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Pubbl. Sab, 12 Ott 2024

Commento al Convegno ”Le indagini difensive” di Andrea Antonio Dalia

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Andrea Massaro
StudenteUniversità degli Studi di Salerno



Il presente progetto editoriale ha lo scopo di rendere omaggio ad un grande Maestro attraverso brevi commenti, dal carattere divulgativo, relativi ai più svariati temi che interessano il diritto processuale penale. L´ obiettivo dichiarato è quello di restituire attualità al Suo pensiero, attraverso l´analisi di relazioni rese in occasione di lezioni, convegni e congressi. Una vera sfida, oltre che un grande onore per chi, ancora tra i banchi delle aule universitarie, sta per affacciarsi al mondo delle professioni legali


Convegno su

Le indagini difensive

Sabato, 30 gennaio 1999

Sala degli Stemmi - Arcivescovado di Salerno

Conclusioni del Prof. Andrea Antonio Dalia

(Ordinario di procedura penale nell’Università di Salerno - Vice Presidente dell’Associazione tra gli studiosi del processo penale) 

Debbo dire che sono molto soddisfatto. Sono soddisfatto perché l’obiettivo che mi proponevo era di portare i ragazzi a contatto con l’istituzione Giustizia: nelle aule universitarie molte cose non si possono dire; anche se si dicono, non vengono apprezzate. Un giovane che sta per laurearsi, che è al quarto anno di giurisprudenza e che, verosimilmente, farà l’avvocato, il magistrato, il cancelliere, l’operatore giudiziario, deve conoscere l’ambiente nel quale sta per inserirsi. Ho provocato, perciò, la presenza di persone qualificatissime — lo avete apprezzato dagli interventi — del Foro locale: l’avvocato Tedesco, con la brillante introduzione che vi ha fatto; del rappresentante nazionale della categoria forense, avvocato Buccico, e del professore Riccio, nella duplice veste di professore universitario e di componente del Consiglio Superiore: ma il suo è stato l’intervento del giurista, dello studioso del processo penale.

Sono soddisfatto per quello che avete ascoltato. Sono perplesso, se vi debbo dire la verità, sulle conclusioni che debbo trarre, perché, in sostanza, hanno un po’ ragione tutti. Volendo, cioè, essere attenti a quello che è stato detto, ha ragione sia chi critica questa nuova legge, sia chi ne auspica l’entrata in vigore al più presto.

Prima di entrare nel merito, mi si consenta di riprendere un argomento iniziale della relazione dell’avv. Buccico.

Lui, giustamente, dice: «Io non vorrei che finissimo per avere una legge che non serve a nulla, come non è servito a nulla modificare l’art. 416».

Questa innovazione — pensate! — è stata decisa dal legislatore mentre modificava il reato di abuso in atti d’ufficio: non c’entrava niente. Ad un certo punto, parte un emendamento (perché bisognava coprire — diciamoci la verità! — una certa scelta legislativa che voleva interferire sulla interdizione dei pubblici uffici; però, per non creare disparità di trattamento, si pensò di non limitare questo intervento processuale in tema di interdizione ma di ampliare il 416) inteso a modificare, appunto, l’art. 416 c.p.p. (che è la norma, lo ricordiamo, per effetto della quale il magistrato, all’esito delle indagini, chiede il rinvio a giudizio, depositando presso la cancelleria del giudice gli atti di indagine compiuti) nel senso di imporre all’organo dell’accusa di contestare il fatto all’indagato, prima di richiederne il rinvio a giudizio. Di qui i problemi: imputazione provvisoria? Imputazione definitiva? Quali rapporti? Perché questa norma ha rotto il sistema! Questa è una norma di gravità eccezionale, non se ne sono resi conto. Perché? Il magistrato ha un termine di durata per le indagini: che senso ha imporgli di contestare il reato alla chiusura delle indagini, quando non ha più il tempo per esperire eventuali indagini a favore dell’indagato? Certo si è risolto in un adempimento burocratico! Non ha il valore di partecipazione difensiva!

Se volevano fare una legge seria, sarebbe stato preferibile — mi dispiace dirlo, caro Peppe Riccio, ma purtroppo siamo costretti a tornare al passato — il vecchio art. 369, che prevedeva l’informazione di garanzia sin dal primo atto d’indagine: quello significa assicurare il diritto di difesa! In tal modo, infatti, dal primo atto d’indagine il difensore ha la possibilità di seguire le indagini del magistrato e anche di fare le investigazioni parallele; invece, si ribadisce che la informazione di garanzia — per le distorsioni che ne hanno fatto i mass-media — deve essere inviata solo quando si deve compiere un atto garantito. Poi, però, si dice: «prima di richiedere il rinvio a giudizio». Prima di richiedere il rinvio a giudizio il magistrato si è già formato la sua idea, si è già determinato per la richiesta di rinvio a giudizio e, quindi, non ha senso dargli quest’ulteriore onere, che, peraltro, ha elegantemente evitato, attraverso la delega alla polizia forestale — come, in termini coloriti, ricordava l’avv. Buccico — alla polizia ferroviaria e così via.

