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Pubbl. Ven, 6 Dic 2024

Ruolo della vittima nel reato. Focus sulle dipendenze comportamentali e sul reato di prostituzione minorile.

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Antonello Altavilla
AvvocatoUniversità degli Studi di Napoli Federico II



In questo lavoro, tramite studi di criminologia, si vuole fornire una spiegazione sul ruolo che ricopre la vittima nel “determinare” la realizzazione di un evento delittuoso. A tale scopo, con approcci di tipo giuridico e vittimologico, si affrontano fenomeni come le nuove dipendenze comportamentali e la prostituzione minorile, quest’ultima seguita dalla trattazione di un caso emblematico con un’analisi vittimologica. Oltre a ciò, con uno sguardo rivolto sempre alla vittima, si prova a fare luce sulle moderne criticità che minacciano sempre più minori e giovani adulti. Tutto questo senza sottovalutare il rischio, insito in tutti gli studi sul ruolo della vittima nel reato subìto, di giungere a una ingiustificata “colpevolizzazione” della vittima: cosa a cui mai e poi mai si vuole arrivare!


ENG

Role of the victim in the crime. Focus on behavioral addictions and on crime of child prostitution. Victimological analysis

In this paper, through criminological studies, we want to provide an explanation of the role that the victim plays in ”determining” the realization of a criminal event. To this end, with legal and victimological approaches, we address phenomena such as new behavioral addictions and child prostitution, the latter followed by the treatment of an emblematic case with a victimological analysis. In addition, with an eye always turned towards the victim, we try to shed light on the modern criticalities that increasingly threaten minors and young adults. All this without underestimating the risk, inherent in all studies on the role of the victim in the crime suffered, of arriving at an unjustified ”blaming” of the victim: something that we never ever want to get to!

Sommario1. Premessa; 2. Ruolo della vittima nel reato; 3. Fattori causali; 4. Nuove dipendenze comportamentali; 5. Prostituzione minorile avanzata e multiforme; 6. Baby Squillo dei Parioli; 6.1. Analisi vittimologica sul ruolo nel reato e sui fattori causali; 7. Riflessioni finali.

1. Premessa

La vittima di reato è rimasta a lungo estranea a ogni tipo di interesse, sia da parte della dottrina criminologica e della ricerca empirica, sia da parte dell’opinione pubblica, essendosi incentrata l’attenzione quasi esclusivamente sull’autore di reato. Le tradizionali scuole di pensiero giuridico e criminologico, infatti, avevano trascurato sostanzialmente la figura della vittima: per la Scuola Classica la vittima non aveva avuto alcun ruolo attivo in campo penale in quanto il reato era considerato come un evento diretto contro la società; per la Scuola Positiva l’attenzione era rivolta alle caratteristiche biologiche, psicologiche e sociali del criminale, nonché alle possibilità di un suo “recupero” tramite l’applicazione di misure riabilitative, con scarsa considerazione degli interessi e dei bisogni della vittima. A partire dagli anni quaranta, tuttavia, la vittima è diventata oggetto di sempre maggiore interesse del criminologo, tanto da dar vita a una nuova branca della criminologia: la vittimologia. E grazie al contributo di stimati ricercatori italiani è possibile apprendere che la nascita della vittimologia come scienza empirica risale al 1948, anno in cui è stato pubblicato il libro The criminal and his victim di Von Hentig, padre indiscusso di questa disciplina[1].

La vittimologia è senza dubbio una scienza interdisciplinare e multidisciplinare, pertanto, nel suo sviluppo teorico e metodologico, ha ricevuto gli influssi di orientamenti psichiatrici, psicoanalitici e sociologici. Wertham aveva un approccio sostanzialmente sociologico che auspicava una «sociologia della vittima» del reato di omicidio, analizzando, sotto i profili psicologico e psichiatrico, l’assassinio e il problema della violenza umana in generale. Von Hentig, una volta raggiunta la piena dignità scientifica dei suoi studi, era riuscito a stimolare un acceso dibattito negli Stati Uniti intorno alla figura della vittima di reato, portando diverse novità e sviluppi nei settori dell'investigazione e della ricerca, entrambi rivolti all'approfondimento dei fattori causali, sia individuali sia sociali, della vittimizzazione e soprattutto delle possibili forme di prevenzione. Inoltre, egli è stato il primo a studiare la vittima di reato in modo sistematico, cercando di tipizzarne le caratteristiche e il contributo alla causazione del reato. Grazie a Von Hentig, nello studio scientifico del crimine, si è avuto uno spostamento da una prospettiva statica e unidimensionale, che fino ad allora caratterizzava la criminologia, a un approccio dinamico e bilaterale ma soprattutto interazionista.

Anche Mendelsohn merita un posto d’onore tra i pionieri della vittimologia, specialmente per essere stato il primo ad aver attribuito alla disciplina una sua autonomia, come una scienza da ritenere in piena simmetria di teoria e metodi rispetto alla criminologia. Egli aveva rivolto l’attenzione sostanzialmente verso la posizione e lo status della vittima in relazione all’ambiente sociale e al sistema penale, sottolineando l’assenza di considerazione della vittima, il suo ruolo marginale nel processo penale e la mancanza di attenzione politica e sociale ai suoi bisogni: un sistema sociale e penale orientato alla vittima (cd. victim-oriented).

La vittimologia ab origine ha avuto una derivazione ideale soprattutto dalla Scuola Positiva. In breve, tale Scuola, aveva infranto il mito del libero arbitrio, principale fondamento della Scuola Classica e, da un punto di vista filosofico, aveva aperto la strada ad approcci che avevano al centro l’uomo e la società. Una volta ammesso che la volontà potesse essere condizionata da svariati fattori, e non più moralmente libera in senso assoluto, doveva iniziare la ricerca dei fattori “determinanti”, cioè delle cause che spingevano l’uomo a volere un atto criminale. In prima battuta ciò era visto proprio in una relazione causa-effetto, senza più spazi di libertà morale. La volontà dell’uomo era determinata totalmente da alcuni fattori:  il cd. determinismo della Scuola Positiva seguiva questa linea di pensiero.

Dopo questi brevi cenni sulle origini della vittimologia, è opportuno indicare alcuni argomenti tecnico-scientifici di natura sia giuridica che criminologica. Partendo proprio dalla nozione di vittima, più rilevante sotto il profilo penale, identificata come «il soggetto passivo del reato, titolare del bene protetto dalla singola fattispecie incriminatrice», coincidendo con quella che, nel linguaggio del codice penale, viene denominata «persona offesa dal reato» (art. 120 c.p.). A titolo esemplificativo, nel reato di violenza sessuale, il soggetto passivo è la persona violentata quale titolare della libertà sessuale; nel reato di induzione, sfruttamento o favoreggiamento della prostituzione minorile, la persona offesa è la prostituta non ancora maggiorenne quale titolare della libertà psico-fisica; e così via.

A livello internazionale, per una definizione giuridica di vittima può essere considerata quella contenuta nella Dichiarazione di Vienna del 1985 di matrice ONU, necessaria per l’accesso alla tutela, alle garanzie, ai fondi di assistenza, predisposti in sede internazionale e di cooperazione fra gli Stati aderenti all’organizzazione; più precisamente, si tratta di due tipi di vittime, con annesse definizioni: le vittime del crimine e le vittime dell’abuso di potere (qui, però, interessa solo il primo tipo). L’Organizzazione mondiale delle Nazioni Unite, per vittime del crimine, intende: «persone che, individualmente o collettivamente, hanno sofferto una lesione, incluso un danno fisico o mentale, sofferenza emotiva, perdita economica od una sostanziale compressione o lesione dei loro diritti fondamentali attraverso atti od omissioni che siano in violazione delle leggi penali operanti all’interno degli Stati membri, incluse le leggi che proibiscono l’abuso di potere criminale[2]».

La vittimologia (ergo, lo studio della vittima di reato), negli ultimi tempi, è andata assumendo sempre più dignità autonoma. Non a caso, parte della dottrina penalistica maggioritaria afferma che «l’approfondimento criminologico degli atteggiamenti e delle reazioni della vittima del reato, nonché delle interrelazioni di ruolo tra delinquente e vittima, può riuscire di grande utilità nel far luce sul complesso dei fattori implicanti nella genesi e nella dinamica del delitto[3]». A tal proposito, in criminologia, si parla di «criminogenesi» per la formulazione di ipotesi connesse con la spiegazione del perché quel particolare atto criminoso sia stato commesso da quel particolare soggetto, ricostruendo i fattori individuali e quelli di contesto sociale insiti alla base della decisione di commetterlo; nonché si parla di «criminodinamica» per la comprensione della dinamica dell’atto delittuoso, analizzando il comportamento o il cd. modus operandi del delinquente prima, durante e dopo la perpetrazione del reato[4].

Grazie alla vittimologia, quindi, le attività di criminogenesi e di criminodinamica possono rivolgere lo sguardo non solo al delinquente ma anche alla vittima di reato, per di più,  mutando le denominazioni – sia concesso – in vittimogenesi e vittimodinamica (rectius: spiegare la vittimizzazione in base alle sue origini e alle sue dinamiche, attraverso un’analisi sul ruolo della vittima nel reato), in modo tale da ottenere sostanzialmente maggiori risultati utili: uno su tutti, articolare meglio le prospettive della prevenzione, in rapporto ai diversi tipi di reato, sottoforma anche di autodifesa.

Un ulteriore questione, che in questo lavoro non si può assolutamente trascurare, ha a che fare con i forti cambiamenti socio-economici avviatisi a partire dagli anni Sessanta, che hanno determinato mutamenti importanti nell’esperienza culturale dell’intera Italia. A titolo esemplificativo, tra alcuni di essi è bene ricordare sommariamente: l’avanzare della forte industrializzazione (a discapito del pianeta e delle persone); l’evolversi della tecnologia e dell’informatica (senza tenere conto che il cervello umano non può sempre padroneggiare la velocità offerta dal digitale); la globalizzazione (senza essere in grado di rispettare il principio di uguaglianza); i ritmi di vita sempre più insostenibili di oramai quasi tutte le persone (noncuranti dei danni psico-fisici causati da fretta perenne e pressione continua: tanto stress giustificato dall’illusione di riuscire a fare tutto contemporaneamente, a prescindere dalla qualità del risultato); la crescente produzione di beni e servizi sempre più costosi (malgrado le stime di una irrefrenabile inflazione e le ipotesi di una imminente recessione); la partecipazione di milioni di persone ai social network (indifferenti al fatto che si disimpara a vivere nella dimensione naturale o meglio nella realtà, composta da sensibilità, imprevedibilità, emotività e condotte relazionali umane, e non digitali o virtuali); e, dulcis in fundo, l’ingresso nella cd. società dei consumi (forse la cosa peggiore di tutte).

E se tutto questo ha portato a un’emancipazione delle persone e a una migliore qualità della vita, la velocità e l’esasperazione di alcuni cambiamenti hanno invece comportato una serie di criticità inaspettate, e quindi difficilmente contenibili, dei veri e propri effetti collaterali gravissimi: uno su tutti, la messa in crisi dei valori tradizionali, come l’importanza della famiglia e dell’amicizia, come l’importanza dei legami e degli affetti.

Per di più, in merito al passaggio culturale oramai avvenuto, come si può non concordare con una sintesi, seppur distopica, come questa: «in poco più di tre decenni si è passati dai “figli dei fiori”, sponsorizzati dal marchio “Love and Peace”, ai tossicodipendenti “brutti, sporchi e cattivi”, senza sponsor e senza marchio alcuno, fino ad arrivare a un’altra vasta generazione di “dipendenti” griffati e multimarchio che non possiedono neppure la coscienza di avere un problema, ma una sola impellente esigenza: svoltare a tutti i costi un ingombrante “presente infinito”, per essere visibili, senza memoria di alcun passato né la più pallida aspettativa in un qualche futuro[5]». E a queste angosciose e oramai reali condizioni – come si vedrà – ancora non si attuano giusti e dovuti argini di contenimento, anzi!

2. Ruolo della vittima nel reato

Al fine di comprendere meglio le origini e le implicazioni del crimine, Von Hentig ha elaborato, tra le altre cose, il concetto di «vittima latente», in base al quale in certe persone esiste una “predisposizione” a diventare vittima di reati e in un certo senso ad “attrarre” il proprio aggressore; in più, ha ideato un approccio basato sul «rapporto vittima-aggressore» o vittima-delinquente, che si riferisce al tipo di legame tra la vittima e suo aggressore, e che produce una vera e propria inversione di funzioni con un’assunzione da parte della vittima del ruolo di elemento scatenante e determinante l’evento criminoso.

Le tesi di Von Hentig hanno destato un vivo interesse tra gli studiosi di criminologia e hanno provocato un ampio dibattito intorno alla figura della vittima, aprendo un nuovo settore di indagine e ponendo le basi per nuovi e articolati programmi di ricerca.

Sulla scia del concetto di «vittima latente», alcuni studiosi hanno condotto ricerche dirette ad approfondire la conoscenza delle caratteristiche individuali che favoriscono la vittimizzazione; in particolare, Fattah, convinto che certe persone siano più “predisposte” a subire un reato, sostiene che nella vittima esistano tre differenti tipi di predisposizioni specifiche: i) biologiche (età, sesso, razza, stato fisico); ii) sociali (occupazione lavorativa, condizione economiche e finanziarie, condizioni di vita); iii) psicologiche (deviazioni sessuali, desiderio di appagare il bisogno sessuale, negligenza e imprudenza, estrema confidenza e fiducia, tratti del carattere)[6].

Altri autori hanno condiviso l’importanza del «rapporto vittima-aggressore»; in particolare, Ellenberger distingue tre differenti relazioni che, non essendo per forza incompatibili tra loro, possono anche sussistere nello stesso momento: i) relazione nevrotica pura (ad esempio, nei casi di parricidio o matricidio); ii) relazione psicobiologica (che designa l’attrazione reciproca di due tipi costituzionali complementari di cui l’uno è il negativo dell’altro, ad esempio, nei casi dei rapporti tra l’alcolista e la moglie o tra lo sfruttatore e la prostituta); iii) relazione genobiologica (che designa l’attrazione reciproca basata su un analogo fattore ereditario)[7].

Sempre sulla scia del «rapporto vittima-aggressore», Wolfgang, nel suo famoso studio sulla fenomenologia dell’omicidio a Filadelfia, conia la nozione di «vittima che precipita il reato», applicandola a quegli omicidi in cui la vittima appare direttamente e attivamente implicata nella genesi, nella dinamica e nell’esito finale del fatto delittuoso (ad esempio, nei casi in cui la vittima è la prima a prendere iniziativa sulla scena dell’omicidio, la prima a usare la forza fisica o un’arma contro il futuro assassino, la prima infine a innescare il gioco reciproco del ricorso alla violenza)[8].

A causa della gamma piuttosto ampia di rapporti ipotizzabili tra delinquente e vittima, in generale, le tipologie di relazioni elaborate dalla dottrina sono molto numerose; pertanto, è sufficiente ricordare quella più recente costruita da Sparks che prevede le seguenti modalità con cui la vittima può contribuire alla propria vittimizzazione: i) di precipitazione (il comportamento della vittima incoraggia fortemente il comportamento del delinquente); ii) di facilitazione (la vittima si espone al rischio deliberatamente, per negligenza o inconsciamente); iii) di vulnerabilità (la vittima è esposta al rischio a causa del suo comportamento, delle sue qualità o della sua posizione sociale); iv) di opportunità (la vittima è un facile bersaglio del delinquente); v) di attrattività (la vittima o ciò che lei possiede attirano l’attenzione del delinquente)[9].

Queste ricerche riconducono, in qualche modo, alle origini della vittimologia e al pensiero di Von Hentig, il quale viene ancora una volta rivalutato a notevole distanza di anni[10].

