ISCRIVITI (leggi qui)
Pubbl. Mer, 8 Mag 2024

L’equilibrio contrattuale, il sindacato del giudice e i rimedi in caso di squilibrio originario o sopravvenuto

Francesco Gregorace
AvvocatoUniversità di Pisa



Il presente articolo analizza il fenomeno dello squilibrio contrattuale, originario e sopravvenuto, il potere di intervento del giudice e i possibili rimedi a disposizioni delle parti contrattuali nel contratto disciplinato dal codice civile e nei contratti asimmetrici.


Sommario: 1. Premessa sistematica; 2. Il primo contratto: il dogma dell’intangibilità; 2.1 Le deroghe al dogma dell’intangibilità: premesse; 2.1.1 I vizi incompleti del contratto; 2.1.2 Il principio di buona fede; 2.1.3 La valorizzazione della causa in concreto; 2.2 I rimedi allo squilibrio sopravvenuto; 2.2.1 Rimedi legali; 2.2.2 Rimedi giurisprudenziali; 2.2.3 Rimedi pattizi; 2.2.5 Conclusioni; 3. I contratti asimmetrici: il secondo contratto; 3.1 I poteri giudiziali sulle clausole abusive 4. Il terzo contratto.

Sommario: 1. Premessa sistematica; 2. Il primo contratto: il dogma dell’intangibilità; 2.1 Le deroghe al dogma dell’intangibilità: premesse; 2.1.1 I vizi incompleti del contratto; 2.1.2 Il principio di buona fede; 2.1.3 La valorizzazione della causa in concreto; 2.2 I rimedi allo squilibrio sopravvenuto; 2.2.1 Rimedi legali; 2.2.2 Rimedi giurisprudenziali; 2.2.3 Rimedi pattizi; 2.2.5 Conclusioni; 3. I contratti asimmetrici: il secondo contratto; 3.1 I poteri giudiziali sulle clausole abusive 4. Il terzo contratto.

1. Premessa sistematica

Quando si parla di equilibrio contrattuale si fa riferimento all’assetto di interessi emergente dal regolamento contrattuale concordato dalle parti.

Quest’ultimo delinea sia le prestazioni gravanti sulle parti, sia i diritti/obblighi ulteriori gravanti sulle medesime. In ragione di tale assetto, il contratto potrà dirsi equilibrato ovvero squilibrato.

È possibile distinguere lo squilibrio genetico, che sussiste già al momento della conclusione del contratto, da quello sopravvenuto che invece è successivo alla stipula del contratto e deriva da perturbazioni che si manifestano durante la sua vigenza.

Per quanto concerne invece la tipologia, lo squilibrio può essere economico ovvero normativo. Il primo attiene alle prestazioni e, in particolare, al loro valore mentre il secondo guarda alla cornice regolamentare, all’insieme di diritti e obblighi suddivisi tra le parti.

Tendenzialmente, l’equilibrio economico rileva nel contratto delineato dal Codice civile, c.d. “primo contratto”, e nel “terzo contratto”, mentre lo squilibrio economico rileva nel contratto consumeristico, il “secondo contratto”.[1

2. Il primo contratto: il dogma dell’intangibilità

Nel contratto disciplinato dal Codice civile, in base alla disciplina derivante dagli artt. 1321 – 1469 c.c. emerge una tendenziale insindacabilità dell’equilibrio contrattuale derivante dal regolamento condiviso dalle parti, in coerenza con il principio volontaristico che permea la disciplina del primo contratto. In particolare, l’intangibilità trova fondamento sia nella carta costituzionale, che all’art. 41 riconosce e garantisce la libertà di iniziativa economica privata, sia nello stesso codice civile, che all’art. 1322 attribuisce alle parti il potere di stipulare contratti atipici.

