJOLI, Diritto e ragione, cit., 23.
[55] G. LOSAPPIO, La distinzione tra verità, cit.
[56] P. RIVELLO, Verità e processo, cit., 1253.
[57]Si veda anche A. A. Sammarco, Metodo probatorio, cit., 143, il quale sostiene: «la verità processuale non è altro che il risultato dell’accertamento valido, in quanto cioè realizzato nel rispetto di determinate regole di diritto positivo», ed aggiunge successivamente che  «il sistema processuale, in quanto sistema normativo, introduce una forma di conoscenza vincolata che assume valore tipico proprio in quanto ottenuta  secondo le modalità prestabilite.»
[58] V. GAROFOLI, Il concetto di verità tra diritto e processo, cit.
[59] F. CARNELUTTI, La prova civile. Parte generale (Il concetto giuridico della prova), Roma, 1915, 32
[60] P. RIVELLO, Verità e processo, cit., 1259.
[61] G. UBERTIS,  La prova penale. Profili giuridici ed epistemologici, Torino, 1995, 7.
[62] Cass. pen., sezione V, 25 giugno 1996, Cuiuli, cit.
[63] G. UBERTIS, La ricerca della verità giudiziale, cit., 2.