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Pubbl. Sab, 23 Gen 2016
Sottoposto a PEER REVIEW

Il bilanciamento tra il diritto alla riservatezza e attività giudiziaria

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Natale Pietrafitta


Il tema in ordine al bilanciamento tra l’esercizio dell’attività giudiziaria e l’interesse alla tutela della riservatezza ha da sempre interessato dottrina e giurisprudenza. Ciò in quanto si tratta di interessi che spesso entrano in conflitto proprio perché, essendo entrambi tutelati dal quadro delle norme costituzionali, presentano pari dignità. Lo scopo del presente saggio è dunque quello di verificare in quale ipotesi sia l’uno a prevalere in capo all’altro, e in quale ipotesi vadano garantiti contemporaneamente. Sono state, peraltro, poste in luce le numerose falle che in tale senso presenta il sistema giudiziario italiano, proponendo valide alternative di riforma.


Il bilanciamento tra il diritto alla riservatezza e attività giudiziaria

 

1.       Premessa

L’obiettivo che ci poniamo attraverso la disamina che di seguito verrà svolta è quello di analizzare l’annosa questione, più volte portata alla ribalta da parte della dottrina e della giurisprudenza, circa il bilanciamento tra l’esercizio dell’attività giudiziaria e l’interesse alla tutela della riservatezza.

Più precisamente, si tratta di interessi, che spesso entrano in conflitto proprio perché, essendo entrambi, tutelati dal quadro delle norme costituzionali, presentano pari dignità. Occorre, quindi, verificare in quale ipotesi sia l’uno a prevalere in capo all’altro, e in quale ipotesi vadano garantiti contemporaneamente; peraltro, l’esercizio dell’attività giudiziaria entra spesso in conflitto con l’interesse alla tutela del diritto alla riservatezza, non solo dei soggetti direttamente coinvolti dalla vicenda sottoposta all’attenzione dell’autorità giudiziaria – come imputati, persone offese, testimoni, periti o consulenti tecnici – ma anche di altre persone, estranee alla “contesa”[1] ed è quest’ultimo l’inconveniente principale che deve tendenzialmente essere eliminato. I soggetti estranei al giudizio, proprio in quanto tali, meriterebbero il più assoluto riserbo. Necessità, fin troppo spesso, dimenticata.

Oggigiorno, infatti, assistiamo a processi che, ancorché all’interno di aule di giustizia, trovano la loro sede sui palcoscenici mediatici. Il peso, del resto, che l’opinione pubblica ha ormai attribuito ai mass media ha fatto in modo tale che tali strumenti di comunicazione di massa, pur di conquistare l’indefettibile audience, trasmettono fiumi di informazioni, appartenenti ad individui coinvolti in determinati scenari giudiziari, spesso anche particolarmente intime, la cui rivelazione nuoce fortemente la sfera privata degli interessati. Si tratta, per lo più, di una corrente culturale che ha devastato il perfetto equilibrio che in precedenza – prima che i mass media invadessero la nostra vita – vigeva. Tale fenomeno ha così reso, ormai, inadeguate le regole processuali vigenti che, innanzi ad esso, non sono i grado di porvi un freno. Si discute, a questo punto, in che termini possano porsi in relazione l’interesse alla libera manifestazione del pensiero – ai sensi dell’art. 21 Cost. – il diritto alla riservatezza – di cui all’art. 15 Cost. – ed il libero esercizio dell’attività giudiziaria –  ex art. 104 Cost.