Ciò deriva dal fatto che, in tale contratto, le parti si pongono in una posizione di parità e non sussiste nessuno squilibrio economico/informativo. Pertanto, i contraenti si trovano nella medesima posizione e qualora uno dei due riesca ad ottenere condizioni contrattuali migliori sarà frutto delle proprie capacità durante le trattative. È per questo che il giudice non può avere accesso a tale equilibrio. Se una parte riesce ad ottenere una prestazione estremamente vantaggiosa rispetto all’altra, anche in ragione di una scarsa conoscenza della materia della controparte, questo rientra nella normale alea di ogni trattativa contrattuale e tale squilibrio non potrà essere successivamente intaccato. Rientra nell’onere di ogni parte, infatti, approfondire la tematica oggetto del contratto prima di stipulare il negozio

A conferma di quanto detto, le uniche ipotesi previste nelle quali il giudice ha accesso all’equilibrio contrattuale sono giustificate da particolari situazioni. Si pensi al rimedio previsto dagli artt. 1447 e seguenti c.c. in tema di rescissione. In tal caso a rilevare è uno squilibrio genetico, derivante dalla particolare situazione nella quale versa una parte contrattuale (stato di bisogno ovvero stato di pericolo) che rende necessario la stipula del contratto squilibrato. Non solo. È anche necessario che la controparte sia a conoscenza di tale debolezza e ne abbia approfittato per trarne vantaggio. Al ricorrere di tutte queste circostanze, considerato che la volontà della parte debole è viziata da un fattore esterno che rende il contratto squilibrato, il giudice potrà caducare il negozio. In tal caso lo squilibrio economico è originario e viene in rilievo in quanto frutto di una limitazione della libertà contrattuale.

Un’altra ipotesi in cui rileva lo squilibrio nel primo contratto è la risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta ex art. 1467 c.c. nei contratti di durata. In tal caso, durante la vigenza del contratto, interviene una “perturbazione” che altera l’equilibrio tra le prestazioni inizialmente pattuite tra le parti. È d’uopo evidenziare che lo squilibrio di cui trattasi è parametrato sull’equilibrio iniziale tra le prestazioni pattuito dalle parti. Il parametro, pertanto, non è oggettivo, ma fa sempre riferimento all’assetto originario e lo squilibrio, quindi, è rispetto all’equilibrio iniziale.

Ne deriva che è ben possibile che il contratto inizialmente fosse squilibrato e che, a seguito delle sopravvenienze, risulti oggettivamente equilibrato. In tal caso, poiché a rilevare è l’equilibrio iniziale, il contratto risulterà squilibrato e di conseguenza soggetto al rimedio di cui all’art. 1467 c.c.

Ancora, ci sono casi eccezionali nei quali rileva uno squilibrio economico originario in quanto il corrispettivo pattuito nel contratto risultava notevolmente distante dal corrispettivo imposto ex lege. È il caso dei prezzi imposti, dell’equo canone o dell’usura pecuniaria. In questi casi, il sindacato sull’equilibrio è ammesso ma la predeterminazione legislativa impedisce l’esercizio di qualsiasi discrezionalità da parte del giudice. Queste ipotesi, che aprono le porte del sindacato sull’equilibrio al giudice, in realtà non fanno altro che confermare il principio di insindacabilità dell’equilibrio economico.

L’unico caso in cui sembra esserci una discrezionalità esercitabile da parte del giudice è nei casi di usura reale, che si realizza mediante uno scambio sproporzionato tra utilità diverse dal denaro e rispetto alle quali non esiste un tasso soglia. In questo caso, la mancanza di un parametro predeterminato apre una breccia nell’insindacabilità dell’equilibrio.[2]

2.1 Le deroghe al dogma dell’intangibilità: premesse

Il sopradescritto dogma di intangibilità, anche in ragione dei limiti dei rimedi codicistici per far fronte a diverse situazioni che ricorrono nella prassi, è al giorno d’oggi sottoposto ad un processo di revisione critica ed è emersa una tendenza giurisprudenziale volta ad ampliare i poteri dell’autorità giudiziaria. In particolare, sono tre i fronti che hanno dato la stura al sindacato del giudice: la teoria dei vizi incompleti del contratto, la progressiva valorizzazione della buona fede oggettiva quale limita all’autonomia contrattuale e la valorizzazione della causa in concreto.

2.1.1 I vizi incompleti del contratto

La teoria dei vizi incompleti del contratto, accolta recentemente dalla giurisprudenza, fa riferimento al c.d. contratto valido ma svantaggioso, che si realizza nelle ipotesi nelle quali si verifica una scorrettezza durante la fase precontrattuale che, pur non integrando una tipica fattispecie di invalidità, abbia inciso sul contenuto contrattuale.