è chiaro allora — mi rivolgo a voi ragazzi — che ci troviamo di fronte ad un inganno legislativo, perché apparentemente questa è una legge di fortificazione, diciamo, del principio del contraddittorio, ma, di fatto, è una legge che non dà alcuno spazio di intervento al difensore e può determinare solo uno shock anticipato nell’indagato, il quale, invece di essere scioccato dalla notifica della richiesta di rinvio a giudizio — dove almeno può vedere che cosa c’è — è scioccato da questo invito a comparire davanti al maresciallo dei carabinieri. Perché poi a questo si riduce: i miei colleghi, carissimi amici avvocati, sanno quante volte vengono agli studi questi poveretti, i quali chiedono allarmati: «Dove debbo andare? Che cos’è?» etc. Questa legge di modifica del 416 è, pertanto, pessima. Vogliamo fare una legge simile?

Riepiloghiamo un attimo, consentitemi. Con il disegno di legge in materia di indagini difensive cominciano a lievitare, per così dire, due figure: il «difensore» e il «difensore investigatore», giacché — a quanto pare di capire — il mandato alla difesa è cosa diversa dal mandato alla difesa investigativa. Non si toccano, infatti, le norme sul conferimento dell’incarico, e quindi sul mandato, ma si dice: «si può conferire al difensore il mandato a svolgere indagini»: quindi già c’è una doppia figura di difensore.

Ma questo difensore investito del mandato alle indagini, alle investigazioni, che cosa può fare? Ricerca le fonti di prova, le individua, acquisisce gli elementi di prova, li documenta e ... non sa poi come utilizzarli. Quindi: li ricerca, li individua, gli acquisisce, li documenta e li rimette nel fascicolo del pubblico ministero.

Quali profili debbono essere approfonditi? Lo hanno detto i relatori che mi hanno preceduto. Si parla di indagini «parallele» e di indagini «preventive», a seconda che il conferimento dell’incarico sorga dalla conoscenza di un procedimento penale o indipendentemente dalla pendenza di un procedimento penale. In quest’ultimo caso si tratterà di indagini preventive: una persona va dall’avvocato e gli confida di aver commesso un reato (perché altrimenti non si capisce perché gli debba dare il mandato!): l’avvocato, in quel momento, che cos’è? È un privato? Un pubblico ufficiale? Un incaricato di un pubblico servizio? Ha un obbligo di denunzia? O no? Come lo risolviamo questo primo problema? È tenuto al segreto? Come svolge, poi, queste indagini: personalmente? Attraverso l’investigatore privato? E questo è un punto sul quale ci dobbiamo soffermare: possiamo noi continuare a parlare — ed ormai ne parliamo da 10 anni — di investigatori privati se poi nel nostro ordinamento non esiste l’albo degli investigatori privati, non ci sono gli investigatori privati? Già da quando è stato introdotto l’art. 38 disp. att. c.p.p., abbiamo detto: «ma non abbiamo gli investigatori privati!». Allora perché illudere? Ecco, io mi rivolgo a voi ragazzi. Voi ritenete che nel nostro Stato esista, come in America, la professione dell’investigatore privato? Non c’è. Non esiste. Quindi, queste indagini chi le deve compiere, il difensore?

Io intitolerei questo disegno di legge: «Rilevanza penale dell’attività difensiva di indagine», trattandosi di disegno di legge criminogeno, giacché crea una serie di figure di reato: false dichiarazioni al difensore, rivelazioni di segreti inerenti ad un procedimento penale: due figure di reato! I difensori non hanno, però, l’obbligo di denunciare un reato del quale abbiano avuto notizia nel corso delle attività da loro svolte! Per le indagini parallele ed anche per le indagini preventive? Ho dei dubbi! Ma, a parte queste figure di reato, quali altre fattispecie possono interferire in questa materia? Favoreggiamento personale; subornazione di testi (ad esempio, il rimborso spese riconosciuto al testimone può essere considerato il prezzo per ottenere un certo tipo di dichiarazioni favorevoli?);  frode processuale (se, ad esempio, viene modificato artificiosamente lo stato delle cose e dei luoghi); false dichiarazioni o attestazioni in atti destinati all’autorità giudiziaria; trattamento illecito di dati personali (questo disegno di legge ignora del tutto la disciplina sulla privacy); interferenza illecita nella vita privata; patrocinio o consulenza infedele; millantato credito del patrocinatore. Questi sono i reati che si possono ipotizzare nell’esercizio dell’attività difensiva di indagine.

Io — sia chiaro! — non sono contrario a questa legge, però vorrei che, una volta tanto, una tantum, il nostro Parlamento emanasse una legge consapevole, una legge seria.

