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Pubbl. Mar, 11 Mar 2025

Profili di giustizia riparativa alla luce della Riforma Cartabia nel contesto della c.d. violenza assistita

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Camilla Trussardi
Laurea in GiurisprudenzaUniversità Cattolica del Sacro Cuore



Il discorso giuridico sopra la necessità di valorizzare le forme del dialogo e del confronto come modalità di composizione del conflitto è andato amplificando la propria eco soprattutto di recente a esito dell’opera di sistematizzazione organica della disciplina della giustizia riparativa attuata con la Riforma Cartabia (contenuta negli artt. 42-67 del d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150). Nel presente contributo s’intende soffermare l’attenzione sulle peculiarità che contraddistinguono i programmi di giustizia riparativa nelle ipotesi di c.d. “violenza assistita”, ovverosia nei casi in cui vittima del reato, ancorché indiretta, sia un minore.


ENG

Profiles of Restorative Justice in light of the Cartabia Reform in the context of so-called ”witnessing domestic violence”

The legal discourse on the need to enhance forms of dialogue and confrontation as methods for conflict resolution has recently gained greater prominence, particularly as a result of the systematic codification of restorative justice under the Cartabia Reform (contained in Articles 42-67 of Legislative Decree No. 150, October 10, 2022). This contribution aims to focus on the specific characteristics that distinguish restorative justice programs in cases of so-called “witnessed violence” that is situations where the victim of the crime, albeit indirect, is a minor.

Sommario: 1. Riflessioni in materia di giustizia riparativa: considerazioni preliminari; 1.2. Fondamenti; 2. Percorsi di giustizia riparativa nel contesto della “violenza assistita”: diritti e garanzie per le persone minori d’età; 2.1. Considerazioni conclusive.

1. Riflessioni in materia di giustizia riparativa: considerazioni preliminari

Là «dove l’umano spirito si purga / e di salire al ciel diventa degno»[1] il percorso di espiazione si configura come un cammino redentivo lungo un sentiero che s’apre a una via d’uscita».

La dimensione dantesca del Purgatorio s’attaglia a venire presa a modello di riferimento per descrivere il paradigma che si propone di innestare la giustizia riparativa, lontano dall’orientamento retributivo-centrico e ispirato alla logica della riconciliazione.

Per quanto il discorso giuridico circa la necessità di valorizzare le forme del dialogo e del confronto come modalità di composizione del conflitto sia andato amplificando la propria eco soprattutto di recente a esito dell’opera di sistematizzazione organica della disciplina della giustizia riparativa attuata con la L. 27 settembre 2021, n. 134 - recante delega al Governo per l'efficienza del processo penale, nonchè in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari -, invero simili forme potevano già riscontrarsi, in germe, nel contesto dei codici preunitari[2], nonché permeavano il dibattito giuridico-filosofico e criminologico di fine Ottocento.

Ma volendo rinvenire il gene ancestrale che compone la sequenza di DNA della giustizia riparativa, lo sguardo deve essere volto alla filosofia della Grecia antica: nell’Etica Nicomachea di Aristotele già può cogliersi l’idea del conflitto quale morbo da debellare attraverso un approccio di “cura” ovvero di ripristino del “bene compromesso” per ristabilire l’armonia nelle dinamiche di relazionalità sociale.

Come anticipato poc’anzi, la prospettiva della giustizia riparativa a lungo è rimasta legata all’idea della purificazione e dell’esigenza, dunque, di una misura che consentisse all’autore del reato di ritornare castus o, di nuovo attingendo ai versi danteschi, «puro e disposto a salire le stelle»[3].

Imponendosi una rilettura laica delle righe precedenti, un tale approccio alla giustizia presuppone che la priorità sia da accordarsi alla persona, non già alla norma astratta, «tanto rispetto alle istanze di riconoscimento delle vittime, quanto rispetto a quelle di pieno riconoscimento dei diritti umani in capo agli autori di reato»[4]. Non può omettersi di dar conto del contributo della vittimologia alla strutturazione dell’identità della giustizia riparativa, sotto l’aspetto sia della comprensione della genetica del crimine sia della modulazione delle reazioni punitive. In questo senso, la definizione che meglio si concilia con una declinazione in chiave vittimologica della giustizia riparativa è quella fornita dagli studiosi Daniel Van Ness e Karen Heetderks Strong[5], secondo i quali essa promuove la “cura” del male arrecato alla vittima e la ricostruzione delle relazioni all’interno della comunità[6].