La scorrettezza di cui trattasi deve aver fatto sì che l’altra parte, ove informata, non avrebbe concluso il contratto ovvero lo avrebbe concluso a condizioni diverse. Si è in presenza, quindi, di un vizio non idoneo ad invalidare il negozio, che resta quindi valido ma apre la strada al risarcimento del danno.

Un simile schema è previsto espressamente dall’art. 144° c.c. che, in tema di dolo incidente, prevede che “Se i raggiri non sono stati tali da determinare il consenso, il contratto è valido, benché senza di essi sarebbe stato concluso a condizioni diverse; ma il contraente in malafede risponde dei danni”.

In tal caso, l’eventuale risarcimento dei danni non sarà altro che la differenza tra il vantaggio economico derivante da un ipotetico contratto più vantaggioso che la parte avrebbe concluso in assenza della scorrettezza ed il minore vantaggio derivante dal negozio effettivamente stipulato (“interesse positivo virtuale”).

La Suprema corte, con una pronuncia a Sezioni Unite ha ammesso tale forma ma in un preciso ambito, quello della violazione di obblighi informativi a carico degli intermediari finanziari. Quindi ciò è possibile solo in presenza di specifici obblighi a carico di una parte perché, in caso contrario, vi sarebbe il rischio di estendere eccessivamente tale principio, andando a pregiudicare la parte contrattuale che, a differenza dell’altra, abbia approfondito la materia oggetto del negozio e quindi maggiori informazioni.

Dunque, si conferma la distinzione tra regole di responsabilità e regole di validità chiarendo che, fuori dai casi di nullità testuale, la violazione di obblighi informativi – e quindi la scorrettezza – non determina la nullità del contratto ma solo il rimedio risarcitorio.

Ciò detto, appare evidente che ammettere una simile responsabilità equivale ad introdurre un rimedio che, di fatto, si traduce nella possibilità per l’organo giudicante di sindacare l’equilibrio economico del contratto pattuito inizialmente dalle parti. Il risarcimento dell’interesse positivo virtuale, infatti, non è altro che una “correzione” giudiziale dell’equilibrio contrattuale tra le prestazioni. È per tale ragione che questa teoria avallata in giurisprudenza, ancorché in specifiche ipotesi, apre al sindacato giudiziale dell’equilibrio contrattuale anche nel primo contratto[3].

2.1.2 Il principio di buona fede

Tra le brecce al dogma dell’intangibilità dell’equilibrio contrattuale dev’essere segnalata anche l’evoluzione avutasi dalla clausola generale del dovere di comportarsi secondo buona fede.

Tale clausola generale negli ultimi anni, attraverso numerose tappe giurisprudenziali, ha avuto uno sviluppo tale da diventare inizialmente uno strumento di valutazione dei comportamenti di integrazione al contratto, successivamente un limite all’esercizio distorto di un diritto (divieto di abuso del diritto), una fonte atipica di estinzione del contratto, uno strumento per valutare la validità del contratto e, infine, una clausola idonea a tutelare il legittimo affidamento del debitore.

Ciò posto, per quel che rileva ai fini della presente trattazione, è utile analizzare la buona fede quale regola di valutazione della validità dei contratti e l’incidenza sull’equilibrio contrattuale.

In tale ottica, in una prima fase, a fronte di un orientamento dottrinale che aveva elevato il rispetto della clausola di buona fede a regola di validità del contratto, le Sezioni Unite della Cassazione chiarirono ogni dubbio precisando che, in assenza di specifiche disposizioni, non è giustificabile il ricorso alla nullità del contratto in presenza di una violazione del canone di buona fede oggettiva. Essa è e rimane una regola di comportamento che, in quanto tale, potrà, tuttalpiù, generare una responsabilità risarcitoria.

Quanto ormai tale orientamento sembrava consolidato, una pronuncia della Corte costituzionale e, successivamente, una a Sezioni Unite hanno stravolto lo stato dell’arte. In particolare, il giudice delle leggi si è pronunciato con riferimento alla impossibilità, ai sensi dell’art. 1385 c.c., di riduzione giudiziale della caparra, al contrario di quanto previsto per la clausola penale, affermando la nullità ai sensi dell’art. 1418 c.c. della clausola che preveda una caparra eccessivamente sproporzionata, per contrasto con l’art. 1175 c.c. in combinato disposto con l’art. 2 Cost.