Voi mi dovete dire come è pensabile di attribuire al difensore una facoltà di svolgere indagini in contrapposizione ad un magistrato del pubblico ministero che appartiene all’ordine giudiziario! Ci dobbiamo chiarire un attimo le idee. Indubbiamente, questa legge (così come — diciamocelo chiaramente! — il codice del 1988) ha tratto ispirazione da un modello processuale di una cultura giuridica diversa dalla nostra, la cultura giuridica nord-americana, dove è recepito un dato importantissimo: la distinzione tra la lotta alla criminalità e la giurisdizione; perché lì la lotta alla criminalità non la fa il giudice, la fa il Procuratore, che non è un magistrato, che non è appartenente all’ordine giudiziario, che ricerca con le strutture pubbliche le prove e, in quest’azione, combatte la criminalità; però, poi, riconosce, lo stesso Stato, il valore ineliminabile della giurisdizione, perché il giudice è organo distinto dall’accusa. Allora, in quella cultura, si può comprendere che, accanto allo studio pubblico dell’accusatore, vi sia lo studio privato dell’investigatore difensivo, perché entrambi sono privi di quei poteri di coercizione che caratterizzano la giurisdizione. Noi non abbiamo questa cultura, noi abbiamo una cultura europea. Damaska ci ha dimostrato quali sono le filosofie che sottendono i modelli della giurisdizione. Noi abbiamo un’impostazione prettamente burocratica della funzione giudiziaria, perché riteniamo che la giustizia sia una funzione dello Stato, che debba essere espletata da organi dello Stato, sia nella ricerca dei colpevoli, sia nel giudizio dei colpevoli, sia nella esecuzione della pena; noi, cioè, ci affidiamo allo Stato per tutto ciò che è la gestione del fenomeno «giustizia penale». Quindi vogliamo che allo stesso ordine giudiziario appartengano i pubblici ministeri e i giudici. Non ci illudiamo, allora, sulla terzietà di un giudice rispetto ad un ufficio del pubblico ministero!

Valga un esempio. La Corte di Cassazione esprime un principio di garanzia, affermando che deve essere salvaguardato, come principio fondamentale, quello della «immutabilità del giudice»: il giudice che decide deve essere il giudice che raccoglie la prova. Come può, invero, decidere il giudice, se non coglie nel suo intimo convincimento, nella sua emozione decisionale, quello che sente il testimone? Bene, contro questa sentenza insorge un rappresentante dell’accusa! ... L’accusa — signori miei! — deve stare al suo posto, deve svolgere la funzione di investigazione, di acquisizione, di raccolta degli elementi di prova da sottoporre al giudice: non può sindacare l’operato del giudice, poiché il giudice deve sentirsi sereno, e un giudice che sente sul collo il fiato dell’accusa non sarà mai un giudice terzo, un giudice imparziale. Questa è la verità!

Noi discutiamo questo famoso «super 513». Ma è mai possibile che in Costituzione dobbiamo inserire i principi delle Carte internazionali, dobbiamo, cioè, dire che il processo deve assicurare il contraddittorio, o che va garantito il giusto processo? Noi possiamo scrivere tutto nelle carte, possiamo scrivere tutto nelle leggi, ma è nella nostra mente che dobbiamo fare dei salti di qualità, dobbiamo fare delle scelte. Noi non possiamo continuare a ritenere che il processo sia lotta alla criminalità. Nel 1988 c’eravamo riusciti, avevamo distinto tra «procedimento» e «processo» e avevamo detto che procedimento è il momento di lotta alla criminalità, il processo è il momento di garanzia dell’individuo; quale che sia la sua colpa, prima che venga accertata, l’individuo ha diritto al «dovuto processo legale»: questa era la distinzione fondamentale tra procedimento e processo. E ci saremmo dovuti opporre, forse, più vivacemente alla presenza difensiva durante le indagini. Abbiamo commesso l’errore già commesso sotto il vigore del codice del ’30, quando avevamo commentato favorevolmente l’estensione delle garanzie dell’istruzione formale all’istruzione sommaria, perché in questo modo, allora, «giurisdizionalizzammo» la fase istruttoria, oggi abbiamo «giurisdizionalizzato» la fase delle indagini.

Certo, ricorre questa cultura inquisitoria! Ma è la nostra cultura. Noi non siamo pronti — a mio avviso — per un processo accusatorio perché noi — lo ripeto — concepiamo un ordine giudiziario che esprima l’accusatore e il giudice. L’accusatore deve essere distinto per carriera, per formazione, per contatti, per contiguità, dal giudice; debbono sedere in luoghi diversi, debbono avere uffici separati; debbono, i difensori e i pubblici ministeri, avere le stesse chances nei confronti del giudice: questo non lo abbiamo nel nostro ordinamento.

Oltre che la cultura della giurisdizione, manca da noi la cultura della professione. Ha ragione l’avvocato Buccico quando dice che rispetto alla professione forense — che è di grandissima responsabilità — dovrebbero funzionare meglio gli organi di controllo, dovrebbe funzionare il momento disciplinare. Tutto questo ci manca: ci manca la cultura della professione, ci manca la cultura della giurisdizione. Abbiamo solo una tendenza spasmodica, smisurata alla imitazione.

