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Pubbl. Lun, 8 Lug 2024

Commento a “Il problema della prova nei processi di criminalità organizzata: prospettive di riforma” di Andrea Antonio Dalia

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Rossella Esposito
Praticante AvvocatoUniversità degli Studi di Salerno



Il ”Progetto Prof. A. A. Dalia” ha lo scopo di rendere omaggio ad un grande Maestro del diritto attraverso brevi commenti, dal carattere divulgativo, relativi ai più svariati temi che interessano il diritto processuale penale. L´obiettivo è quello di restituire attualità al suo pensiero, attraverso l´analisi di relazioni rese in occasione di lezioni, convegni e congressi. Una vera sfida, oltre che una rara occasione di confronto, per chi, ancora tra i banchi delle aule universitarie, sta per affacciarsi al mondo delle professioni legali.


Convegno su

“Il problema della prova nei processi di criminalità organizzata: prospettive di riforma”

Favinara [Trapani], 27 settembre 1997

di

Prof. Andrea Antonio Dalia

1. Un equilibrio accettabile tra "garanzia" ed "efficacia" dell'accertamento penale, intesi come valori non già confliggenti, ma complementari, è quello che Filangieri auspicava come risultato di una legge processuale capace di "togliere all'innocente ogni spavento, al reo ogni speranza, al giudice ogni arbitrio".

Il processo penale dovrebbe essere strumento di garanzia non solo perché in esso palpita la complessa realtà umana e sociale di quel determinato individuo che deve essere giudicato e che si presume innocente fino a condanna definitiva, ma anche perché solo un processo con adeguate garanzie difensive è in grado di mettere capo a un maggior numero di decisioni giuste.

L’interrogativo è pur sempre lo stesso: la giurisdizione che si esplica nel processo penale assicura adeguate garanzie all'individuo che vi è sottoposto e alla collettività che aspira al ripristino dell'ordine giuridico violato?

Evidentemente a questo interrogativo non è stata data finora una risposta appagante, se è vero, come è vero, che questo è il terzo anno, consecutivo, che l'Associazione propone, come argomento di studio, la giurisdizione penale.

Dall'analisi della giurisprudenza costituzionale sui principi naturali del giudizio, svolta dai relatori di Napoli, siamo passati alla dimensione del giusto processo, tracciata dai relatori di Salerno, per impegnarci, ancora, in queste giornate siciliane, a verificare in quale misura si possa parlare di garanzie della oralità e del contraddittorio nei processi di criminalità organizzata.

È da ritenere che non siamo ripetitivi, pur se ritorniamo ostinatamente sugli stessi argomenti, e che un primo incontro ed un secondo incontro non sono stati sufficienti, ma che, anzi, è tuttora viva l'esigenza di approfondire l'indagine sulla funzione della giurisdizione penale, tanto da impostare la ricerca in una prospettiva di riforma.

2. Di ciò si erano mostrati consapevoli i compilatori del nuovo codice di rito penale, emanato in dichiarata attuazione dei "principi della Costituzione" e delle "norme delle Convenzioni internazionali ratificate dall'Italia e relative ai diritti della persona e al processo penale" e teso a realizzare nel processo i "caratteri del sistema accusatorio".

Si legge nella Relazione al progetto definitivo che "la scelta accusatoria contenuta nella legge delega, e fatta propria dal Governo nella redazione del codice, è giustificata non solo da un'idea tradizionale di maggiore aderenza agli schemi democratici e di più ampia considerazione per la persona, ma anche dalla consapevolezza che quella scelta, più di qualunque altra, consente di coniugare garanzie ed efficienza, entrambe sacrificate nel sistema vigente, definito di ‘garantismo inquisitorio’, dopo le riforme intervenute dal 1955 in poi". Ragioni "rafforzate dalla convinzione che le probabilità di una decisione giusta sono maggiori quando la prova si forma nella dialettica processuale anziché nella solitaria ricerca dell'organo istruttore, sia esso un magistrato del pubblico ministero o un giudice, le cui acquisizioni diventano fonte di pregiudizio ineliminabile per il giudice del dibattimento".

L'impianto originario del codice del 1988 sembrava assicurare, nelle sue linee portanti, quella svolta, in senso accusatorio, evidenziata nella Relazione. Scompariva, infatti, il giudice istruttore e scompariva la stessa fase istruttoria, connotata dal potere di coordinare, in sequenza, atti con valenza probatoria, pienamente utilizzabili in giudizio. La funzione dell'accusa veniva "degiurisdizionalizzata", con la sottrazione al magistrato del pubblico ministero dei poteri restrittivi della libertà personale e con la dequalificazione, sul piano probatorio, degli elementi raccolti prima della fase del giudizio, alla quale, al contrario, veniva riconosciuta la natura di luogo privilegiato per la formazione della prova, nel "contraddittorio" delle parti.

Nella duplice dimensione di regola che il giudice deve seguire nell'assunzione della decisione e di diritto che le parti si devono vedere riconosciuto, il contraddittorio imprimeva un'impronta marcatamente accusatoria sul nuovo modello processuale e lo rendeva strumento per la imparziale applicazione della legge nella ricostruzione del fatto e nella sua qualificazione giuridica.

La terzietà e l'imparzialità del giudice venivano esaltate dall'adozione del "metodo orale", che, relegando ad un ruolo del tutto marginale la lettura di atti da altri, in precedenza formati, salvaguardava il fondamentale momento del dialogo tra organo di prova ed organo decidente. Il principio della separazione dei ruoli e delle fasi veniva rimarcato attraverso la creazione del c.d. "doppio fascicolo" e la fissazione di alcune regole di esclusione, protese ad impedire o, comunque, a vanificare l'uso processuale di contributi conoscitivi acquisiti nel corso del procedimento per le indagini preliminari, fase istituzionalmente inidonea a formare la "prova".

3. Già all'indomani della sua introduzione, il nuovo codice non mancò di sollecitare reazioni contrapposte.

Per un verso, si addebitò al legislatore di non aver tutelato abbastanza i diritti della difesa e di non aver realizzato appieno i principi del processo accusatorio.

Inadeguati erano parsi sia la regolamentazione, relegata nelle disposizioni di attuazione del codice, della materia delle c.d. "investigazioni difensive", troppo blanda e lacunosa per poter consentire all'indagato l'acquisizione di elementi utili per un efficace esercizio, in dibattimento, del diritto alla prova e alla controprova, sia i meccanismi escogitati per scongiurare indebiti straripamenti dell'inchiesta preliminare di parte nella fase del dibattimento, tutelando l'essenzialità del contraddittorio e della oralità-immediatezza, quali metodi "naturali" di elaborazione probatoria.

Per altro verso, invece, si mosse al codice un'accusa di "ipergarantismo": il nuovo ordito normativo appariva troppo garantista, ed anzi, addirittura, tale da favorire il crimine organizzato e, in particolare, la criminalità mafiosa.

Questa seconda critica era sicuramente la più ingenerosa, dal momento che, in aderenza all'intento di forgiare un sistema processuale destinato a coniugare garanzie, rapidità ed efficienza, il legislatore del 1988 non aveva omesso di prestare la dovuta attenzione alla questione dell'accertamento dei fatti riconducibili alle forme associate e stabili di devianza criminale.

La previsione di termini più ampi per lo svolgimento delle indagini relative a delitti di maggiore allarme sociale (tra cui quelli di criminalità organizzata) (art. 407) e quella che individuava (ed individua) una esigenza da salvaguardare attraverso il ricorso alla privazione ante iudicium della libertà personale nel pericolo di commissione di delitti di criminalità organizzata (art. 274 lett. e) non costituivano, infatti, gli unici segnali dell'attenzione rivolta dal legislatore alla problematica de qua.

Deve essere stato proprio il pensiero a quelle forme di criminalità a determinare, infatti, la previsione di alcuni istituti, come il "differimento dell'incidente probatorio" (art. 397), la "richiesta di copie di atti e di informazioni", a fine di indagine, da parte del magistrato del pubblico ministero (art. 117) e, a fine di prevenzione, da parte del ministero dell'interno (art. 118); il "coordinamento tra diversi uffici del pubblico ministero" in caso di indagini collegate, in modo da assicurare, nel corso dell'inchiesta di parte, una risposta "non frantumata" all'agire, "per trame coerenti e programmate" dei sodalizi criminosi a struttura associativa (art. 371).

Né apparivano senza collegamento con la questione dell'accertamento dei delitti di mafia le previsioni che consentivano l'assunzione anticipata, nell'ambito del procedimento per le indagini preliminari, della testimonianza di una persona (art. 392 comma 1 lett. b) o dell'esame di indagato su fatti concernenti la responsabilità di altri (art. 392 comma 1 lett. c) o dell'esame di persona imputata di fatti connessi o collegati dal punto di vista probatorio (art. 392 comma 1 lett. c), giacché le stesse collegavano tale possibilità alla situazione in cui "per elementi concreti e specifici, vi è fondato motivo di ritenere che la persona sia esposta a violenza, offerta o promessa di danaro o altra utilità affinché non deponga o deponga il falso", vale a dire ad un clima di intimidazione ed allettamento che è contrassegno tipico della criminalità organizzata.