Cogliere la sfumatura terapeutica di quel lato più umano della giustizia e condividerne gli assunti metodologici significa, in ogni caso, individuare gli ancoraggi assiologici che ne rappresentano un solido fondamento, a partire dalla comprensione, primariamente, del dato antropologico: quest’ultimo implica una riflessione personocentrica sulla giustizia, che abbia, cioè, come fulcro la vittima e il reo. Ragione per la quale non può prescindersi da uno sguardo ai fondamenti di natura filosofica, criminologica e antropologica, prima ancora che giuridica, che giustificano il discorso sulla giustizia riparativa: e avrà avuto modo il lettore di accorgersi del diverso modello epistemologico adoperato, essendosi sinora discettato di “giustizia” e non già di “diritto riparativo”.

Lo scarto semantico che intercorre fra i termini “giustizia” e “diritto” viene efficacemente illustrato dalle riflessioni del professor Umberto Curi: «fin negli incunaboli della tradizione culturale dell’Occidente, fra questi due concetti non si dà identità, ma radicale e irriducibile differenza. Si può anzi affermare che l’esistenza stessa del diritto è una prova dell’inesistenza della giustizia, della sua assenza dall’orizzonte dei rapporti umani. Non avremmo bisogno del diritto – né, come gli studi di antropologia culturale hanno dimostrato, in alcune formazioni sociali si aveva bisogno del diritto – se vi fosse giustizia»[7].

1.2. Fondamenti 

Si accennava, anzitutto, all'esigenza di individuare solidi punti d’ancoraggio a partire dai quali sviluppare il discorso sulla giustizia riparativa.

Nondimeno, non ci si potrà neppure esimere dall’indagarne le zone d’ombra che ancora rendono non del tutto nitida la visione d’insieme, non permettendo, quindi, di assumere posizioni radicali quanto all’effettività dei benefici degli interventi orientati alla riparazione del male arrecato. 

Scrutando l’orizzonte giusfilosofico di ricerca di risposte alternative al crimine, si è indotti a soffermare lo sguardo su quel panorama dottrinale che ravvisa nella vis del perdono l’elemento cardine della mediazione tra le parti coinvolte. Lungo tale direttrice concettuale si sviluppa l’idea di una giustizia che allenti le maglie del rigido proporzionalismo che incatena la giurisdizione penale a logiche di giusta retribuzione della colpa: in altri termini, si tratta di approcciare le dinamiche relazionali susseguenti al fatto di reato commesso in ossequio alla “virtù del compromesso”[8] che presuppone l’esercizio di una “saggezza pratica”[9] utile a instaurare un reciproco riconoscimento[10], inevitabilmente interrotto dal crimine[11]. In nuce, atteso che non può ipotizzarsi una radicale eliminazione della punizione né, tuttavia, è dato rinvenire un valore intrinsecamente riabilitativo nella mera sanzione, l’obiettivo della ricostruzione del legame sociale reciso dall’atto criminoso può essere perseguito attraverso uno sforzo di mutuo riconoscimento[12]: concetto, quest’ultimo, particolarmente efficace nel far risaltare la natura costitutivamente relazionale degli individui, aperti, per loro stessa struttura, all’alterità, come portato della condizione di ontologica finitudine[13].

Non si manchi, tuttavia, di considerare che il “piano ontologico”, sulla cui base può asserirsi l’uguaglianza tra ogni essere umano, non coincide col “piano sostanziale e sociologico”, all’interno del quale emergono differenze tra gli individui. Allora, il contributo arendtiano teso a un superamento del concetto di “perdono” consente di accedere a uno stadio successivo del discorso giusfilosofico: il gesto del perdonare viene concepito dalla filosofa tedesca come distruttivo d’ogni possibilità di relazione, giacché «non può che voler dire: il commiato fondamentale – mentre la vendetta rimane sempre presso l’altro e precisamente non rompe la relazione. Il perdono, o ciò che comunemente così chiamiamo, è in verità soltanto un procedimento fittizio, nel quale l’uno si atteggia a superiore, mentre l’altro esige qualcosa che gli uomini non possono né darsi né togliersi fra loro»[14]. In questo senso “perdono” e “vendetta” si mostrerebbero pericolosamente affini: «chi perdona rinuncia a vendicarsi, perché anche lui avrebbe potuto essere colpevole. Chi si vendica non desidera perdonare, poiché può fare la stessa cosa che è stata fatta a lui»[15].

Considerazioni, le predette, che potrebbero indurre a riformulare il paradigma della giustizia riparativa nei termini della “riconciliazione”, alla cui base s’impernia il sentimento di rassegnazione verso ciò che ormai è dato: nella «comprensione» dell’altro «avviene la riconciliazione con il mondo, riconciliazione che precede e rende possibile ogni agire»[16]. Del resto, anche il contemporaneo pensiero giuridico sembra articolarsi attorno all’idea che la giustizia riparativa «non implica forme di perdono – dinamiche interiori personalissime ed extragiuridiche – ma può essere in grado di aiutare le persone a riscoprire l’umanità presente in ciascun individuo, anche se autore di un gesto violento, e a sperimentare il superamento dell’esperienza di vittimizzazione»[17].