Nei lavori parlamentari della legge delega, della prima legge delega, si può addirittura leggere — e mi conforteranno gli amici colleghi — che ... sulla falsariga dei telefilm di Perry Mason, dovevamo in Italia passare dal processo inquisitorio al processo accusatorio. Chi ha fatto, insomma, scuola è Perry Mason! Ragazzi, credetemi, ci sono questi riferimenti nei lavori parlamentari!

Questa tendenza alla imitazione è fuorviante. Anche perché nei telefilms americani, proiettati in Italia, Perry Mason vince sempre — io non ho mai visto vincere il procuratore, vince sempre Perry Mason! — sicché, si pensò, questo è un sistema garantista al massimo, che va perciò imitato, trasfuso nel nostro ordinamento processuale. Noi, al contrario, le cause non le vinciamo mai. Ormai le nostre difese sono la prescrizione del reato, la consunzione dei termini di custodia cautelare. Sarà perché io sono un modesto avvocato; voi siete più bravi di me, ma io le cause non le vinco più, le vincevo. Perché? Perché oramai, attraverso questa consumazione del limite, dello spartiacque tra procedimento e processo, tutto è processo. Ciò grazie alla Corte costituzionale, le cui sentenze io rispetto come giurista, ma che non possono non suscitare nel cittadino un grido di allarme.

Quando, infatti, la Corte costituzionale inventa un rapporto di equilibrio tra principio di oralità e principio di non dispersione fa una confusione concettuale enorme: il principio di oralità è tra i principi naturali del giudizio, con il contraddittorio; la non dispersione non è un «principio», è una «esigenza» che dovrebbe essere soddisfatta nel rispetto dei principi e potrebbe essere soddisfatta con i meccanismi che prevedono l’anticipazione dell’acquisizione della prova con le forme del dibattimento. Non c’è, dunque, contrapposizione tra oralità e non dispersione, così come non c’è contrapposizione — e veniamo all’ultima sentenza — tra contraddittorio e non dispersione.

Questo, poi, è un salto molto pericoloso, pensare cioè di limitare il contraddittorio in nome del principio di non dispersione: questa non dispersione che prima viene invocata come contemperamento dell’oralità, poi diventa — nella sentenza ultima sull’art. 513 — valore costituzionale da contrapporre al contraddittorio. Avete visto? Le conoscete queste cose, ragazzi? Il salto: oralità- non dispersione, poi contraddittorio-non dispersione.

A questo punto, il terzo passaggio potrebbe essere: non processo per la non dispersione. La prossima sentenza potrebbe dire ... il processo si può anche non fare quando il collaborante di giustizia abbia fatto le sue dichiarazioni davanti al magistrato; che bisogno c’è di riformare la prova davanti al giudice? Perché mostrare sfiducia nei confronti di una prova acquisita da un organo di giustizia che non è parte? Il magistrato del pubblico ministero non è parte, è un organo pubblico: perché nutrire sfiducia nell’operato di un organo dello Stato che agisce nell’interesse della collettività? Il difensore è un organo dello Stato che agisce nell’interesse della collettività? No, è un incaricato di un servizio pubblico, ma che agisce — si dice — nell’esclusivo interesse di chi gli ha conferito il mandato. Allora, se è un magistrato che raccoglie la prova, perché dubitare della correttezza di queste modalità di acquisizione? Perché dubitare dell’autenticità delle dichiarazioni? Basta che al difensore si dia la possibilità di leggere quello che è stato raccolto dal magistrato. Basta questa conoscenza perché possa esplicarsi il contraddittorio «sulla prova».

Orbene, il disegno di legge di cui discutiamo oggi vorrebbe introdurre un contraddittorio «per la prova», posto che quello attuale è un contraddittorio «sulla prova», cioè è una contrapposizione dialettica di impressioni, di valutazioni su dati probatori che sono stati raccolti unilateralmente. Ben venga, allora, questa legge, ma che sia una legge che abbia una sua coerenza sistematica con la legislazione preesistente.

Uno dei punti fondamentali da chiarire è il seguente: quale veste assumerà il difensore nell’attività di documentazione? Perché la sua raccolta di elementi probatori abbia un valore ai fini processuali, occorre che la dichiarazione abbia il valore di verbale. Si parla di verbale? Ora, io mi chiedo: chi lo redige il verbale, il difensore? Un suo incaricato? E perché lo stesso disegno di legge, che prevede questo largo ingresso alle indagini difensive, pone, poi, uno sbarramento nel momento in cui preclude al redattore del verbale assuntivo delle dichiarazioni della persona informata la facoltà di deporre come teste? Ma vogliamo parlare di parità di condizione? L’ufficio della procura dispone della polizia giudiziaria? La polizia giudiziaria redige i verbali di acquisizione delle informazioni? La polizia giudiziaria interviene in dibattimento come teste di accusa? Il difensore, invece, se non lo assume personalmente, deve assumere tramite l’investigatore la dichiarazione del terzo informato sui fatti, però, in quel momento, l’investigatore diventa incompatibile alla funzione di testimone. Allora, qual è la par condicio che si vuole assicurare? Gli atti di indagine acquisiti dal difensore debbono confluire nel fascicolo del pubblico ministero e possono essere esaminati dal magistrato del pubblico ministero prima delle richieste al giudice. Perché, quando il magistrato fa una richiesta al giudice, il difensore esamina i suoi atti?

