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Pubbl. Gio, 4 Lug 2024

La dubbia compatibilità tra il reato continuato e la particolare tenuità del fatto ex art. 131 bis c.p.

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Benedetta Ruffo
Praticante AvvocatoUniversità degli Studi di Napoli Federico II



Sebbene il reato continuato sia in apparenza sintomatico di una condotta criminosa abituale, poiché si estrinseca in una forma di concorso materiale, in realtà esso è un istituto di favore che premia la volontà del reo di porsi in contrasto con l´ordinamento una sola volta, mediante un unico disegno criminoso. Da qui è insorta la questione sull´incertezza applicativa della causa di non punibilità in senso stretto per particolare tenuità del fatto a fattispecie di reato continuato - istituti fra loro apparentemente incompatibili - che ha trovato un punto di arrivo all´esito di un dibattuto contrasto giurisprudenziale culminato con una recente pronuncia delle Sezioni Unite n. 18891/2022.


Sommario: 1. Il reato continuato di cui all’art. 81 co. 2 c.p.; 2. La causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto ex art. 131 bis c.p. nei suoi peculiari aspetti; 3. La dubbia compatibilità dell’art. 131 bis c.p. con il reato continuato: orientamenti a confronto; 4. La pronuncia della Corte di Cassazione a Sezioni Unite n. 18891/2022; 5. Conclusioni.

1. Il reato continuato di cui all’art. 81 co. 2 c.p.

Il reato continuato, previsto dall’art. 81 co. 2 c.p., si configura come una particolare forma di concorso materiale implementata da un elemento costitutivo aggiuntivo: un medesimo disegno criminoso. Precisamente, la norma dispone che si realizza un reato continuato quando, con più azioni diverse, sono commesse - anche in tempi diversi - più violazioni della stessa o di diverse disposizioni di legge, in esecuzione di un unico disegno criminoso.

Nonostante, come detto, si realizzi un concorso materiale, per il quale di regola dovrebbe essere applicato il relativo cumulo materiale, il legislatore ha previsto all’art. 81 co. 2 c.p. il più favorevole trattamento sanzionatorio del cumulo giuridico (applicazione della pena da infliggere per il reato più grave aumentata fino al triplo), ciò in ragione della minore riprovevolezza di chi cede una sola volta agli impulsi criminosi (cd. medesimo disegno criminoso). 

Infatti, la continuazione è senz’altro ritenuta un istituto favorevole al reo e il vincolo della continuazione, riconosciuto dal giudice, non snatura l’autonomia dei singoli reati che da esso sono avvinti. Conseguentemente, il reato continuato è ritenuto unico solo quoad poenam e in relazione agli effetti favorevoli ulteriori che potrebbero discenderne considerandolo tale. 

Tuttavia, per ciò che esula tale aspetto, i singoli reati (avvinti dal vincolo della continuazione) restano autonomi e ciò in un’ottica di favor rei. Per comprendere tale aspetto risulta utile attenzionare gli effetti sfavorevoli che deriverebbero in termini di prescrizione, considerando il reato come un unico. Invero, in una situazione di tal fatta, la prescrizione dovrebbe cominciare a decorrere dal momento della commissione dell’ultimo reato oggetto della serie continuata, sfavorendo di gran lunga il reo e ponendosi così in contrasto con uno dei principi fondamentali nell’ordinamento penalistico, quale il favor rei. 

Di contro, avvalorando la tesi della pluralità dei reati, la prescrizione comincerebbe a decorrere, singolarmente, per ognuno dei reati dal giorno in cui furono commessi, in armonia con la funzione di favore che l’istituto della continuazione nella sua essenza ricopre. Si suole rammentare però che l’art. 158 c.p., circa la decorrenza del termine di prescrizione, sembra essere alquanto chiaro sul punto; difatti, la norma recita testualmente che «il termine della prescrizione decorre per il reato continuato dal giorno in cui è cessata la continuazione».