È più agevole, ora, comprendere come quella sfumatura terapeutica, quella dimensione di “cura” della giustizia riparativa, cui s’è accennato, rappresenta una chiave di lettura non già per un approccio al solo reato, bensì alla più generale etica delle relazioni umane[18]. Lungo tale linea interpretativa è evidente che l’essenza della riconciliazione si alimenta di quell’apporto antropologico necessario a comprenderne le dinamiche sottostanti: sotto questo versante, infatti, può osservarsi come a mutare non sia solo il modo di concepire l’uomo, ma anche la relazione che questi instaura con l’altro. Relazione che, in sintesi, sotto l’angolo visuale della giustizia riparativa, ha la possibilità di instaurarsi a partire da uno schema valoriale diametralmente antitetico a quello che forgia gli assunti della giustizia punitiva: è il sentimento di fiducia nei confronti dell’autore del fatto criminoso, che attraversi il percorso relazionale cui la vittima acconsente di accedere, l’unico ad aprire il varco alla comunicazione.

Una precisazione, a riguardo, è d’obbligo: l’aspetto di confronto e riflessione sul contenuto di disvalore del reato non interessa unicamente il proposito di destigmatizzazione del reo e di un suo reinserimento sociale, ben potendosi ravvisare nell’opportunità di dialogo uno strumento utile alla vittima per rielaborare la sofferenza patita ed elicitare nella controparte un possibile riconoscimento di responsabilità. Neppure può, tuttavia, trascurarsi la venatura chimerica che attraversa i propositi, per quanto condivisibili, della giustizia riparativa, atteso che «essa non offre lo spazio necessario ad accogliere il disordine»[19], ovverosia difficilmente può esserle riconosciuta la capacità di affrontare il dramma vissuto dalle parti[20]. In dottrina si osserva, infatti, come specialmente nei Paesi di civil law le potenzialità della giustizia riparativa faticano a emergere in considerazione, soprattutto, della resistenza della nostra tradizione giuridica a cedere a forme di “giustizia empirica” ove le soluzioni si fondano su trattamenti che procedono “caso per caso” e ammettono un ampio margine di discrezionalità nell’apprezzamento dei risultati dell’attività riconciliativa[21].

Prima, tuttavia, di addentrarsi nel discorso giuridico, preme trarre qualche ultima considerazione di natura antropologica: sotto quest’angolo visuale s’è detto che la giustizia riparativa trova la propria giustificazione nel diverso modo di concepire l’individuo, ovvero nella struttura ontologicamente relazionale di quest’ultimo[22]. Il passo successivo è rappresentato dal tentativo di indagare il terreno fondante l’attività di un’altra figura cardine della giustizia riparativa, quella del mediatore, inforcando le lenti dell’antropologo, atteso che entrambi si muovono entro contesti relazionali che richiedono lo sviluppo di un’adeguata metodologia d’approccio a situazioni, il più delle volte, conflittuali.

Entrambi devono, cioè, astrarsi da sé per assumere una prospettiva scevra da condizionamenti, così da «diventare trasparenti, specchio limpido, per poter ricevere l'immagine dell'altro, della sua sofferenza»[23]. Così opera la scienza antropologica: attraverso logiche di epurazione della propria soggettività e di acquisizione del necessario distacco emotivo, giacché il mediatore «non è altro che il traghettatore, colui che riceve e che riflette per condurre il mediante verso la sua verità, per accedere alla sua dimensione più elevata, quella dello spirito, dove può salvarsi»[24]: «spetta ai mediatori il compito di dare spessore al senso nascosto delle parole, un senso nascosto involontariamente in quanto spesso è ignorato da coloro che parlano.

Spetta al mediatore il compito di diventare l’intermediario, il catalizzatore tra la parola pronunciata e quella non pronunciata»[25]. In conclusione, l’approccio antropologico può rivelarsi particolarmente proficuo in ambito giuridico e, in ispecie, sul terreno della giustizia riparativa, così come, in generale, l’apporto interdisciplinare delle scienze umane e sociali: in altri termini, le accezioni antropologica, filosofica, sociologica e criminologica permettono di preservare un atteggiamento di apertura nei confronti del senso veritativo della giustizia.