Ed allora andiamoci piano! Questa legge può avere un valore enorme, in positivo e in negativo. Può essere un passo avanti notevolissimo verso, non dico la conquista della par condicio tra accusa e difesa, ma verso la valorizzazione della funzione del difensore, che finalmente potrebbe smettere di essere testimone ad atti processuali. Però, può avere un valore negativo altrettanto enorme, perché se sarà una legge fatta male, se sarà una legge impraticabile, segnerà la fine dell’autonomia e della libertà dell’avvocatura italiana.

Io ho fissato questo incontro proprio per cercare di sensibilizzare i giovani studenti, i giovani avvocati, gli avvocati meno giovani, perché bisogna intervenire su questo settore: se passa sulle nostre teste questa legge che non ci dà niente, se non gravi responsabilità, ma sul piano del contraddittorio ci riporta sempre nell’angolo del contraddittorio «sulla prova», noi rischiamo di iniziare la fase decadente, la fase estintiva dell’autonomia dell’avvocatura.

Questo disegno — caro Nicola! — di istituire il difensore pubblico, è un disegno che parte da lontano, è un disegno che vuole pianificare anche la funzione dell’amministrazione della giustizia, come le altre funzioni dello Stato. Allora rivendichiamo la libertà di esercitare la professione forense, ma nella consapevolezza, innanzitutto, degli strumenti che la legge ci offre. Secondo: nel concorso a migliorare questi strumenti normativi. Terzo: nella diffusione delle idee, perché quando è stato introdotto il nostro codice di procedura penale, già nelle battute iniziali della nuova gestione della giustizia penale c’erano i sintomi del fallimento, perché coevamente fu approvato un provvedimento legislativo — la cui forma in questo momento mi sfugge — in virtù del quale c’era continuità di carriera — e quindi di posto, e quindi di sedi — tra giudici istruttori e giudici per le indagini preliminari, cioè due figure giuridiche che erano per definizione incompatibili, e divennero l’uno la continuazione dell’altro. Il nuovo codice era la negazione della figura del giudice istruttore: orbene, a ricoprire i posti di giudice per le indagini preliminari furono chiamati tutti i giudici istruttori! Questa è la verità! Come poteva non fallire la riforma del 1988?

Questa, a mio parere, è l’ultima occasione che ci viene offerta, è il momento in cui dobbiamo decidere se continuare a fare gli avvocati o diventare — per quelli che lo vorranno — funzionari dello Stato; è il momento in cui l’avvocatura si gioca la sua indipendenza e la sua caratterizzazione di professione libera.

Abbiamo bisogno di strumenti normativi che siano improntati non al principio di legalità, non al principio del contraddittorio, ma al principio di onestà. Questa legge, così come sta andando avanti, sarà un prodotto normativo non onesto, perché tradisce le aspettative degli avvocati che intendono svolgere tutt’altra professione. Però, con la stessa onestà — caro Nicola! — bisogna dire ai giovani che la professione forense, così come viene esercitata oggi, non è qualificante. Perché i giovani non possono essere lasciati al loro destino dopo un ciclo universitario che è «di massa», dopo quattro o cinque anni di università che sono anni di scollamento totale, poiché la istituzione universitaria non funziona (ma come può funzionare un’istituzione con 10 mila studenti e 40 professori?). È qui che vengono in campo le istituzioni professionali. Noi abbiamo bisogno di scuole, di corsi (con tutto il rispetto per il Consiglio Superiore, per carità, li ho istituiti io, quando ero all’ufficio studi del Consiglio, quei corsi; ma sono corsi per i magistrati). Noi dobbiamo fare le scuole per gli avvocati, noi dobbiamo fare le scuole per coloro che decidono di svolgere la professione forense.

Io ho organizzato questo convegno perché questa è la mia aspirazione: costituire una scuola dell’avvocato penalista qui a Salerno, o in qualche località limitrofa. Mi auguro che da questo convegno venga fuori, giacché solo con la preparazione culturale, l’affinamento professionale, l’avvocatura potrà tenere alta la sua idea di professione libera e qualificante sul piano culturale e civile. Grazie.

***

Commento di Andrea Massaro

Studente iscritto al corso di laurea in giurisprudenza

Dipartimento di Scienze Giuridiche – Università degli Studi di Salerno

L’entrata in vigore, nell’ormai lontano 1989, dell’attuale Codice di procedura penale, segna l’inizio di una “rivoluzione copernicana” che, nell’ottica del legislatore italiano, avrebbe sancito il passaggio da un sistema processuale penale inquisitorio ad un sistema “tendenzialmente accusatorio”, che, nel corso del tempo, si sarebbe poi rivelato “timidamente accusatorio”.

Il baricentro di tale rivoluzione era rappresentato dalla netta e marcata separazione tra il procedimento per le indagini preliminari, finalizzato alla verifica della fondatezza della notizia di reato e la fase processuale, avulsa quanto più possibile dalle contaminazioni investigative e deputata alla cognizione, da parte del giudice terzo e imparziale, del fatto storico, contenuto nella imputazione, secondo le diverse prospettazioni fornite da accusa e difesa.