3. Fattori causali

Un’analisi vittimologica (come pure quella criminologica), oltre che descrivere tutto ciò che ha a che fare con la vittima di reato, solitamente, ha ad oggetto anche i cd. fattori causali (che la Scuola Positiva chiamava “determinanti”): elementi o motivi che, a vari livelli, possano aver condizionato il comportamento umano e che possano aver indotto le persone a compiere atti trasgressivi o ai confini della legalità, se non proprio contra legem (ergo, un’analisi orientata secondo il determinismo della Scuola Positiva). In generale, i fattori causali sono fondamentali per una completa conoscenza sia della vittima sia del criminale; in modo particolare, scavando all’interno delle cause, con l’aiuto del pensiero di alcuni studiosi, può risultare utile a far emergere, tra le altre cose, ciò che gradualmente si muove e si aggrega nelle intenzioni di un individuo.

I principali fattori causali possono essere individuati avendo riguardo ai condizionamenti, in modo negativo, che sostanzialmente attengono ai contesti: i) affettivo-relazionale (l’ambito familiare o amoroso di coppia, compresa la mancanza di bene o amore per se stessi, le caratteristiche dei genitori o del partner, la comunicazione e la coesione familiare o di coppia); ii) sociale o cd. ambientale (le interazioni sul territorio, la presenza di adulti significativi diversi dalle figure genitoriali, i rapporti scolastici, lavorativi o di amicizia, comprese le frequentazioni, anche solo sporadiche, di persone o di luoghi poco raccomandabili); iii) culturale (tutta la conoscenza che in generale le persone apprendono, appoggiano e condividono, compresa l’eventualità che a loro volta trasmettano tale conoscenza); iv) psico-cognitivo (il deficit cognitivo o metacognitivo legato a uno stato di tossicodipendenza da sostanze stupefacenti o psicotrope e da alcol, oltre che in generale la condizione fisiologica ancora deficitaria in età adolescenziale e la condizione patologica lieve o grave, riguardanti sempre a funzioni cognitive).

I fattori causali solitamente vengono analizzati e interpretati dopo che il fatto di reato viene posto in essere, con l’intento di ricercare appunto le possibili “cause” contributive dell’evento (= ex post facto); tuttavia, il raggiungimento dell’obiettivo di un’attenta e un’efficace prevenzione, che, in buona sostanza, si auspica in questo lavoro, può essere realizzato quando gli stessi fattori summenzionati vengono presi in esame prima che il reato si compia, in modo tale da poter parlare non più di fattori causali, bensì di fattori di rischio (= ex ante facto): un’attenta analisi quindi sul rischio che qualsivoglia malaugurato evento criminoso si possa realizzare.

E, per di più, i fattori causali (= ex post facto) o i fattori di rischio (= ex ante facto), sebbene hanno una natura individuale, se analizzati e interpretati correttamente, possono portare anche a comprendere la prepotenza di quel sistema, proveniente da “dubbie” località dove il sole tramonta, che, nel territorio nazionale, le Istituzioni approvano e non di rado addirittura promuovono, costruendo, consequenzialmente, apparati normativi e strategie di controllo o per meglio intendersi strategie di ordine sociale.

4. Nuove dipendenze comportamentali

Questa nuova era, “battezzata” dai mass media come era digitale, tra le altre cose, ha comportato un’inedita forma di dipendenza patologica nei giovani e meno giovani, causata dall’esposizione prolungata alla rete internet e ad altri prodotti tecnologici. Sotto il profilo psicologico, la letteratura scientifica su questo argomento è davvero imponente: «La gran parte degli studi conferma l’indubbio potenziale psicopatologico della Rete e di altri accessori tecnologici. Questo non vuol dire – affermano gli studiosi – che siamo di fronte a congegni diabolici in grado di impossessarsi della mente degli ignari fruitori. Vuol dire, molto più semplicemente, che la facile accessibilità ai servizi online (gratificazione immediata), l’elevata percezione di controllo assoluto (senso di onnipotenza) e la straordinaria quantità di stimoli offerti (facile eccitazione) possono intercettare personalità fragili o in formazione [come minori e giovani adulti], provocando particolari disturbi[11]».

L’Organizzazione mondiale della sanità indica la «dipendenza» come quella «condizione psichica e talvolta anche fisica, derivante dall’interazione tra un organismo vivente e una sostanza tossica, e caratterizzata da risposte comportamentali e da altre reazioni, che comprendono sempre un bisogno compulsivo di assumere la sostanza in modo continuativo o periodico, allo scopo di provare i suoi effetti psichici e talvolta di evitare il malessere della sua privazione[12]». Al di là di questa impostazione largamente condivisa (che la nozione di dipendenza presuppone esclusivamente l’uso di sostanze psicoattive), oggigiorno, nella letteratura scientifica e nella pratica clinica, la nozione di dipendenza viene sempre più frequentemente utilizzata per spiegare sintomatologie derivanti dalla ripetizione di altre attività.

A tal proposito, basti pensare che fra le attività e le condotte patologiche che più spesso sono spiegate e trattate in termini di sindrome da dipendenza si ritrovano i disturbi alimentari, il gioco d’azzardo patologico, lo shopping compulsivo, l’accumulo compulsivo di cose, l’iperattività sessuale, le relazioni ossessive di tipo amicale o amoroso e – come non mai – l’eccessivo uso di Internet, di videogiochi e di altre tecnologie: tutti comportamenti compulsivi riconosciuti come «dipendenze comportamentali o nuove dipendenze». E, in più, come le dipendenze dall’uso di sostanze, anche le (nuove) dipendenze comportamentali pare siano caratterizzate da: i) sensazione di impossibilità di resistere all’impulso di mettere in atto il comportamento (= compulsività); ii) sensazione crescente di tensione che precede immediatamente l’inizio del comportamento (= craving); iii) piacere o sollievo durante la messa in atto del comportamento; iv) percezione di perdita di controllo; v) persistenza del comportamento nonostante la sua associazione con conseguenze negative[13].

Per motivi di spazio e per stretta rilevanza con i temi qui in trattazione, si ritiene preferibile approfondire, con giusta e misurata attenzione, solo specifiche forme di dipendenza comportamentale: lo shopping compulsivo e l’uso eccessivo di Internet e dei social network (comprese le applicazioni di messaggistica istantanea e ogni piattaforma web che consente di condividere e visualizzare in rete diversi contenuti multimediali).

In merito a ciò che rientra nel primo fenomeno in esame, nella letteratura scientifica, per indicare l’impulso irrefrenabile a comprare di tutto, oppure beni materiali di genere ben definito, ma pur sempre superflui o inutili, vengono impiegate diverse denominazioni: shopping compulsivo, consumopatia, dipendenza da shopping, dipendenza degli acquisti, shopping patologico e così via. Gli studiosi, adottando l’espressione «dipendenza da shopping», intendono teorizzare un processo psicopatologico standard che a partire da uno stadio iniziale, in cui si verificano in forma episodica o cronica acquisti eccessivi, arriva poi, più o meno impercettibilmente e in tempi più o meno lunghi, alla forma di discontrollo maniacale detta «shopping compulsivo[14]».

Oltre a ciò, sarebbe opportuno definire, in termini di personalità, l’adolescente a rischio di dipendenza da shopping, restando solo nell’ambito delle nevrosi, senza riferirsi alle personalità gravemente disturbate, bensì alle cd. «personalità difficili», spiegate dagli studiosi come quelle «personalità caratterizzate da alcuni tratti troppo pronunciati o troppo rigidi e non adeguati alle situazioni[15]». Senza prendere in considerazione neppure l’intero profilo di una personalità difficile, bensì alcuni tratti specifici, in modo particolare, l’impulsività, tipica del borderline, e l’essere molto preso dal proprio aspetto fisico e dall’abbigliamento, tipico del narcisista. È importante sottolineare inoltre che «agli oggetti materiali va attribuita, al di là del loro intrinseco valore pratico, una duplice funzione simbolica: da un lato, quella di mezzo per identificazione e di espressione di sé, dall’altro, quella di mezzo per comunicare agli altri chi si è o meglio chi si vorrebbe essere[16]».

Altri psicologi e psicoterapeuti sostengono simili posizioni: «quando il bisogno di fare acquisti diviene irrefrenabile e sfugge a ogni controllo, si tratta di shopping compulsivo, una schiavitù, anche questa, prevalentemente al femminile. […] Questa patologia rimanda di solito a un intenso bisogno di costruire dall’esterno la propria identità attraverso il possesso di beni considerati, a livello sociale, espressione di qualità positive e vincenti. La profonda insicurezza provocata da un’educazione troppo permissiva o iperprotettiva sembra la base di questa forma di dipendenza. Il desiderio di modificare parti di sé o di aumentare fiducia e sicurezza induce alcuni soggetti a comprare smodatamente articoli, in virtù di valutazioni basate piuttosto sulla rappresentatività del prodotto che sulle preferenze personali (alla moda, in grado di suscitare ammirazione, per  essere accettati dagli altri, per differenziarsi da chi si ritiene perdente)[17]».

Stando alla letteratura scientifica, quindi, durante la fase di passaggio dall’adolescenza all’età adulta, la relazione del soggetto con gli oggetti acquistati può anche essere interpretata, in chiave psicodinamica o motivazionale, come il tentativo inconscio di far svolgere ad essi la funzione di «oggetti transizionali» (per dirla con Winnicott). Se non che il tentativo fallisce, perché i falsi oggetti transizionali procurano un sollievo effimero e molta frustrazione. È bene ricordare che per Winnicott (noto pediatra e psicoanalista inglese), che ha coniato l’espressione nel 1951, l’oggetto transizionale è un oggetto materiale capace di soddisfare, nel neonato, la rappresentazione di un qualcosa relativo al possesso e all’unione con la madre, che permette al lattante di sopportare il proprio stato di separatezza, facilitando l’angoscioso e inevitabile passaggio dal me al non-me, dal mondo esterno al mondo esterno, attraverso l’invenzione di una zona intermedia, di margine, tra il dentro e il fuori, tra me e l’altro; si pensi al bambino che si stringe al suo orsacchiotto o altro giocattolo morbido, oppure che si accarezza il viso con la coperta, egli sa benissimo che questi oggetti non sono la mamma, anche se, paradossalmente, li utilizza considerandoli mamma[18].

Stando agli studiosi, quindi, «ogni individuo in età adolescenziale può considerarsi un soggetto in qualche modo e misura a rischio di dipendenza dagli acquisti, collocabile, nella delicata fase della sua evoluzione, regressione o fissazione, su un continuum che va da un massimo di dipendenza positiva dagli oggetti acquistati (funzionale allo sviluppo affettivo-emotivo, cognitivo e relazionale) a un massimo di dipendenza negativa (disfunzionale)». In quest’ultimo caso, quindi, l’adolescente è ben esposto al rischio di quella dipendenza negativa dagli oggetti offerti dal mercato, che viene chiamata «dipendenza da shopping» tout court[19].

Conseguentemente, sarebbe una buona opera di prevenzione, ad esempio, che genitori e familiari fossero informati del fatto che «l’assecondare sempre i troppi capricci di un bambino che urla, piange e si dimena, per avere tutti i giocattoli che vede (per abbandonarli poco dopo averli avuti), potrebbe rendere il loro figlio un futuro adolescente a rischio non solo di shopping compulsivo, ma anche di altre dipendenze comportamentali e non»[20].

In presenza di queste osservazioni, non è del tutto illegittimo ritenere che il fenomeno dello shopping compulsivo, avente ad oggetto costosissimi prodotti, rigorosamente, griffati (come, ad esempio, telefonini, vestiti, scarpe, borse, accessori di lusso, gioielli, e così via), possa rientrare nel concetto di status symbol (letteralmente: simbolo di condizione), ossia «qualunque segno esteriore (oggetto o comportamento) che venga riconosciuto dalla maggior parte delle persone come indice di appartenenza a una classe socio-economica elevata o come dimostrazione di prestigio sociale[21]».

Per quel che riguarda l’altra forma di dipendenza comportamentale in esame, fra gli studiosi della mente si ritiene che la dipendenza patologica da Internet o Internet Addiction Disorder non è una categoria omogenea, ma si manifesta sotto varie forme, le più importanti delle quali sono: Cybersexual Addiction (l’uso compulsivo di siti dedicati al sesso virtuale e alla pornografia); Cyber-Relational Addiction (la tendenza a istaurare relazioni amicali o amorose con persone incontrate online, in un mondo parallelo popolato da persone idealizzate, in cui il soggetto si isola in totale anonimato con identità del tutto inventate, ritenendo progressivamente le relazioni virtuali più importanti di quelle reali); Net Compulsions (riguardante i tre principali comportamenti compulsivi che si possono mettere in atto tramite la rete internet, e che hanno in comune la competizione, il rischio e il raggiungimento di un’eccitazione immediata, ossia il gioco d’azzardo, la partecipazione ad aste e il commercio, tutto rigorosamente online); Information Overload (la smodata ricerca di informazione, tramite la “navigazione” nel web, che comporta un’enorme quantità di dati dei quali non si sa cosa fare); Computer Addiction (la tendenza al coinvolgimento in giochi virtuali, come i giochi di ruolo interattivi in cui il soggetto partecipa costruendosi un’identità fittizia, una sorta di sdoppiamento incentivato dal bisogno di uscire dalla propria vita quotidiana, per trasformarsi nel personaggio virtuale sul quale proiettare i suoi desideri e le sue illusioni)[22].

Psicologi e psicoterapeuti, con più stretta considerazione ai social network, sostengono sempre più incresciose conseguenze, in modo particolare: «l’uso eccessivo della Rete può portare gradualmente alcuni individui a una restrizione delle relazioni con gli altri, in quanto l’esperienza virtuale viene percepita e vissuta come più “agevole” rispetto alla realtà. […] L’immaturità emotiva e affettiva di molti giovani trova nel pacchetto delle possibilità offerte da Internet un contenitore quanto mai adeguato: nessun imprevisto, tutto sotto controllo, mete facilmente realizzabili; emerge perfino una forza “miracolosa” per reggere e amministrare lo spazio di libertà concesso dal computer. Incontri, performance, contatti, ruoli e identità possono essere gestiti con alcuni facili micromovimenti del mouse, restando fuori dalla realtà, ma nella convinzione di appartenere comunque a essa. […] L’enorme sviluppo dei social network costituisce [quindi] la spia di un grosso problema di solitudine, mascherando ansie personali, preoccupazioni e senso di disistima[23]».

Accanto alle caratteristiche positive di visibilità, condivisione, recupero delle vecchie conoscenze e acquisizione di nuove, stanno così emergendo un’incredibile quantità di casi di dipendenze. Attualmente vengono definite «Social Network Addiction» e «Friendship Addiction»: una sorta di dipendenza da connessione, aggiornamento e controllo del proprio profilo, dei contatti e delle richieste di amicizia. «Il circuito che si stabilisce in generale tra le persone e il video può infatti diventare tanto gratificante e intenso da incrementare gradualmente l’interazione affinché il “piacere nella massima sicurezza” (di comunicare, di informarsi, di amare, di conoscere, di giocare, perfino di rischiare e percepire paradossalmente emozioni) rimanga a un alto livello di soddisfacimento, al pari delle droghe, con la differenza che con le sostanze gli incidenti di percorso, di salute e legali, rappresentano la norma. Davanti al video [invece] tutto è silenzioso[24]».

Tant’è vero che, stando alle pubblicazioni scientifiche, la dipendenza da Internet condivide con la dipendenza da sostanze stupefacenti caratteristiche e fenomeni equivalenti: i) dominanza: l’attività online, come la droga, domina i pensieri e il comportamento del soggetto; ii) alterazione del tono dell’umore: l’inizio delle attività in Rete o l’assunzione di droga provocano cambiamenti nel tono dell’umore (aumento di eccitazione prima e maggiore rilassatezza durante l’attività); iii) tolleranza: bisogno di aumentare progressivamente la quantità dell’attività online o la quantità di droga per ottenere l’effetto desiderato; iv) sintomi di astinenza: malessere psichico e fisico che si manifesta quando si interrompe o si riduce il collegamento con la Rete o l’uso di droga; v) conflitto: presenza di conflitti interpersonali e intrapersonali (senso di colpa e di inadeguatezza); vi) ricaduta: tendenza a ricominciare l’attività online o l’uso di droga dopo l’interruzione[25]. Per di più, è bene sottolineare che «tra le varie forme di dipendenza da Internet le più diffuse sono senz’altro l’uso compulsivo di siti dedicati al sesso virtuale, alla pornografia e alle relazioni amicali e amorose[26]».