S’è, tuttavia, accennato alla difficile conciliabilità tra la natura empirica del sistema della giustizia riparativa e il paradigma della legalità formale. Per converso, diverse sono le ragioni di natura giuridica che hanno richiesto al legislatore di affrontare il generalizzato disorientamento per assumere uno sguardo il più possibile immune da quei vizi di refrazione rappresentati da orientamenti rigidi e anacronistici. Una prima ragione risiede nel rilievo attribuito alla giustizia riparativa dalle fonti sovranazionali già a far tempo dagli anni Novanta del secolo scorso: in una prospettiva diacronica, ci si riferisce alla Raccomandazione n. R(99)19, relativa alla mediazione in materia penale adottata il 15 settembre 1999 dal Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa, alla Dichiarazione di Vienna su criminalità e giustizia dell’aprile del 2000, alla Risoluzione sui principi base sull’uso dei programmi di giustizia riparativa in materia criminale dell’Economic and Social Council delle Nazioni Unite, n. 2000/14 del 27 luglio 2000, nonché alla Direttiva 2012/29/UE in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato. La normativa internazionale ha fatto da cornice al quadro di riforma del processo e del sistema sanzionatorio penale entro cui si situa, altresì, la disciplina organica della giustizia riparativa: il già menzionato decreto legislativo in attuazione della L. 27 settembre 2021, n. 134, nel recepire il contenuto delle disposizioni sovranazionali, ha fornito un chiaro inquadramento della materia negli artt. 42 ss. di detto decreto, il cui titolo IV esordisce con una definizione di “giustizia riparativa” che merita d’esser raffrontata con la nozione di stampo vittimologico che s’è richiamata nel precedente paragrafo.

La dimensione “terapeutica” enfatizzata dal linguaggio usato da Van Ness e Heetderks Strong si contrappone alla definizione operativa proposta con la Riforma Cartabia, che la identifica quale «programma» che «consente alla vittima del reato, alla persona indicata come autore dell'offesa e ad altri soggetti appartenenti alla comunità di partecipare liberamente, in modo consensuale, attivo e volontario, alla risoluzione delle questioni derivanti dal reato, con l'aiuto di un terzo  imparziale, adeguatamente formato, denominato mediatore». In altri termini, può cogliersi il taglio più formalistico che assume la seconda definizione, imperniata sulla linea operativa che regola la procedura di mediazione: la pragmaticità del legislatore nazionale ben si è conciliata con l’esigenza di scolpire una disciplina organica di una materia sino a questo momento rimastane sprovvista, venendo arricchita, altresì, da disposizioni di coordinamento con le norme penali sostanziali e processuali. Il formalismo definitorio, tuttavia, cede di fronte all’informalità che caratterizza, concretamente, il processo di giustizia riparativa, necessaria per poter tenere conto del contributo volontario e attivo delle parti nella gestione del conflitto: nell’esecuzione del programma le parti non vengono “sentite”, bensì “ascoltate” e lasciate libere di esprimere il proprio stato emotivo e le proprie esigenze. Si affiancano svariati altri principi generali e obiettivi che il legislatore si premura di enucleare, oltre al carattere di spontaneità che deve permeare l’accesso al programma per quanto concerne sia la «persona indicata come autore dell'offesa» sia la «vittima del reato» sia «gli altri eventuali partecipanti alla gestione degli effetti pregiudizievoli causati dall'offesa»: fra questi, «l’equa considerazione dell'interesse» dei medesimi soggetti, «il coinvolgimento della comunità» all’interno del programma, «il consenso alla partecipazione» a quest’ultimo, «la riservatezza sulle dichiarazioni e sulle attività svolte», «la ragionevolezza e proporzionalità degli eventuali esiti riparativi consensualmente raggiunti», «l’indipendenza dei mediatori e la loro   equiprossimità rispetto ai partecipanti ai programmi di giustizia riparativa», nonché «la garanzia del tempo necessario allo svolgimento di ciascun programma» da eseguirsi «in spazi e luoghi adeguati» e «idonei ad assicurare riservatezza e indipendenza».

Programma che tende a «promuovere il riconoscimento della vittima del reato, la responsabilizzazione della persona indicata come autore dell'offesa e la ricostituzione dei legami con la comunità» il cui accesso è «assicurato ai soggetti che vi hanno interesse» e «favorito, senza discriminazioni», «nel rispetto della dignità di ogni persona», prevedendosi limitazioni unicamente «in caso di pericolo concreto per i partecipanti, derivante dallo svolgimento del programma». Il legislatore ha, inoltre, dedicato norme apposite alla regolazione dell’aspetto formativo dei mediatori designati per la presa in carico dei «soggetti portatori del conflitto», nonché dei requisiti per l’esercizio di tale attività, attribuendo al Ministero della Giustizia il ruolo di coordinatore a livello nazionale dei servizi per la giustizia riparativa e istituendo centri, presso gli enti locali, deputati ad assicurare «livelli essenziali e uniformi delle prestazioni». Proseguendo nel vaglio delle ragioni di natura giuridica che giustificano il fondamento della giustizia riparativa, non può mancarsi di considerare la prospettiva a essa sottesa, coerente con l’impianto rieducativo e risocializzante promosso dalla Costituzione, dunque idonea ad attribuire al sistema una nuova legittimazione relativamente al profilo della generalprevenzione positiva che ormai domina la costruzione delle risposte al reato[26]: in altri termini, le soluzioni riparatorie si rivelano funzionali a realizzare le finalità di prevenzione generale, atteso che si rivolgono, per quanto a posteriori, a tutela degli interessi della comunità[27]; del pari, risulta agevole osservare come le predette soluzioni si conciliano anche con l’obiettivo di rieducazione del reo[28]: «l’importanza di un lavoro col detenuto che lo porti a riflettere sul reato, le circostanze situazionali e personali dell’agito criminoso, gli aspetti relazionali conflittuali che hanno avviato e sostenuto l’agire delittuoso» risulta criminologicamente confermata[29], in un’ottica preventiva della recidiva.