Nel nuovo assetto normativo così delineato, infatti, accusa e difesa sono chiamate ad operare su un piano di parità: la prima a sostenere l’accusa in dibattimento, la seconda a difendersi provando.

Sotto tale profilo, occorre richiamare l’attenzione del lettore sull’articolo 358 c.p.p. che, nella prospettiva del legislatore del 1988, avrebbe dovuto garantire l’obiettività dell’attività investigativa del magistrato inquirente, chiamato a svolgere le indagini necessarie per le determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale, ivi compresi anche accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini.

Purtroppo, l’operatività dell’articolo 358 c.p.p. è rimasta un mero flatus vocis, tanto da indurre il legislatore italiano, a distanza di dieci anni dall’entrata in vigore del codice di procedura penale, ad introdurre l’istituto delle investigazioni difensive, demandando così al difensore dell’indagato la ricerca degli elementi di prova da porre a fondamento dell’attività difensiva.

La ratio legis delle investigazioni difensive è stata da tempo individuata nel diritto a difendersi provando, riconosciuto dalla Costituzione come inviolabile in ogni stato e grado del procedimento nell’articolo 24 comma 2 ma, soprattutto, nell’articolo 111, nell’ambito del quale vi sono almeno due principi che interessano direttamente la tematica in oggetto.

In primo luogo, l'espresso riconoscimento del principio di parità delle parti al comma due, in secondo luogo il comma tre nella parte in cui riconosce all’imputato il diritto di disporre del tempo e delle condizioni necessarie per preparare la sua difesa.

In merito al terzo comma, poi, è da ritenere che una disposizione del genere costituisca un vero e proprio riconoscimento costituzionale del diritto di svolgere tutte quelle investigazioni difensive che sono legate da un immediato nesso funzionale con l'esercizio del diritto di difesa.

Le investigazioni difensive sono state introdotte nel nostro ordinamento giuridico dalla legge n. 397 del 07.12.2000, con la quale si è passati ad una regolamentazione organica della materia, superando ed abrogando espressamente il dettato normativo dell’art. 38 delle Disposizioni di attuazione del codice di procedura penale, a tenore del quale al fine di esercitare il diritto alla prova previsto dall’art. 190 del codice, i difensori, anche a mezzo di sostituti e di consulenti tecnici, hanno facoltà di svolgere investigazioni per ricercare ed individuare elementi di prova a favore del proprio assistito e di conferire con le persone che possano dare informazioni.

Le disposizioni più significative sotto il profilo strettamente operativo sono contenute nel libro V del codice, in particolare nei nuovi artt. 391-bis e ss. c.p.p., disposizioni in cui è collocata la disciplina di importanti aspetti concernenti il fondamentale settore del diritto all’investigazione difensiva, inerenti, in particolare, ai limiti dell’attività di apprensione, alle modalità documentative dell’atto acquisitivo ed al regime utilizzativo.

Alla disciplina delle modalità attuative dell’attività d’investigazione difensiva si antepone una disposizione, l’art. 327 bis c.p.p., enunciante il fondamentale principio di libertà investigativa in funzione della realizzazione di obiettivi immediatamente inerenti alla tutela della posizione della parte privata coinvolta nel processo penale.

Il 1° comma di tale articolo stabilisce che fin dal momento dell’incarico professionale il difensore ha la facoltà di svolgere investigazioni per ricercare e individuare elementi di prova a favore del proprio assistito.

Per conseguire siffatti risultati l’ordinamento facoltizza il difensore di svolgere un’attività d’indagine che per molti aspetti si distingue significativamente dall’ investigazione del pubblico ministero.

L’indagine privata presenta, infatti, il carattere della facoltatività, nel senso che il difensore può compiere attività d’indagine in quanto lo ritenga necessario ed opportuno ai fini della tutela della posizione della persona assistita, nella ricerca di elementi di prova esclusivamente a favore del proprio assistito, rimanendo libera nella scelta degli atti investigativi da compiere e delle risultanze da portare a conoscenza della controparte e quindi di sottoporre alla valutazione giurisdizionale.

Inoltre, l’attività del difensore non soggiace a limitazioni temporali, essendo consentita in ogni fase e stato del procedimento penale, ivi compresa la fase dell’esecuzione propedeutica alla richiesta di revisione.

Concentrando ora la nostra attenzione sulle attività investigative consentite al difensore, dobbiamo tener conto delle investigazioni finalizzate all’acquisizione di dichiarazioni ed in tal senso l’art. 391 bis c.p.p. contempla tre diverse modalità di compierle: il colloquio, la ricezione di dichiarazioni e l’assunzione di dichiarazioni.

I successivi articoli disciplinano, inoltre, la richiesta di documentazione alla pubblica amministrazione (art. 391-quater c.p.p.) e l’accesso per prendere visione dello stato dei luoghi e delle cose pertinenti al reato (art. 391-sexies c.p.p.).