Le stesse regole dettate in tema dì circolazione di elementi probatori acquisiti in altri procedimenti (art. 238) sembravano ispirate dall'esigenza di contenere gli effetti negativi che, specie sul fronte dell'accertamento dei delitti di criminalità organizzata, si determinavano in conseguenza della scelta, operata dal legislatore del 1988, di privilegiare le «maxi-indagini» rispetto ai «maxi-processi», riducendo, a tal fine, l'ambito di operatività della connessione. È, infatti, soprattutto in riferimento ai procedimenti per delitti di mafia che si rivela utile la circolazione di verbali di prova, dal momento che alla criminalità organizzata, ramificata sull'intero territorio nazionale e con pluralità di soggetti operanti, autori ciascuno di molti reati spesso commessi in concorso con persone estranee al sodalizio criminoso, giova in maniera rilevante la separatezza degli accertamenti condotti nei vari procedimenti, con conseguente perdita di unitarietà di valutazione dei dati ivi acquisiti.

4. Queste ed altre previsioni normative venivano, tuttavia, reputate inadeguate rispetto alla risposta che, si diceva, lo Stato ha il dovere di dare, anche sul piano giudiziario, alla criminalità organizzata.

Era, soprattutto, la soluzione adottata nell'art. 238, relativamente al problema della utilizzazione di contributi conoscitivi forniti da testimoni o imputati di altri procedimenti, ad apparire insoddisfacente.

La necessità del «consenso delle parti» alla introduzione di prove acquisite aliunde – si legge nella Relazione del Presidente della Commissione parlamentare antimafia del 1991 – comporta l'ingresso, nel dibattimento, solo di «atti inoffensivi», ciascuna parte essendo protesa a privilegiare il proprio ruolo ed a consentire solo a quanto non le rechi danno.

5. Ulteriori critiche venivano mosse alla riforma del codice di rito inaugurata nel 1989, ma, su di esse non è il caso di indugiare in questa sede. Certo è che il momento particolarmente difficile attraversato dal Paese agli inizi degli anni '90 a causa della recrudescenza del fenomeno mafioso, contribuiva a rendere impopolare un codice, che, per essere «garantista», veniva reputato «lassista», inidoneo cioè a fronteggiare il dilagare della criminalità organizzata.

Bisognava, perciò, correre ai ripari. Alla criminalità organizzata, si osservava, bisogna rispondere con una giustizia altrettanto organizzata ed efficiente.

Nel 1991 prendeva, pertanto, avvio una incessante produzione normativa, dichiaratamente volta a rimediare alla pericolosa stasi registratasi nella risposta giudiziaria all'avanzare dell'offensiva criminale.

Ancorché da più parti venisse prospettata la opportunità di istituire un vero e proprio «procedimento speciale» per l'accertamento dei delitti di mafia, fondato sulla normativa extracodicistica (è, questa, l'idea del «doppio binario», vale a dire di una procedura per i mafiosi e di un'altra per i c.d. delinquenti comuni), il legislatore puntava su fattispecie derogatorie contenute nella stessa disciplina ordinaria e riflettenti particolari esigenze nascenti dalle indagini e dai processi di mafia.

6. Ai provvedimenti legislativi (sovente riguardanti l'intera categoria dei reati di maggiore allarme sociale e non solamente la sottocategoria dei reati di criminalità organizzata) introduttivi delle suddette fattispecie derogatorie non si può, in questa sede, che dedicare un rapido cenno.

Fra i provvedimenti di maggior rilievo possono ricordarsi:

1] il d.l. 13 maggio 1991, n. 152 (convertito nella l. 12 luglio 1991, n. 203), con il quale:

a) in tema di misure cautelari personali, viene introdotta una presunzione iuris tantum di adeguatezza della sola custodia in carcere per gli imputati di delitti di particolare gravità (art. 275 comma 3 c.p.p.);

b) in tema di mezzi di ricerca della prova, si subordina l'autorizzazione a disporre l'intercettazione, nei procedimenti concernenti delitti di criminalità organizzata, a presupposti meno rigorosi di quelli richiesti per la generalità dei procedimenti;

c) in tema di coordinamento tra gli uffici del pubblico ministero, si introduce una forma di coordinamento non puramente volontario (artt. 371 c.p.p. e 118-bis disp. a.c.t.).

2] Il d.l. 9 settembre 1991, n. 292 (convertito nella l. 8 novembre 1991, n. 356), con il quale:

a) vengono prolungati i termini di durata massima della custodia cautelare (art. 303 c.p.p.);

b) l'adeguatezza della sola custodia in carcere per gli imputati di reati di maggiore allarme sociale è presunta non più iuris tantum ma iuris et de iure (art. 275 comma 3 c.p.p.);

e) si attribuisce al procuratore generale presso la corte d'appello il potere-dovere di avocare le indagini «collegate», per le quali non risulti effettivo il coordinamento tra i diversi uffici e non abbiano dato esito le apposite riunioni (art. 372 comma 1-bis c.p.p.).

3] Il d.l. 29 ottobre 1991, n. 345 (convertito nella l. 30 dicembre 1991, n. 410), con il quale si prevede la istituzione della «direzione investigativa antimafia» e la costituzione, per ogni Forza di polizia, di servizi centralizzati anticriminalità.

4] Il d.l. 20 novembre 1991, n. 367 (convertito nella 1. 20 gennaio 1992, n. 8), con il quale:

a) viene estrapolata dalla categoria dei «reati di maggiore allarme sociale», la sottocategoria dei «delitti di criminalità organizzata» (art. 51 comma 3-bis c.p.p.) e si riconosce la legittimazione ad indagare su questi ultimi delitti alle sole «procure distrettuali»;

b) si stabilisce, altresì, che il coordinamento delle indagini condotte dalle direzioni distrettuali antimafia è assicurato dal «procuratore nazionale antimafia », anche per mezzo di magistrati componenti la « direzione nazionale antimafia »;

c) si attribuisce, infine, al procuratore nazionale antimafia il potere-dovere di disporre l'avocazione delle indagini per delitti di mafia (art. 3 71-bis c.p.p.).

5] Il d.l. 8 giugno 1992, n. 306 (convertito con modificazioni nella l. 7 agosto 1992, n. 356), il quale, oltre ad introdurre particolarità procedurali in relazione all'accertamento dei delitti di criminalità organizzata, detta norme, applicabili ad ogni tipo di procedimento, capaci di alterare sensibilmente gli equilibri del sistema processuale originario (il riferimento è alle previsioni contenute negli artt. 238, 238-bis, 500, 503, 511-bis, 512, 512-bis c.p.p., alcuni dei quali introdotti, altri semplicemente modificati dal d.l. n. 306/1992).

Per quanto concerne, più specificatamente, i procedimenti per delitti di criminalità organizzata, il provvedimento in questione:

a) potenzia le attività di investigazione anche preventiva, attraverso l'ampliamento delle ipotesi legittimanti le c.d. «operazioni sotto copertura»;

b) detta nuove previsioni in materia di intercettazioni preventive, di perquisizioni, di misure di prevenzione e di soggiorno cautelare;

c) in tema di procedimento di proroga dei termini delle indagini preliminari, inserisce un comma 5-bis nella struttura dell'art. 406 c.p.p., con cui si stabilisce che per i delitti di mafia opera il regime differenziato della c.d. «proroga coperta» (proroga richiesta dal magistrato del pubblico ministero e concessa dal giudice all'insaputa dell'indagato e della persona offesa);

d) in tema di formazione della prova, introduce l'art. 190-bis c.p.p., che si propone come norma fortemente limitativa del «diritto di difendersi provando» dell'imputato per un delitto di mafia.

6] La 1. 8 agosto 1995, n. 332, che:

a) riformula l'art. 275 comma 3 c.p.p., riducendo lo spazio di operatività della presunzione iuris et de iure di adeguatezza della sola custodia cautelare in carcere ad una parte dei delitti di criminalità organizzata, categoria, questa, che, enucleata da quella dei reati di maggiore allarme sociale, finisce a sua volta per sdoppiarsi in due specie, a seconda che si comprendano in essa il sequestro di persona a scopo di estorsione e l'associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti;

b) sempre in tema di privazione ante iudicium della libertà personale, modifica l'art. 301 c.p.p., introducendo norme di favore per gli imputati di delitti diversi da quelli di maggiore allarme sociale o per il cui accertamento sono richieste investigazioni particolarmente complesse per la molteplicità di fatti tra loro collegati o per l'elevato numero di indagati o dì persone offese o il compimento di atti di indagine all'estero. Solo nei procedimenti per delitti «comuni» non richiedenti indagini di particolare complessità o da eseguirsi all'estero, la custodia cautelare in carcere disposta per scongiurare il pericolo di dispersione o inquinamento delle fonti di prova non può, infatti, avere durata superiore ai trenta giorni e può essere rinnovata, per non più di due volte, entro il limite complessivo di novanta giorni, previo interrogatorio dell'indagato (o dell'imputato);

c) introduce analoga differenziazione di disciplina, in base alla natura del reato per cui si procede, in tema di comunicazione delle iscrizioni delle notitiae criminis, giacché, secondo la nuova formulazione dell'art. 335 c.p.p., la richiesta di comunicazione della iscrizione può essere accolta solo quando riguardi un reato diverso da quelli di maggiore allarme sociale.

7. Il quadro, appena tracciato, delle disposizioni novellistiche introducenti particolarità procedurali per l'accertamento dei delitti di criminalità organizzata è certamente incompleto. E, tuttavia, rende sufficientemente l'idea della direzione in cui si è mosso il legislatore, in questi anni, per cercare di contrastare, attraverso i meccanismi del procedimento penale, il dilagare della criminalità organizzata.

Solo un approccio superficiale e settoriale a tale quadro normativo potrebbe indurre a ritenere che le misure adottate segnino il raggiunto equilibrio tra esigenze di garanzia individuale ed esigenze di difesa sociale, equilibrio che l'impianto originario del codice non avrebbe assicurato.