L’idea è di far sorgere nell’autore del fatto di reato «un’autentica domanda di presa in carico ovvero l’accettazione di un cambiamento dell’immagine di sé»: più che di “disposizione al cambiamento”, nei programmi trattamentali da prendere in considerazione sono le nozioni di “impegno” e di “disponibilità al trattamento” a fini di prevenzione di possibili recrudescenze criminose[30].

2. Percorsi di giustizia riparativa nel contesto della “violenza assistita”: diritti e garanzie per le persone minori d’età

Le preliminari considerazioni svolte sui fondamenti assiologici della giustizia riparativa e sull’ampio spettro di ragioni giustificative di una sua integrazione complementare al paradigma di giustizia tradizionale consentiranno al lettore di comprendere più agevolmente la discettazione attorno all’impiego dell’istituto considerato nel contesto dei maltrattamenti contro familiari o conviventi aggravati dall’aver commesso il fatto in presenza o in danno di persona minore. 

Intuibilmente, se le cautele approntate per scongiurare paradossali effetti di vittimizzazione secondaria assumono un rilievo cruciale all’interno dei programmi di giustizia riparativa, una ancor maggiore prudenza è dovuta nei casi in cui vittima del reato, ancorché indiretta, sia un minore: individuare il kairòs, ovvero il “momento più opportuno” per intraprendere un percorso riconciliativo che coinvolga, insieme, il minore e il suo carnefice, rappresenta un’operazione complessa che non può prescindere dalla valutazione contestuale di un insieme di fattori, suscettibile di appalesarsi in maniera estremamente diversificata di caso in caso. Una consapevolezza, insita nel legislatore del recente decreto legislativo sopra richiamato, che si concretizza nella previsione di quei diritti e di quelle garanzie che chiudono il primo Capo sulla disciplina organica della giustizia riparativa: nello svolgimento del programma, che coinvolga «a qualsiasi titolo»[31] i soggetti minori d’età, è stabilito che le disposizioni del decreto de quo, in quanto compatibili, siano «applicate in modo adeguato alla personalità e alle esigenze del minorenne, tenuto in considerazione il suo superiore interesse», assurto a valore preminente, a criterio orientativo, così come previsto dal primo paragrafo dell’art. 3 della Convenzione sui diritti del fanciullo del 1989.

Da quanto premesso discende, dunque, la necessità di assegnare al minore «mediatori dotati di specifiche attitudini, avuto riguardo alla formazione e alle competenze acquisite»: leggendo quanto appena richiamato in combinato disposto con le previsioni che introducono il quarto Capo[32], può appurarsi la «specifica attenzione» che il legislatore richiede sia riservata proprio ai minori, nel quadro di una formazione pratica che miri «a sviluppare capacità di ascolto e di relazione e a fornire competenze e abilità necessarie alla gestione degli effetti negativi dei conflitti».

Un’attenzione che si dispiega anche sul versante informativo: quanto alla «facoltà di accedere ai programmi di giustizia riparativa e ai servizi disponibili» vengono informati, senza ritardo, in ogni stato e grado del procedimento penale ovvero all’inizio dell’esecuzione della pena detentiva o della misura di sicurezza, «la persona indicata come autore dell’offesa» e «la vittima» da parte dell’autorità giudiziaria, nonché gli altri «interessati» a opera degli «istituti e servizi, anche minorili, del Ministero della giustizia», dei «servizi sociali del territorio», dei «servizi di assistenza alle vittime», «dell’autorità di pubblica sicurezza» e di «altri operatori che a qualsiasi titolo sono in contatto con i medesimi soggetti». Atteso, dunque, che il soggetto coinvolto nel programma di giustizia riparativa può essere minore d’età, le informazioni appena menzionate debbono, altresì, essere fornite «all’esercente la responsabilità genitoriale, al tutore, all’amministratore di sostegno, al curatore speciale». I minori, così come gli altri soggetti con facoltà di partecipare ai percorsi riparativi, hanno diritto a ricevere dai mediatori «una informazione effettiva, completa e obiettiva»[33] riguardo i programmi disponibili, con modalità adeguate all’età e alle capacità dei destinatari: si tratta di un passaggio nevralgico rispetto alla possibilità di esprimere un consenso «libero, consapevole, informato» che, per la persona minore degli anni quattordici, può essere manifestato solo «previo ascolto e assenso della stessa», sempre avendo riguardo alla sua «capacità di discernimento», da parte «dell’esercente la responsabilità genitoriale»; soglia anagrafica al di sopra della quale, diversamente, divengono titolari del consenso sia il minore sia l’esercente la responsabilità genitoriale: potendosi configurare un conflitto rispetto alle volontà in considerazione, pur rimanendo comunque fermi i limiti circa la capacità d’agire del minore, risulta rimessa al mediatore la valutazione riguardo la possibilità di procedere, sentiti i soggetti interessati e preso in considerazione l’interesse del soggetto minore, sulla base del solo consenso di quest’ultimo.