Occorre, tuttavia, precisare che la regolamentazione non è esaustiva, essendo, infatti, completata dalle regole di comportamento del penalista nelle investigazioni difensive, secondo il testo approvato dall’Unione delle camere penali nel 2001.

Nel 2002, poi, il Consiglio Nazionale Forense ha apportato modifiche al codice deontologico tra le quali spicca una dettagliata disciplina dello svolgimento delle investigazioni difensive e l’introduzione dell’illecito disciplinare per la violazione di tale codice.

Sotto tale profilo, l’investigazione difensiva costituisce al tempo stesso un diritto e un dovere dell'avvocato: è un diritto nei rapporti con l’autorità giudiziaria, è un dovere nei rapporti con il cliente, tanto è vero che le regole di comportamento elaborate dall’Unione delle Camere Penali, all’articolo tre, prevedono che viola i propri doveri quel difensore che non si pone il problema della necessità di un'attività di indagine e non lo segnala al cliente, se il cliente non intende aderire a tale scelta dell'avvocato questi può soltanto accettare tale scelta o rinunciare al mandato.

Nell’ambito dell’analisi di questo istituto, da sempre ritenuto molto innovativo quanto controverso, sia da parte della dottrina che della giurisprudenza, si collocano le opinioni espresse durante un convegno tenutosi a Salerno il 30 gennaio del 1999, quindi nel periodo immediatamente precedente la riforma che avrebbe poi introdotto tale istituto nel nostro ordinamento, da parte del Prof. Avv. Andrea Antonio Dalia, il quale mise in luce fin da subito parte delle criticità caratterizzanti l’allora disegno di legge e che risultano essere ancora oggi, purtroppo, immanenti alla prassi difensiva forense.

In primis, si segnala la riflessione secondo cui «secondo il dettato normativo si vanno a delineare due figure, ovvero il “difensore” e il “difensore investigatore” giacché, come si evince, il mandato difensivo è cosa diversa dal mandato alla difesa investigativa».

Non sono state modificate le norme sul conferimento dell’incarico ed infatti è previsto che “si può conferire al difensore il mandato a svolgere indagini”, quindi è prevista una doppia figura di difensore.

Un secondo aspetto dal Professore è proprio la non chiarezza e precisione nel definire l’attività di investigazione consentita ai difensori investiti da tale mandato, i quali si trovano in una situazione in cui ricercano le fonti di prova, le individuano, acquisiscono gli elementi di prova e li inseriscono nel fascicolo del pubblico ministero.

Un’ulteriore criticità è segnalata in merito alla definizione delle indagini “parallele” e delle indagini “preventive”. Saranno parallele se il conferimento dell’incarico sorge dalla conoscenza di un procedimento penale, mentre saranno “preventive” se sorge indipendentemente dalla pendenza di un procedimento penale.

Riguardo a queste ultime, è naturale pensare ad un’ipotesi in cui per avviare tali indagini una persona dovrebbe confidare all’avvocato di aver commesso un reato e questa circostanza suscitava e suscita non poche perplessità.

Un punto di cruciale importanza e che risulta essere ancora oggi più che mai attuale riguarda proprio la ratio stessa della legge: la facoltà attribuita al difensore di svolgere indagini in contrapposizione ad un magistrato del pubblico ministero che appartiene all’ordine giudiziario. La critica in questo caso è mossa in base ad una chiara ispirazione da parte del legislatore al modello processuale appartenente alla cultura nord-americana, ispirazione che appare esserci tutt’oggi. In tale modello però è possibile contrapporre l’attività investigativa della pubblica accusa a quella dello studio privato del difensore proprio perché l’attività investigativa è svolta dal Procuratore ed entrambi sono privi di quei poteri di coercizione tipici della giurisdizione. In Italia, però, come è stato correttamente sottolineato, non abbiamo tale cultura, abbiamo un’impostazione prettamente burocratica della funzione giudiziaria, perché riteniamo che la giustizia sia una funzione dello Stato e quindi debba essere espletata dagli organi dello Stato (a tal proposito, appartengono allo stesso ordine giudiziario i pubblici ministeri e i giudici).

Per poter applicare al meglio tale legge, come già detto ispirata ad un modello distinto dal nostro, i difensori e i pubblici ministeri, nella prospettiva del Prof. Dalia, dovrebbero avere le stesse chance nei confronti del giudice, cosa che non è tutt’ora possibile nel nostro ordinamento.

Un chiaro esempio di questa problematica è dato dalla differenza enorme di condizione in cui si trovano i pubblici ministeri e gli avvocati: la procura dispone della polizia giudiziaria mentre l’avvocato può al massimo affidarsi ad un investigatore privato. Questa par condicio ideale è rimasta tale.

Per concludere, tutte queste antinomie presenti allora nel disegno di legge e anticipate nella relazione in commento si sono purtroppo rivelate vere e sono ancora al giorno d’oggi presenti nel nostro sistema processuale.