Sebbene la letteratura sulle tossicodipendenze abbia messo in evidenzia come il soggetto dipendente sia caratterizzato da deficit cognitivi e metacognitivi, soprattutto legati alle funzioni di controllo e autoriflessione, nonché ai processi decisionali e di giudizio, sono ancora scarsi, se non nulli, gli studi che indagano tali variabili relativamente alle (nuove) dipendenze comportamentali negli adolescenti, considerando la possibilità che essi costituiscano dei fattori di rischio (ex ante facto) o dei fattori causali (ex post facto).

Al di là di ciò, nel periodo dell’adolescenza, generalmente, l’individuo acquisisce un grado di libertà tale da permettergli di entrare a contatto e di gestire autonomamente la relazione con quelle attività e sostanze che maggiormente sembrano determinare problemi di dipendenza. Al contempo, nell’adolescente lo sviluppo cognitivo, soprattutto in riferimento a quelle operazioni che gli permetterebbero di valutare pienamente la validità di certe “teorie” (come, ad esempio: «se bevo cinque birre di fila sono un eroe») e quindi anche di prendere decisioni adeguate per il proprio benessere, non sembra essere ancora completato («ma non è da escludere che tale sviluppo in certe persone non si completi mai!»). Da queste considerazioni consegue che quegli adolescenti, che sono ancora “deficitari” rispetto a certe funzioni cognitive e che entrano in contatto con gli “oggetti” potenziali della dipendenza, possono essere più a rischio di quelli che, pur avendo avuto simili esperienze, hanno raggiunto un più alto livello di sviluppo cognitivo[27].

Oltre a ciò, sarebbe importante che si prestasse la giusta attenzione agli esperti di psicologia dello sviluppo e dell’educazione al fine di poter bene apprendere che «la stessa spinta all’autorealizzazione e all’individualismo è slittata nel bisogno sempre più forte di ammirazione, nello spirito di continua competizione, nell’ossessione del culto del successo personale che ha come corollario l’inaccettabilità del fallimento[28]». Tant’è vero che i ragazzi delle nuove generazioni hanno una forte necessità di ricevere consensi (forse perché sono sempre più insicuri) e, ovviamente, i consensi li cercano soprattutto all’interno di un mondo virtuale, dove non emerge il sé reale della persona: «un mondo che, tuttavia, protegge e contiene, che protegge dal contatto diretto ma permette anche di essere ciò che nella vita reale non si è, di creare degli spazi in cui si riesce ad esprimere ciò che nella vita reale si reprime, in cui condividere ciò che non viene colto dal mondo esterno o che si ha paura non venga compreso o accettato dalla famiglia[29]».

A ben vedere, nelle relazioni virtuali o digitali, viene a mancare la comunicazione emozionale, con conseguenze sempre più importanti: «se non si conosce lo stato d’animo dell’interlocutore il messaggio non potrà mai essere corretto e il prezzo da pagare si può tradurre in un lento ma inesorabile distaccamento dalla realtà, in cui l’aspetto narcisistico si manifesta con atteggiamenti di eccessiva fiducia, senza la contestuale ricerca di un reale riscontro, di sopravvalutazione delle proprie capacità, di generazioni di miti e di false credenze. La persona diventa altro da sé, dimentica le priorità personali, la propria autostima, dando importanza solo all’apparire, dando importanza a non scegliere ma ad essere scelti. L’unica alternativa che sembra rimanere è quella della solitudine[30]». Tant’è vero che oramai «lo smartphone è una protesi della loro identità, le chat e i social network un’estensione della personalità, una sorta di hard disk esterno in cui inserire tutta la propria vita[31]».

D’altronde, è giusto ricordare che le invenzioni tecnologiche possono avere anche un potenziale, anzi sembrerebbe proprio questo il senso, se usate però in modo corretto. Uno dei maggiori problemi, ad esempio, sorge quando l’identità virtuale o digitale di sé (rectius: profilo social e cd. avatar) non corrisponde al vero, costruendo “verità” parallele di sé che non esistono nel mondo reale, inseguendo per di più soltanto futili illusioni, mascherate da irrefrenabili “desideri”.

Invece, quando l’uso eccessivo dei social network e della rete internet si aggrava in uso cattivo, ahimè, la dipendenza assume un peso maggiore sia sulle origini del comportamento, come dire, vanitoso, sia sull’uscita dai confini del comportamento disdicevole, al punto da trasformarsi in comportamento criminale; aggiungendosi, così, a quelli tradizionali, nuovi fenomeni criminali, che minacciano tante persone, principalmente donne, anche minorenni. A riguardo, non si può non iniziare dal cd. revenge porn (letteralmente: vendetta porno) che il legislatore, con la Legge n. 69 del 19 luglio 2019 (cd. codice rosso), insieme ad altre misure contro la violenza di genere, ha qualificato come reato ex art. 612 ter c.p. (rubricato Diffusione illecita di immagini o video sessualmente impliciti). Solitamente, la diffusione di tale materiale, che avviene senza il consenso della persona ripresa, è finalizzata a una forma di vendetta verso il proprio partner una volta finita la relazione amorosa, generalmente, a causa di un torto o un tradimento; mentre, l’acquisizione di foto o video può avvenire anche in modo lecito quando la vittima ne è consapevole, ma non è da escludere un comportamento illecito, da parte dell’autore, quando si tratta di foto rubate o video fatti di nascosto.

Inoltre, quando la diffusione di tale materiale pornografico, a prescindere dalla sua acquisizione lecita o illecita, viene usata come merce di scambio con lo scopo di estorcere qualcosa alla persona minacciata, in questo caso, si rientra nell’ambito più specifico del cd. sextortion (letteralmente: estorsione sessuale), andando a interessare diverse ipotesi di reato, tra cui i reati di estorsione (ex art. 629 c.p.), violenza privata (610), minacce (612), diffamazione (595, comma 3), interferenze illecite nella vita privata (615 bis), o pubblicazioni oscene (528: depenalizzato nel 2016 in sanzione amministrativa pecuniaria da euro 10.000 a euro 50.000).

I fenomeni del revenge porn e del sextortion sono inoltre molto presenti anche nell’ambito minorile, in modo particolare, nel momento in cui traggono origine dal cd. sexting (letteralmente: inviare messaggi di sesso), in cui, però, non di rado, accade che le immagini o i video, scambiati consapevolmente dai fidanzatini, fuoriescano dalla riservatezza intima della coppia, andando poi a causare danni alla vittima simili a quelli prodotti dal revenge porn o addirittura dal sextortion.

Il sexting pare sia lo strumento principale con cui gli adolescenti sperimentano la loro nascente sessualità; non a caso, è possibile mostrare le parti preferite del proprio corpo, mettendo in mostra le proprie “doti” e nascondendo quelli che si percepiscono come difetti del proprio aspetto. Grazie al sexting, i giovani possono così sentirsi più sicuri, perché aumenta la possibilità di ricevere apprezzamenti e diminuisce quella di ottenere giudizi negativi, nonché sentirsi più al sicuro, visto che si sostituiscono i rapporti sessuali di natura fisica insieme ad altri partner, comportando la prevenzione di dipendenza affettiva, conflitti di coppia e malattie sessualmente trasmissibili.

Nel 2018, in Italia, alcuni ricercatori dell’Osservatorio Nazionale Adolescenza hanno condotto uno studio su un campione di 3.100 studenti tra i 14 e i 19 anni, evidenziando dati piuttosto allarmanti. Secondo tale studio, risulta che le ragazze siano i soggetti più esposti a tali fenomeni. Tant’è vero che, nell’ambito del revenge porn e del sextortion, il 70% delle ragazze, che hanno ammesso di essere state fotografate o filmate, è stata vittima di ricatto proprio a causa di quelle immagini; mentre, nell’ambito del sexting, dal punto di vista di coloro che fanno i video in maniera cosciente, il 17% degli intervistati maschi considera una cosa normale filmarsi in atteggiamenti intimi e il 44% ha poi fatto girare i video tra amici quasi fossero dei trofei[32].

La vittima di revenge porn o di sextortion il più delle volte, però, non si accorge neppure di essere fotografata o filmata, salvo poi scoprire che foto hard o video a luci rosse, che la riguardano, circolano in maniera virale su diversi social network, oppure diventare poi vittima di qualche reato legato a una forma di estorsione sessuale.

Ma le maggiori criticità, che genera il mondo virtuale, sono ben altre. Iniziando dal fatto che l’aspetto da tenere presente, per una reale comprensione del fenomeno, è la piena sovrapponibilità degli strumenti e delle metodologie del mercato illegale a quello legale, arrivando così a percepire le insidie multiforme del web che si sviluppano nella quotidianità dei comportamenti umani, attraverso l’utilizzo dei medesimi strumenti tecnologici, diffusi per creare e facilitare “contatti” sociali, in modo rapido, in ogni ambito del vivere comune, in uno spazio senza “confini”. A tal proposito – come già osservato in un’altra occasione – il pericolo maggiore è senza dubbio «la parte occulta della rete internet, indicata con l’inquietante espressione dark web: habitat naturale della violenza più immonda (torture, stupri, mutilazioni, omicidi), con altissima pericolosità sociale, confini indefinibili e conseguenze imprevedibili, specie riguardo ai minori; oltre che essere una vetrina importante del mercato nero, soprattutto, per il contrabbando di farmaci, droghe, armi da fuoco e addirittura organi umani: l’ideale per gli affari della criminalità, ma una mannaia per i “liberi” naviganti del web[33]».

Ulteriori criticità si evidenzino anche nella parte meno sommersa della rete internet, accessibile a tutti attraverso l’uso dei più comuni motori di ricerca, in cui si sviluppano continuamente nuove condizione di vulnerabilità nel divenire facili vittime, complicando non di poco le situazioni di disagio e malessere già esistenti in molti adolescenti, nonché scambiando e confondendo, pericolosamente, richiesta di aiuto per emulazione del male. A titolo esemplificativo, si ritiene necessario segnalare forti criticità in riferimento alla perversa modalità virtuale in cui persone adulte adescano a fini sessuale ragazzi e ragazze: il cd. grooming; oppure alla sadica pratica di giocatori virtuali che suggestionano tanti minori a commettere atti di autolesionismo e azioni pericolose al punto da arrivare addirittura al suicido, come accade nei temutissimi giochi di morte: uno su tutti, il cd. blue whale.

Il grooming è una modalità di adescamento online in cui un predatore virtuale individua giovani vittime per instaurare una relazione prima amicale poi confidenziale e intima, con lo scopo di sfruttarle a fini sessuali. In questo lento processo interattivo, il predatore si prende “cura” del mondo psicologico della vittima, invadendo abitualmente il confine tra richiesta di attenzioni e molestia sessuale[34].

Il blue whale challenge è una pratica di incitamento online in cui un predatore virtuale individua vittime minorenni per iniziare una progressione nelle varie tappe della sfida, con lo scopo di indurli progressivamente a compiere atti di autolesionismo e azioni pericolose (ad esempio, sporgersi da finestre, cornicioni ecc.), sino a trascinarle perfino al suicidio. In questa articolata suggestione interattiva, per di più, le vittime, con l’ausilio dei vari gruppi di chat presenti nelle applicazioni di messaggistica istantanea o nei social network, si confrontano sulle tappe del “gioco” e si fomentano reciprocamente a progredire nelle azioni sempre più pericolose, mantenendo ostinatamente all’oscuro familiari e adulti di riferimento[35].

I minori e i giovani adulti, intrappolati in queste perverse e sadiche attività (dis)umane, sotto il profilo penalistico, diventano potenziali vittime di reati come adescamento di minorenni ex art. 609 undecies c.p., atti sessuali con minori ex art. 609 quater c.p., lesione personale ex art. 582 c.p., oppure di induzione o aiuto al suicidio ex art. 580 c.p.[36]. Mentre, sotto il profilo vittimologico, qualora si materializzi solo uno dei suddetti reati, le vittime assumeranno un “ruolo”, anzi, una semplice partecipazione, apparentemente innocua, nell’uso di chat per “socializzare” con utenti sconosciuti – ma diabolici – su qualche sito, social network o applicazione online: quindi, non è del tutto illegittimo qualificarle come vittime partecipi nei suddetti reati, ab origine, maturati attraverso l’uso cattivo d’Internet.

A fronte di questa analisi sulle più inquietanti novità dell’era digitale nel campo delle dipendenze comportamentali, per di più, è davvero importante che lo shopping compulsivo e la dipendenza da Internet rientrino tra i fattore di rischio o tra i fattori causali più allarmanti per le nuove generazioni; più precisamente, entrambe le criticità – com’è facile desumere – vanno qualificate sotto il profilo dei condizionamenti psico-cognitivi, visto che anche le nuove dipendenze comportamentali, quando giungono a un livello patologico, causano un deficit cognitivo o metacognitivo.

Grazie alle questioni vittimologiche e alle insidie delle nuove dipendenze, fin ora esposte, è possibile ricercare e descrivere un ruolo esercitato dalla vittima prima, durante o dopo la perpetrazione del reato, forse, più strettamente collegato a fenomeni sociali e culturali di natura sessuale, con un elevato tasso di pericolosità nei riguardi di non poche ragazze adolescenti: il reato di prostituzione minorile.

5. Prostituzione minorile avanzata e multiforme

Negli ultimi tempi, sono sempre più frequenti le storie di ragazzine ancora minorenni che usano il proprio corpo come un oggetto, praticando rapporti sessuali molto precoci con loro coetanei o con giovani adulti, conosciuti magari fugacemente sui social network; ma il fatto più sconcertante è che in alcuni casi arrivano addirittura a concedersi, in cambio di denaro o di altre remunerazioni, come, ad esempio, ricariche telefoniche, telefonini, vestiti, scarpe, borse, accessori di lusso, gioielli, e così via.

Tra le principali pratiche sessuali a pagamento delle nuove generazioni si evidenziano, in modo particolare, il sesso nei bagni di scuola, in cambio di regali o di piccole somme di denaro, e il sesso nei bagni di locali, discoteche o discopub, in cambio dell’ingresso pagato, dell’accesso al privé, di cocktail o di droghe in omaggio. Si parla anche di «ragazze smart» (appellativo derivante da smartphone), ossia ragazze che inviano immagini e video hard in cui mettono in mostra le parti intime del proprio corpo, arrivando persino a masturbarsi, sempre retro corrispettivo di regali o denaro (una pratica sessuale derivante dal sexting, ma aggravata dal carattere oneroso). Oltre a ciò, si parla di «holiday squillo», ossia ragazze che, pur di fare una vacanza “da sogno” (quella che non si possono permettere), fanno da accompagnatrici a uomini adulti per tutta la vacanza, offrendo svariate prestazioni sessuali[37].

Ma la modalità più preoccupante di prostituzione minorile è senza dubbio quella praticata dalle famigerate baby escort. Sotto il profilo vittimologico (rectius: in diritto penale, le prostitute sono sempre delle vittime), solitamente, queste ragazze iniziano la loro “carriera” sia nei modi più tradizionali sia nelle forme più moderne: in locali notturni, accettando proposte esplicite dai frequentatori abituali; in chat private di social network, pubblicando inserzioni della loro disponibilità nelle specifiche bacheche online di incontri; oppure, in ogni caso, beneficiando della forma più antica di comunicazione e promozione, il cd. passaparola.

Generalmente, non si tratta di prostituzione su strada, ma piuttosto di incontri organizzati in case o appartamenti, spesso, in zone altolocate di grandi città; di solito, con a capo persone adulte, le quali si occupano di tutti gli aspetti gestionali di tale “business”, in modo particolare, dal predisporre il luogo per gli incontri, al definire l’agenda degli appuntamenti, il tariffario e la propria percentuale, ma soprattutto nel cercare la clientela (e pare che di solito tutto ciò avvenga non sottoforma di organizzazioni criminali).