Una valutazione attenta dell'intero complesso delle disposizioni dettate in via esclusiva per i procedimenti di criminalità organizzata o anche e soprattutto in funzione dell'accertamento dei delitti di criminalità organizzata conduce, al contrario, alla conclusione che sacrificio delle garanzie individuali e livello di tutela della collettività non sono stati sapientemente dosati.

Appare superfluo, qui, ribadire ciò che è acquisizione sufficientemente consolidata nei Paesi democratici, e cioè che la legge che disciplina il procedimento penale può anche essere, indirettamente, uno strumento di difesa sociale, ma solo nel senso che riesca a congegnare meccanismi di accertamento tali da assicurare che i colpevoli siano puniti nel più breve tempo possibile e, a maggior ragione, siano assolti gli innocenti. La sanzione, affermava Beccaria, per essere efficace, dev'essere soprattutto pronta, oltre che giusta.

Gli sforzi profusi nella direzione di un rafforzamento delle strutture e dei mezzi di indagine, in considerazione della particolare complessità e specificità del fenomeno mafioso, meritano apprezzamento, ed è, anzi, auspicabile una attenzione sempre maggiore, da tradursi nella destinazione di risorse finanziarie, attrezzature e personale specializzato, a quei settori investigativi impegnati nella lotta al crimine organizzato.

Tale lotta, però, va condotta al di fuori del processo, non potendo questo non risultare il luogo in cui si accerta una eventuale responsabilità individuale, senza che i mezzi usati e il risultato stesso tengano conto degli effetti sulla politica di contrasto alla criminalità organizzata.

E non pare che questa consapevolezza abbia guidato gli interventi novellistici di questi anni, molti dei quali determinati dalla preoccupazione di scongiurare la «usura delle fonti di prova» piuttosto che la «erosione» delle garanzie processuali della persona.

Si spiegano, così, regole come quella dell'art. 190-bis c.p.p., secondo cui, nei procedimenti per delitti di criminalità organizzata, l'esame del testimone e della persona imputata di un reato connesso o collegato dal punto di vista probatorio non è necessario (a meno che il giudice non lo ritenga tale), potendo essere sostituito con la lettura delle precedenti dichiarazioni rese in contesti diversi, a nulla rilevando il fatto che l'imputato non abbia mai avuto modo di difendersi rivolgendo domande al suo accusatore, e quella dell'art. 275 comma 3 c.p.p., che introduce una rilevante eccezione al principio c.d. «del minor sacrificio», ponendo, con riguardo ai delitti di criminalità organizzata, una presunzione iuris tantum di sussistenza delle esigenze cautelari ed una presunzione iuris et de iure di adeguatezza della sola misura della custodia in carcere.

È merito soprattutto di queste due disposizioni, se, in questi anni, la chiamata in correità e quella in reità, da un lato, e la custodia cautelare in carcere, dall'altro, sono divenute l'ossatura portante dell'accertamento dei delitti di criminalità organizzata.

8. Un interrogativo a questo punto s'impone. Può ritenersi che, espungendo dal sistema norme come quelle poc'anzi richiamate, il procedimento per delitti di criminalità organizzata riacquisterebbe forma e contenuti del procedimento giurisdizionale, inteso come attività pubblica volta alla imparziale applicazione della legge penale nella ricostruzione del fatto e nella sua qualificazione giuridica?

Il senso retorico della questione sollevata non sarà certamente sfuggito.

Sappiamo benissimo che non basta ricondurre l'accertamento dei delitti di mafia nell'unico binario lungo il quale si snoda l'accertamento dei delitti per così dire «comuni» per ritenere salvaguardato il «diritto alla giurisdizione» che la Costituzione (art. 24) e le Carte internazionali (art. 10 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, art. 6 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle garanzie fondamentali e art. 14 del Patto Internazionale sui diritti civili e politici) riconoscono ad ogni soggetto, quale che sia la natura dell'accusa elevata a suo carico.

Il problema è che anche il processo penale ordinario non si presta più a fungere da strumento di garanzia della persona, da quando è stato asservito a preminenti esigenze di ripristino dell'ordine giuridico violato.

Già, perché il legislatore, nel famoso «pacchetto giustizia del '92», a dispetto delle dichiarazioni ufficiali, non si è limitato a dettare norme valevoli per i soli procedimenti di criminalità organizzata, ma ha operato una «controriforma» di punti qualificanti dell'apparato codicistico, stravolgendo basilari strumenti processuali congegnati, oltre che per la garanzia dell'imputato, per la giustizia della decisione.

Le innovazioni apportate alla disciplina delle letture dibattimentali e della circolazione di prove tra procedimenti, ancorché introdotte nella prospettiva di conseguire benèfici effetti soprattutto sul fronte dell'accertamento dei fatti di criminalità organizzata, sono state rese operative in ogni tipo di procedimento penale.

Questa considerazione ridimensiona fortemente la portata della problematica evocata dal titolo della presente relazione.

9. Quello della prova non è problema esclusivo dei procedimenti instaurati contro appartenenti ai sodalizi criminali di stampo mafioso, ma involge anche e soprattutto i processi che si celebrano nei confronti di comuni cittadini.

Intendo dire che l'analisi, in prospettiva de iure condendo, della questione della prova nei procedimenti per fatti di criminalità organizzata non può essere svincolata da considerazioni afferenti al basso tasso di dialetticità connotante, attualmente, la elaborazione delle premesse della decisione nei procedimenti per delitti comuni.

Se, infatti, ritenessimo ossequiosa dei valori costituzionali del « giusto processo » la disciplina generale del procedimento probatorio, così come venutasi a delineare in seguito alla Riforma del 1992, la problematica della prova nei procedimenti riguardanti fatti di mafia si ridimensionerebbe notevolmente, riducendosi alla questione circa l'opportunità o meno di sopprimere la norma di cui all'art. 190-bis c.p.p., oltre che, ovviamente alla questione, di diritto penale sostanziale ma con pesanti riflessi sul piano dell'accertamento giurisdizionale, circa la carenza di tassatività della fattispecie descritta nell'art. 416-bis c.p.p.

Carenza di tassatività che, come ha efficacemente sottolineato Delfino Siracusano, nella sua splendida relazione di ieri, compromette l'effettività del contraddittorio.

Il contraddittorio – ha ricordato Siracusano – è modello di elaborazione probatoria e serve per la verifica di un tema di prova: non è destinato ad esaurirsi in un "dibattito di opinioni" su un giudizio di valore o su asserzioni di significato indeterminato.

10. Ma che l'intervento legislativo del 1992 si sia collocato nell'alveo dei principi costituzionali del giusto processo nessuno, penso, osa ammetterlo.

Interroghiamoci, allora, sui possibili rimedi all'attuale degrado del procedimento probatorio penale, degrado, a mio avviso, solo in parte attenuatosi dopo la novella dell'agosto di quest'anno.

Il riferimento è, ovviamente, alla 1. 7 agosto 1997, n. 267, che, intervenendo sul sistema delle letture dibattimentali, ha posto le premesse per un parziale recupero della dialettica probatoria, ma, nel contempo, con le modifiche apportate alla disciplina dell'incidente probatorio e dell'udienza preliminare, ha creato le condizioni perché, di fatto, il giudice continui a decidere su materiale formatosi in sua assenza, con conseguente riduzione del dibattimento ad una stanca replica di atti ed attività processuali già sedimentati.

L'allineamento dell'attuale legislatore alla impostazione della Suprema corte, secondo cui la garanzia del contraddittorio può benissimo coniugarsi con forme né pubbliche né orali del procedimento, è fin troppo evidente.

Si rinuncia, così, ancora una volta, a riportare il dibattimento al centro del processo e la prova al centro del dibattimento. Ciò, evidentemente, perché si teme di abbassare la guardia nei confronti della criminalità organizzata. Ma, se così è, si abbia una volta per tutte il coraggio di intraprendere la strada del «doppio binario» anche sul piano probatorio, nel senso di differenziare il regime di formazione della prova in ragione del tipo di reato per cui si procede, perché non pare democratico che le sorti processuali della maggioranza dei soggetti incappati nelle maglie della giustizia penale siano pesantemente ipotecate da meccanismi processuali congegnati in funzione delle esigenze connesse all'accertamento di reati attribuibili ad una esigua minoranza di cittadini.

La mia, ovviamente, è una provocazione, convinto come sono che le regole di formazione della prova devono essere identiche, quale che sia il reato oggetto della cognizione del giudice.

Non posso, tuttavia, esimermi dal sottolineare la incapacità del nostro legislatore di dar vita ad un progetto globale di riforma del sistema probatorio penale, preferendo interventi parziali, frammentari e poco meditati, in un'ottica decisamente «minimalista» che non può non determinare il progressivo allontanamento del baricentro del processo dalla fase del dibattimento.

Certo, sostenere che la garanzia del contraddittorio reclama se non la pubblicità, quantomeno l'oralità del procedimento, intesa come immediatezza del rapporto tra giudice e fonte di prova, può essere affermazione non al passo con i tempi, con questi tempi.

E tuttavia dubito fortemente che la bussola culturale da seguire sia quella offerta dalla Corte costituzionale nella famosa sentenza n. 255 del 1992.

Nobile l'intento, quello di salvaguardare il libero convincimento del giudice, improvvide le conseguenze del ragionamento condotto dalla Consulta in quella occasione.