L’interpretazione testuale non potrebbe che far ritenere, come termine di decorrenza della prescrizione, l’attimo consumativo dell’ultimo dei reati in continuazione, che segna al contempo anche il momento di cessazione della continuazione stessa.

2. La causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto ex art. 131 bis c.p. nei suoi peculiari aspetti

La particolare tenuità del fatto ex art. 131 bis c.p. è qualificabile come una causa di non punibilità in senso stretto: il fatto è tipico, antigiuridico e colpevole - seguendo la teoria tripartita del reato -, ma è comunque ritenuto non punibile. Trova applicazione in presenza di fatti che manifestano una scarsa offensività, tali per cui non risultano meritevoli di sanzione. L’istituto in esame, quindi, conferisce al giudice il potere di valutare l’incidenza del fatto storico e ritenerlo lieve a tal punto da depenalizzare in concreto la fattispecie, in linea con la graduabilità che ogni illecito presenta.

Per l’applicazione della causa di non punibilità di cui all’art. 131 bis c.p. è necessario il rispetto di limiti oggettivi e soggettivi che devono coesistere e che, in parte, sono valutati a monte dal legislatore, e in parte rimessi all’apprezzamento del giudice.

Dal punto di vista oggettivo, i limiti concernono l’applicabilità della causa di non punibilità ai reati puniti esclusivamente con pena pecuniaria, con pena detentiva non superiore nel minimo a due anni - sola o congiunta a pena pecuniaria -, nonché ai reati per i quali la pena detentiva minima - sola o congiunta alla pena pecuniaria - non è stabilita. L’art. 131 bis c.p. è applicabile a qualsiasi tipo di reato, salvi i casi indicati espressamente dal secondo comma dell’articolo in commento, per i quali la particolare tenuità è stata esclusa a monte dal legislatore. Affinchè possa essere desunta la particolare tenuità, il giudice deve valutare due indici-requisiti: l’esiguità del pericolo o del danno e le modalità della condotta da apprezzare ai sensi dell’art. 133 co. 1 c.p.

Sul versante soggettivo, invece, è necessario che il comportamento non risulti abituale, così come previsto dal comma 3 che esclude l’applicazione della causa di non punibilità laddove il reo sia un delinquente dichiarato abituale, professionale o per tendenza, ovvero abbia commesso più reati della stessa indole (anche laddove ciascun fatto sia considerato particolarmente tenue), nonché nell’ipotesi di reati aventi ad oggetto condotte plurime, abituali o reiterate.

L’elencazione riportata dalla norma deve ritenersi tassativa, così come affermato anche dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite[1] che esclude categoricamente dal raggio di operatività della particolare tenuità i comportamenti “seriali”.

Oltre che con il reato continuato, dibattuto è stato anche il riconoscimento della compatibilità tra l’art. 131 bis c.p. e i reati che prevedono delle soglie di punibilità. Infatti, secondo un orientamento, questi ultimi si ritengono compatibili in quanto, se l’art. 131 bis c.p. presuppone l’offensività della condotta, allora non c’è ragione per non ritenerlo applicabile anche ai reati con soglie di punibilità; cioè, pur in presenza del superamento di un valore-soglia, che determina la rilevanza penale della condotta, il fatto, nel suo insieme, può essere ritenuto di particolare tenuità e, pertanto, non sarà punibile il fatto concreto che si collochi immediatamente al di sopra della soglia.

Ad esempio, circa la condotta di detenzione di stupefacenti ex art. 73 dpr. 309/1990, la Corte Costituzionale, con la sent. n. 333/1991, ha ritenuto che la previsione del limite obiettivo fisso della dose media giornaliera, in funzione della distinzione tra illecito amministrativo e illecito penale, non impedisce al giudice di merito di valutare se l’eccedenza accertata (rispetto alla soglia) sia di entità così modesta da far ritenere la condotta «priva di qualsiasi idoneità lesiva concreta dei beni giuridici tutelati» e quindi penalmente irrilevante.