«Questo stile di vita – sottolineano gli specialisti – comporta, oltre tutti i rischi di contagio di malattie sessualmente trasmissibili, anche un problema nel rendimento a scuola in quanto si mette a repentaglio la carriera scolastica, perché la notte non si dorme e il giorno si ha sonnolenza e mancanza di concentrazione. Inoltre, per stare sempre attivi a volte si fa uso di cocaina, che in un’età così giovane causa danni enormi e il rischio di sviluppare una dipendenza precoce[38]».

Tutto sembra concorrere con l’avvento dalle nuove forme di socializzazione di matrice tecnologica: i social network, che, tra le altre cose, hanno favorito l’insorgenza di nuove modalità di prostituzione, anche minorile, legate soprattutto all’uso cattivo di Internet e dei telefonini di nuova generazione.

È il pianeta sommerso delle baby squillo! È il regno dello sfruttamento 2.0! Ed è innegabile! A confermarlo è la Polizia postale e delle comunicazioni attraverso il Centro nazionale per il contrasto alla pedopornografia online: «il web ha un potenziale lesivo enorme. […] La prostituzione minorile e il suo sfruttamento può avvalersi della rete, anche se il nostro lavoro non parte da qui: parte dalla pedopornografia, cioè dall’adescamento online, che poi può pure sfociare in forme di prostituzione» (spiega la dott.ssa D’Amato, vicequestore aggiunto del centro nazionale summenzionato). L’escalation classica è la seguente: «il pedofilo conquista la fiducia del minore sui social network con piccoli regali, come le ricariche telefoniche, e in cambio chiede foto. Il processo di fidelizzazione prosegue con i video e il sesso via webcam. Quindi può scattare il ricatto: “se non ci incontriamo pubblico le foto su internet”». Da qui il passo a un rapporto sessuale è breve e si può arrivare anche allo sfruttamento della prostituzione. «Con la Rete tutti i passaggi sono velocissimi e l’esposizione al pericolo dei minori cresce. Per questo – tiene a precisare la vicequestore – è importante la prevenzione: filtriamo i siti con contenuti pedofili e forniamo ai provider una black list per la navigazione protetta». Quante sono le baby prostitute in Italia nessuno lo sa. Intanto, gli analisti – in ricerche di circa dieci anni fa – stimano sia cifre prudenti, come il consorzio Parsec che su 45mila prostitute il 7% sono minorenni, sia cifre più preoccupanti, come il gruppo Abele che su 70mila sex workers il ben 20% sono minorenni. E, sebbene non tutte sono sfruttate, non tutte però si vendono per “fame”[39].

Psicologi e psicoterapeuti, inoltre, sostengono: «l’irresistibile impulso di assicurarsi ogni merce in vetrina comporta spese rilevanti. Le adolescenti, non avendo normalmente grosse cifre a disposizione, tendono così a lasciare debiti nei negozi oppure pressano i familiari per farsi dare i soldi necessari per i loro acquisti, ritenuti assolutamente indispensabili. L’esigenza di comprare tutto e subito è talvolta così impellente da generare intense crisi di panico. Molti genitori, spiazzati e impotenti, pur di placare la sofferenza della figlia, sono pronti a cedere e a elargire la “dose quotidiana”[40]».

Ma non sempre i genitori hanno a disposizione ingenti somme di denaro da destinare alle effimere esigenze d’acquisto dei loro figli adolescenti; conseguentemente, una situazione tale fa innescare, nelle menti dei più desiderosi e impazienti, un insieme di ansia, frustrazione, insoddisfazione, senso d’inferiorità che, nel giro di poco tempo, matura un solo e unico obiettivo: la ricerca smodata di come fare soldi facili e veloci.

Naturalmente, stando a quanto riportato, il fenomeno avanzato e multiforme della prostituzione minorile trova un forte legame con il fenomeno dello shopping compulsivo, avente ad oggetto costosissimi prodotti griffati, a loro volta strettamente legati al concetto di status symbol. Ma, per di più, la prostituzione minorile, oltre che inquietare genitori e insegnanti, allarma le forze dell’ordine per i risvolti penali che spesso prendono queste storie, in modo particolare, il reato di prostituzione minorile ex art. 600 bis c.p.: fattispecie autonoma di reato introdotta dalla Legge n. 269 del 1998 (recante: Norme contro lo sfruttamento della prostituzione, della pornografia, del turismo sessuale in danno di minori), al fine di conformare l’ordinamento giuridico nazionale ai principi sanciti dalle fonti internazionali, come la Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 20 novembre 1989 a New York.

L’art. 600 bis c.p. recita: [primo comma] «È punito con la reclusione da sei a dodici anni e con la multa da euro 15.000 a euro 150.000 chiunque: 1) recluta o induce alla prostituzione una persona di età inferiore agli anni diciotto; 2) favorisce, sfrutta, gestisce, organizza o controlla la prostituzione di una persona di età inferiore agli anni diciotto, ovvero altrimenti ne trae profitto. [secondo comma] Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque compie atti sessuali con un minore di età compresa tra i quattordici e i diciotto anni, in cambio di un corrispettivo in denaro o altra utilità, anche solo promessi, è punito con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da euro 1.500 a euro 6.000».

La norma in questione aderisce alla ratio legis di garantire la libertà e l’integrità psico-fisica del minore. Essa rappresenta un reato comune, in cui il soggetto passivo può essere solamente un minore, e rappresenta un’ipotesi di reato di pura condotta. La norma prevede la punibilità per le diverse condotte che seguono.

Al primo comma n.1, si punisce l'induzione alla prostituzione che si concreta nella persuasione, nella determinazione, nel convincimento a prostituirsi. Data la maggiore arrendevolezza del soggetto passivo, non è richiesta una particolare condotta fraudolenta o ingannatoria, essendo per contro sufficiente anche una semplice promessa implicita di un beneficio, per quanto dotato di scarsa persuasività agli occhi di un soggetto adulto. Viceversa, la semplice promessa di denaro integra la meno grave fattispecie di cui al secondo comma. Quanto al reclutamento, esso è inteso come comportamento diretto a far conseguire la disponibilità della vittima a colui che trarrà vantaggio dalla prestazione sessuale.

Al primo comma n.2, si punisce il favoreggiamento, inteso come qualsiasi apporto che faciliti l’esercizio della prostituzione; lo sfruttamento, inteso come l’attività lucrativa ottenuta grazie al meretricio altrui; nonché la gestione, l’organizzazione, il controllo e il conseguimento in altro modo di profitto, nozioni di chiusura che in realtà sembrano ripetere le condotte precedenti.

Al secondo comma, invece, si punisce chi compia atti sessuali con minore ultra-quattordicenne, in cambio di denaro o altra utilità, anche solo promessa; in cui non è richiesto un rapporto sessuale completo, ma è sufficiente qualsiasi comportamento attinente alla sfera sessuale implicante un contatto[41].

Per completezza, in riferimento a un minore infra-quattordicenne, si ritiene utile integrare con quanto previsto dal reato di atti sessuali con minore ex art. 609 quater, quarto comma n.1, c.p., in cui si prevede la pena di reclusione da cinque a dieci anni quando, «il compimento degli atti sessuali con il minore che non ha compiuto gli anni quattordici, avviene in cambio di denaro o di qualsiasi altra utilità, anche solo promessi». E, in riferimento alle cd. holiday squillo, si riporta il reato di iniziative turistiche volte allo sfruttamento della prostituzione minorile ex art. 600 quinquies c.p., in cui si statuisce: «Chiunque organizza o propaganda viaggi finalizzati alla fruizione di attività di prostituzione a danno di minori o comunque comprendenti tale attività è punito con la reclusione da sei a dodici anni e con la multa da euro 15.493 a euro 154.937».

A titolo esemplificativo, per tentare di individuare un ruolo della vittima nel reato di prostituzione minorile, di seguito, si rievoca il noto e scandaloso caso delle prostitute minorenni di un ricco quartiere capitolino: il caso soprannominato Baby Squillo dei Parioli (Roma, 2013).

6. Baby Squillo dei Parioli

Nel 2013, il caso Baby Squillo dei Parioli (così chiamato per i fatti accaduti nel quartiere Parioli nel centro di Roma), inizialmente, ha visto come imputati due uomini adulti: uno, con un passato da impiegato alla Luiss (la prestigiosa università capitolina di Confindustria), che faceva da autista e da organizzatore di feste notturne; e l’altro, con il grado di caporal maggiore dell’esercito sul petto, che faceva da coadiuvatore per l’organizzazione di tali feste. I quali sono stati accusati per il reato di sfruttamento della prostituzione minorile ai danni di due ragazzine minorenni perché organizzavano e gestivano gli incontri tra le baby squillo e i facoltosi clienti della cd. Roma bene, stabilendo le tariffe e i propri compensi, nonché dando le direttive per le ragazze su come incassare sempre più soldi.

Le vittime degli sfruttamenti sono state due ragazze minorenni (le quali, qui, si identificano solo con la loro età, senza usare formali nomi di fantasia): una 14enne, che ha conosciuto il mondo della prostituzione tra i banchi di un liceo classico capitolino; e una 15enne che è stata adescata tramite un sito internet d’incontri, che, a sua volta, ha convinto la compagna di scuola 14enne a seguire la stessa strada. Tutta l’attività prostitutiva è durata soli tre mesi per la 14enne e qualche settimana in più per la 15enne. Entrambe le minorenni svolgevano il meretricio, inizialmente, in modo autonomo, poi, sotto la direzione dei suddetti sfruttatori; i quali, come luogo per gli incontri, hanno messo a disposizione un appartamento – al civico 190 – di viale Parioli, il noto quartiere chic di Roma, in cui il viavai, classico di ogni casa di appuntamenti, aumentava di giorno in giorno, facendo incassare somme cospicue sia agli sfruttatori sia alle piccole prostitute. D’altronde, da che tempo e tempo, «una notizia un po’ originale non ha bisogno di alcun giornale, come una freccia dall’arco scocca, vola veloce di bocca in bocca» (per dirla con De André)[42].

Dopo gli iniziali riscontri investigativi, la Procura capitolina ha aggiunto alla lista altri imputati, come la madre della più piccola delle baby squillo, la quale è stata accusata anche lei per il reato di sfruttamento della prostituzione minorile. Successivamente, gli imputati sono arrivati a otto, aggiungendosi alla lista una parte dei clienti più abituali, anch’essi con l’accusa per il reato di prostituzione minorile, a causa però del loro favoreggiamento.

Tutti e otto gli imputati sono stati condannati, con giudizio abbreviato, dal giudice Costantino De Robbio (GUP presso il Tribunale penale di Roma) alle pene di reclusione consistenti in dieci anni a uno degli sfruttatori nonché adescatore della 15enne, sette anni all’altro sfruttatore e sei anni alla madre della piccola 14enne, alla quale sono state inflitte anche pene accessorie, come la decadenza della responsabilità genitoriale e la perdita del diritto di successione.

Quanto ai facoltosi clienti delle baby squillo, tra cui un dirigente di Trenitalia (nonché consorte di una senatrice all’epoca dei fatti), un figlio di un parlamentare, un dirigente di Bankitalia, un quadro di Ernst & Young, un commercialista e due funzionari della Fao, pare che erano tutti abituali frequentatori di locali notturni dei quartieri Parioli, Fleming e Trieste, dove le piccole prostitute solitamente si facevano trovare[43].

I più coraggiosi, tra i facoltosi clienti, si sono presentati al processo mettendoci la faccia e sperando in un patteggiamento che li salvasse dalla vendetta delle mogli e dei “salotti”, dichiarando: «Il mio numero, non so perché, potrebbe essere tra i telefoni intercettati»; oppure: «Credo di ricordare di aver parlato con una di quelle ragazze di cui ho letto sui giornali». Mentre, quelli più arroganti si sono affidati ad avvocati ben pagati, e, visto che – i furbacchioni – avevano usato telefoni aziendali, confidavano nella speranza più ipocrita nascosta dietro la frase: «E vallo a dimostrare che ero io[44]».

Quanto alla madre della 14enne, sebbene sua figlia aveva sempre sostenuto che la madre non fosse a conoscenza della sua vera attività (perché le continuava a ripetere che il denaro provenisse soltanto dallo spaccio di droga), sebbene l’aveva sempre descritta come una madre preoccupata e premurosa, la donna, secondo gli inquirenti, era pienamente a conoscenza dell’attività prostitutiva della figlia, e, peggio ancora, ne traeva vantaggio economico. La sua squallida posizione, infatti, è emersa chiaramente dalle intercettazioni telefoniche elaborate dalle minuziose indagini; malgrado, in diverse occasioni, ai magistrati continuava a smentire il suo comportamento criminale di madre sfruttatrice della piccola figlia 14enne.

Una posizione di tutt’altro valore etico e culturale si deve invece riconoscere alla madre della 15enne, la quale, grazie alla denuncia sporta alla Stazione dei Carabinieri di Settebagni in Roma, è riuscita ad alzare il sipario di questa inquietante vicenda. La donna ha trovato la forza e il coraggio di denunciare, confidando nelle autorità e nella giustizia, perché era esasperata dagli atteggiamenti irascibili e inconsulti della figlia, ma soprattutto dalla sua inspiegabile disponibilità economica, facendole così sorgere il sospetto che la figlia si prostituisse e per aggiunta facesse uso di droga.

Grazie a quanto emerge dalle motivazioni della sentenza penale, in riferimento al processo di un cliente, accusato per il reato di prostituzione minorile (rectius: per favoreggiamento) ai danni della 14enne, è possibile focalizzare, più da vicino, le reali – o presunte – intenzioni di entrambe le baby squillo, esaminando le loro dichiarazioni più salienti, contenute nell’atto processuale, in questione, a cura della giudice Paola Di Nicola (GUP presso il Tribunale penale di Roma)[45].

Tutta la storia – emersa dalle dichiarazioni rese dalla 14enne e dalle intercettazioni telefoniche – sarebbe iniziata dalla 15enne, la quale un giorno si era rivolta alla sua amica 14enne, dicendole: «Ma non pensi che sia… Che sia più bello non chiedere più niente a nessuno e avere una nostra indipendenza? Magari troviamoci qualche lavoretto… Cioè baby-sitter, dog-sitter, queste cose così». Successivamente, la 15enne aveva trovato un annuncio su Internet che aveva condiviso con la sua amica; più precisamente, si trattava di una proposta di lavoro che consentiva di “guadagnare in poco tempo tanti soldi”, ma bisognava prostituirsi. In quel momento, la 14enne si era tirata indietro, chiedendo alla sua amica: «Ma non ti crolla il mondo addosso quando fai queste cose?». La 15enne, intanto, era andata avanti da sola, contattando il numero telefonico degli adescatori indicato nell’annuncio, e aveva così iniziato a prostituirsi alla sua tenera età adolescenziale.

Conseguentemente, la 14enne, vedendo la sua amica con tanti soldi da spendere come le pareva, aveva incominciato anche lei a nutrire il desiderio di una indipendenza economica, al punto che, dopo pochi giorni, aveva deciso di provare, cedendo alle lusinghe dalla sua amica del cuore. La 15enne era così riuscita a convincere la 14enne di varcare la soglia della prostituzione per la loro occasione di riscatto sociale, ricordandole “filosoficamente”: «Questo è il prezzo che devi pagare, secondo me, per avere quello che vuoi».

Tornando alle argomentazioni giudiziarie, nei primi incontri con i magistrati capitolini, la 14enne, inconsapevolmente, pensava di essere lei l’autrice di un reato, anziché la vittima, dichiarando: «Il motivo per cui penso di essere venuta qui oggi è perché sono stata colta nel fatto. […] Cioè che mi prostituivo a scopo economico».

E, dopo aver ricevuto i giusti chiarimenti in merito alla sua posizione, la 14enne ha confessato o meglio ha confidato agli inquirenti i motivi della sua “scelta”, ammettendo: «Noi ci siamo prostituite perché volevamo troppo. Mia madre i soldi me li dava, ma non tanti quanti ne volevo […] Da quando abbiamo avuto a disposizione l'appartamento a viale Parioli […] abbiamo deciso di non andare a scuola per andare lì anche la mattina».