Senza entrare nei dettagli del tessuto argomentativo di quella sentenza, quel che qui preme evidenziare è che la Corte ha erroneamente considerato regole di prova legale, e perciò limitative del libero convincimento del giudice, talune regole di esclusione poste, dal legislatore del 1988, a garanzia della dialettica probatoria e perfettamente in linea con la esigenza di tutela del libero convincimento del giudice.

11. Nonostante i plurimi interventi legislativi e le "demolizioni" della Corte costituzionale, il problema della prova nei processi di criminalità organizzata non ha ancora trovato una soluzione appagante e si continua a discuterne in prospettiva di riforma.

Il punto nodale della questione, prima ancora di valutare l'opportunità e i contenuti di un'ennesima modifica legislativa, è capire dove poter incidere nell'ambito di una tematica così ampia e complessa. Il termine "prova", infatti, ha una valenza generale e richiama alla mente momenti diversi dell'accertamento penale, a meno che non lo si voglia intendere nella sua accezione più ristretta (ma, senza dubbio, più corretta) di "giudizio" sugli elementi probatori legittimamente acquisiti in dibattimento.

Il problema viene in rilievo già nel corso delle indagini preliminari, sotto il profilo della individuazione delle fonti di prova (senza tenere conto dei possibili rapporti tra procedimento di prevenzione e processo penale), per poi manifestarsi, in tutta la varietà dei suoi aspetti, nel corso della fase processuale, con riferimento alle modalità di ammissione dei mezzi di prova, di acquisizione o assunzione degli elementi di prova e di valutazione di questi ultimi da parte del giudice.

Di qui, la necessità di verificare se siano configurabili ulteriori spazi di intervento, cercando di comprendere le ragioni che giustificano, ancora oggi, un'analisi della questione in termini tanto controversi e problematici. In particolare, è lecito chiedersi se, in relazione ai processi di criminalità organizzata, possa delinearsi un regime differenziato della prova che coinvolga anche il momento della valutazione, derogando agli ordinari criteri di apprezzamento degli elementi di giudizio.

12. Il codice non offre riferimenti normativi che consentano di individuare regole "speciali" di valutazione, sicché i principi contenuti nell'articolo 192 c.p.p. trovano applicazione in tutti i processi, compresi quelli per reati di criminalità organizzata.

È prevalsa, almeno finora, l'opinione di quanti ritengono che il filtro valutativo della prova non possa variare a seconda della natura del fatto sottoposto all'esame del giudice, poiché si finirebbe per legittimare una disparità di trattamento del tutto ingiustificata.

Il pericolo di lasciare impunite gravi responsabilità impone un potenziamento degli strumenti di ricerca della prova, ma non può portare a disattendere un punto fermo nel cammino della civiltà giuridica, rappresentato dal principio del libero convincimento (Cass., sez. un., 21 ottobre 1992, Marino). In altri termini, le regole processuali, sebbene rispondano anche ad un'esigenza concreta di accertamento dei fatti, debbono fermarsi alla "soglia" della camera di consiglio, perché oltre non c'è null'altro da salvaguardare se non il valore e la garanzia della giurisdizione.

Il principio del libero convincimento tende ad escludere ogni predeterminazione legale del valore persuasivo degli elementi di prova, lasciando al "prudente ed obiettivo" apprezzamento del giudice la verifica della effettiva consistenza del factum probans (il riferimento ad un prudente ed obiettivo apprezzamento degli elementi di prova era contenuto nel progetto preliminare del codice).

La libera valutazione non può sfociare, però, nell'arbitrio.

Il giudice deve dare conto, in motivazione, degli argomenti logici e delle massime di esperienza che lo hanno portato ad esprimere un giudizio sul fatto (art. 192 comma 1), senza trascurare nessuno degli elementi che compongono il quadro probatorio legittimamente costruito nel corso del dibattimento [art. 526 e 546, comma 1, lett. e)].

Il libero convincimento non implica, inoltre, la possibilità di sovrapporsi alle norme che disciplinano il procedimento probatorio. Il legislatore fissa regole di ammissione e di acquisizione dei mezzi di prova ed impone limiti tassativi alla utilizzabilità di alcuni elementi di prova che, in maniera più o meno legittima, possono comunque confluire in dibattimento (artt. 240, 271, 195 comma 7, 500, commi 4 e 5, nei limiti in cui sia ancora possibile configurare una utilizzazione di precedenti dichiarazioni al solo fine della contestazione). È impensabile che la libertà del giudice possa spingersi al punto di "sovvertire" tali regole – avverte Massimo Nobili - partendo dal presupposto che nessun prezzo è troppo alto quando lo scopo è la ricerca della verità materiale e la repressione della criminalità.

Meritano, poi, particolare attenzione le norme contenute nei commi 2, 3 e 4 dell'articolo 192 c.p.p. Qui, il discorso diventa difficile, controverso, del tutto privo, a differenza di quanto detto finora, di un fondamento interpretativo largamente condiviso.

13. Alla soglia del terzo millennio, se siamo ancora protesi ad esaminare prospettive di riforma, evidentemente non abbiamo raggiunto quello stabile livello di civiltà giuridica che auspicava il Filangieri. Per usare le sue parole, se pensiamo di modificarla, sotto questo o quel profilo, la disciplina del processo penale non è così saldamente ancorata a principi di garanzia da indurci a rasserenare l'innocente, dicendogli che non ha motivo di spaventarsi o ad ammonire il colpevole a non illudersi di poter sottrarsi alla pena che gli è dovuta. Soprattutto, non siamo ancora in grado di guardare con fiducia al giudice, sicuri di non leggere nella sua decisione un atto di arbitrio.

Almeno, questa è la sensazione che si prova nel leggere, in sentenze di condanna, che l'affermazione della penale responsabilità dell'individuo è motivata dalla constatazione che "un uomo d'onore che parla di un altro uomo d'onore riferisce sempre circostanze degne di considerazione, riconducibili ad un rigido codice di comportamento" (Cass. Sez. 1, 23 giugno 1995, ric. Parrinello; Id. Sez. 1, 30 settembre 1994, Di Martino), e si ha ragione di ritenere che il c.d. "uomo di onore" che parla dell'altro c.d. "uomo di onore" è uno degli associati al clan criminale, che si è confessato autore di efferati delitti ed ha scelto la via di una ben remunerata collaborazione con gli investigatori, per fruire anche di sostanziose riduzioni di pena.

Mi riesce davvero difficile pensare di trovarmi di fronte ad una decisione giudiziale, ad una sentenza giurisdizionale che chiude un giusto processo, anche se il processo ha avuto ad oggetto reati di criminalità organizzata.

Mi chiedo se è con riferimento a questo tipo di sentenze che si deve pensare ad una riforma delle regole di assunzione e valutazione della prova.

14. Il tema generale della valutazione della prova è destinato, inevitabilmente, ad intrecciarsi con quello specifico dell'accertamento del fatto nei processi di criminalità organizzata.

Fassone ha esattamente osservato che "i grimaldelli con cui penetrare nelle organizzazioni delinquenziali si riducono sostanzialmente a quattro: i documenti, le intercettazioni telefoniche, l'analisi dei movimenti di ricchezza e le confessioni. Orbene, i documenti, frequenti nel cosmo terrorista per motivi di immagine, sono banditi o distrutti dalla mafia. Le intercettazioni telefoniche si avviano a diventare infruttuose man mano che i sospettabili scelgono altre forme di comunicazione. Le indagini bancarie si scontrano con una legislazione tenacemente omertosa. Non fa meraviglia se la chiave d'oro è stata cercata nel pentitismo. Se anche questa si azzera, o ci si rassegna all'impotenza nell'impegno contro la criminalità organizzata, o si va alla ricerca (seria) di qualche cosa di diverso".

La possibilità che questo "qualcosa di diverso" sia scoperto in tempi brevi è davvero vaga, se è vero che ancora oggi il problema della criminalità organizzata viene associato al pentitismo, così come accadeva già nel lontano 1956, quando un osservatore attento del fenomeno mafioso, come Sciascia, testimoniava che, "privata del confidente, i compiti della polizia resterebbero limitati ai soli delitti passionali".

15. La recente riforma in tema di lettura di dichiarazioni rese al di fuori del dibattimento e di potenziamento dei meccanismi di pre-assunzione probatoria indubbiamente valorizza il contraddittorio, ma non certo come regola di giudizio.

L'esigenza che ha prevalso, pur con gli innumerevoli contrasti a tutti noti, non è stata quella di restituire al dibattimento la prerogativa di fase deputata alla istruzione dei mezzi di prova da operarsi dal giudice, in vista della formazione della prova - e, quindi, del giudizio - oralmente e nel contraddittorio delle parti, dal momento che ampio spazio è stato dato ad una pre-assunzione probatoria oramai svincolata dai parametri della urgenza e della indifferibilità.

Il ridimensionamento del valore di dichiarazioni rese al magistrato del pubblico ministero nel corso delle indagini preliminari e la eliminazione del diritto di avvalersi della facoltà di non rispondere, in carenza di accordo tra le parti - e, per esso, la esclusione della possibilità di utilizzazione dibattimentale delle dichiarazioni rese al di fuori del contraddittorio e in assenza del giudice - non sono sintomatici di una convinta scelta in favore del ripristino della regola della oralità-immediatezza.

Di positivo, in questa riforma, vi è solo che il giudice non sarà più tenuto ad attestarsi, nel giudizio, su dati che, per legge, fino ad oggi, sembravano connotarsi di indiscussa (e indiscutibile) valenza probatoria.