Come è agevole notare, allora, il quesito proposto pare piuttosto delicato. Per tale ragione, infatti, sul punto si sono confrontati numerosi autori i quali hanno proposto alternative soluzioni le quali possono, più semplicemente, essere riassunte in due correnti di pensiero: la prima, infatti, meno recente vorrebbe che una posizione gerarchicamente sovraordinata venisse assegnata al diritto della riservatezza, in quanto rientrante nell’alveo dei diritti e delle libertà fondamentali, quale baluardo intoccabile[2]. Altra impostazione, invece, vorrebbe che si esaltasse, a discapito dei rimanenti, l’equa, corretta ed imparziale amministrazione della giustizia, dinnanzi alla quale dovrebbe cedere il passo la libertà di manifestazione del pensiero[3]. A ben vedere, però, entrambe le soluzioni fornite, paiono eccessivamente drastiche e per tale ragione – a parere di chi scrive – non sembra potersi accogliere né l’una e né l’altra. Piuttosto, sembra maggiormente corretto non parlare di prevalenza, in alcuna delle ipotesi sopra delineate. Sembra, allora, più conforme ai principi generali dell’ordinamento, parlare di concorso di interessi i quali nel corso del processo devono altalenarsi assumendo, in tal modo, a seconda dei casi, funzione sussidiaria l’uno rispetto all’altro. È da notarsi, infatti, che, in relazione alle alternative fasi processuali, vi siano interessi che talvolta possono soccombere dinnanzi ad altri e viceversa. Nell’ipotesi infatti in cui, ad esempio, la polizia giudiziaria debba eseguire un’ordinanza di custodia cautelare è chiaro che il diritto di cui all’art. 21 Cost. non possa trovare alcuna allocazione, ma ben potrà riespandersi allorché questa sia eseguita e il soggetto sia sottoposto in clavis. Così, altrettanto, ove la risonanza mediatica lo imponga, non potrebbe farsi a meno di svolgere le riprese visive dell’udienza in corso, pur a scapito di rivelare, alla collettività, le generalità dell’imputato e ciò in quanto, ove quest’ultimo non si mostri in disaccordo, ben si ritiene possibile che l’opinione pubblica – in special modo in ordine a giudizi che interessano la sicurezza pubblica o comunque l’ordine sociale – venga messa al corrente dell’andamento dibattimentale. In altre occasioni, piuttosto, è accaduto che l’udienza – generalmente pubblica – si sia svolta “a porte chiuse” e ciò in quanto il legislatore – seppur in limitatissime ipotesi – abbia predisposto formule atte a tutelare la riservatezza degli individui coinvolti nello scenario giudiziario allorché debba procedersi all’assunzione di prove che possano causare un pregiudizio alla riservatezza dei testimoni, ovvero delle parti private in ordine a fatti che non costituiscono oggetto dell’imputazione[4]. Ed ancora, come non ricordare la disciplina vigente all’interno del codice di procedura penale volto a disciplinare il regime di pubblicità degli atti distinguendolo a seconda della fase procedimentale alla quale essi si riferiscono rappresenta sicuramente uno dei criteri operanti già nella disciplina vigente[5].

Si tratta però di ipotesi piuttosto limitate le quali non riescono ancora pienamente a garantire il corretto bilanciamento di cui s’è fin qui detto. Ciononostante, la realizzazione di un congruo impianto normativo atto a garantire il succitato bilanciamento, però, a parere dello scrivente, non sembra un’impresa ciclopica. Purché si rinvengano criteri guida idonei a segnare delle possibili linee di intervento, tenendo bene presente che, ad ogni modo, la Repubblica Italiana è fondata su principi di natura democratica, sicché inevitabilmente in taluni contesti uno degli interessi in gioco prevarrà sugli atri, ma non per questo potrà dirsi irrealizzabile un bilanciamento fra i detti interessi. Sarà, comunque, compito del legislatore prevedere norme che garantiscano, da un lato il diritto della collettività ad una corretta informazione – che contemporaneamente tuteli la riservatezza dei protagonisti di tale informazione - e, dall’altro, il diritto della stessa collettività a che la corretta amministrazione della giustizia non sia messa a repentaglio[6]. Affidando al giudice, in caso di conflitto, il compito di eliminare eventuali punti di frizione[7] che naturalmente possono emergere, pur a fronte di un completo e congruo quadro normativo.

 

2.       Analisi delle questioni fondamentali

 