Secondo altro orientamento, il legislatore, con la previsione di tali soglie di punibilità, ha già operato a monte una valutazione di particolare tenuità che, integrata la soglia, deve ritenersi automaticamente superata; per cui, concedendo al giudice di procedere a una valutazione sulla sussistenza dei presupposti dell’art. 131 bis c.p., è come se gli si consentisse di sostituirsi alle scelte politico-criminali del legislatore. Secondo una tesi mediana, invece, non essendo le soglie di punibilità una categoria unitaria che svolge sempre la medesima funzione, ma atteggiandosi talvolta come elementi costitutivi del reato, talvolta come condizioni obiettive di punibilità, allora nel primo caso (elementi costitutivi del reato), sotto la soglia, il fatto non costituisce reato ed è quindi possibile una valutazione della tenuità dell’offesa ex art. 131 bis c.p.; nel secondo caso (condizioni obiettive di punibilità), invece, il legislatore ha già vagliato il grado di offesa che comporta la punibilità del reato, sicchè non dovrebbe ritenersi ammissibile alcun’altra valutazione del giudice ex art. 131 bis c.p. Ciò è stato sostenuto proprio richiamando l’art. 316 ter c.p. e i reati tributari, rispetto ai quali il mancato superamento della soglia integra comunque illecito amministrativo.

Sarebbe infatti paradossale ritenere esente da qualsiasi sanzione, penale e amministrativa, chi abbia, anche se di poco, superato la soglia di punibilità (in virtù del riconoscimento della particolare tenuità), e vedere al contrario sempre punito con una sanzione amministrativa chi non abbia superato tale soglia.

Tuttavia, c’è chi sostiene che, in tali ipotesi, si debba fare comunque applicazione della sanzione amministrativa per chi superi la soglia di punibilità, ma non soggiaccia alla sanzione penale per il riconoscimento della particolare tenuità, sul presupposto che il più contiene il meno (per cui il fatto sopra-soglia contiene il fatto sotto-soglia che integra illecito amministrativo), anche se in tal modo appare violato il principio di legalità dell’illecito amministrativo, applicando sanzioni non espressamente previste per quell’illecito (art. 1 l. 689/1981).

Sul punto sono intervenute le Sezioni Unite[2] che hanno ritenuto compatibile la particolare tenuità del fatto con le soglie di punibilità, ponendo l’accento sulla necessità di una valutazione in concreto da parte del giudice, e superando gli aspetti critici, poiché nei confronti dell’autore del fatto potrà essere sempre demandata al Prefetto l’irrogazione delle sanzioni amministrative accessorie contemplate dalla rispettiva fattispecie incriminatrice. Il Supremo Consesso aggiunge, inoltre, che in tal caso il giudice non va a sostituirsi alle scelte operate a monte dal legislatore, ma, al contrario, ne recepisce fedelmente la valutazione.

Chiaramente, quanto più ci si allontana dalla soglia limite, tanto più sarà difficile immaginare che ci si trovi in presenza di un fatto particolarmente tenue, ma, nonostante ciò, nessuna conclusione può essere dedotta aprioristicamente senza considerare le peculiarità del caso concreto.

3. La dubbia compatibilità dell’art. 131 bis c.p. con il reato continuato: orientamenti a confronto

Una prima tesi, che sostiene l’incompatibilità tra i due istituti, ritiene che questi ultimi non possano coesistere in quanto, sulla base dei limiti relativi alla serialità del comportamento delittuoso, non può di certo affermarsi una particolare tenuità nei casi di continuazione, ove il reo comunque, anche se sulla base di uno stesso disegno criminoso, si è posto più volte nelle condizioni di delinquere realizzando una pluralità di reati. Il dibattito si è incentrato, infatti, sul requisito della non abitualità del comportamento.