Sembra che il riformatore abbia voluto far prevalere l'ordine c.d. isonomico sul contrapposto "ordine asimmetrico", connotato -  come ci ricorda Giuliani - dal fatto che "uno dei partecipanti alla controversia (il giudice o una delle parti) ha una posizione privilegiata, in quanto vanta una evidenza o un sostituto di evidenza. Tale ordine pretende di garantire rapidamente e in ogni caso la decisione del fatto incerto: il contraddittorio appare un ingombrante ostacolo alla ricerca della verità. Il processo è indirizzato ad un fine, ad un risultato: il pentimento del reo, la difesa della collettività, la tutela dei diritti soggettivi".

E il giudizio che da ora in poi dovrà rendere non sarà più strumento per ufficializzare, se non addirittura per giustificare, la tesi che in astratto, e in via preconcetta, si riteneva di poter privilegiare.

Ne deriva la riaffermazione della terzietà, che si assicura solo se ed in quanto - in adesione al c.d. modello isonomico ispirato alla "divisione della conoscenza", secondo cui la ricostruzione del fatto (e, quindi, il giudizio) deve dare conto della prospettazione e della rappresentazione che ciascuna delle parti, di quel fatto, propone al giudice, supportandola con mezzi di prova atti a persuaderlo della veridicità di quanto sostiene - il giudice decida audita altera parte, ponendo a base della decisione le ragioni di entrambi i contraddittori e operando senza riconoscere a nessuna delle parti e a nessuna delle tesi sostenute una posizione o un valore privilegiati.

La terzietà del giudice si assicura solo se per nessuna "tesi di parte" valgono regole - avulse e lontane dal modello accertativo ispirato al libero convincimento del giudice - astrattamente attributive di preconcette significazioni probatorie.

Il giudice deve scegliere tra più ipotesi e sceglierà quella che maggiormente lo persuade: prevale -  aggiunge ancora Giuliani - "in opposizione al metodo dimostrativo, peculiare del ragionamento scientifico, l'argomentazione - valida nel dominio del contingente, dell'opinione, della verità pratica" - e la concezione della "prova come argumentum", della prova, cioè, " che non può prescindere dal momento della persuasione".

16. Il rischio è stato, fino ad oggi, quello di spodestare il giudice di ogni autonomia valutativa: vincolandolo a verità "supposte" e a dati inopinabili, lo si imprigionava entro ragionamenti volti a cercare, negli altri elementi probatori che pure doveva raccogliere, il riscontro alla supposta verità.

Non è difficile, qualora si riporti il discorso all'interno dei processi per delitti di criminalità organizzata, ipotizzare quanto nefaste possano essere state le conseguenze di una tecnica di giudizio cosi connotata sul diritto costituzionalmente garantito, anche agli imputati di gravissimi reati, ad essere considerati non colpevoli fino alla sentenza definitiva di condanna.

Eppure il precetto costituzionale non ancora modificato o limitato, nella sua valenza, ai reati diversi da quelli dì criminalità organizzata non legittimava nessuno a presumere "colpevole" piuttosto che "non colpevole" l'imputato che un collaborante di giustizia chiamasse in correità nel corso di dichiarazioni confessorie rese al magistrato del pubblico ministero o agli altri organi della investigazione antimafia.

Se la verità supposta era la credibilità del collaborante di giustizia, che accusava e si autoaccusava, dal "credito" che il collaborante acquistava, sia in virtù della gravità dei fatti che ammetteva sia in virtù della proficuità della collaborazione che offriva nella lotta al crimine organizzato, non poteva non derivare come altra "verità supposta" la convinzione di colpevolezza e di responsabilità del soggetto che il collaborante chiamava in causa.

Tornavano attuali le considerazioni svolte da esperti del settore a proposito della "costruzione della realtà" nei processi per stregoneria.

Lì – si è detto – l'imputato "è intrappolato nel c.d. paradosso del mentitore: “se è considerato un mentitore dal giudice, quando asserisce di dire la verità non viene creduto, appunto in quanto mentitore. Ma, anche rovesciando la sua versione, essendo un mentitore, sta mentendo. In ogni caso, quindi, l'imputato, sia che insista nella sua versione, sia che la cambi, confermerà di essere un mentitore. Parallelamente, il giudice, convinto che l'imputato stia mentendo, riuscirà a dimostrare il suo assunto e a radicarsi sempre più nel suo convincimento: più l'accusato cerca di dimostrarsi innocente e più viene considerato colpevole, proprio perché si discolpa; inoltre, se prima si dichiara innocente e poi confessa, conferma di aver mentito e comunque avalla il giudizio di colpevolezza. Così la convinzione del giudice di procedere contro un colpevole acquista l'aspetto di una profezia che si autodetermina" (Petruccelli e Tomassoni).

“Il modo di procedere inquisitoriale incastra l'imputato in un altro paradosso: quello della impossibilità di offrire la prova di non sapere qualcosa. L'unica via che può tentare è quella di dire tutto quello che sa, aggiungendo sempre più particolari a quanto già in precedenza dichiarato: ma più i fatti si avvicinano lato sensu a ciò che il giudice pensa che lui sappia, più il giudice suppone che nasconda qualcosa e il girotondo ricomincia" (Gulotta).

“La realtà che i processi tendono a far emergere è in gran parte il prodotto delle interazioni delle varie parti: inquisitori, giudici, difensori, imputati, testimoni, vittime sembrano collaborare, ognuno dal proprio punto di vista e con le proprie motivazioni e strategie, alla costruzione di una realtà che non ha quasi niente a che vedere con la realtà storica, ma acquista il valore emblematico dì realtà socialmente accettabile. Così l'interpretazione della condotta umana viene valutata e vagliata con criteri condivisi dagli operatori forensi e dai giuristi, in ossequio a modelli stereotipati del comportamento umano, fino a giungere a perverse distorsioni della realtà dei fatti" (Petruccelli e Tomassoni).

17. Si è detto di una "costruzione della realtà" che "acquista il valore emblematico di realtà socialmente accettabile".

Ma che significa "socialmente accettabile"?

Se per realtà "socialmente accettabile" deve intendersi - e non potrebbe essere diversamente - una realtà accettata dalla collettività, il discorso diventa estremamente complesso.

E la mente va alle affascinanti considerazioni che altre indagini storiche, lucidamente condotte dai Maestri della procedura, consentono di formulare.

Quando si interroga sul "mistero del processo" ed indaga per "fissare quale sia l'elemento costitutivo del giudizio, quello per cui se esso manchi, di giudizio non si possa in alcun modo parlare", Salvatore Satta conclude individuando detto elemento unicamente nel "giudizio reso dal terzo".

Si avvede, tuttavia, della incompiutezza della soluzione, allorché, nel definire come "terzo" "colui che non è parte", si rende conto della necessità di andare oltre nella indagine, alla ricerca della necessaria determinazione del concetto di "parte".

Un concetto rilevante soprattutto per quel che concerne il processo penale, posto che, per Satta, è nel processo penale "e soprattutto in quei processi che prendono il nome già di per sé stesso significativo di processi politici, che si manifesta tutta la verità, e spesso in tragiche forme, di questo amplissimo concetto di parte".

L'Autore si riporta, sul punto, al Carnelutti, richiamandone la illuminante intuizione "quando dice che il principio della pubblicità del dibattimento si spiega soltanto in quanto si riconosca al pubblico che ha diritto di assistere al processo la qualità di parte, e appunto in quanto parte gli è vietato di manifestare opinioni e sentimenti, di tenere contegno tale da intimidire o provocare: se egli fosse terzo, cioè estraneo al conflitto di interessi esploso nel reato, tutto ciò evidentemente sarebbe superfluo. E come parte preme contro la sottile barriera di legno che lo divide dal giudice: se riesce a superarla materialmente, sarà il linciaggio; se riesce a superarla spiritualmente, sarà la parte che giudicherà e non il giudice, cioè non si avrà il giudizio".

Non è, quindi, giudizio - conclude Satta - quello reso da chi non è terzo: chi ha un interesse in giuoco non può essere, proprio a causa di detto interesse, giudice per il principio "vecchio quanto il mondo che nessuno può essere giudice in causa propria".

18. Tornando ai giorni nostri, vi è da chiedersi, una volta accettata, senza discussione alcuna, quest'ultima convinzione  - e non sembra vi siano dubbi, visto che quotidianamente insegniamo ai nostri studenti che il giudizio è solo il giudizio del terzo perché nessuno può esser giudice in causa propria - se possa chiamarsi "giudizio", ad esempio, quello reso, in "seconda battuta", dopo l'annullamento del "giudizio", in "prima battuta", di un tribunale militare, la cui sentenza è stata accolta, come ben sappiamo, da una vera e propria insurrezione popolare.

Vi è il dubbio che il "secondo giudizio", quello di condanna, sia stato pronunciato non per "convinzione" del giudice, ma per "adesione" a quanto "preteso" dalla folla che "assediava" l'aula del primo processo e i componenti del primo collegio.

Mi si dirà che questo non ha nulla a che vedere con il tema odierno, che non riguarda processi politici –e quello era un processo politico – bensì i processi di criminalità organizzata.

Ma io, a mia volta, mi chiedo: c'è differenza tra quel processo e gli odierni processi per delitti di criminalità organizzata, dai quali pure ci si attende non il giudizio (del terzo), ma il riscontro alla diffusa, unanime, convinzione della colpevolezza degli imputati?

Insomma, mi domando, ad esempio, se un capo cosca possa ancora aspirare a vedersi assolto da un qualche reato o non sia, piuttosto, vero che, in quanto mafioso conclamato, è già, prima ancora del processo, comunque colpevole?