A conferma di quanto detto, infatti, nell’ambito della giurisprudenza di legittimità, sin da subito la Corte di Cassazione ha dovuto affrontare le fibrillazioni processuali innescate dall’introduzione della disciplina de qua, essendo stata chiamata a sancire il principio in base al quale la nuova disciplina delle indagini difensive, nel prevedere un’amplissima possibilità per i difensori delle parti private di assumere prove, delinea per le stesse un'equiparazione, quanto ad utilizzabilità e forza probatoria, a quelle raccolte dalla pubblica accusa, sia nella fase delle indagini e dell’udienza preliminare, che in quella dibattimentale.

Con la conseguenza che, allorché al giudice del riesame vengano dalla difesa dell’indagato offerti elementi di prova in favore del proprio assistito, il tribunale ha l’obbligo di valutarli unitamente a tutte le altre risultanze del procedimento, attraverso argomentazioni logico - giuridiche adeguatamente corrette.

Per altro verso, invece, sempre secondo l’assunto dei primi orientamenti giurisprudenziali, l’ordinanza di rigetto da parte del GIP della richiesta di assumere, con incidente probatorio, ai sensi dell’art. 391-bis comma 11 c.p.p., la testimonianza di soggetto rifiutatosi di rendere, su richiesta del difensore, dichiarazioni scritte o informazioni, ai sensi degli art. 391-bis e 391-ter c.p.p. o che abbia dichiarato di volere essere ascoltata alla presenza del p.m. o durante incidente probatorio, non è soggetta a gravame, stante il principio di tassatività delle impugnazioni (art. 568 comma 1 c.p.p.) e l’esigenza di speditezza della procedura, rimanendo altresì esclusa la sua qualificabilità quale provvedimento abnorme, e quindi la possibilità di impugnarla con ricorso per cassazione, dal momento che essa, a prescindere dalla eventuale erroneità della decisione o della relativa motivazione, non può dirsi avulsa dall’intero ordinamento processuale (cd. abnormità strutturale) né adottata al di fuori dei casi consentiti e delle ipotesi previste, tanto da determinare una stasi irrimediabile del processo (c.d. abnormità funzionale).

Da segnalare, nel 2002, una pronuncia della Corte costituzionale (n. 264) la quale dichiarava manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli art. 391-bis, 391-ter, 391-octies e 391-decies c.p.p.  – sollevata in riferimento agli art. 2, 3 e 111 cost. –  nella parte in cui tali norme prevedono la possibilità per il difensore di assumere dichiarazioni alle quali è attribuito il medesimo valore di quelle raccolte dal p.m., ma non prescrivono i medesimi "obblighi di garanzia a tutela della genuinità della prova", trattandosi di questione priva del requisito della rilevanza, in quanto il giudice "a quo", quando ha emesso l'ordinanza di rimessione della questione, avendo già respinto la richiesta di revoca della custodia cautelare, aveva definito la procedura ex art. 299 c.p.p., così esaurendo il proprio potere decisorio.

Nel 2006, invece, si segnala un intervento della Suprema Corte, questa volta a Sezioni Unite (n. 32009), secondo il quale integra il reato di falsità ideologica in atto pubblico (art. 479 c.p.) la condotta del difensore che documenta e poi utilizza processualmente le informazioni delle persone in grado di riferire circostanze utili alla attività investigativa, verbalizzate in modo incompleto o non fedele, in quanto l'atto ha la stessa natura e gli stessi effetti processuali del corrispondente verbale redatto dal p.m.

Per altro verso, esemplificando, la Cassazione (n. 23967/2007) stabilisce l’inutilizzabilità degli atti raccolti dal difensore attraverso investigazioni dallo stesso compiute all'estero, giacché, secondo i principi generali del codice di procedura penale, i risultati di attività di acquisizione probatoria svolta all'estero sono utilizzabili solo attraverso l'espletamento di rogatoria, cui non può fare ricorso il difensore.

Passando alle conclusioni, appare opportuno evidenziare come le fondate perplessità a suo tempo espresse dal prof. Dalia a margine del convegno abbiano trovato risposta negli stessi interventi normativi in commento.

Ad esempio, nella stessa legge n. 397/2000 è stato negato espressamente all’art. 334-bis c.p.p. l’obbligo di denunzia in capo al “difensore investigatore” così come la raccolta delle informazioni con le modalità sopra descritte, sembra dargli ragione, in quanto criticando l’impostazione di tale legge ispirata indubbiamente a sistemi diversi dal nostro, invita a riflettere su segnali latenti d’altri rischi: il delinearsi di un difensore “pubblicizzato”.

Ciò nonostante, molte incongruenze permangono e non possono certo essere colmate dalle decisioni giurisprudenziali che, per quanto dettate da buona volontà, rendono più che urgente il ricorso ad una riforma legislativa che ovvi a tali lacune.

È ormai innegabile che se si vuole avere un sistema che funzioni e che sia coerente con quelle che furono le idee del legislatore ai tempi della riforma copernicana, è necessario un ulteriore intervento che vada a completare la stessa: la netta separazione tra magistrati del pubblico ministero e magistrati giudicanti.


Note e riferimenti bibliografici