Per cui, la parte della giurisprudenza sostenitrice della tesi dell’incompatibilità, ha ritenuto di escludere la sussistenza della particolare tenuità del fatto tutte le volte in cui vi siano più reati avvinti dal vincolo della continuazione, in quanto la reiterazione di condotte penalmente rilevanti costituisce di per sé il segno di una devianza abituale. Sul versante opposto si innesta la teoria che sostiene la compatibilità dei due istituti, secondo cui il reato continuato e la particolare tenuità del fatto costituiscono un ossimoro apparente, in quanto entrambi sono sorretti da una medesima ratio: il favor rei. Infatti, a chi è stato riconosciuto il beneficio della continuazione - che mira a riconoscere un trattamento di favore a chi ha ceduto all’impulso criminoso una sola volta, sotto la guida di un unico disegno criminoso - non può non riconoscersi un beneficio ulteriore, laddove abbia agito con un minor grado di colpevolezza.

Inoltre, sempre a sostegno di tale tesi favorevole, si pone il dato della compatibilità dell’art. 131 bis c.p. con il concorso formale di reati; per cui, sarebbe illogico non riconoscere la causa di non punibilità in senso stretto anche a chi ha posto in essere una serie di condotte avvinte da un medesimo disegno criminoso, in quanto in entrambe le situazioni (concorso formale e reato continuato) rileva l’unicità della deliberazione delittuosa, ragion per cui è previsto lo stesso trattamento sanzionatorio per entrambe le fattispecie (cumulo giuridico). Infine, per ciò che concerne il profilo del comportamento che risulterebbe essere “abituale”, i sostenitori della tesi della compatibilità ritengono che i reati uniti dal vincolo della continuazione non coincidono di per sé con il significato tecnico ordinariamente attribuito all’abitualità del reato, concludendo per la necessità di una valutazione in concreto.

Sulla scorta di queste considerazioni si tende, nel diritto vivente, a ritenere i due istituti compatibili nei casi di cd. continuazione sincronica, cioè quei casi in cui il reato è sostanzialmente unico, essendo il frutto di fattispecie poste in essere nelle medesime circostanze di tempo e di luogo nei confronti della medesima persona, sicchè emerge una unitaria e circoscritta deliberazione criminosa, in quanto tale (necessariamente) compatibile con l’art. 131 bis c.p. (chiaramente sempre in astratto, perché sarà poi il giudice a valutarne in concreto la sussistenza dei presupposti).

4. La pronuncia delle Sezioni Unite n. 18891/2022

Con la pronuncia in commento, le Sezioni unite della Corte di cassazione pongono fine al prolungato e persistente contrasto giurisprudenziale insorto in merito alla compatibilità della causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto (art. 131 bis c.p.) con l’istituto del reato continuato (art. 81 co. 2 c.p.), accogliendo la tesi espressa dall’orientamento più recente, secondo cui la commissione di più reati avvinti dal vincolo della continuazione non è di per sé ostativa al riconoscimento del beneficio di cui all’art. 131 bis c.p., che potrà dunque d’ora in avanti essere sempre concesso qualora, a esito di una valutazione in concreto, il complesso di reati, unificato ex art. 81 co. 2 c.p., risulti di particolare tenuità. La querelle trae origine da due opposti orientamenti, l’uno che escludeva la compatibilità tra i due istituti e l’altro che la ammetteva, entrambi basati su valide argomentazioni - di cui si è detto e si dirà nel prosieguo - che conducevano i tribunali di primo grado, posti davanti ai casi concreti, ad adottare decisioni diverse generatrici di disparità di trattamenti, mancando un principio di diritto da seguire e dei criteri di cui avvalersi in materia.

Partendo dalla questione di fatto, arrivata poi in Cassazione, l’imputato - che aveva parcheggiato per tre volte nell’arco di un mese la propria autovettura sulle corsie di accesso e di uscita di un distributore di benzina gestito dal fratello, impedendo così l’utilizzo del servizio di rifornimento da parte della clientela - veniva dichiarato responsabile di tre diversi delitti di violenza privata, compiuti in esecuzione di un medesimo disegno criminoso (artt. 81 co. 2, 610 c.p.), e condannato alla pena di venti giorni di reclusione, sostituita con una multa di importo pari a euro 5.000.