Ma, se è colpevole - e come potrebbe non esserlo un capo cosca - perché ancora lo si processa? Non serve, forse, il processo ad un capo cosca solo per proclamare in un'aula di udienza la volontà della collettività, resa edotta dai mass media dell'intera vita di un capo cosca.

Ancora, oggi, allora, esistono processi - e tra questi, i processi per delitti di criminalità organizzata - il cui esito è, per così dire, scontato: il giudizio sarà reso non più alla luce delle emergenze processuali, ma in conformità alla opinione della collettività che, così come non ammette la assoluzione di un criminale nazista, non acconsentirà mai alla assoluzione di un capo cosca di mafia.

La verità "socialmente accettabile" non può non essere, nei processi di criminalità organizzata, la pronuncia di colpevolezza dell'imputato.

19. E allora, se così è, vi è da chiedersi: è sufficiente una riforma che, come quella in tema di letture, riafferma il contraddittorio e, per esso, la "terzietà" del giudice se, poi, per la pressione della collettività, quella "terzietà”' sarà, nei risultati, smentita dal condizionamento "sociale" del giudice, il quale, pur messo formalmente in condizione di giudicare audita altera parte, è, nella sostanza, sottomesso alle aspettative della collettività?

Si può essere "terzo", ma non è detto che, per ciò solo, si sia anche "imparziale".

Terzietà ed imparzialità non sono la stessa cosa: terzo è chi giudica dopo aver sentito le ragioni dell'una e dell'altra parte. Imparziale è solo chi, nel giudicare, non si lascia condizionare dalle convinzioni e dalle aspettative altrui.

Quando il pubblico "travalica le transenne", la decisione è della collettività e non del giudice, che, pur se terzo, non è stato imparziale, perché si è lasciato influenzare da una tesi precostituita rispetto al processo.

20. Un sintomo del superamento delle transenne può essere, ad esempio, l'introduzione, tra i principi naturali del giudizio, del c.d. principio di non dispersione.

Certo, non si può non essere consapevoli - così come lo sono stati i rappresentanti del Parlamento che hanno discusso la questione - del pericolo che ancora una volta la Corte costituzionale possa intervenire sul regime delle letture così come modificato, invocando, ancora una volta, il c.d. principio di non dispersione.

Sul punto, occorre sgombrare il campo da un equivoco di fondo.

Il c.d. principio di non dispersione non può essere inteso così come lo ha inteso la Corte.

Basta poco per capire che, così come operata dalla Corte, la valorizzazione di detto principio non è null'altro che il "riflesso pratico" della adesione, probabilmente inconscia, ad un ordine asimmetrico, in netto contrasto con le intenzioni del riformatore del codice di procedura penale.

Quando si afferma, così come ha fatto la Corte, che detto principio ha bilanciato i principi naturali del giudizio in nome della esigenza di addivenire alla ricostruzione della verità storica e che, per esso, occorre non disperdere, in nome di un mero formalismo, i dati raccolti dal magistrato del pubblico ministero nel corso delle indagini preliminari, si rinnega lo spirito della riforma, che ha rimesso solo al giudice, in ragione della oralità-immediatezza, la raccolta dei dati necessari alla formazione della prova.

L'oralità-immediatezza privilegiano, in contrapposizione all'ordine asimmetrico, arbitrariamente ripristinato dalla Corte costituzionale nelle ben note sentenze 255 e 254, l'opposto ordine isonomico: era questo l'ordine che il riformatore intendeva valorizzare quando ha parlato di parità di armi e di contraddittorio.

Parità di anni e contraddittorio significano esaltazione della regola della "divisione della conoscenza", e, per essa, riconoscimento alle parti del solo compito di offrire al giudice dati utili alla ricostruzione del fatto e alla ricerca della verità. Una verità che solo il giudice è chiamato a ricostruire, sulla base dei dati offerti dalle parti e del giudizio di rilevanza probatoria che su detti dati il giudice esprime.

Affermare, viceversa, che quanto raccolto dal magistrato del pubblico ministero va, in nome del c.d. principio di non dispersione, utilizzato dal giudice come prova, perché non ci si può accontentare di una verità formale, ma occorre addivenire alla verità materiale, non si fa altro che sostituire la "verità del magistrato del pubblico ministero" alla "verità del giudice", sottraendo quest'ultimo al compito di giudicare audita altera parte e il giudizio alle connotazioni di giudizio del terzo imparziale, reso, cioè, alla luce della regola della divisione della conoscenza.

Non vi è ragione di non condividere le esigenze di non dispersione: queste, però, vanno intese come esigenze motivate da ragioni di economia ed esclusive di chi ha provveduto alla raccolta del dato che si teme vada disperso.

Non si può imporre al giudice di rinunciare alle proprie prerogative di terzo perché non vada disperso il lavoro investigativo del magistrato del pubblico ministero (o il lavoro investigativo della difesa che si sia attivata ex art. 38 delle disposizioni di attuazione). Ciò che, per il giudice, non va disperso è quanto dal giudice stesso ricostruito, come terzo, all'esito dell'istruzione delle prove.

Un principio di non dispersione, inteso in altro modo, finisce col conferire al giudizio del giudice il valore di giudizio reso sulla base di dati a valenza probatoria raccolti da ciascuna delle parti "dal punto di vista proprio".

L'interesse alla non dispersione non è un interesse del giudice, il quale è tale solo se non è guidato, nel suo agire, da alcun interesse; quanto raccolto in funzione di un risultato e secondo le prospettazioni di chi, per quel risultato, ha operato, non deve interessare soggetti che ricoprono un ruolo diverso, rispetto ai quali pure vi può essere una esigenza dì non dispersione, ma sarà esigenza di non disperdere quanto acquisito da loro stessi in funzione di altro risultato e secondo le motivazioni che connotano il loro agire all'interno di uno specifico ruolo.

Consentire al magistrato del pubblico ministero e, perché no, al difensore, in relazione a quanto abbia formato oggetto di indagine difensiva, di utilizzare dichiarazioni precedentemente acquisite per procedere a contestazione, nel caso in cui la versione dibattimentale sia diversa da quella già resa dalla fonte probatoria, significa salvaguardare l'esigenza di non dispersione. Condizionare il giudizio del giudice in base a quanto è stato raccolto in sede investigativa, significa, invece, esautorare il giudice della sua funzione di terzo, impegnato nella imparziale ricostruzione del fatto.

21. Il giudice deve seguire le regole legali di assunzione della prova, ma non può essere condizionato, nel suo libero convincimento, da meccanismi che lo appiattiscano su prove da altri preformate.

Nella recente riforma in tema di letture dibattimentali, si coglie un "messaggio" che il legislatore ha voluto mandare a salvaguardia del libero convincimento del giudice, per valorizzare la imparzialità del giudizio giurisdizionale.

Mi riferisco alla norma transitoria, il cui significato, a mio avviso, va ben al di là della contingente situazione che ha inteso regolare.

La disposizione prevede che "le dichiarazioni rese in precedenza possono essere valutate come prova dei fatti in essi affermati, solo se la loro attendibilità sia confermata da altri elementi di prova, non desunti da dichiarazioni rese al magistrato del pubblico ministero, alla polizia giudiziaria da questi delegata o al giudice nel corso delle indagini preliminari o nell'udienza preliminare, di cui sia stata data lettura".

La formulazione della norma è piuttosto approssimativa ed esige qualche "integrazione". Se non si specifica, infatti, che le dichiarazioni che non possono essere valutate come prova dei fatti in esse affermati sono quelle già acquisite, mediante lettura, al fascicolo per il dibattimento e che le dichiarazioni che non possono fungere da riscontro di attendibilità sono dichiarazioni rilasciate da altre persone, il testo normativo non appare comprensibile.

In effetti, la norma avrebbe dovuto essere così formulata «Disposto l'esame delle persone indicate nell'art. 513 c.p.p., ove esso non abbia potuto aver luogo, perché le stesse non si sono presentate o si sono avvalse della facoltà di non rispondere, le dichiarazioni che tali persone hanno reso alla polizia giudiziaria delegata dal magistrato del pubblico ministero, a quest'ultimo o al giudice, nel corso delle indagini preliminari o nell'udienza preliminare, e che sono state lette ed acquisite al fascicolo per il dibattimento, possono essere valutate come prova dei fatti in esse affermati solo se la loro attendibilità sia confermata da altri elementi di prova, non desunti da dichiarazioni che altre persone abbiano reso alla polizia giudiziaria delegata dal magistrato del pubblico ministero, a quest'ultimo o al giudice per le indagini preliminari o dell'udienza preliminare, di cui sia stata data lettura ai sensi dell'art. 513 c.p.p., nel testo vigente prima della data di entrata in vigore della presente legge».

La soluzione adottata è apprezzabile, perché valorizza il principio del contraddittorio, escludendo dall'area della rilevanza probatoria elementi di accusa che siano stati raccolti da una delle parti del processo, come le dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria, per delega, o dal magistrato del pubblico ministero o dal giudice, ma al di fuori dello schema del contraddittorio per la prova. La difesa dell'imputato, nell'uno e nell'altro caso, non ha potuto fare uso della facoltà del controesame e, pertanto, non si può parlare di vera e propria acquisizione probatoria.

Correttamente il legislatore esclude che il c.d. principio di non dispersione possa comprimere il diritto al contraddittorio, chiarendo, in maniera definitiva, che l'uno e l'altro non possono mai trovarsi in "rotta di collisione", perché l'esigenza di non dispersione può ridurre l'ampiezza di altri principi naturali del giudizio, quali l'oralità e l'immediatezza, giammai il principio del contraddittorio, il quale, peraltro, ben può essere salvaguardato anche quando prevalga un'esigenza di non dispersione della prova.