Iniziando, così, a tratteggiare gli aspetti più delicati della questione ci accorgiamo che primo fra tutti merita attenzione il cd. “segreto investigativo”. Preliminarmente, allora, è bene chiarire che a norma dell’art. 239 c.p.p., gli atti di indagine sono coperti dal cd. segreto istruttorio fino a quando l’imputato non ne possa avere conoscenza – a seguito, ad esempio, dell’avviso di garanzia – e comunque non oltre la chiusura delle indagini preliminari, a meno che il pubblico ministero non consenta la loro pubblicazione prima di tale termine, ove necessario allo svolgimento delle indagini. Il pubblico ministero, altresì, può disporre la segretazione dell’iscrizione sul registro delle notizie di reato per un massimo di tre mesi, il quale, di norma, è pubblico. Il pubblico ministero, infine, può vietare, a coloro i quali siano stati sentiti a sommarie informazioni, per un periodo massimo di due mesi, di comunicare i fatti e le circostanze oggetto dell’indagine. Infine, il codice di rito prescrive che gli atti investigativi coperti dal segreto non possono essere oggetto di alcuna pubblicazione[8]. La ratio fondante questo complesso normativo giace sulla circostanza per cui risulta assolutamente degno di tutela il giudice del dibattimento da un possibile condizionamento che potrebbe derivargli a seguito della cognizione di notizie di stampa, posto che quest’ultimo deve necessariamente operare in mens verginis, inconsapevole del contenuto e degli atti investigativi[9]. A prescindere, comunque, da ogni obbligo di segretazione questo decade con la chiusura delle indagini preliminari. Sul punto è stato evidenziato che pur ammettendo l’effettività delle norme in esame, circa la segretezza degli atti investigativi, al fine di preservare la purezza della decisione dibattimentale, non è comunque revocabile in dubbio che l’interesse a preservare la riservatezza sia estraneo, o comunque eventuale e indiretto, fine della disciplina processualistica[10].

L’esigenza di mantenere il segreto durante lo svolgimento delle indagini preliminari, al fine di tutelare il buon esito delle stesse, infatti,  talvolta confligge con l’interesse pubblico di conoscenza, nel  momento in cui gli indagati siano persone note o i fatti su cui si indaga abbiano rilevanza sociale. La dottrina, allora, pare concorde nel ritenere che l’esigenza di mantenere segreti gli atti di indagine, connessa all’esigenza di dover svolgere le medesime nel modo più efficace abbia spinto il legislatore non occuparsi approfonditamente dell’esigenza del diritto alla riservatezza dell’indagato, facendo sì che notizie, indebitamente rivelate dai mezzi di comunicazione di massa, possano pregiudicarne il buon esito[11]. Il nostro impianto normativo, infatti, non prevede alcuna disciplina sanzionatoria applicabile, ad esempio, ai soggetti, orbitanti attorno agli uffici preposti allo svolgimento delle indagini, qualora si soffermino a fornire informazioni riservate agli esponenti della stampa onde attenuare rischiosissime fughe di importanti informazioni. L’attuale disciplina codicistica, infatti, presenta forti limiti in tale senso, nonostante le riforme introdotte di recente di cui si dirà più approfonditamente in seguito. Il legislatore si è, piuttosto, principalmente premurato di evitare che l’indagato venisse a conoscenza di talune informazioni che, altrimenti, rischierebbero di pregiudicare il buon esito delle medesime, e si è limitatamente preoccupato di porre un freno alla dilagante fuoriuscita di informazioni private dell’indagato stesso, idonee a ledere il diritto alla riservatezza di quest’ultimo[12].

Oggi, però, la Suprema Corte di Cassazione ha invertito la rotta, delineata ab origine dal legislatore, e con  uno spirito più garantista, specialmente in ordine alle intercettazioni funzionali all'adozione di ordinanza di custodia cautelare, ha consentito al difensore di presentare l’istanza di accesso, alle registrazioni di conversazioni o comunicazioni intercettate e sommariamente trascritte dalla polizia giudiziaria nei c.d. brogliacci di ascolto, prima del loro deposito ai sensi del quarto comma dell'art. 268 cod. proc. pen. determinando, in tal modo, l'obbligo per il pubblico ministero di provvedere in tempo utile a consentire l'esercizio del diritto di difesa nel procedimento incidentale "de libertate", il cui inadempimento può dar luogo a responsabilità disciplinare o penale del magistrato del Pubblico ministero. In tal modo, l’indagato, venendo preventivamente a conoscenza del contenuto delle intercettazioni può, non solo predisporre adeguatamente e di concerto col difensore la propria difesa, ma eventualmente chiedere che – qualora vi siano informazioni estranee alle indagini, afferenti alla propria sfera privata - queste vengano debitamente espunte, così, quantomeno, ponendo un freno – seppur limitatamente – ad eventuali dilapidazioni del proprio diritto alla riservatezza, specialmente in ordine a circostanze non afferenti alle attività di indagine. In motivazione, infine, la Corte ha precisato inoltre che, al fine di porre il pubblico ministero in grado di adempiere tale obbligo, è del pari necessario che la richiesta del difensore venga tempestivamente proposta rispetto alle cadenze temporali indicate dalle norme processuali[13].