Secondo la concorde valutazione dei giudici di merito, la causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto (art. 131 bis c.p.), invocata dalla difesa dell’imputato, risultava inapplicabile, proprio in ragione dell’avvenuto riconoscimento del vincolo della continuazione tra i tre delitti realizzati da quest’ultimo. L’imputato ricorreva allora per cassazione, dolendosi dell’erronea applicazione dell’art. 131 bis c.p. Investita del ricorso, la quinta sezione della Corte di cassazione rimetteva la questione alle Sezioni unite, riscontrando un contrasto nella giurisprudenza delle sezioni semplici in merito ai rapporti tra l’istituto della continuazione e quello dell’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto.

Com’è noto, infatti, una parte della giurisprudenza riteneva la causa di non punibilità sempre inapplicabile ai casi in cui plurimi reati fossero avvinti dal vincolo della continuazione; secondo un diverso orientamento, invece, la continuazione non assume, in linea di principio, natura ostativa alla concessione del beneficio di cui all’art. 131 bis c.p., dovendosi verificare caso per caso la natura abituale del comportamento alla luce della definizione contenuta nel terzo comma dell’art. 131 bis c.p. Ciò posto, ad avviso delle Sezioni unite, nella concreta fattispecie in esame la causa di non punibilità in parola risulta comunque inapplicabile; l’imputato, infatti, ha realizzato tre diversi reati della «medesima indole», «rientranti, come tali, nella seconda ipotesi ostativa prevista dal comma 3 dell’art. 131-bis c.p.».

Nel prendere posizione in favore dell’orientamento meno restrittivo, la Suprema corte ripercorre, innanzitutto, gli elementi strutturali dell’art. 131 co. 1 bis c.p., ricordando che, a fronte di un’offesa particolarmente tenue e di un reato per il quale è prevista la pena detentiva non superiore nel minimo a due anni, l’applicabilità della causa di esclusione della punibilità in parola può essere negata soltanto a fronte di un "comportamento abituale". 

I giudici ricordano, poi, che la nozione di "comportamento abituale" fornita direttamente dal legislatore al quarto comma dell’art. 131 bis c.p., si articola in tre distinte ipotesi, da ritenersi tassative: a) il caso in cui l’autore sia stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza; b) il caso in cui l’autore abbia commesso più reati della stessa indole; c) il caso in cui si tratti di reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali o reiterate. Fatta questa premessa, la Corte di cassazione passa dunque a verificare analiticamente se il reato continuato possa essere ricondotto ad alcuna tra tali tipologie di "comportamento abituale". Per ciò che attiene alla prima ipotesi, la Suprema corte esclude ogni automatica identificazione del medesimo disegno criminoso, per il quale l’ordinamento accorda un trattamento più favorevole ai sensi dell’art. 81 co 2 c.p., «in ragione del minor grado di pericolosità sociale rivelato dal comportamento di un soggetto che [...] ha superato in un’unica occasione le controspinte che l’ordinamento predispone per contrastare l’interesse a delinquere», con le attività abituali, professionali o tendenti, per le quali, di converso, è previsto un giudizio di maggior gravità della condotta dell’agente, in quanto la dichiarazione di abitualità, professionalità e tendenza a delinquere «esprime [...] l’opzione del reo a favore della commissione di un numero non predeterminato di reati, che, seppure dello stesso tipo, non sono identificabili a priori nelle loro principali coordinate, rivelando una generale propensione alla devianza». Identica conclusione viene poi raggiunta in considerazione della seconda ipotesi concernente la commissione di più reati della stessa indole. La Corte di cassazione osserva infatti che, se da un lato la categoria dei reati per i quali può essere riconosciuta la continuazione è più ampia di quella che racchiude i reati da considerarsi «della stessa indole» ai sensi dell’art. 101 c.p., poiché la continuazione può essere riconosciuta anche a fronte di illeciti «che pregiudichino beni giuridici non omogenei o che vengano commessi con modalità esecutive differenti», dall’altro, la categoria dei reati "potenzialmente continuati" risulta al contempo più ristretta, poiché “reati della stessa indole” possono essere «anche i reati colposi», normalmente ritenuti incompatibili con il reato continuato, e «quelli commessi per effetto degli stessi impulsi o motivi a delinquere», che non necessariamente si identificano con quelli commessi in esecuzione di un medesimo disegno criminoso. Esclusa, dunque, ogni automatica sovrapposizione tra reati avvinti dalla continuazione e reati della stessa indole, le Sezioni unite procedono infine a verificare se, nel caso di continuazione, il comportamento debba essere comunque ritenuto abituale perché riconducibile alla terza tipologia delineata dal terzo comma dell’art. 131 bis c.p., vale a dire il caso in cui si tratti di reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali o reiterati.