2.1. Considerazioni conclusive

Delineato un quadro generale sul tema della giustizia riparativa, calato nello specifico contesto del coinvolgimento di persone minori d’età nei relativi programmi, in veste di persone offese, sembra utile, ora, trarre qualche considerazione conclusiva sul punto.

In prima analisi meritano d’essere vagliati i rilievi empirici risultanti dalle indagini nazionali condotte dall’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza, investita dalla legge della precisa funzione di favorire «lo sviluppo della cultura della mediazione e di ogni istituto atto a prevenire o risolvere con accordi conflitti che coinvolgano persone di minore età, stimolando la formazione degli operatori del settore»[34]: volendo, quindi, muovere dagli esiti del recente iter esplorativo[35], intrapreso in collaborazione col Ministero della giustizia e l’Istituto degli innocenti e basato su un disegno di ricerca multidimensionale, possono evincersi già alcuni riscontri significativi. Riscontri derivanti da indagini sia quantitative, espletate attraverso lo strumento del questionario[36], sia qualitative, nella forma delle interviste semi-strutturate[37], successive a una preliminare opera di rassegna bibliografica inerente il dibattito filosofico, sociologico e giuridico sul tema, non essendosi potuto da questo prescindere ai fini dell’individuazione tanto dei contenuti da indagare quanto degli strumenti da adoperare.

Anzitutto, si è correttamente osservato come le dinamiche di confronto tra soggetti adulti, in sede di programma di giustizia riparativa, divergono sensibilmente rispetto a quelle che coinvolgono un minore in qualità di persona offesa: in relazione a quest’ultima ipotesi si è riscontrata la maturazione della capacità di una gestione “funzionale” dei conflitti, nonché una maggiore predisposizione all’ascolto e alla risposta empatica. Dalle narrazioni dei minori coinvolti nei programmi si è evinta un’acquisita consapevolezza di quanto possa essere facile ritrovarsi dal lato di chi ha agito l’ingiustizia, favorendo, ciò, una riflessione critica rispetto alle modalità di relazionarsi con l’altro. Non di rado è stato, inoltre, rilevato, quale effetto ulteriore e consequenziale della mediazione, il ricostruirsi progressivo dei rapporti, lesionati, all’interno del nucleo familiare.

Volendo, invece, assumere la prospettiva inversa dell’autore dell’offesa, dall’indagine condotta possono evincersi i benefici del percorso di giustizia riparativa e nella relazione con se stessi e nella relazione con l’altro: da un confronto del resoconto di ricerca è agevolmente desumibile l’effetto di ricostruzione di un giudizio positivo e di un’immagine ricomposta di sé grazie al superamento graduale del senso di colpa e di vergogna che, sovente, si riscontra nell’intimità dei rei; sperimentando un differente clima d’ascolto e di dialogo, vanno acquisendosi modalità comunicative di gestione del conflitto vieppiù epurate da quel carattere di “disfunzionalità” che le aveva connotate, attraverso un percorso di assunzione di responsabilità e maturazione della consapevolezza del male arrecato, progressivamente colto nel suo disvalore e non più giustificato ovvero minimizzato.

Per quanto non sia difficile accorgersi della valenza complessivamente positiva che, sulla base dei dati confrontati, può ascriversi ai programmi di mediazione, si ritiene di dover avvisare il lettore dell’aspecificità delle considerazioni svolte in termini di “conferme empiriche” che possano dimostrare l’efficacia, anche preventiva, del percorso nel particolare ambito dei maltrattamenti intrafamiliari cui il minore abbia assistito: in altri termini, la letteratura scientifica ancora non sembra offrire, per insufficienza di dati a riguardo, una visione chiara sul contributo che l’intraprendere un programma riparativo a esito dell’accertamento della fattispecie di “violenza assistita” può offrire sul piano sia dell’imminente riparazione del danno sia, soprattutto, della prevenzione del fenomeno della trasmissione intergenerazionale della violenza. Alla carenza di evidenze empiriche si aggiungono, inoltre, aspetti di criticità: nella stessa relazione dell’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza si legge, infatti, che «nel caso dei maltrattamenti in famiglia, la giustizia riparativa può costituire un tassello importante, non esclusivo, in un progetto di sostegno più ampio mirato alla ricostruzione di relazioni familiari sane»; non si manchi, peraltro, di menzionare le osservazioni di diversi studiosi[38] che, all’esito di ampie ricerche condotte in ambito europeo sull’impiego della mediazione vittima-reo nei casi di violenza domestica, hanno sottolineato la specificità di tale tipologia di crimine, risultando indispensabile vagliare caso per caso l’eventualità di intraprendere percorsi di giustizia riparativa[39].