La seconda questione delicata, poi, riguarda la fase processuale: l’interesse pubblico a conoscere lo svolgimento dei processi, infatti, può spesso trovarsi in contrasto con l’esigenza della collettività di un loro corretto ed efficace svolgimento, senza pregiudizio per la riservatezza e la reputazione alle parti coinvolte e, soprattutto, senza che il giudice subisca indebite influenze mediatiche che possano comprometterne la capacità di giudizio. Poiché, a norma dell’art. 101 Cost., la giustizia è amministrata in nome del popolo, in linea di principio le udienze sono pubbliche e possono assistervi tutti i maggiorenni. Tuttavia, gli artt. 471 e 473 c.p.p. prevedono talune ipotesi in cui, per la tutela di specifiche esigenze, l’intero processo o alcuni atti processuali – come ad esempio l’assunzione di prove – debbano svolgersi “a porte chiuse”, cioè con la sola presenza delle persone che abbiano il diritto o il dovere di intervenire: giudice, pubblico ministero, periti, imputati, testimoni e parti civili. Ciò, peraltro, avviene solo quando lo disponga il giudice – ove la pubblicità possa nuocere al buon costume, o compromettere il segreto di stato, o pregiudicare la riservatezza dei testimoni, o delle parti private o nuocere alla pubblica igiene, o compromettere il regolare svolgimento delle udienze, o nuocere alla sicurezza di imputati e testimoni; oppure quando l’imputato o la persona offesa siano minorenni[14]. La pubblicità del dibattimento, infatti, è coessenziale ai principi propri di un ordinamento costituzionale, basato sulla sovranità popolare e ad essa si può derogare solo a garanzia di altri beni giuridici di pari rilevanza costituzionale. La celebrazione “a porte chiuse” implica il divieto assoluto di realizzare riprese audiovisive o fotografiche di quanto avviene in aula, sebbene la Corte Costituzionale, con sentenza n. 25 del 1964, abbia ritenuto irragionevole l’applicazione del divieto assoluto di effettuare riprese visive dei dibattimenti “a porte chiuse” nelle ipotesi in cui l’esclusione della presenza in aula di soggetti estranei sia dettata da esigenze avulse dalla garanzia di una corretta amministrazione della giustizia, come per ragioni di pubblica igiene, pericolo di diffusione di orbi epidemici o altre malattie contagiose e rischio di eccitare riprovevole curiosità nel pubblico[15]. In effetti, si tratta di ipotesi in cui l’esclusione del pubblico è dettata da esigenze di prevenzione infettiva che nulla hanno a che vedere con esigenze di tutela della riservatezza dei soggetti coinvolti, dunque, si rende ingiustificata l’assenza delle riprese visive in tali ipotesi.

All’infuori dei casi in cui la legge prescrive l’obbligo dello svolgimento “a porte chiuse”, la presenza di mezzi di riproduzione audiovisivi in aula e la trasmissione radiofonica e televisiva del dibattimento è subordinata ad un’ordinanza del giudice che autorizzi le riprese in tutto o in parte, se ritiene che ciò non rechi pregiudizio al sereno e regolare svolgimento dell’udienza o alla decisone, purché le parti interessate prestino consenso alle riprese; l’autorizzazione può essere data anche senza il consenso alle registrazioni; può, inoltre, essere data, anche senza il consenso delle parti, quando sussiste un interesse sociale particolarmente rilevante alla conoscenza del dibattimento, purché non vengano riprese o trasmesse le immagini dei soggetti che non hanno prestato il consenso. Da ciò ne deriva, dunque, che tutti coloro i quali vi partecipano possano apprendere una indeterminata quantità di informazioni, talvolta anche non aderenti all’oggetto stesso del giudizio. Possibilmente, circostanze afferenti alla vita intima degli imputati, episodi irrilevanti ma che, nella furia narrante dei testimoni, vengono posti in luce. Gli organi di stampa, dunque, che vi partecipano, col precipuo intento di imboccare il pubblico di notizie curiose ma che nulla hanno a che vedere con l’interesse sociale della notizia – eccezion fatta per casi bene determinati – danno voce ad aneddoti, talvolta anche intimi, facenti parte della vita provata degli imputati stessi così da non perseguire più l’interesse sociale cui è tesa la pubblicità dell’udienza, ma piuttosto onde soddisfare esigenze commerciali pur al costo di ledere il diritto alla riservatezza degli interessati. A parere di chi scrive, quindi, si appalesa come necessario un intervento normativo che consenta, ad organi preposti, il vaglio delle informazioni che gli organi di stampa trasmettono al pubblico, scremando quelle notizie nei cui confronti la collettività non nutre un particolare interesse sociale.