Dopo aver scartato immediatamente l’idea per cui il reato continuato possa rientrare nella categoria dei “reati che abbiano ad oggetto condotte abituali o reiterate”, posto che la locuzione è pacificamente riferita «ai reati eventualmente o necessariamente abituali», i giudici di legittimità si interrogano allora sul significato del controverso sintagma reati “a condotte plurime”, sottolineando ancora una volta l’impossibilità di ricondurvi l’istituto della continuazione.

Secondo la Corte di cassazione, infatti, già da una semplice analisi del tenore letterale della disposizione -che menziona “reati aventi ad oggetto condotte plurime”, e non plurimi reati - si evincerebbe che il «carattere plurimo contraddistingue le condotte, non già i reati, come invece accade nell’ipotesi della continuazione».

Tale lettura sarebbe poi confermata dal fatto che, nell’ultimo periodo del terzo comma dell’art. 131 bis c.p., il legislatore non ha riprodotto l’inciso "anche se ciascun fatto, isolatamente considerato, risulti di particolare tenuità” contenuto nel periodo precedente, ove il legislatore si riferisce sicuramente ad un’ipotesi di pluralità di reati, dimostrando così che, con la locuzione “reati aventi ad oggetto condotte plurime, abituali o reiterate”, «il legislatore [...] ha inteso propriamente riferirsi a categorie o “schemi di incriminazione”, non anche a ipotesi di concorso di reati».

Infine, secondo la Suprema corte, tre ulteriori argomenti di natura sistematica militerebbero a favore della piena compatibilità tra continuazione e art. 131 bis c.p. In primo luogo, la Corte di cassazione rileva che, se l’istituto della non punibilità per tenuità del fatto si considerasse incompatibile con il reato continuato, sorgerebbe il rischio di generare incongruenze nel raffronto con la linea interpretativa sorta in merito alla compatibilità dell’art. 131 bis c.p. e del concorso formale di reati, che non si ritiene classificabile «tra le ipotesi di condotte plurime, abituali o reiterate» proprio perché caratterizzato da «unicità di azione od omissione». Secondo le Sezioni unite, infatti, l’unicità della direzione alla quale sono tese tutte le singole azioni del medesimo disegno criminoso, condurrebbero a ritenere anche questa come una ipotesi “unitaria”.

In secondo luogo, ad avviso della Suprema corte, l’esclusione del reato continuato dall’ambito di applicabilità dell’art. 131 bis c.p. finirebbe per porsi ulteriormente in contrasto anche con un’altra linea interpretativa acquisita in giurisprudenza che esclude la presenza di fattori ostativi all’operatività dell’art. 131 bis c.p. al reato permanente. In terzo ed ultimo luogo, se si accedesse alla tesi che esclude la compatibilità tra i due istituti, si ignorerebbe la ratio di favore cui è volto la stessa continuazione, che finirebbe per essere frustrata alla luce di un’impossibilità nell’invocare la causa di non punibilità proprio per chi ha ceduto all’impulso criminoso una sola volta.

Per cui, all’esito di tale analisi, le Sezioni Unite hanno ritenuto che si debbano «valutare caso per caso le condizioni e i presupposti di compatibilità di tale interrelazione, sulla base di una complessiva analisi della vicenda in concreto sottoposta al vaglio dell’autorità giudiziaria».