L’interrogatorio si è concluso con un’ultima domanda del pubblico ministero: «Come immagina di uscire dalla vicenda oggetto del processo?», a cui la 14enne ha risposto di voler tentare un ritorno a «una vita normale, senza soldi», di voler finire la scuola e poi di andare all’università; ma, oltre a ciò, ha fatto intendere di non essere sicura che avrebbe chiuso per sempre con la prostituzione perché non sapeva se sarebbe stata in grado di rinunciare al tenore di vita raggiunto (come, ad esempio, girare in taxi), rivolgendo ai giudici le testuali – ma preoccupanti – parole: «Se ti abitui ad essere viziata fin da piccola, alla fine ti rimane un po' […] Cioè è difficile adesso per me pensare che devo andare in giro con i mezzi pubblici […] Non so nemmeno se ce la farò, e sinceramente non so nemmeno se ce la faccio a non rifarlo. Non sono sicura![46]».

Nelle motivazioni della sentenza, la giudice Di Nicola espone una singolare decisione, ossia, piuttosto che concedere i ventimila euro proposti dalla curatrice speciale della 14enne, dispone che l’imputato (un cliente della baby squillo), giudicato con rito abbreviato, compri per la ragazza trenta libri e due dvd, riguardante la storia e il pensiero delle donne, la letteratura femminile e gli studi di genere, oltre che una pena a due anni di reclusione carceraria tutti per lui. Se non altro, in tal modo, non si corre il rischio che lei, ancora minorenne, spenda tutti i soldi nei costosissimi oggetti status symbol sopra menzionati.

Nelle motivazioni, inoltre, la giudice spiega chiaramente che sarebbe stato “superficiale” liquidare tutta la faccenda con un risarcimento economico, ovverossia di nuovo con quei soldi che hanno fatto perdere il senno perfino alla madre della piccola 14enne, preferendo così il tentativo di dare un insegnamento alla vittima sul valore della propria identità di donna e sul rispetto del proprio corpo[47].

Fatta questa attenta esposizione del caso Baby Squillo dei Parioli, è facile costatare che il ruolo delle due vittime nel reato di prostituzione minorile ha sicuramente una forte analogia (malgrado la vittimizzazione supplementare subita dalla 14enne, da parte di sua madre); pertanto, la qualificazione del loro ruolo nel reato può essere raggruppata nella seguente e unica analisi vittimologica.

6.1. Analisi vittimologica sul ruolo nel reato e sui fattori causali

L’analisi vittimologica sul caso Baby Squillo dei Parioli, sotto il profilo della vittimodinamica, pone davanti a sé un tipo di ruolo nel reato che rientra nell’ambito del concetto di vittima latente con una predisposizione di natura biologica a subire il reato, in cui si individuano le caratteristiche specifiche sia dell’età, visto che all’età di 14 e 15 anni difficilmente si possa aver raggiunto un pieno sviluppo delle capacità mentali, sia dello stato fisico, visto che, per fare le baby escort, difficilmente si possano immaginare dei corpi poco attraenti e dei visi con sminuita bellezza. Il ruolo nel reato rientra anche nell’ambito del rapporto vittima-delinquente con un collegamento al concetto di vittima che precipita il reato, per quei casi in cui le vittime dimostrano di essere direttamente e attivamente implicate nella genesi, nella dinamica e nell’esito finale del fatto delittuoso, visto che le vittime: sono le prime a prendere l’iniziativa nella genesi del reato, contattando ab origine gli sfruttatori; sono le prime a innescare l’escalation reciproca nella dinamica del reato, offrendo la mercificazione del proprio corpo prima agli sfruttatori e dopo ai clienti; e sono, per prime, direttamente e attivamente implicate anche nell’esito finale del fatto di reato, svolgendo ad libitum le prestazioni sessuali. In aggiunta, il ruolo nel reato rientra sempre nell’ambito del rapporto vittima-delinquente con una relazione di tipo psicobiologica, che designa l’attrazione reciproca di due soggetti con caratteristiche complementari di cui l’uno è il negativo dell’altro, come appunto tra gli sfruttatori e le prostitute.

Il ruolo nel reato, da parte delle piccole vittime, si caratterizza inoltre per le seguenti modalità: di precipitazione, visto che il comportamento delle vittime o meglio la loro partecipazione agli incontri sessuali, nell’appartamento di viale Parioli, “incoraggia” fortemente quello dei delinquenti, sia sfruttatori che clienti (= una vittima che precipita il reato); di facilitazione, visto che il forte interesse di guadagnare tanti soldi in pochissimo tempo le espone al rischio deliberatamente (= una vittima che facilita il reato). Oltre a ciò, vi rientrano altri elementi: di vulnerabilità, perché tutte le persone minorenni – insieme alle donne e agli anziani – rientrano tra le categorie di soggetti che, per ragioni fisiche, psicologiche, culturali o sociali, risultano particolarmente vulnerabili; di opportunità, perché le piccole prostituta, desiderose di tanto denaro per l’acquisto di costosissimi oggetti status symbol, sono un facile bersaglio per gli sfruttatori e i clienti; e anche di attrattività, perché l’ingenuità, che fisiologicamente possiede una 14enne e una 15enne, e la miglior giovinezza, che altrettanto loro possiedono, attirano l’attenzione dei delinquenti, sia sfruttatori che clienti. Inoltre, stando alla narrativa dei fatti di reato sopraesposta, il ruolo delle vittime nel reato di prostituzione minorile si manifesta prima, durante e dopo l’evento delittuoso.

Solitamente, una buona analisi vittimologica è integrata, sotto il profilo della vittimogenesi, anche dai fattori causali o condizionamenti (diretti e/o indiretti), che avrebbero influenzato la vittima ad assumere alcuni determinati comportamenti e quindi a rivestire un determinato ruolo nel reato subìto. Tuttavia, qui, per la scelta di considerare solo fonti attendibili, si è costretti a prospettare i principali fattori causali che hanno interessato soltanto la vittima 14enne; i quali possono essere individuati avendo riguardo ai condizionamenti che la ragazza è stata assoggettata, attinenti sostanzialmente ai contesti affettivo-relazionali, sociali, culturali e psico-cognitivi.

Il condizionamento affettivo-relazionale, nel caso in esame, riguardante solo il contesto familiare (= fattore causale di primaria importanza, specialmente dei minori e giovani adulti, seguito da quello rientrante nel contesto sentimentale o amoroso di coppia), come si evince dagli atti processuali, tale condizionamento è costituito da una madre che la sollecitava a prostituirsi, per avvantaggiarsi dei proventi di questa attività, e da un padre che l’aveva lasciata sola per trasferirsi all’estero a lavorare, senza mai versare alcunché per il suo mantenimento, ma zittendola, nelle sue esigenze di figlia, solo nei rientri a casa attraverso il pagamento con banconote versate direttamente nelle sue mani: la stessa modalità – guarda caso – adottata dai suoi clienti. In questo contesto, e con un fratello più piccolo affetto da una seria patologia psichiatrica, la 14enne ha vissuto l’abbandono e l’assenza di protezione, da parte di entrambi i genitori, maturando un forte vuoto dentro di sé, fino a sentirsi una nullità.

Il condizionamento sociale o cd. ambientale, per la 14enne, è dipeso dalle amicizie intrecciate nella Roma bene e da quelle incontrate in un liceo frequentato, maggiormente, da figli di professionisti ricchi e affermati. Infatti, è stata proprio l’amica 15enne, a sua volta figlia di persone benestanti e di livello culturale medio-alto, che le ha indicata la strada della prostituzione come la sola occasione per procurarsi i soldi, in modo facile e veloce, da poter spendere per i costosissimi oggetti, e per conformarsi ai cliché di un’alta borghesia che però non gli appartenevano. Questo era lo scopo della 14enne, uno scopo condizionato e indotto dal contesto ambiente che la circondava; la quale, al riguardo, non ha lasciato dubbi, anzi: “Detto proprio con tutta sincerità [lo scopo] era taxi, vestiti, shopping, tutto quello che volevo; vestiti, tanti vestiti […] sigarette, uscire la sera […] Sì, sì, borse di marca, quello che io vedevo nelle vetrine dei negozi, mi piaceva e me lo andavo a comprare, cioè senza nessun problema. Era questo il mio scopo: […] Avere proprio dei soldi miei, da spendere per me e non chiedere niente a nessuno!”.

In tale occasione, la giudice Di Nicola si concede un’amara critica, nei confronti degli strumenti istituzionali, scrivendo: «I servizi sociali, attivati per seguire il nucleo familiare a causa dei problemi psichiatrici del fratello [della 14enne] e che hanno parlato con lei solo una volta, e la scuola, che si è preoccupata solo di comunicare alla madre della vittima le sue numerosissime e ingiustificate assenze, senza cercare di coglierne le ragioni effettive, sono stati strumenti istituzionali che non hanno funzionato, come avrebbero dovuto, come luoghi di controllo, di formazione, di ascolto, di emersione di un disagio adolescenziale profondo e ben visibile che aspettava solo di essere colto da adulti adeguati, capaci e solo minimamente attenti».

Il condizionamento culturale è quello ben visibile attraverso un’attenta lettura degli atti processuali, che, dall’inizio alla fine, pervade tutti i soggetti che hanno avuto un forte peso nella vicenda processuale narrata. La 14enne, attraverso le sue stesse parole, rese nel corso delle deposizioni processuali, ha evidenziato come la sua formazione “culturale” (= fattore causale strumentale alla fase di discernimento, specialmente nei minori e giovani adulti) fosse imbevuta esclusivamente da forme di trasmissione culturale che gli esperti qualificherebbero un male per la crescita e lo sviluppo psichico di ogni minorenne: programmi televisivi che mostrano per lo più donne come vallette mezze nude, unicamente piacenti e mai come esseri pensanti; pubblicità che promuovono modelli da seguire in cui la bellezza, il denaro e il successo rappresentano le virtù più ambite da possedere, mentre l’imperfezione e la fragilità costituiscono i vizi più temuti da nascondere. Queste forme di trasmissione culturale hanno avuto un forte condizionamento nel modo di pensare della 14enne, al punto tale da farle maturare una visione del corpo femminile inteso come unico strumento di affermazione sociale attraverso l’apprezzamento degli uomini.

In linea generale, bisognerebbe inoltre considerare un ulteriore fattore causale di tipo culturale, rappresentato da quel pregiudizio secolare sulle donne, che ha creato strutture stereotipate delle quali ogni individuo è permeato fin dalla nascita. Qui, può rappresentare un valido e più che appropriato esempio la moltitudine di parolacce esistenti per definire una prostituita, in netta sproporzione con l’unico termine, per giunta qualificato in modo positivo, come gigolo, per indicare un uomo che si fa mantenere economicamente da una donna, specialmente molto più grande di lui, oppure, in un’altra veste, un uomo che formalmente si offre di accompagnare donne mature a cene di gala, ma che sostanzialmente si prostituisce con donne di ogni età, purché disposte a pagare cospicue somme di denaro. Sicuramente, come tutti i fattori causali, anche questo fa la sua parta: è innegabile!

Il condizionamento psico-cognitivo è fortemente legato alla dipendenza comportamentale da shopping compulsivo, e, a riguardo, le dichiarazioni della vittima non celano alcun dubbio: «Quello che io vedevo nelle vetrine dei negozi, mi piaceva e me lo andavo a comprare». Inoltre, il condizionamento psico-cognitivo è caratterizzato dal fatto che, durante l’attività prostitutiva, la 14enne faceva uso di sostanze stupefacenti, come dire, d’alto borgo, ovverosia cocaina. Non a caso, la giudice Di Nicola, nelle prime pagine della sentenza, riporta che «[la 14enne], una volta entrata nelle maglie sempre più strette della rete prostitutiva, ha iniziato anche a fare uso di cocaina, portata a volte dai clienti e a volte dalla sua amica [15enne], consumata ovviamente per la necessità di sostenersi, estraniarsi e andare avanti». Inoltre, senza tralasciare il fatto che la condizione fisiologica ancora deficitaria in età adolescenziale rappresenta un ulteriore deficit cognitivo o metacognitivo.

A fronte di questa analisi vittimologica, emersa da un’accurata interpretazione del caso di specie, risulta che entrambe le minorenni, seppur ognuna con il proprio ruolo nel reato, sono state delle fragilissime vittime, senza alcuna cintura di sostegno né familiare, né scolastica, né sociale e né tanto meno assistenziale, tutto aggravato per di più dall’essere state circondate da contenuti “culturali” ingannevoli, capziosi e nocivi (ma non è tutto!).

7. Riflessioni finali

Prima di tutto, al fine di non fraintendere le reali intenzioni dello scrivente, si tiene a cuore precisare che questo lavoro è orientato esclusivamente alla prevenzione dei summenzionati reati e alla tutela di tutte le persone minorenni, sia maschi sia femmine, senza voler mai e poi mai “colpevolizzare” nessuna vittima. Oltre a ciò, è necessario avere ben presente che le persone qui tratteggiate, sebbene ognuna con un proprio ruolo nel reato, sono soltanto delle fragili vittime di persone ignobili e soprattutto opportuniste della particolare condizione di vulnerabilità in cui versano generalmente i minori. Ragion per cui, il ruolo nel reato delle piccole meretrici non deve essere letto in modo pregiudizievole o peggio paternalistico, ad esempio, interpretando la loro forte impazienza, sia di possedere costosi oggetti status symbol, sia di raggiungere effimeri status sociali, come un’incontenibile avidità che le renda comunque compiaciute e soddisfatte per i rapporti sessuali con clienti occasionali o abituali, per di più, molto facoltosi, oppure qualificando la loro migliore giovinezza solo come un’arma per essere ammiccanti e scaltre seduttrici di uomini, mediamente, 20 o 30 anni più grandi di loro. Perché, forse, è giusto pensare che «c’è chi l’amore lo fa per noia, chi se lo sceglie per professione, le piccole Bocche di rosa né l’uno né l’altro, loro lo facevano per la passione del vivere contemporaneo» (parafrasando De André).

Fatta questa doverosa precisazione, è possibile procedere con lo svolgimento delle – non poco sofferte – riflessioni finali, aventi ad oggetto esclusivamente l’interesse di minori e giovani adulti, concentrando l’attenzione sui cd. fattori "determinanti" (ex post facto oppure ex ante facto) i quali, come hanno condizionato le persone qui tratteggiate, potrebbero anche condizionare altri individui ad assumere un ruolo nel reato, divenendone a loro volta vittime; ma, soprattutto, tentando di fare luce sulla natura e sulle origini del comportamento posto in essere dalle vittime, nonché provando a fornire un valido aiuto attraverso alcuni spunti di prevenzione.

Al raggiungimento dei fini prefissati, non sarebbe una cattiva idea ricorrere inizialmente ad alcune teorie dei più importanti scienziati sociali di comportamenti devianti e criminali, limitando però i vari collegamenti solo all’ambito della devianza. Proprio così! Con tutte le doverose cautele, si intende dimostrare che le minorenni dedite all’attività prostitutiva, in bagni di scuola, discoteche, alberghi, case o appartamenti, assumerebbero dei gravi comportamenti di natura deviante; ma, soprattutto, incrementando quanto già esposto sui fattori causali o “determinanti”, si vuole spiegare dove trae origine la devianza di queste piccole vittime (= vittimogenesi).

In primis, tra le varie definizioni di «devianza», può risultare utile quella di Higgins e Butler, secondo i quali sotto tale concetto rientrano «comportamenti, idee o aspetti di uno o più individui che alcuni membri di una società – non necessariamente tutti – reputano sbagliati, cattivi, stravaganti, disgustosi, eccentrici o immorali: in altre parole, offensivi[48]». In conseguenza di ciò, sarebbe giusto ammettere, fin da subito, che svolgere attività prostitutiva è un comportamento deviante (rectius: sfruttare o favorire attività prostitutiva, peggio ancora, minorile è certamente molto più grave, perché – come già visto – si commettono diversi reati, trattandosi pertanto di comportamenti criminali, criminalizzati dal legislatore nel codice penale).