 

3.       Prospettive di riforma e novelle legislative

La disciplina, allora, fin qui esaminata, ci mostra comunque che il legislatore si sia curato maggiormente della fase dibattimentale ove, indirettamente, è tutelato, anche se limitatamente, l’interesse alla riservatezza dell’imputato. Ad ogni modo, a parere di chi scrive, tale palesata tutela – fuori dall’essere stata predisposta al solo fine di garantire la riservatezza dell’imputato – sembra più correttamente votata tutela, preliminarmente, dell’equa e corretta amministrazione della giustizia. La fase procedimentale, cioè quella attinente alle indagini, invece, presenta una normativa più scarna e per tale ragione dunque pare necessario un intervento normativo diretto alla modifica dell’art. 329 c.p.p. ampliando l’area del segreto a tutti gli atti delle indagini preliminari, senza alcuna limitazione, sino alla loro chiusura e dunque indipendentemente dalla conoscenza che ne abbia avuto l’indagato. Perché in fondo lo scenario processuale non è un affare da poco e del tema dovrebbero occuparsi soltanto tecnici del diritto – quali difensori e magistrati - e non giornalisti che, strumentalizzando la loro professione, fuorviano l’opinione pubblica rischiando, talvolta, di celebrare veri e propri processi in sedi non opportune. L’art. 329 c.p.p., peralro, dovrebbe involgere anche “atti presupposti” – quali l’iscrizione della notizia di reato nell’omonimo registro e l’avviso di garanzia – i quali, a stretto rigore, non sono qualificabili come atti di indagine, ma che una loro pubblicizzazione rischia il più delle volte di creare effetti stigmatizzanti in capo ai destinatari[16]. In ultimo, appare funzionale in questa prospettiva anche una modifica, quantomeno nel senso cui si rivolge l’art. 326 c.p., della forbice edittale presente al primo comma dell’art. 684 c.p. la quale, ormai obsoleta, presenta una risibile sanzione contravvenzionale inidonea al raggiungimento del fine di prevenzione generale.

In effetti, accogliendo le esigenze di quanto auspicato, si è ricevuto in passato un forte riconoscimento da parte dell’esecutivo, tanto è vero che i precedenti Governi, con i disegni di legge n. 1512 del 2007 e n. 1415 del 2008, avevano tentato di limitare la pubblicazione di atti relativi alle indagini preliminari. In particolare, il disegno di legge del 2008 – definito come legge bavaglio -  in origine vietava la pubblicazione, in modo assoluto, anche parziale o per riassunto di tutti gli atti di indagine – e in particolar modo delle intercettazioni – anche nei casi in cui detti atti non fossero più coperti dal segreto istruttorio, fino alla definitiva conclusione delle indagini preliminari o dell’udienza preliminare[17]. È davvero pregevole l’operato dell’esecutivo durante la sedicesima legislatura il quale, comprendendo le necessarie esigenze, aveva proposto un taglio netto alla curiosità di giornalisti e conduttori televisivi affamati di audience, vietando ogni forma di pubblicazione. In realtà non si sarebbe trattato di alcun bavaglio, così come si è voluto far credere, in quanto la pubblicazione sarebbe potuta avvenire ma solo dopo la conclusione delle indagini preliminari, evitando che il processo si svolgesse prima all’interno di un palazzo di giustizia e poi all’interno, eventualmente, di un set televisivo o di una testata giornalistica. Per placare, allora, le aspre critiche che ingiustamente la proposta si è tirata addosso, le Camere, in seno ad una delle ultime discussioni, sembravano orientate verso un ammorbidimento del sistema consentendo, quantomeno, la pubblicazione, in forma riassuntiva, del contenuto degli atti non più coperti dal segreto – almeno in riferimento agli atti diversi dalle intercettazioni – anche prima della conclusione delle indagini. Assolutamente inaccettabile. L’approvazione del disegno di legge – il quale attualmente si trova ancora “parcheggiato” presso la camera dei deputati – avrebbe comportato, ove fosse stato trasformato in legge, un notevole aggravamento delle sanzioni applicabili in caso di pubblicazione arbitraria di atti di indagine.