Riflessioni, le predette, che inducono, inevitabilmente, a considerare ancora aperto e bisognoso di approfondimento il tema relativo alle potenzialità di un coinvolgimento dei minori, che abbiano esperito, direttamente o indirettamente, situazioni di maltrattamento domestico, all’interno di un percorso dialogico che li esponga, nuovamente, al contatto con l’autore della violenza: il genitore, la “figura d’attaccamento”.


Note e riferimenti bibliografici

[1] Il riferimento è al regno del Purgatorio, così come descritto da D. Alighieri, in Divina Commedia, Purg. I, 5-6.

[2] Si consideri, ad esempio, che all’epoca del codice criminale per gli Stati Estensi del 1855, il delitto di ingiuria prevedeva che l’offensore fosse tenuto a porgere le proprie scuse alla vittima e, in caso di rifiuto, a corrispondere una somma di denaro.

[3] D. Alighieri, Divina Commedia, Purg. XXXIII, 145.

[4] G. Mannozzi, G.A. Lodigiani, La giustizia riparativa: formanti, parole e metodi, Torino, 2017.

[5] Cfr. D.W. Van Ness, K. Heetderks Strong, Restoring Justice, Cincinnati, 1997.  

[6] Con le parole degli autori, la restorative justice è un «transformative approach to addressing harm that focuses on repairing the damage caused by crime, promoting healing for all parties involved, and rebuilding relationships within communities».

[7] U. Curi, Il farmaco della democrazia. Alle radici della politica, Milano, 2003, come cit. da G. Mannozzi, G. A. Lodigiani, in Formare al diritto e alla giustizia: per una autonomia scientifico-didattica della giustizia riparativa in ambito universitario, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 2014, p. 150.

[8] Cfr. O. Abel, Ce que le pardon vient faire dans l’histoire, in Esprit, 1993, p. 90; P. Ricoeur, Le mémoire, l’histoire, l’oubli (2000), tr. it. La memoria, la storia, l’oblio, Milano, 2003.

[9] Ibidem.

[10] P. Ricoeur, in Soi-même comme un autre (1990), tr. it. Sé come un altro, Milano, 1993, definisce il “riconoscimento” come «una struttura del sé riflettente sul movimento che porta la stima di sé verso la sollecitudine e questa verso la giustizia».

[11] Solo «promuovendo la compartecipazione dello stesso agente di reato, una volta accertati i fatti e la colpevolezza, nel riconoscimento in rapporto con la vittima (o con soggetti esponenziali degli interessi offesi) del disvalore di quanto accaduto, anche attraverso la proposta, da parte dell’agente medesimo, di specifiche prestazioni orientate alla composizione del conflitto», la pena, da mera retribuzione, diviene uno strumento votato alla riparazione della frattura “istituzionale” costituita dal reato (cfr. L. Eusebi, Profili della finalità conciliativa nel diritto penale, in Studi in onore di Giorgio Marinucci, II, Milano, 2006, p. 1114).

[12] Sul concetto di diritto come “relazione riconoscente”, come ripreso dallo stesso P. Ricoeur, cfr. G.W.F. Hegel, System der Sittlichkeit (1802-1803), tr. it. Il sistema dell’eticità, in Scritti di filosofia del diritto, Bari, 1962.

[13] Cfr. B. Munari, La fragilità del potere. L’uomo, la vita, la morte, Milano, 2014.

[14] H. Arendt, Denktagebuch. 1950-1973, cit. p. 1.

[15] Ead., Denktagebuch (2002), tr. it. Diario filosofico. Frammenti (1950-1964), come cit. da L. Savarino, Il dovere quotidiano del pensiero. Presentazione di Hannah Arendt, in Micromega, 2003, pp. 25 ss.

[16] Ead., Denktagebuch. 1950-1973, cit., p. 272.

[17] G. Mannozzi, G.A. Lodigiani, La giustizia riparativa, cit.

[18] Cfr. F. Reggio, Giustizia dialogica, luci e ombre della restorative justice, Milano, 2010.

[19] J. Morineau, L’esprit de la médiation (1998), tr. it. Lo spirito della mediazione, Milano, 2000.