In secundis, tra la migliore dottrina sociologica, è doveroso introdurre brevemente studiosi del calibro di Durkheim e Merton; più precisamente, parlare della «teoria dell’anomia». Quando Durkheim ha introdotto il termine «anomia» nel suo libro La divisione sociale del lavoro (1893), lo ha utilizzato per descrivere la «deregolamentazione» che avveniva all’interno di una società, riferendosi al fatto che, quando le regole di comportamento da seguire nei rapporti con gli altri si svuotano di efficacia e significato, le persone non sanno più cosa aspettarsi l’una dall’altra. Qualche anno più tardi, il sociologo francese ha usato lo stesso termine nei libri Il suicidio (1897) e L’educazione morale (1903), riferendosi anche alla condizione moralmente deregolata, dove le persone hanno uno scarso controllo sul loro comportamento. Per Durkheim, quindi, una società può diventare anomica, ad esempio, se la gente non sa quando porre limiti alla propria corsa verso il successo o che relazione avere con le persone che incontra. Che si adotti il concetto di anomia come “rottura” delle norme sociali (= norme morali, religiose o di buona educazione) di cui la collettività si nutre per svolgere una vita in comune più civile e pacifica, oppure come perdita di “pregnanza” delle norme sociali, comprese le condizioni in cui esse non controllano più le attività dei membri della società, è chiaro che Durkheim in buona sostanza si riferisce alla disgregazione delle «normali condizioni sociali». E, in conseguenza di ciò, le persone vanno incontro a un difficile processo di adattamento ai cambiamenti delle condizioni di vita, non riuscendo a trovare il loro posto nella società. Questo processo, a sua volta, produce insoddisfazioni, frustrazioni, conflitti e soprattutto tanta devianza[49].

Quasi mezzo secolo più tardi, Merton (1938), allontanandosi dal concetto di anomia legato ai lavori di Durkheim, ha suddiviso le norme sociali o meglio le normali condizioni sociali in mete culturali (= ambizioni “preimpostate”) e mezzi legittimi (per raggiungerle), ridefinendo l’anomia come una discrepanza o incongruenza, tra mezzi e mete, prodotta dalla struttura sociale. Il sociologo americano ha notato che all’interno della società certe mete vengono messe in risalto più di altre (ad esempio, il successo economico) e che la società ritiene legittimi certi mezzi per raggiungere quelle mete (ad esempio, il lavoro duro, l’istruzione). Quando le mete vengono enfatizzate in modo pressante – come avviene nelle società occidentali – si creano le condizioni per l’anomia: «non tutti gli individui infatti hanno uguale possibilità di successo economico con mezzi legittimi, di conseguenza, tenteranno di raggiungere la stessa meta con altri mezzi, anche illegittimi». Per Merton, che basava la sua teoria dell’anomia principalmente sulla devianza più che sulla criminalità, una società può già considerarsi anomica quando definisce delle mete culturali senza fornire però a tutti i consociati dei mezzi legittimi per conseguirle; oppure, in riferimento alle classi inferiori e alle minoranze, una società può anche considerarsi anomica quando sono imputabili alla stessa struttura sociale le cause della disuguaglianza sociale.

È bene precisare che, per Merton, il successo economico era solo un esempio emblematico. A ben vedere, la teoria dell’anomia mertoniana, sostiene che «ogniqualvolta vi sia un’accentuazione del valore del successo – si tratti di successo scientifico, di accumulazione di ricchezza o, con un po’ di immaginazione, delle conquiste di un Don Giovanni – si verificherà il fenomeno di una diminuita conformità alle norme istituzionali che stabiliscono quale comportamento sia appropriato per raggiungere quella particolare forma di successo, e, in misura maggiore, ciò avverrà fra coloro che si trovano socialmente svantaggiati per affrontare la competizione[50]».

Le mete del successo, in quanto tali, quindi, non sono necessariamente perseguite in modo contemporaneo da tutte le classi sociali. Ogni classe sociale di fatto può avere una o più mete particolari da perseguire: non si tratta di mete specifiche, ma piuttosto di un messaggio culturale che legittima la “lotta” per l’ascesa e la mobilità sociale di coloro che vogliono raggiungerla. Per Merton, «la causa, quindi, che produce una tensione in direzione dell’anomia, è il conflitto che si instaura fra le mete culturali e la possibilità di usare i mezzi istituzionali, qualunque sia il carattere delle mete». Anche se, in fin dei conti, «è l’enfasi posta sul raggiungimento della meta che è importante[51]».

Alla luce di queste considerevoli teorie nel campo della sociologia della devianza e della criminalità, la devianza può essere spiegata come il risultato di una organizzazione della società dentro la quale le mete culturalmente definite e i mezzi socialmente strutturati sono separati o incoerenti tra di loro. In altre parole, la devianza è frutto dell’anomia (per dirla come Durkheim e Merton).

Dopo questa importante e doverosa digressione, un’operazione necessaria sarebbe quella di chiamare in causa l’attuale contesto sociale, economico e culturale, per poter ben evidenziare che si vive ormai in una società e in un tempo dove è diffuso e perfino incoraggiato il consumo di beni materiali, più delle volte, non proprio indispensabili, alimentando bisogni e desideri pressoché effimeri e di conseguenza in continua riviviscenza. Il consumismo è un tema molto caro a quel genio intellettuale di Pier Paolo Pasolini: partigiano ideologico non armato, cattolico, comunista, omosessuale e “diverso”, nel senso che «la sua diversità consisteva nel coraggio di dire la verità o quello che lui riteneva essere la verità, “diverso” nel cercare di provocare delle reazioni attive e benefiche nel corpo inerte della società italiana» (così il cordoglio dell’amico Alberto Moravia). Pasolini (che considera Il Vangelo di Gesù una grandissima opera intellettuale e di pensiero, perché riempie, reintegra e rigenera), sia nelle sue dichiarazioni pubbliche che nelle sue opere multiforme, non manca mai l’occasione di sottolineare quanto sia pericoloso, per la gente di bassa e medie borghesia, assecondare quel sistema, da lui denominato «il Potere» e qualificato come una nuova forma di totalitarismo perché «crea acculturazione e omologazione distruggendo le varie realtà particolari, che non desidera altro che una civiltà dei consumi»: “un edonismo consumistico” (per dirla con Pasolini)[52].

Oltre a ciò, non si può tralasciare quanto scrive Bauman (sociologo e filosofo di fama mondiale): «Il consumismo, in netto contrasto con le precedenti forme di vita, associa la felicità non tanto alla soddisfazione dei bisogni (come tendono a far credere le sue “credenziali ufficiali”), ma piuttosto alla costante crescita della quantità e dell'intensità dei desideri, il che implica a sua volta il rapido utilizzo e la rapida sostituzione degli oggetti con cui si pensa e si spera di soddisfare quei desideri». E ancora: «Il capitalismo ha il grande merito di aver sviluppato forze produttive e benessere (almeno in alcune aree del mondo), ma contiene in sé una particolare fallacia: la capacità di soddisfare pienamente i bisogni naturali ed essenziali e quindi la moltiplicazione di desideri inconsistenti, che si accompagna alla produzione industriale di prodotti intrinsecamente inutili[53]».

Tutta questa “spersonalizzazione”, che amplifica per di più uno stato di insicurezza, viene ulteriormente alimentata da quelle forme di trasmissione culturale messe in atto, principalmente, attraverso i mezzi di comunicazione e i meandri della rete internet, in cui non si manifestano altro che eccessive enfatizzazioni o accentuazioni nel raggiungimento delle mete, quasi sempre, rappresentate da ricchezza e successo, incoraggiando però a intraprendere sempre la via del consumo. A tal proposito, anche gli studiosi più attenti ai nuovi disagi adolescenziali sono lapidari: «In questa situazione, i grandi produttori di beni e servizi, la diffusa rete di commercio e i mezzi di comunicazione hanno a lora disposizione un mercato infinito: è sufficiente indurre nuovi bisogni con frequenza vertiginosa, rendere merce i nuovi desideri, lanciare mode per aggregare e per dare l’illusione di appartenere a un mondo “tutto intorno a te”. […] In un tumultuoso meccanismo di rincorsa tra domanda e offerta di beni e oggetti, si rischia pertanto di creare adolescenti amputati delle più elementari competenze critiche, empatiche e riflessive: burattini intenti a rincorrere merci e stili di vita nel tentativo di integrarsi e trovare un’identità più o meno stabile; […] per risolvere le proprie ansie e mantenere un simulacro di identità[54]».

In conseguenza di ciò, sarebbe opportuno domandarsi: ma, attualmente, chi sono i “legittimati” (= la mente) a definire culturalmente queste mete? E, poi, chi sono i “delegati” (= il braccio) a trasmettere culturalmente queste mete o peggio ancora a vendere qualche sedicente e presunta soluzione? Riflettendo sul forte atteggiamento (per non dire dominio) del consumismo nella società contemporanea e delimitando il campo di osservazione nei contesti con maggiori problematicità, come l’ambito della rete internet, si auspica di procurare soddisfacenti risposte nel modo che segue.

Nel tentativo di fornire una qualche plausibile identificazione di persone o gruppi di persone, quanto ai “legittimati”, pare che essi siano legati fortemente ai massimi sistemi dell’economia, della finanza e quindi del capitalismo, che si possano tranquillamente identificare nelle persone più ricche del pianeta, le quali continuano a incrementare il loro dominio anche grazie al web; in altri termini, per fare solo un semplice – ma calzante – esempio, si tratterebbe dello stesso genus che un tempo veniva fortemente contestato dai cd. hippie o figli dei fiori.

A proposito di persone più ricche del pianeta, nei primi giorni del 2024, un articolo del Wall Street Journal, ha svelato alcuni retroscena riguardo all’uso di sostanze stupefacenti, tra cui LSD, cocaina, ecstasy, funghi allucinogeni e ketamina, da parte di un noto imprenditore americano multi-miliardario, il quale ha poi dichiarato che l’uso di tali sostanze avesse esclusivamente una funzione antidepressiva (beh, d'altronde, anche i super-ricchi possono incorrere in uno stato di depressione psicologica, poi, ognuno sceglie il “rimedio” più gratificante). Per di più, si è vociferato che il visionario imprenditore avrebbe assunto spesso tali sostanze durante feste private tenutesi in diverse parti del mondo, in cui gli ospiti firmavano accordi di non divulgazione e accettavano di non utilizzare i propri telefonini[55].

Quanto ai “delegati”, pare che anch’essi siano legati ai massimi sistemi dell’economia e che si possano pacificamente qualificare come i new media del web per antonomasia, noti a tutti con il nome di influencer (letteralmente: influenzatore), un nome già di per sé molto triste, i quali, com’è facile dedurre, hanno la principale funzione di influenzare i comportamenti e le scelte di un determinato pubblico. Essi sembra che vengano “delegati” proprio dai suddetti “legittimati”, specialmente se si pensa agli influencer marketing. E, a ben vedere, pare che la loro “delega” abbia ad oggetto espressioni multiforme di natura meramente commerciale, finalizzate esclusivamente a una vera e propria propaganda del consumismo.

A proposito di influencer più famosi del web, sempre nei primi giorni del 2024, la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano ha avviato le indagini, nei confronti di una famosa influencer, per l’ipotesi di reato di truffa ex art. 640 c.p., con l’inasprimento giurisprudenziale per «circostanza aggravante della minorata difesa [dei consumatori] in tema di truffa online» (Cass. pen., n. 22/18252), in riferimento a fatti legati alla promozione, prima, di un dolce natalizio e ai rispettivi incassi che si sarebbero dovuti devolvere in beneficenza, poi, di un dolce pasquale e, poi ancora, di un peluche (, può sembrare una barzelletta, ma non lo è per niente!). Ovviamente, tutti questi prodotti commerciali venivano venduti a costi maggiorati perché “griffati” dalla celebre influencer. Intanto, a prescindere dall’ipotesi di reato, sia all’influencer sia all’azienda dolciaria, per i fatti legati al prodotto natalizio, è stata già irrogata una maxi-multa, per pubblicità ingannevole in materia di beneficenza, dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (cd. Antitrust)[56].

Ma, dulcis in fundo, a tutto ciò si aggiunge tanta incredulità in merito agli “innovativi” Influencer AI, ossia influencer virtuali con sembianze umane “generati” però ex novo (ergo, non una trasposizione digitale o un avatar di persone autentiche e reali); si tratta di un frutto della più recente creazione nell’ambito della tecnologia digitale: l’Intelligenza Artificiale o AI, ideata con lo scopo di migliorare il mondo – si augura solo quello virtuale – o a ben vedere di fare soltanto qualche ulteriore business.

Naturalmente, nella maggior parte dei casi, le mete, culturalmente prima definite e poi divulgate, hanno ad oggetto prodotti griffati più alla moda di famosi e costosi brand commerciali dei settori più disparati (abbigliamento, calzature, borse, gioielli, accessori di lusso, telefonini e altri prodotti tecnologici, ecc.), con un solo sottofondo “assordante”: tanta mania di ascesa al successo di ogni tipo, anche solo di quello mediatico, fatto suppergiù a propria immagine, un filtro in più un filtro in meno, rigorosamente sul web attraverso i propri profili social con un unico e solo scopo: apparire; apparire in “ricchezza” propria o altrui, apparire in “bellezza” naturale o rifatta, apparire sempre più chic e sexy fino al punto da poter “essere” glamour e da poter “avere” un quid pluris sui social network (e forse anche nella vita reale).

Tutta questa massiccia divulgazione di mete ben architettate e altamente influenzate porta alla costatazione del fatto che diverse persone (non solo minori e giovani adulti) subiscono una condizione anomica, specialmente quelle appartenenti alle classi poco abbienti e prive di adeguati mezzi, le quali sono costrette ad accettare lo “scarto” tra le loro aspirazioni e la qualità limitata di opportunità. Ma non sono poche le persone che si accontentano di quello che si possono permettere. Ragion per cui, a causa di una eccessiva enfatizzazione o accentuazione di quello che si potrebbe definire il sogno occidentale, ossia diventare ricchi e famosi, sempre più spesso, certe persone manifestano comportamenti sbagliati, immorali o semplicemente devianti, come – non a caso – accade quando si vogliono possedere costosissimi oggetti status symbol o si vogliono raggiungere effimere posizioni socio-economiche: mete “culturali” che per molte persone, tuttavia, con il solo uso di mezzi “legittimi”, sono sempre più irraggiungibili.

In conseguenza di ciò, verrebbe da domandarsi: ma le Istituzioni predispongono, in via preventiva, i giusti mezzi a favore di tutta la collettività, specialmente delle classi sociali più povere, per evitare o almeno ridurre l’incongruenza tra mezzi e mete? Francamente, sarebbe corretto rispondere: No! Specialmente se si pensa – per fare solo un esempio – ai “miseri” tentativi posti in essere, prima, con il Reddito d’Inclusione e, dopo, con il Reddito di Cittadinanza, che, attualmente, si è preferito rinominarlo Assegno d’Inclusione; i quali, in breve, altro non sono che sostegni economici finalizzati ad arginare il fenomeno della povertà e a incentivare il consumo di beni – attenzione – forse di prima necessità, anziché realizzare imponenti misure di politiche sociali, finalizzate a contrastare le cause maggiori della povertà e a scoraggiare lo spreco del denaro.

Ebbene sì, bisogna ammettere che in Italia vi sono tanti minori e giovani adulti sì vittime di reati ma anche vittime di una trasmissione culturale sempre più strumentalizzata e distorta, contenente ormai messaggi mediatici, come dire, a effetto devianza: quindi, vittime in balia di un modo sbagliato del “facere cultura”: un facere che divulga contenuti caratterizzati da scarsi valori ideologici e pessimi principi morali, nonché, peggio ancora, un facere che promuove volgari modelli da seguire, rappresentati solo da personaggi effimeri, con una personalità tanto mediocre al punto da poterli addirittura “generare” ex novo tranquillamente al computer.