Fallito il tentativo di dar vita alla c.d. “legge bavaglio” è stato, allora, previsto un nuovo art. 617 septies c.p., secondo cui chiunque, mediante modalità o attività illecita, prenda diretta cognizione di atti del procedimento penale coperti dal segreto è punito con la pena della reclusione da uno a tre anni. La pena, per chi riveli notizie segrete, concernenti un procedimento penale, apprese in ragione del proprio ufficio o servizio svolto nel procedimento penale, è aggravata, non più fino a un anno, ma fino a cinque anni di reclusione e la medesima pena si applicherebbe anche a chi semplicemente agevoli la conoscenza di tali atti. Più lievemente verrebbe, poi, punito chi pubblichi in tutto o in parte, anche per riassunto, atti o documenti di un procedimento penale di cui è vietata per legge la pubblicazione venendo così confermata l’attuale pena dell’arresto fino a trenta giorni, ma l’ammenda sarebbe sensibilmente aumentata da mille a cinquemila euro in caso di atti diversi dalle intercettazioni e da duemila a diecimila euro in caso di pubblicazione arbitraria di intercettazioni. Ciò, nell’intenzione del legislatore, allora dovrebbe scoraggiare comportamenti troppo disinvolti da parte degli operatori dell’informazione in un’ottica di prevenzione generale. Nel caso in cui la pubblicazione arbitraria, poi, riguardi le intercettazioni, la pena pecuniaria sarebbe aumentata e quella della reclusione arriverebbe fino a tre anni. La pena per chi pubblichi il contenuto di intercettazioni di cui il giudice abbia ordinato la distruzione - perché acquisite illecitamente o non inerenti il reato per cui si procede - sarebbe assai grave prevedendosi così la reclusione da sei mesi a tre anni. Un ulteriore deterrente, in ultimo, sarebbe costituito dall’attribuzione di responsabilità amministrativa all’ente presso cui presta servizio l’autore della violazione come ad esempio la testata giornalistica, con condanna al pagamento di ingenti sanzioni[18]. A ben vedere, però, si tratta di un impianto normativo piuttosto scarno in quanto nonostante l’odierna previsione vieti la pubblicazione di attività di indagine coperte da segreto, nulla vieta che – quando opportunamente sarà possibile – i medesimi atti giungano a pubblicazioni indiscriminate, sebbene narrino di accadimenti lontani dall’interesse pubblico.

Più correttamente, invece, a parere dello scrivente, occorrerebbe prevedere procedure di controllo del contenuto delle pubblicazioni, modalità di snellimento delle informazioni, onde garantire che la vita privata di un qualsiasi individuo – sia pure un recidivo reiterato – non venga urlata al vento. Si valuti, infatti, l’ipotesi in cui – sia pure a seguito del venir meno dell’obbligo di segretezza – un individuo, oltrepassati i due gradi di merito, venga assolto. Nel frangente, peraltro, è pur possibile che siano state svolte, a suo carico, intercettazioni telefoniche, nel corso delle quali egli abbia colloquiato con i propri interlocutori circa proprie questioni di natura personale, sentimentale, fisiologica. Chiaramente, non pare conforme a giustizia che tali informazioni, essendo avulse dalla scena del crimine, possano essere oggetto di pubblicazione, sol perché facciano notizia. Ecco, allora, che in queste poche righe si nota l’assoluta vacanza normativa e assenza di tutela in tal senso. Chiaramente, ad ogni modo – ove la pubblicazione raggiunga determinati standards ­- è pur possibile che il giornalista venga ritenuto responsabile per uno dei reati posti a presidio dell’onore, della reputazione e del decoro, ma non di rado accade che talune pubblicazioni, seppur lesive del diritto to let be alone, non siano ritenute tali da integrare alcuna delle fattispecie da ultimo menzionate, sicché l’imputato, benché ormai assolto, frantumato nella propria personalità, non avrà strumenti, almeno di natura penalistica, per potersi difendere nelle opportune sedi giudiziarie. Spesso, invero, fluttuano dal mero contesto giudiziario circostanze estranee all’accertamento di fatti penalmente rilevanti a carico dell’indagato e relative, invece, ai più diversi aspetti della sua vita privata e di relazione, con l’inevitabile coinvolgimento, peraltro, di altre persone e delle rispettive sfere di riservatezza, che si trovano esposte ad un’aggressione particolarmente insidiosa[19]. Discutendo, infine, pur sempre in ottica de iure condendo, parrebbe idea perseguibile, altresì, quantomeno con riguardo alle c.d. intercettazioni irrilevanti, quella di ipotizzare la realizzazione di uno statuto differenziato, che, pur sempre nel rispetto del canone della sussidiarietà, predisponga, per queste ipotesi, strumenti di tutela rafforzata, eventualmente penale, dell’interesse alla riservatezza[20].