22. È interessante rilevare che, sia pure con riguardo al regime transitorio, ha finito per trovare accoglimento, nell'ambito delle regole di valutazione probatoria, il suggerimento di modifica dell'art. 192 commi 3 e 4 c.p.p.

I disegni di legge prevedevano, in proposito, che gli elementi di riscontro dovessero essere di natura diversa dalle dichiarazioni e consistere in documenti o in dichiarazioni testimoniali.

La proposta fu accantonata, ma, in sede di discussione dell'emendamento che tendeva ad escludere le dichiarazioni lette ai sensi dell'art. 513 c.p.p., nel testo anteriore alla riforma, dal novero degli elementi probatori di riscontro di attendibilità, si osservò che, accogliendo l'emendamento, si sarebbe modificato, surrettiziamente, l'art. 192 commi 3 e 4 c.p.p.

Il timore non era, per la verità, del tutto ingiustificato, perché è indubitabile che la disposizione transitoria abbia, alla fine, interferito sulla regola di acquisizione probatoria.

Poiché il regime transitorio si applica ai processi in relazione ai quali, alla data di entrata in vigore della legge, si sia fatto ricorso al vecchio testo dell'art. 513 c.p.p., e, per essi, prevede che si disponga la citazione del dichiarante per un nuovo esame, o, meglio, per un esame che non c'è stato, è evidente che la piattaforma probatoria di cui possono disporre le parti è costituita da atti formati in base alla legge pre-vigente.

Si vuole dire che, non essendo, prima, consentito al magistrato del pubblico ministero chiedere l'assunzione delle dichiarazioni del chiamante in correità con le forme dell'incidente probatorio senza dimostrare il pericolo di dispersione o di inquinamento della fonte e non essendo previsto l'interrogatorio dell'imputato, nel corso dell'udienza preliminare, con le forme del dibattimento, le dichiarazioni del chiamante in correità non possono non essere contenute in atti assunti dalla polizia giudiziaria, per delega del magistrato del pubblico ministero, dal magistrato stesso o dal giudice per le indagini preliminari in sede di interrogatorio, svolto senza l'osservanza delle forme previste per il dibattimento. Solo queste dichiarazioni sono disponibili e solo esse possono aver formato oggetto di acquisizione, mediante lettura, nel fascicolo per il dibattimento, in applicazione del vecchio testo dell'art. 513 c.p.p.

Se è così – e non sembra possa argomentarsi diversamente – appare evidente che il legislatore, quando stabilisce, con riguardo ai processi in corso, che, in caso di assenza del dichiarante, appositamente citato, o di rifiuto dello stesso a rendere l'esame, le sue dichiarazioni, che sono già nel fascicolo per il dibattimento, non possono, da sole, costituire prova dei fatti in esse affermati, ma debbono trovare un riscontro in dichiarazioni di altri soggetti, questi ultimi non possono essere altri chiamanti in correità che, a loro volta, invitati a rendere l'esame in dibattimento, si siano, sotto il vigore del precedente testo dell'art. 513 c.p.p., rifiutati di sottoporsi all'esame, determinando l'acquisizione al fascicolo per il dibattimento delle dichiarazioni rese nella fase delle indagini preliminari.

È chiaro che le dichiarazioni del chiamante in correità non possono, in tale ipotesi, trovare un riscontro probatorio in dichiarazioni rese da altro chiamante in correità, ma possono essere corroborate, sul piano dell'attendibilità, soltanto da dichiarazioni testimoniali o da documenti.

A questo punto, ci si deve chiedere quale sia la regola di valutazione probatoria, enunciata nell'art. 192 commi 3 e 4 c.p.p., se essa, cioè, possa essere interpretata in due distinte dimensioni, secondo che si invochi per definire processi che si avviano sotto il vigore del nuovo testo dell'art. 513 c.p.p. o si ricorra ad essa per definire processi rispetto ai quali abbia trovato applicazione il vecchio testo dell'articolo.

Nei primi, i riscontri probatori a dichiarazioni di chiamanti in correità, richiesti dalla regola di valutazione della prova, possono essere rinvenuti, stando alla costante interpretazione giurisprudenziale, in dichiarazioni di altri chiamanti in correità; nei secondi, in virtù della disposizione transitoria, i riscontri debbono consistere in dichiarazioni rese da altri soggetti, che non possono non essere testimoni, o in documenti.

23. Il parametro valutativo non può non essere unico: se, come appare indiscutibile, l'art. 192 comma 3 c. p. p. enuncia una regola di valutazione della prova, questa regola deve essere la stessa per ogni processo, a meno che non ci si orienti – ma, non pare che questo intento sia stato manifestato dal legislatore – per il "doppio binario", per distinguere i criteri di valutazione della prova a seconda del tipo di reato oggetto dell'accertamento.

Eppure, per effetto della norma transitoria, rispetto ai processi in corso di svolgimento, nei quali occorra "ripetere" l'esame del chiamante in correità, l'ambito dei possibili riscontri di attendibilità delle dichiarazioni del chiamante in correità è più ristretto che negli altri processi.

Questa constatazione, suggerita dal raffronto tra la norma transitoria della recente riforma della disciplina delle letture dibattimentali e gli orientamenti consolidati in giurisprudenza, in tema di "riscontri probatori", induce a riflettere sulla portata dell'art. 192 comma 3 c. p. p.

Si tratta, davvero, di una regola di valutazione probatoria o piuttosto di una regola di esclusione probatoria.

Un chiaro riferimento alla finalità della disposizione è contenuto nella relazione al progetto preliminare del codice, là dove si precisa che "raccogliendo le indicazioni provenienti dalla giurisprudenza della Corte di cassazione, che ha sancito il principio del necessario riscontro probatorio della chiamata di correo, si è ritenuto di formulare la norma in chiave di regola sulla valutazione delle prove, escludendo così che le dichiarazioni del chiamante in correità possano qualificarsi ex lege come elementi probatori inutilizzabili. Il concetto di valutazione unitaria postula l'impegno del giudice ad indicare, nella motivazione del provvedimento, le prove o gli indizi che corroborano la chiamata in correità".

L'intento legislativo è inequivoco: la chiamata in correità da sola non costituisce elemento probatorio utilizzabile dal giudice. Affinché possa avere ingresso nel patrimonio conoscitivo del giudicante, la chiamata deve essere corroborata da altri elementi di prova che ne confermano l'attendibilità.

Così come l'indizio, da solo, non può essere utilizzato, allo stesso modo è inutilizzabile la sola chiamata in correità.

Ciò non vuol dire che, una volta utilizzabile, la chiamata in correità costituisca la fonte rappresentativa del factum probans, perché quest'ultimo deve scaturire da una valutazione unitaria di tutto il materiale probatorio acquisito dal giudice.

Le regole di valutazione, rispetto alla chiamata in correità, non sono diverse da quelle fissate in via generale, nel primo e nel secondo comma dell'art. 192 c. p. p. Quanto alla prova non indiziaria, alla prova storica, il giudice deve dare conto dei risultati acquisiti e dei criteri adottati; quanto alla prova indiziaria, alla prova indiretta, deve, in particolare, dimostrare che gli indizi sono plurimi, gravi, precisi e concordanti.

In effetti, la vera e propria regola di valutazione probatoria è enunciata solo con riguardo alla prova indiziaria, in quanto sono individuati i parametri di valutazione degli indizi, che vanno apprezzati nella loro gravità, precisione e concordanza.

Nessun ordine nella "gerarchia" dei riscontri, nessuna limitazione nella individuazione degli altri elementi di prova può desumersi dall'art. 192 c. p. p.

Il "messaggio" contenuto nella disposizione transitoria dell'ultima legge di riforma è rivolto alla giurisprudenza: il legislatore avverte il giudice che può incorrere in una vistosa disparità di trattamento se continua a ritenere riscontri "privilegiati" della chiamata in correità altre chiamate in correità.

Non occorre la modifica dell'art. 192 c. p. p. Una sua specificazione, in ordine alla natura e alla "intensità" degli elementi di riscontro potrebbe aprire una strada pericolosissima, la strada del condizionamento del libero convincimento del giudice attraverso la posizione dì regole di prova legale.


Commento di Rossella Esposito

Dottoressa in giurisprudenza

Dipartimento di Scienze Giuridiche – Università degli Studi di Salerno

In un sistema politico-sociale che, fin dagli albori, risulta fortemente permeato e inquinato dall’apparente imperturbabile fenomeno del crimine mafioso, si intersecano e, a volte, si scontrano, in una dialettica continua, due necessità intangibili: la garanzia dei diritti fondamentali e l’efficacia dell’accertamento penale, nella continua ricerca di un equilibrio difficile e, secondo alcuni, irraggiungibile.

Da tempo ormai la suddetta problematica è fortemente attenzionata dalla giurisprudenza e dalla dottrina, ed è proprio in occasione di un Convegno tenutosi a Favinara (TR) in data 27 settembre 1997, che il prof. Andrea Antonio Dalia decise di focalizzare l’attenzione sul tema, concentrandosi in particolare sulla formazione della prova nei processi di criminalità organizzata.

All’epoca, seppur si tratti di tempi relativamente recenti, non era stata ancora approvata la riforma costituzionale che di lì a poco avrebbe introdotto il principio del “giusto processo” (con particolare riferimento, per quanto concerne l’argomento in esame, al co. 3) nella Carta Costituzionale. Tuttavia, fu con il codice del 1988 che, ai fini dell’accertamento della responsabilità penale, per la prima volta, veniva riconosciuto uno strumento essenziale e fondamentale per la formazione della prova: il contraddittorio.