Più in particolare, il giudice di merito dovrà valutare la possibilità di concedere il beneficio di cui all’art. 131 bis c.p. sulla base di una serie di criteri, rappresentati: «a) dalla natura e dalla gravità degli illeciti unificati; b) dalla tipologia dei beni giuridici lesi o posti in pericolo; c) dall’entità delle disposizioni di legge violate; d) dalle finalità e dalle modalità esecutive delle condotte; e) dalle relative motivazioni e dalle conseguenze che ne sono derivate; f) dall’arco temporale e dal contesto in cui le diverse violazioni si collocano; g) dall’intensità del dolo; h) dalla rilevanza attribuibile ai comportamenti successivi ai fatti».

Nell’ambito di tale valutazione, non potrà considerarsi dirimente il solo criterio rappresentato dalla distanza temporale tra i vari illeciti unificati dalla continuazione, che dovrà invece essere valutato assieme agli altri, fermo restando che, ad avviso della Suprema corte, «risulterà più agevole individuare l’elemento di raccordo fra la continuazione e la causa di non punibilità di cui all’art. 131 bis cit. nelle vicende connotate da un significativo grado di concentrazione spazio-temporale delle condotte». Infine, nel caso in cui dovesse risultare impossibile applicare l’art. 131 bis c.p. a tutti i reati commessi in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, perché soltanto alcuni possono «costituire oggetto del giudizio di particolare tenuità dell’offesa» o rientrano nei limiti edittali fissati dal primo comma dell’art. 131 bis c.p., nulla vieterebbe «di sciogliere la continuazione tra la pluralità delle condotte illecite [...], riconoscendo la causa di non punibilità [...] anche in relazione ad uno solo dei fatti riuniti sotto la disciplina della continuazione», soprattutto se il risultato di tale operazione risulti comunque più favorevole al reo rispetto al mantenere saldo il vincolo della continuazione.

5. Conclusioni

Tirando le fila del discorso, si osserva come l’introduzione dell’art. 131 bis c.p. abbia creato tensione - in termini di compatibilità - con gli altri istituti esistenti e governanti il diritto penale. Rispetto a tale premessa, alle Sezioni Unite in commento si deve il merito di aver restituito all’art. 131 bis c.p. la possibilità di operare nel modo più opportuno rispetto alla ratio di “depenalizzazione in concreto” che lo connota. Le Sezioni Unite hanno quindi riconosciuto la possibilità di una contestuale applicazione dell’art. 131 bis c.p. e del reato continuato determinando un esito più favorevole per il reo, ma al contempo ha anche riconosciuto che potrebbe accadere che il giudice decida di sciogliere la continuazione laddove ritenga di considerare “particolarmente tenui” solo alcuni degli illeciti accertati.

Per cui, in tale ultima ipotesi, laddove non sia possibile applicare la particolare tenuità a tutti gli illeciti in continuazione, ma soltanto a qualcuno, e risulti comunque più favorevole per il reo rinunciare alla continuazione piuttosto che alla causa di non punibilità in senso stretto, allora, come detto, il giudice scioglierà la continuazione e farà valere l’art. 131 bis c.p. solo per i reati ad esso compatibili.

Chiaramente, il rovescio complicato di questa impostazione, è la difficoltà che incontra il giudice, chiamato ad effettuare una valutazione per il riconoscimento della causa di non punibilità in caso di continuazione di non semplice lettura. Ebbene, il giudice dovrà verificare per ciascun reato il rispetto del relativo quantum di pena, di seguito dovrà valutare i reati nella loro dimensione plurima, per capire se sia rispettato il requisito della non abitualità e se ciascun fatto è di particolare tenuità; infine, dovrà adottare una visione di insieme per capire se la vicenda in toto potrà essere assoggettata alla particolare tenuità, fermo restando quanto detto prima in merito all’eventuale scioglimento della continuazione.


Note e riferimenti bibliografici

[1] SS.UU n. 13681/2016

[2] SS.UU n. 13681/2016