[1] F. Mantovani, Diritto alla riservatezza e libertà di manifestazione del pensiero, con riguardo alla pubblicità di fatti criminosi, in Diritto alla riservatezza e sua tutela penale, Giuffrè, Milano, 1970, p. 386 ss.

[2] G. Giostra, Processo penale e informazione, II ed, Giuffrè, Milano, 1989, p. 300 ss e 331 ss.

[3] M. Romana Allegri, Informazione e comunicazione nell'ordinamento giuridico italiano, Giappichelli Editore, Torino, 2012, p. 29.

[4]S. Moccia, La perenne emergenza, Tendenze autoritarie nel sistema penale, II ed., Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1997, p. 166.

[5] A. Bevere – A. Cerri, Il diritto di informazione e i diritti della persona, Giuffrè, Milano, 1995, p. 49 – 53 e 136 – 143.

[6] La Corte Cost. nella sentenza n. 18 del 1991 ha ribadito che la disciplina dei rapporti tra giustizia e informazione non può che essere in via di principio rimessa alla discrezionalità del legislatore, al quale spetta individuare la soluzione più idonea a contemperare interessi attinenti all’attività istruttoria da un lato e all’informazione dall’altro, entrambi aventi rilievo costituzionale.

[7] M. Romana Allegri, Informazione e comunicazione, cit., p. 30.

[8] M. Romana Allegri, informazione e comunicazione cit., p. 31

[9] La Corte Cost., nella sentenza n. 18 del 1996, ha sottolineato come la previsione del segreto investigativo e il conseguente divieto di pubblicazione degli atti coperti dal segreto sia funzionale ad assicurare la serenità e l’indipendenza del giudice, proteggendolo da ogni ingerenza esterna di stampa,che possa pregiudicare l’indirizzo delle indagini e le prime valutazioni delle risultanze, ed assicurare altresì la libertà del giudice vietando quei comportamenti estranei che possano ostacolare la formazione del libero convincimento e a tutelare, nella fase istruttoria, la dignità e la reputazione di tutti coloro che, sotto differenti vesti partecipano al processo.

[10] G. Giostra, Processo penale e informazione, Giuffrè, Milano, II ed, 1989, p. 300 ss e 331 ss.

[11] M. Romana Allegri, Informazione e comunicazione, cit., p. 30.

[12] O. Mazza, Il giusto processo tutela anche la riservatezza, in Dir. Pen. e Proc., 1997, p. 1040.

[13] Cass. Sez. un.., 27 Maggio 2010, n. 20300, in www.italgiure.it.

[14] La Corte Cost. nella sentenza n. 16 del 1981 ha precisato che tale deroga alla pubblicità del dibattimento costituisce un mezzo per il conseguimento di un’alta finalità di tutela dei minori, ai quali la pubblicità dei fatti della causa può apportare conseguenze gravi sia allo sviluppo spirituale, sia alla vita materiale, conseguenze che hanno rilevanza costituzionale ai termini dell’art. 31 comma 2 Cost., che prevede la tutela dei minori, intesa in correlazione con il principio fondamentale dell’art. 2 Cost., per gli effetti che la diffusione di fatti emersi nel dibattimento può provocare sulla formazione sociale ove si svolge o potrà svolgersi la personalità del minore.

[15] M. Romana Allegri, Informazione e comunicazione, cit., p. 32.

[16] F. Bricola, Tutela penale della Pubblica Amministrazione e principi costituzionali, in Temi, 1968, p. 363.

[17] M. Romana Allegri, Informazione e comunicazione, cit., p. 32.

[18] M. Romana Allegri, Informazione e comunicazione, cit., p. 35.

[19] A. Cesari, Privacy, diritto di cronaca, intercettazioni: la ricerca di nuovi equilibri nelle proposte all’esame del Parlamento, in Dir. pen. proc., 1997, p. 1280.

[20] A. Cesari, Privacy, diritto di cronaca, intercettazioni, cit., p. 1280.