Ai fini di una corretta ed efficace prevenzione, cosa fare? Sarebbe più che doveroso che una parte della collettività, quella meno affetta da forme di dipendenza social, “urlasse” contro le Istituzioni che tutta questa forma di comunicazione – influenzatrice – non può e non deve, nella maniera più assoluta, depauperare né i valori più importanti del vivere sano e né le abitudini più semplici del vivere quotidiano. Sarebbe più che indispensabile che si disobbedisse, in modo dissacrante, alla volontà di quel sistema prepotente – che le Istituzioni approvano e non di rado addirittura promuovono – che altra direzione non ha se non quella che conduce verso un unico ordine sociale: la società dei consumi. Sarebbe più che formativo inoltre che si riflettesse sui contenuti, ad alto tasso “profetico”, rappresentati da Orwell, già nel 1949, con la sua celeberrima opera dal titolo 1984 (romanzo distopico di fantapolitica); considerando, tra le altre cose, la speranza forse più grande del protagonista: «Non immagino certo di poter cambiare qualcosa nel corso della nostra vita. Ma si può immaginare che qua e là spuntino piccoli nuclei di resistenza: piccoli gruppi di persone che si uniscono dietro qualche testimonianza, così che la prossima generazione possa continuare da dove noi abbiamo smesso[57]».

In altre parole, sia i tradizionali messaggi pubblicitari per mezzo di volantini, manifesti, riviste, giornali, cartelloni, radio e televisione, sia le innovative “marchette” sui social network (nel senso di “finte” prestazioni lavorative che in realtà promuovono velatamente prodotti o attività commerciali), fatte dai più noti o meno noti influencer, non possono e non devono trasgredire le – odierne e nello stesso tempo moderne – «normali condizioni sociali» (per dirla con Durkheim).

A titolo esemplificativo, sarebbe giunto il momento che gli influencer si “obbligassero” a rendere un servizio di comunicazione finalizzato sì ai loro guadagni economici – perché è giusto che ognuno faccia il proprio lavoro – ma soprattutto orientato a una sana e attenta trasmissione culturale. Ragion per cui, oltre che smetterla di sottovalutare il problema, pare davvero imprescindibile che il legislatore, de iure condendo, provveda a emanare misure più efficaci, andando ben oltre a quanto già regolamentato per la pubblicità online con lo scopo di rimediare alla non rara pubblicità occulta: quindi, anziché assecondare gli affari delle multinazionali, giustificando tale mercato come un buon tornaconto per le casse dell’erario, è opportuno che concentri gli obiettivi verso una migliore tutela degli interessi di minori e giovani adulti, anche in materia di trasmissione culturale nell’ambito dei social network, contribuendo così al tentativo di evitare di far “insorgere” le nuove generazioni con comportamenti ribelli e devianti sempre più gravi.

Queste parole possono inoltre trovare un solido fondamento in considerazione di quanto si osserva in dottrina sulle implicazioni politiche derivanti dalle teorie dell’anomia, in modo particolare: «Per trarre qualche indicazione positiva si potrebbe poi tentare di limitare i messaggi pubblicitari che contrabbandano la più ampia accessibilità ai beni di lusso, e che inducono tutti ad acquistarli per mantenere lo stesso livello della famiglia Rossi che abita sullo stesso pianerottolo. In altri termini, i mass media, dal punto di vista dell’anomia, potrebbero essere ritenuti responsabili dell’accrescimento delle tensioni tra abbiente e non abbiente[58]».

A questo punto, osservando la società contemporanea occidentale, ma soprattutto la situazione presente in Italia, è possibile costatare che il fenomeno della devianza minorile, con l’arrivo del nuovo millennio, ha intrapreso un percorso di notevole trasformazione, che riguarda sia il tipo di comportamento, visto che la devianza è sempre più grave, sia il contesto di provenienza, visto che il problema non è più presente solo per le strade.

Non a caso, l’illustre giurista Moro (voce tra le più autorevoli del diritto minorile, nonché già Presidente del Tribunale per i minorenni di Roma, Presidente di sezione della Corte di Cassazione e Professore universitario in Diritto minorile), in merito alle insidie delle nuove generazioni, introduce, magistralmente, nella letteratura scientifica di ambito minorile, il concetto di «devianza tecnologica», ovverosia «tutti quei comportamenti devianti giovanili che si esprimono facendo ricorso alle nuove modalità di comunicazione». E, con tutta la sua esperienza, nel Manuale di diritto minorile, il giurista italiano spiega: «I giovani si sono impadroniti dei nuovi strumenti con rapidità e agilità ben maggiori dei loro genitori. Il telefono cellulare e la rete web consentono ormai ai ragazzi di rimanere tra loro in contatto costante e praticamente ininterrotto, rafforzando il senso del gruppo e garantendo per di più una facile e completa riservatezza nei confronti dei genitori e degli adulti di riferimento. Si creano in tal modo spazi virtuali dove il sentimento di appartenenza e di impunità possono raggiungere livelli pericolosi per le personalità più fragili e influenzabili, poste a grandi spazi di libertà non controllati dagli adulti».

E, considerando la gravità del problema, sembra davvero difficile contraddire Moro, quando nel suo libro – alle battute finali del capitolo La devianza minorile – con amara costatazione scrive: «Benché in Italia il fenomeno dei minori di seconda generazione sia agli inizi, esso è largamente e pericolosamente sottovalutato e ben poco si fa per prevenirlo[59]».

A ogni modo, nel panorama giovanile qui delineato, bisogna rilevare che ancora oggi vi è un estremo bisogno di maggiore impegno delle Istituzioni per lavori di monitoraggio e controllo dell’itera rete internet, compresa la parte occulta, con lo scopo di contenere quanto più possibile le principali criticità legate all’uso cattivo d’Internet. Impegni istituzionali che sembrano invece coinvolgere maggiormente solo la lotta al commercio online della droga, solitamente anche con buoni risultati; a riguardo, può essere importante prendere spunto dal peculiare intervento della Direzione Centrale per i Servizi Antidroga, che schiera nello spazio virtuale le skill del personale della Sezione Drug@online, abilitato a effettuare un monitoraggio della rete internet, volto a individuare i siti che, sia nel dark web sia nell’open web, sono finalizzati alla vendita di sostanze stupefacenti e nuove sostanze psicoattive[60].

Alla luce dello scenario contemporaneo nazionale, quindi, non è del tutto illegittimo pensare di censurare almeno i contenuti più nocivi della trasmissione culturale odierna, diffusi tramite i mezzi di comunicazione sia tradizionali sia moderni, eliminando o tagliando quanto ritenuto non conforme a criteri particolari di sicurezza, moralità o sana educazione, magari, attraverso interventi istituzionali orientati a politiche di salvaguardia degli utenti più vulnerabili come i minorenni, contribuendo così al tentativo di evitare di far “nuocere” lo sviluppo fisico, mentale e morale delle nuove generazioni.

Censurare, dunque, con una maggior efficacia per ottenere una migliore prevenzione! Perché quanto si fa in ambito ai programmi televisivi e ai videogiochi, attraverso la cd. fascia oraria protetta e le mere avvertenze con bollini ed etichette, non basta. Si pensi al Codice di autoregolamentazione tv e minori che “propone” – senza obbligare – a ogni emittente, nella programmazione trasmessa in fascia oraria 7:00-22:30, di segnalare con bollino verde un programma idoneo ai minori, con bollino giallo la visione adatta anche ai minori se accompagnati da familiare adulto, con bollino rosso un programma “sconsigliato” ai minori; oppure al PEGI (Pan European Game Information), il metodo di classificazione europeo usato per i videogiochi che aiuta i genitori a “comprendere”, tramite un sistema di etichette, se un dato videogioco sia adeguato o meno al proprio figlio minorenne.

Perché, inoltre, quanto si fa in ambito alla rete internet, attraverso la verifica dell’età e il controllo parentale, non è ancora sufficiente: Internet, a quanto pare, è uno spazio senza limiti e senza confini per nessuno, quindi anche per tutti i naviganti minorenni. Si pensi alla verifica dell’età dei siti riservati ai maggiorenni che sicuramente possiede una finalità deterrente, ma che in realtà è ancora poco efficace, visto che in tantissimi casi si tratta di una veloce “autodichiarazione” – spesso non veritiera – in cui si assume la responsabilità di ciò che si andrà a vedere, inserendo un’età anagrafica maggiore di 18 anni, semplicemente con un “clic”; oppure al controllo parentale o cd. parental control che permette ai genitori di filtrare i contenuti più nocivi a cui i loro figli potrebbero accedere, e di impostare anche il tempo di utilizzo di computer, tv, smartphone e tablet, che è di certo un prezioso aiuto per contenere i rischi della rete internet e per valutare l’attività online dei più piccoli, ma è importante ricordare che il parental control supporta la presenza di un adulto e “non si sostituisce” ad esso.

Ragion per cui, è davvero imprescindibile che, ai siti internet, motori di ricerca e social network, si imponga di migliorare le misure rivolte alla tutela dei diritti dei minori, in modo particolare, gli strumenti di verifica dell’età e di controllo parentale, come, in effetti, è tutto già previsto dalla normativa sia europea che nazionale.

Le vigenti norme europee e nazionali, infatti, già stabiliscono che i minori hanno diritto a un livello più elevato di protezione dai contenuti che potrebbero nuocere al loro sviluppo psico-fisico; più precisamente, a livello europeo, il Regolamento UE sui servizi digitali (Digital Services Act), in vigore dal 16 novembre 2022, impone alle piattaforme e ai motori di ricerca online di adottare «misure mirate per tutelare i diritti dei minori, compresi strumenti di verifica dell’età e di controllo parentale, o strumenti volti ad aiutare i minori a segnalare abusi o ottenere sostegno» (art. 35); a livello nazionale, il Testo Unico sui Servizi Media Audiovisivi (TUSMA) assegna all’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (AGCOM) specifici poteri a tutela dei minori, rispetto a contenuti che possano nuocere al loro sviluppo fisico, mentale o morale (artt. 41 e 42). Tutto ciò ha posto le basi per la preparazione del Regolamento AGCOM per minori e Internet del 24 settembre 2024 (ma non ancora in vigore), che disciplina le modalità tecniche e di processo per l’accertamento della maggiore età degli utenti, attuando così quanto già previsto dal cd. Decreto Caivano, convertito in legge n. 159/2023, riguardante la «verifica della maggiore età per l’accesso a siti pornografici» (art. 13 bis della legge).

Senza dimenticare, inoltre, che la rete internet è foriera di siti che hanno dei contenuti riservati a soli maggiorenni, ad esempio, la pornografia e la prostituzione, ahimè entrambe anche minorili, o che supportano l’acquisto online di beni e servizi per maggiorenni, ad esempio, i costosissimi oggetti status symbol; di siti che promuovono il gioco d’azzardo e le scommesse online; di siti che promuovono la vendita di armi o forniscono informazioni su come fabbricarle; di siti che mostrano varie forme di violenza gratuita, insistita o efferata, di lesioni personali, di atti autolesivi e perfino di suicidio; di siti che supportano l’odio e la discriminazione verso qualsiasi individuo o gruppo; di siti che promuovono l’anoressia, la bulimia, l’uso di droghe, alcol o tabacco; di siti che forniscono strumenti e modalità per rendere l’attività online non tracciabile; di siti che supportano le sette promotrici di metodi, istruzioni o altre risorse per influire su eventi reali con incantesimi, maledizioni, poteri magici o esseri soprannaturali; e così via.

Attuare un’intensa funzione di censura può sembrare difficile in una società che vuole essere democraticamente partecipata, che non vuole – giustamente – essere intrusiva nell’autonomia privata e che ritiene essenziale essere rispettosa della singola persona e del suo nucleo familiare, ma qualcosa bisogna pur fare, anzi sacrificare; e, possibilmente, farlo nelle forme che sappiano coniugare rispetto e autonomia della persona, ovverosia farlo nel modo migliore di cui “può godere” un pregiatissimo Stato di diritto. Senza correre il rischio di imitare altri contesti politici, come Stati con un regime totalitario in cui molte forme di trasmissione culturale sono estremamente censurate (editoria, stampa, radio, tv, Internet) e molte applicazioni ideate nell’era digitale sono addirittura inesistenti, perché si ritengono Stati non “(in)globalizzati”, dove la società, gerarchizzata e paternalistica, individua e contiene le situazioni di rischio attraverso un inaccettabile Stato di polizia.

E non è un caso che la Dottrina si schieri spesso a favore delle misure preventive, infatti: «Solo una seria attività di prevenzione consente in realtà una effettiva tutela dei diritti dato che l’azione riparativa [ex post facto] – spesso tardiva anche se egualmente doverosa – ha una ridotta efficacia nell’armonico sviluppo di personalità e presenta comunque margini molto maggiori di insuccesso[61]».

Cos’altro fare? Sarebbe più che doveroso che si programmassero maggiori e migliori interventi di osservazione, educazione e assistenza, coinvolgendo possibilmente sempre più operatori impiegati nelle professioni d’aiuto, ognuno con la propria specializzazione, ad esempio, di tipo pedagogico, sociologico, psicologico, assistenziale, criminologico o vittimologico, con l’obiettivo finale di educare e aiutare le nuove generazioni ad affrontare e superare tutte quelle situazioni rischiose, comprese le nuove dipendenza comportamentali, che possano far scaturire qualsiasi forma di devianza, compresa la nuova devianza tecnologica. Ragion per qui, nell’ottica di una strategia preventiva, andrebbero rivisitati orientamenti pedagogici consolidati da tempo, per poter adottare nuovi stili educativi e di relazione. In modo particolare, gli adolescenti dovrebbero essere abituati allo sforzo e al raggiungimento di traguardi con l’impegno e la responsabilità per assaporare, attraverso il modello di chi li sta più vicino (genitori, insegnanti, adulti di riferimento e operatori d’aiuto), quanto sia duro, ma affascinante, diventale adulti.

Ma, per una possibile conquista di tale obiettivo, il modus operandi – se così si può dire – più congeniale dovrebbe essere impostato sul concetto di empatia: quindi, allenare gli adolescenti a comprendere o meglio a sentire quelle emozioni che pongono chi le prova in continua relazione con l’Altro. A riguardo, esperti di psicologia e psicoterapia scrivono: «Riconoscere, individuare e gestire le varie emozioni è dunque condizione di profonda umanità, foriera di buon adattamento, di benessere, di autonomia e di intraprendenza». Per meglio intendersi, «le esperienze di sintonizzazione emotiva», in poche parole, avvengono quando «io sento che tu senti quel che io sento[62]».

Tuttavia, «l’intera nostra società – scrivono gli esperti – è paradossalmente attrezzata e costruita per non far crescere bene le giovani generazioni. L’invito all’eccesso favorisce la dipendenza, non permettendo all’emotività e all’empatia di esprimersi. L’analfabetismo emotivo può lasciare spazio solamente all’eccesso, al piacere e alla dismisura: a una cultura della performance che inesorabilmente restringe i limiti dell’essere e dell’espressione della soggettività. Per limitare un piacere non esiste alcuna campagna informativa in grado di dissuadere: occorre solamente un piacere più grande[63]».

Ma non è tutto, «occorre inoltre smontare, almeno un po', l’architettura seduttiva di quella parte di società che vede i giovani solamente come voraci agenti di consumo, aiutando invece i ragazzi a emanciparsi da tutte le inutili, costose, effimere e rischiose “stampelle” promosse dalla cultura dominante. Gli oggetti della dipendenza (le droghe, l’alcol, Internet, ma anche tanti altri “normali” beni materiali) sono “stampelle" la cui funzione è proteggere dall’angoscia. Devono pertanto essere sempre presenti e disponibili, ma a esse è preclusa ogni possibilità di venire interiorizzate: rimangono in superfice, tendono a dissolversi, in quanto producono solamente sensazioni, mai emozioni. Per tale motivo ai più rimane difficile separarsene, dovendo continuamente rinnovare l’utilizzo (dipendenza), pena l’angoscia (astinenza): meglio allora restare ancorati allo sballo delle sensazioni forti e dell’eccesso immediato piuttosto che aspettare l’onda lunga delle emozioni[64]».