[20] Si è discusso, ad esempio, del rischio che la mediazione finisca per tramutarsi in una sterile negoziazione, se non addirittura in una manipolazione, di interessi a beneficio di una sola delle parti: a esito di un’indagine comparata tra Germania e Francia, i cui risultati sono stati pubblicati da S. Tränkle, in In the shadow of penal law: Victim offender mediation in Germany and France, Punishment & Society, 2007, si è, ad esempio, constatata una percezione del percorso di mediazione da parte delle vittime affatto in linea coi propositi formali che nutrono l’anima della giustizia riparativa. In particolare, è emerso come le vittime vedessero quello conciliativo come una sorta di “sottoprocedimento” deputato alla trattazione di vicende di secondario rilievo rispetto a quelle degne di considerazione da parte del procedimento ordinario.

[21] M. Bouchard, Breve storia (e filosofia) della giustizia riparativa, in Questione giustizia online, 2015.

[22] Alla giustizia riparativa sarebbe da riconoscersi l’attitudine a «rendere ‘discorso’ una realtà come quella del crimine e della pena, sempre a rischio di far ammutolire e inaridire chi vi si accosti» (G. Forti, Letteratura, educazione ‘morale’ dell’attenzione e residualità della risposta punitiva all’illecito, cit., p. 167).  

[23] J. Morineau, Le médiateur de l’âme. Le combat d’une vie pour trouver la paix intérieure (2008), tr. it. Il mediatore dell’anima. La battaglia di una vita per trovare la pace interiore, Milano, 2010.

[24] Id., Lo spirito della mediazione, cit.

[25] Ibidem.

[26] Cfr. L. Eusebi, Dibattiti sulle teorie della pena e “mediazione”, in Riv. it. dir. proc. pen., 1997, pp. 811 ss. e C. Mazzucato, Giustizia esemplare. Interlocuzione con il precetto penale e spunti di politica criminale, in AA.VV., Studi in onore di Mario Romano, I, Napoli, 2011, pp. 417 ss.

[27] Cfr. L. Eusebi, «Gestire» il fatto di reato. Prospettive incerte di affrancamento dalla pena «ritorsione», in La pena, ancora: fra attualità e traduzione. Studi in onore di Emilio Dolcini, tomo I, Milano, 2018, pp. 239 ss.

[28] In questo senso, osserva autorevolmente il professor L. Eusebi, in Profili della finalità conciliativa nel diritto penale, cit., p. 1109 ss., la “pena rieducativa” si contrapporrebbe alla “pena retributiva”, costituendo quest’ultima non altro che l’“analogo negativo” del fatto illecito.

[29] Il rilievo è di P. Giulini, in occasione del primo incontro del corso di formazione in materia di “Violenza domestica o di genere con la Riforma Cartabia. Le novità legislative introdotte dalla Riforma Cartabia in ambito civile e penale”, in data 18 dicembre 2023.

[30] Cfr. M. McMurran, A. McCulloch, Why don't offenders complete treatment?, cit.

[31] Cfr. art. 46 d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150 (in attuazione della L. 27 settembre 2021, n. 134, recante delega al Governo per l'efficienza del processo penale, nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari), che prevede la normativa sia applicata al minore d’età, sia che risulti indicato come autore dell’offesa sia che rappresenti la vittima sia, infine, qualora partecipino, al programma, familiari delle persone direttamente coinvolte.

[32] Cfr. art. 59 ss. d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150.

[33] Cfr. art. 47 d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150.

[34] Cfr. art. 3, comma 1, lett. o) della L. 12 luglio 2011, n. 112.

[35] Il riferimento è al progetto di ricerca condotto dall’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza, in La giustizia riparativa in ambito penale minorile. Indagine nazionale su effetti, programmi e servizi, Roma, 2023.

[36] I questionari permettono di adottare una strategia standardizzata di acquisizione di dati per il tramite di domande a risposta chiusa (singola o multipla), semi-chiusa e aperta, poi analizzati e codificati. Si tratta di strumenti particolarmente utili ai fini di una comparazione e di un agevole, costante aggiornamento della situazione monitorata.

[37] Le interviste semi-strutturate si costruiscono a partire da una traccia costituita da questioni comuni che vengono sottoposte agli intervistati seguendo un dato ordine, pur restando ferma la possibilità di modificare la sequenza e approfondire talune delle tematiche emerse.

[38] Per un maggiore approfondimento, cfr. K. Lünnemann, A. Wolthuis, Restorative justice in cases of domestic violence. Best practice examples between increasing mutual understanding and awareness of specific protection needs, Verwey-Jonker Institute, 2015. Sul punto, cfr. anche A. Edwards, S. Sharpe, Restorative justice in the context of domestic violence: a literature review, in European Forum for Restorative Justice, 2004.

[39] «(…)flexibility in how to deal with different types of offenders, victims and kinds of relationships is necessary», in K. Lünnemann, A. Wolthuis, cit., p. 10.