I delitti di criminalità organizzata, però, come si osservò all’epoca, non sono reati comuni, necessitano di maggiore attenzione e di un più incisivo intervento statuale. Per queste motivazioni vennero introdotte delle fattispecie derogatorie volte a creare un “procedimento speciale” per l’accertamento dei delitti di mafia. Il problema fu che di questa differenza, però, non si tenne conto in sede di “disciplina probatoria”, e determinate innovazioni (limitative del diritto di difesa) vennero rese operative in qualsiasi procedimento penale, con notevoli ricadute sul piano della tutela dei diritti fondamentali (tra cui, in primis, il diritto alla difesa e il diritto alla libertà personale).

La particolarità del fenomeno mafioso ha sempre necessitato discipline particolareggiate e, con riferimento al tema generale della formazione della prova, bisogna considerarne tutti i vari aspetti, compreso il momento della valutazione che, com’è noto, spetta al giudice, in qualità di soggetto terzo e imparziale.

Con la riforma del ’92, a titolo esemplificativo, attraverso lo sviluppo della figura del c.d. “collaborante di giustizia”, vennero riconosciute molte ipotesi di pre-assunzioni probatorie, determinando uno svilimento della funzione giudicante, privata di autonomia valutativa e, quindi, di imparzialità. Si pensi ad esempio all’introduzione, con il d.l. 8 giugno 1992, n. 306, dell’art. 190-bis, che consente di sostituire, con la lettura delle precedenti dichiarazioni rese in contesti diversi, l’esame del testimone e della persona imputata per un reato connesso o collegato.

La problematica non è stata e non è assolutamente di poco conto, soprattutto se si considera il forte impatto sociale che hanno i processi di criminalità organizzata, posti al centro di un circuito mass-mediale talmente condizionante da “sottomettere il giudice alle aspettative della collettività” e giungere a un processo “dall’esito scontato”.

Il prof. Dalia, nello svolgimento ordinato delle proprie considerazioni, inserì degli spunti di riforma, concentrandosi in particolare sulla portata applicativa e sulle interpretazioni da dare all’art. 192 c.p.p., nonché anticipando le tendenze legislative degli anni successivi.

Egli individuò come germe, per il superamento delle oggettive difficoltà che quotidianamente si riscontravano nelle aule dei tribunali, un’interpretazione del “principio di non dispersione” differente rispetto a quella della Corte Costituzionale. Con le sent. 255 e 254 del 1992 (ribadite e riconfermate anche negli anni successivi, ad esempio con la sent. n. 361/1998, cronologicamente successiva al contenuto in esame) la Consulta – privilegiando l’aspetto, in un certo senso, inquisitorio – stabilì infatti che questo comporta la necessità di non disperdere i dati raccolti dal pubblico ministero nel corso delle indagini preliminari. In realtà, come osservò accuratamente il Prof. Dalia, “l’interesse alla non dispersione (dei risultati investigativi) non è un interesse del giudice”, in quanto a quest’ultimo compete unicamente preservare quanto acquisito e formato in sua presenza.

Per questo accolse con sguardo positivo la riforma in tema di procedimento probatorio (legge n. 267, 7 agosto 1997), con particolare riferimento all’esame del “coimputato del medesimo reato” o della “persona imputata in un procedimento connesso”: sul punto, infatti, era stato osservato dalla dottrina che l’art. 192 co. 3 e 4 fosse stato costruito in modo poco chiaro e inidoneo a qualificare tali “dichiarazioni” in modo preciso, ovvero se come “prova storica” o “prova indiziaria”.

Il legislatore, seppur con qualche imprecisione terminologica di cui nell’elaborato in commento si dà evidenza, aveva stabilito che, nei casi di assenza del dichiarante, o rifiuto da parte dello stesso di essere esaminato, le dichiarazioni rese in precedenza (già inserite nel fascicolo per il dibattimento) potessero essere valutate come prova dei fatti in esse affermati solo se la loro attendibilità fosse stata confermata da elementi di prova ulteriori rispetto alle dichiarazioni rese alle autorità protagoniste del procedimento penale.

Il messaggio trasmesso dal legislatore dell’epoca fu chiaro e offrì la possibilità di dare un’interpretazione inequivocabile alla norma: la dichiarazione resa dal coimputato del medesimo reato o da persona imputata in un procedimento connesso viene valutata unicamente se sussistono elementi di prova ulteriori e differenti che ne confermano l'attendibilità.

In tal modo veniva preservata l’anima accusatoria del codice dell’88, ponendo al centro il diritto al contraddittorio, che non può e non deve mai essere scalfito dal principio (o, meglio, esigenza) di non dispersione. Per queste motivazioni già nel 1997 il Professore osservava che non fosse necessaria o utile la modifica dell’art. 192 c.p.p. attraverso l’individuazione di parametri stringenti per attribuire valore probatorio alle dichiarazioni del chiamante in correità, in quanto si sarebbe rischiato di condizionare il libero convincimento del giudice attraverso la creazione di una “prova legale”. Ciò che in realtà era – e rimane tuttora necessario – è esattamente l’opposto: la valorizzazione del ruolo del giudice nel rispetto dei principi di uguaglianza e del contraddittorio.

Sul finire del millennio, tuttavia, si assiste, come anticipato, a una svolta epocale: la legge costituzionale n. 2 del 1999, che introduce i principi del “giusto processo”, apporta una profonda innovazione dell'articolo 111 della Carta fondamentale. Tra le garanzie in tema di processo penale previste dal rinnovato dettato costituzionale spicca senz’altro il riconoscimento del “diritto di difendersi provando” (co. 3) e del “principio del contraddittorio” quale pilastro fondante della giurisdizione penale, inteso come strumento funzionale all’esercizio del diritto di prova e altresì come luogo privilegiato per la formazione della stessa (co. 2 e 4). Riforma che, seguendo sempre il pensiero del Prof. Dalia, aveva purtroppo un “difetto” originario: l’aver costituzionalizzato le deroghe alla formazione della prova nel contraddittorio tra le parti.

Tuttavia, veniva stabilito un ulteriore limite posto all’attività valutativa del giudice, il quale non può determinarsi circa la colpevolezza dell’imputato sulla base di “dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all’interrogatorio da parte dell’imputato o del suo difensore” (co. 4).

Dal nuovo assetto costituzionale scaturì poi la l. 1° marzo 2001, n. 63, con cui si intervenne sulla disciplina probatoria nel rispetto del novello art. 111 Cost.; in particolare, risulta in tale sede calzante la modifica apportata all’art. 190-bis c.p.p. che, purtroppo, nonostante l’obiettivo fosse garantire il contraddittorio tra le parti, ha continuato e continua a derogare ampiamente al principio di oralità-immediatezza: basti pensare all’ipotesi ammessa dalla norma che consente la surrogazione dell'acquisizione di un verbale scritto nel vero e proprio esame orale. A queste osservazioni bisogna poi aggiungere che le ipotesi applicative della fattispecie sono state man mano ampliate nel corso degli anni dal legislatore (e dal giudice di legittimità).

Ad aggravare ancora di più la situazione sussiste l’onere posto in capo alla parte che richieda l’esame di persone che abbiano già reso dichiarazioni nei casi previsti dall’art. 190-bis c.p.p.: secondo un orientamento costante del giudice di legittimità, infatti, l’esame “non deve essere disposto solo perché la parte interessata lo abbia richiesto, gravando su quest'ultima l'onere di prospettare le ragioni che rendano necessaria la reiterazione della prova e spettando comunque al giudice di apprezzarne il merito anche alla luce di elementi di fatto eventualmente sopravvenuti” (Cass. pen., Sez. V, sent. n. 11616 del 26 marzo 2012, confermato più recentemente da Cass. pen., Sez. VI, sent. n. 10/04/2018, n. 29660).

Alla luce delle osservazioni fin qui svolte non si può che ricollegarsi al primo inciso: l’equilibrio di cui a lungo si è in cerca non può ritenersi sicuramente raggiunto. Quando si tratta di delitti di criminalità organizzata, il processo penale sembra snaturarsi, procedere per binari, appunto, paralleli, e soprattutto perseguire finalità differenti; non è più un insieme ordinato di atti volti all’accertamento della responsabilità penale, ma diviene quasi esclusivamente uno strumento di difesa sociale che assicura al popolo che in quale modo lo Stato “si impegna” nella lotta alla mafia.

Le innovazioni, rispetto al passato, non sono numerose, e questo è indice dello stallo legislativo e della difficoltà di cercare soluzioni nuove e soddisfacenti. Introdurre una norma come l’art. 190-bis nel 1992, epoca in cui si tentava un primo approccio organico e compatto da parte dell’apparato giudiziario nella lotta alla mafia, è un conto; ritrovare una disposizione talmente limitativa del diritto alla prova nel codice di procedura penale ancora nel 2024 è un altro.

Tant’è che, consapevole della necessità di agire con cautela, il legislatore non ha ancora preso una precisa posizione sul punto: vincolare la conoscenza del giudice per taluni delitti con dei limiti stringenti è molto pericoloso, così come lo sarebbe predisporre un “doppio binario probatorio”.

Sicuramente, tuttavia, la natura dei delitti di criminalità organizzata e il forte impatto che hanno sulla popolazione necessiterebbe una normativa ad hoc, soprattutto per evitare che le limitazioni ai diritti fondamentali siano generalizzate e che, pertanto, le eccezioni diventino regole.


Note e riferimenti bibliografici