In considerazione di ciò, vi è quindi il bisogno di rilanciare al più presto, in famiglia, nella scuola, nei centri sportivi, negli oratori, nelle strade e in tutti i luoghi di aggregazione giovanile, il concetto di empatia, semplicemente, «per non farli diventare schiavi per il resto della loro vita, per non farli sostare ai margini dell’esistenza, per far loro sentire l’entusiasmante pulsare delle nostre droghe interne. Occorre a noi adulti il coraggio per invertire la rotta e convincere i nostri ragazzi di quanto sia affascinante diventare grandi[65]».

E, possibilmente, questo compito deve essere affidato a professionisti con un livello ottimale di empatia: saper ascoltare l’Altro, comprendendo in modo assoluto i sui pensieri e le sue emozioni, e saper entrare nel mondo dell’Altro, penetrando in maniera profonda la sua anima. Solo così si può evitare di incorrere nella malaugurata ipotesi di dover costatare a fatti già compiuti – per ribadire solo un esempio – che «i servizi sociali […] e le scuole […] sono stati strumenti istituzionali che non hanno funzionato, come avrebbero dovuto, come luoghi di controllo, di formazione, di ascolto, di emersione di un disagio adolescenziale profondo e ben visibile che aspettava solo di essere colto da adulti adeguati, capaci e solo minimamente attenti» (per dirla con la giudice Di Nicola).

Forse, una chiave di volta è possibile intravederla nel monito rivolto agli operatori nelle professioni d’aiuto da parte dello psicoanalista Baldini (membro ordinario della Società Psicoanalitica Italiana e presidente del portale Psicoanalisi e Sociale), il quale, nelle pagine conclusive di Ragazzi ‘al limite’, preferisce dare la parola, a titolo esemplificativo, proprio a un giovane adulto con un passato di adolescente borderline, da lui stesso preso in cura; un ragazzo che, dopo anni di lavoro insieme, di sua crescita e di conoscenza della propria condizione (dire deviante sarebbe un eufemismo), gli ha testimoniato qualcosa che fondamentalmente racchiude il pensiero espresso da molti come lui: «Come mi posso salvare se chi mi aiuta non crede nel fatto che io mi posso salvare? Se non usa per me quella cosa che tu mi hai aiutato a conoscere: la “riparazione”… cioè che a tutto si può porre rimedio, e quell’altra cosa che chiami “speranza” e che mi dici che sono fondamentali per tutti? Perché non possono esserlo anche per me? Perché non ne ho diritto? Come mi posso salvare se chi mi aiuta non crede in me, se non mi dà più una possibilità, se non si rende conto del cammino che ho fatto perché non sa da dove provengo? Non sa fino in fondo del mio orrore, del cammino che ho fatto e giudica i progressi senza sapere del grosso lavoro mio? Io so che sono fragile ma ce la metto tutta per riuscire, questo per me ha senso… ma per loro?[66]».

Infine, con il più doveroso impegno di manifestare la giusta empatia per i minori e per i giovani adulti – sempre di entrambi i sessi – vittime di faccende criminali, come quelle qui esposte e analizzate o appena accennate, sarebbe più che legittimo se ogni singolo comportamento deviante, ognuno condizionato da diversi fattori causali di natura affettivo-relazionale, sociale, culturale e/o psico-cognitivo, fosse collegato, in buona parte, alla “culpa” dello Stato, per via delle sue lontananze e assenze.

Sì, proprio allo Stato, che, per sano principio costituzionale, considera personale la responsabilità penale, andrebbe riconosciuta una buona parte di colpa nell’aver contribuito a generare ragazzi disagiati, che assumono comportamenti devianti, perché senza guida e senza speranza, perché cresciuti non propriamente ben educati, perché educati fin da bambini principalmente al consumo. Tant’è vero che, da diversi anni, si convive con uno Stato che oramai si occupa più dei propri scandali e dei contrasti politici al solo fine di succedersi nei governi, piuttosto che rimuovere realmente le cause delle (iper)tensioni sociali e curare in modo prioritario la “salute” dei suoi giovani “figli”.

Ebbene, sono tutte queste le cause o meglio le moderne criticità che favoriscono l’uscita dai confini della morale, dell’etica o del civilmente corretto al punto da trasformarsi in un vero e proprio comportamento deviante, che, a sua volta, qualora sopraggiunga un reato, molto probabilmente, quel comportamento ne assumerà un ruolo. Ragion per cui, la circostanza di subire determinati condizionamenti, e quindi andare alla ricerca di specifici fattori causali, rappresenta ciò che si vuole far rientrare nel concetto di vittimogenesi; come pure la circostanza di assumere un determinato comportamento, e quindi andare alla ricerca di uno specifico ruolo nel reato, rappresenta ciò che si vuole far rientrare nel concetto di vittimodinamica.

E, in aggiunta, sia i collegamenti al concetto di devianza e alle sue origini multiforme, sia l’analisi vittimologica sul ruolo nel reato e sui fattori causali, contribuiscono non solo a individuare specifiche spiegazioni alla base del comportamento deviante ma a qualificare in più le vittime delle diverse faccende criminali, in questione, come vittime partecipi.

Un’ultima riflessione andrebbe fatta sul concetto di «motivo a delinquere» o cd. movente ex art. 133, secondo comma, n.1, c.p., che, nella dottrina penalistica, viene definito come «la causa psichica, lo stimolo che induce l’individuo a delinquere: nel linguaggio della psicologia, si tratta di un’inclinazione affettiva, e cioè di un sentimento, un impulso o un istinto (ad esempio, gelosia, vendetta, cupidigia, paura, brama sessuale, ecc.)[67]». In più, si insegna che «il motivo [= movente] si distingue dallo scopo: mentre quest’ultimo costituisce l’obiettivo dell’azione [o del comportamento], il primo rappresenta la molla, l’impulso che spinge psicologicamente ad agire[68]».

In questo lavoro, il cd. movente – si badi – viene interpretato e “riadattato” sulla base del comportamento deviante, in generale, della vittima partecipe di reato. Dunque, in considerazione di ciò, se lo scopo è quello di possedere prodotti griffati status symbol per niente a buon mercato oppure di perseguire a qualunque costo posizioni socio-economiche tanto effimere, allora il “movente” verosimilmente più dominante del comportamento deviante, della vittima partecipe di reato, è caratterizzato da un sentimento di rivendicazione sociale, una vera e propria ricerca di uno status sociale, in modo tale da poterlo definire un “movente” di natura “anticlassista”; e, per di più (grazie alla teoria dell’anomia di Merton: incongruenza tra mete culturali e mezzi legittimi), da poterlo spiegare – con queste ultime battute – come quell’antagonismo sociale che certe persone adolescenti coltivano, quotidianamente, paragonando le poche speranze per il loro futuro con le sicurezze culturali, sociali, familiari ed economiche delle loro coetanee (forse più fortunate).

 

Note e riferimenti bibliografici

[1] BANDINI T., GATTI U., GUALCO B., MALFATTI D., MARUGO M.I., VERDE A., Criminologia. Il contributo della ricerca alla conoscenza del crimine e della reazione sociale, Milano, 2004 (2^ ed.), vol. II, 509 s. Sebbene qualche autore ritenga che sia stato Mendelsohn B. (1956) a coniare il termine «vittimologia», è opinione comune che l’introduzione di tale definizione nel linguaggio scientifico sia da attribuire allo psichiatra americano Wertham F. (1949). Ibid., nt. 2.

[2] Assemblea Generale delle Nazioni Unite, Risoluzione ONU n. 40/34 del 29.11.1985.

[3] FIANDACA G., MUSCO E., Diritto penale. Parte generale, Bologna, 2010 (6^ ed.), 176: in cui si consiglia, per un approfondimento, MANTOVANI F., Il problema della criminalità, Padova, 1984, 374 ss.; GULOTTA G., La vittima, Milano, 1976; NUVOLONE P., La vittima nella genesi del delitto, in Indice penale, 1973, 640 ss. e, nella letteratura specialistica, MANNHEIM H., Trattato di criminologia comparata, Torino, 1975, vol. II, 764 ss.

[4] Per le nozioni di criminogenesi e criminodinamica, BANDINI T., GATTI U., GUALCO B., MALFATTI D., MARUGO M.I., VERDE A., Criminologia. Il contributo della ricerca alla conoscenza del crimine e della reazione sociale, Milano, 2003 (2^ ed.), vol. I, 88.

[5] MARIANI U., SCHIRALLI R., Nuovi adolescenti, nuovi disagi. Dai social network ai videogames, allo shopping compulsivo: quando l’abitudine diventa dipendenza, Milano, 2011, 18.

[6] FATTAH E.A., La victime est-elle coupable? Le rôle de la victime dans le meurtre en vue de vol, Montréal, 1971.

[7] ELLENBERGER H.F., Relation psychologiques entre le criminel et la victime, in Revue international de criminologie et de police technique, 1954, 8, 103.

[8] WOLFGANG M.E., Victim-precipitated criminal homicide, in Journal of criminal law, criminology and police science, 1957, 48, 1. I risultati della ricerca di Wolfgang dimostrano che i casi di omicidio di vittima che precipita il reato corrisponderebbero al 26% sul totale.

[9] SPARKS R.F., Research on victims of crime: accomplishments, issues and new directions, Rockville, 1982.

[10] Per la letteratura scientifica straniera al par. 2. Ruolo della vittima, BANDINI T., et al., Criminologia. Il contributo della ricerca alla conoscenza del crimine e della reazione sociale, cit., vol. II, 509 ss.

[11] MARIANI U., SCHIRALLI R., Nuovi adolescenti, nuovi disagi, cit., 134.

[12] PIGATTO A., La condizione di dipendenza patologica, in Trattato completo degli abusi e delle dipendenze, a cura di Nizzoli, Pissacroia, Padova, 2003.

[14] Ivi., 76.

[15] LELORD F., ANDRÈ C., Come gestire le personalità difficili, Roma, 1996, 17.

[16] FRENZEN G., BROUWMAN M., The Mental World of Brands: Mind, Memory and Brand Success, Trowbridge, 2001.

[17] MARIANI U., SCHIRALLI R., Nuovi adolescenti, nuovi disagi, cit., 156.

[18] WINNICOTT D.W., Oggetti transizionali e fenomeni transizionali (1951) e Gioco e realtà (1957).

[19] COUYOUMDJIAN A., BAIOCCO R., DEL MIGLIO C., Adolescenti e nuove dipendenze, cit., 76.

[20] Ivi, 120.

[21] Vd. Treccani, vocabolario online, alla voce Status symbol.

[22] COUYOUMDJIAN A., BAIOCCO R., DEL MIGLIO C., Adolescenti e nuove dipendenze, cit., 76: vd. CANTELMI T. et al, La mente in internet. Psicopatologia delle condotte on line, cit., 117.

[23] MARIANI U., SCHIRALLI R., Nuovi adolescenti, nuovi disagi, cit., 135 s.

[24] Ivi, 137.

[25] Ivi, 138.

[26] Ivi, 139.

[27] COUYOUMDJIAN A., BAIOCCO R., DEL MIGLIO C., Adolescenti e nuove dipendenze, cit., 48.

[28] CAPPELLI T. et al., Intervenire sui figli, lavorare con le famiglie, in Quaderni di Psicologia Clinica, 2019.

[29] MANCA M., Generazione hashtag. Gli adolescenti disconnessi, Roma, 2016.

[30] MANCA M., op. cit.

[31] MANCA M., op. cit.

[32] Per le statistiche dell’Osservatorio Nazionale Adolescenza, vd. Punto Famiglia.

[33] Sia concesso il riferimento, ALTAVILLA A., Delinquenza minorile e giovani camorristi. Focus sulle criticità nell’area metropolitana di Napoli, in Percorsi Penali, Bologna, n. 2, 2022.

[35] Per un approfondimento e soprattutto per alcuni consigli utili ai genitori, vd. Save the Children.

[36] In merito alla forma del delitto tentato ex art. 56 c.p., secondo gli Ermellini, nella condotta relativa al cd. blue whale, «non è configurabile il tentativo di istigazione al suicidio nel caso di invio di messaggi, pur se contenenti l’invito a compiere atti potenzialmente pregiudizievoli» (Cass. pen., n. 17/57503). Per un approfondimento, vd. Giurisprudenza Penale.

[37] SCALI M., Baby squillo: vittime innocenti?, in FocusMinori, a cura dell’Osservatorio Nazionale Abusi Psicologici (ONAP), Anno 5, n. 2, 2014 (vd. Profiling - I profili dell’abuso ONAP).

[38] MANCA M., Baby squillo, ragazze doccia, ragazze sm@rt… ecco la prostituzione minorile, in AdoleScienza Magazine, 2014 (vd. AdoleScienza).

[40] MARIANI U., SCHIRALLI R., Nuovi adolescenti, nuovi disagi, cit., 157.

[43] Per i nomi dei locali notturni, vd. Famiglia Cristiana.

[44] Per le dichiarazioni dei facoltosi clienti, vd. Osservatorio Interventi Tratta.

[45] Tribunale penale di Roma, sentenza n. 266 del 20.09.2016 (GUP dott.ssa Paola Di Nicola).

[46] Per un approfondimento sulle intercettazioni, vd. Blitz quotidiano.

[47] Per la lista dei trenta libri, vd. Diritto di famiglia e poi.

[48] HIGGINS P.C., BUTLER R., Understanding deviance, New York, 1982, 2. I tratti sono degli autori.

[49] Riguardo a Durkheim, WILLIAMS F. P., MCSHANE M. D., Devianza e criminalità, Bologna 2002, 85 s.

[50] Ivi, 89. I tratti sono degli autori.

[51] Riguardo a Merton, WILLIAMS F. P., MCSHANE M. D., Devianza e criminalità, cit., 88 ss.

[52] Per il Potere e la società dei consumi, vd. YouTube.

[53] BAUMAN Z., Consumo, dunque sono, Roma-Bari, 2008.

[54] MARIANI U., SCHIRALLI R., Nuovi adolescenti, nuovi disagi, cit., 161 s.

[55] Per un approfondimento, vd. Rai News.

[56] Per un approfondimento e aggiornamenti in articoli correlati, vd. Rai News.

[57] ORWELL G., 1984, Londra, 1949. Il corsivo non è dell’autore.

[58] WILLIAMS III F.P., MCSHANE D., Devianza e criminalità, cit., 97.

[59] MORO A.C., Manuale di diritto minorile, Bologna, 2019, 594 ss.

[61] MORO A.C., Manuale di diritto minorile, cit., 46. I tratti sono dell’autore.

[62] MARIANI U., SCHIRALLI R., Nuovi adolescenti, nuovi disagi, cit., 171 s.

[63] Ivi, 219.

[64] Ivi, 220.

[65] Ivi, 220. Per un approfondimento, MARIANI U., Educazione alle emozioni come fattore di protezione dalle dipendenze patologiche, in Atti del convegno “Dipendenze intraprendenze”, Assessorato alle Politiche Sociali, Udine, 2001; MARIANI U., SCHIRALLI R., Le emozioni che fanno crescere. Come rendere autonomi e sicuri i nostri figli, Milano, 2007 e Mio figlio mi legge nel pensiero. Realizzare la sintonia emotiva tra genitori e figli, Milano, 2009.

[66] BALDINI T., Ragazzi ‘al limite’. Seminari per conoscerli e aiutarli, Milano, 2011, 373. L’autore, già nei primi capitoli, riporta che «per comprendere le caratteristiche della sofferenza mentale di bambini e adolescenti, e i relativi meccanismi di difesa messi in atto per alleviarla, è proficuo porsi le questioni della qualità e quantità della sofferenza, della scelta dell’azione d’aiuto e del legame tra le condizioni descritte» (op. cit., 82).

[67] FIANDACA G., MUSCO E., Diritto penale. Parte generale, cit., 761.

[68] Ivi, 434. Per un approfondimento, MALINVERNI A., voce Motivi (dir. pen.), in Enc. dir., Milano, 24, 287 e Cass. pen., sent. n. 3495 del 12.01.1979.

 

Bibliografia

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