In altri termini, secondo la consulta, e in seguito le Sezioni Unite, il dovere di solidarietà previsto dall’art. 2 della costituzione entra all’interno del contratto attraverso la clausola di buona fede prevista dall’art. 1375 c.c. che, pertanto, diventa norma imperativa e se violata comporta la nullità del contratto o della clausola.

Dunque, a fronte del riferito revirement, in presenza di una clausola squilibrata il giudice è autorizzato a sindacare tale squilibrio e, in forza della rilevanza costituzionale del dovere di buona fede, intervenire sul contratto dichiarandone la nullità.

Tuttavia, il rilevato collegamento tra la buona fede e il dovere solidaristico di caratura costituzionale, oltre a non trovare riscontro nella giurisprudenza, contrasta apertamente con la distinzione tra regole di comportamento e regole di validità. Nella prospettiva tracciata dalla consulta, infatti, la violazione di una regola di comportamento – scorrettezza – si tradurrebbe nella nullità, inoltre, altresì evidente appare il contrasto con il principio di autonomia privata.

Consci di questi rischi, le Sezioni Unite[4]hanno chiarito che l’intervento del giudice sul contratto dev’essere limitato a casi eccezionali, pena la violazione del principio di libertà negoziale. Inoltre, hanno espressamente affermato che “lo squilibrio (economico) tra le prestazioni se è genetico legittima il ricorso alla rescissione per lesione; se è sopravvenuto legittima il rimedio della risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta. L’esistenza di tali rimedi esclude dunque la necessità stessa di ricorrere a fantasiose invenzioni circa la “immeritevolezza” d’un contratto che preveda “prestazioni squilibrate”.

2.1.3 La valorizzazione della causa in concreto

Infine, anche l’accoglimento della teoria della causa in concreto del contratto ha inciso all’indebolimento del dogma di insindacabilità dell’equilibrio contrattuale. A tal proposito, appare necessario inquadrare brevemente la causa del contratto e la sua evoluzione.

Come è noto, la causa è un elemento essenziale del contratto la cui mancanza, ai sensi dell’art. 1419 c.c., lo rende nullo. Inizialmente imperava la teoria della causa in astratto, secondo cui essa veniva identificata con la funzione socioeconomica che il legislatore aveva predeterminato per quel tipo di contratto. Dall’accoglimento di tale teoria deriva l’impossibilità di configurare un contratto tipico avente causa illecita con la conseguenza che la mancanza di causa può rilevare solamente per i contratti atipici. Infatti, se è vero che la causa del contratto coincide con la funzione socioeconomica del contratto è altrettanto vero che il legislatore non può aver tipizzato un contratto senza la causa ovvero con causa illecita. Ecco perché, aderendo alla tesi della causa in astratto, solo il contratto atipico può essere privo di causa o con causa illecita. Discorso diverso, invece, per il contratto in frode alla legge ai sensi dell’art. 1344 c.c., il quale prevede che la causa si reputa altresì illecita quando il contratto costituisce il mezzo per eludere l’applicazione di una norma imperativa”. In tal caso la frode è l’unico strumento per considerare illecita la causa di un contratto tipico.

Con l’accoglimento della teoria della causa in concreto cambia tutto. La funzione di ogni negozio dev’essere, di volta in volta, ricostruita avendo riguardo agli interessi specifici e concreti perseguiti dalle parti. La causa, quindi, non coincide più con la funzione socioeconomica del contratto ma deve desumersi da elementi oggettivi che rilevano in concreto e possono comportare una deviazione della funzione del tipo legale e va individuata nell’assetto di interessi che le parti intendano conseguire concretamente.

In quest’ottica appare evidente come anche un contratto tipico possa essere strumentalizzato per realizzare un interesse diverso rispetto a quello predeterminato dal legislatore, e quindi anche un contratto tipico potrà essere privo di causa e con causa illecita. Con la causa in concreto, allora, il quadro si capovolge e, a differenza di quanto detto per la causa in astratto, perde rilevanza quanto previsto dal soprarichiamato art. 1344 c.c. Infatti, se la causa dev’essere valutata in concreto, l’illiceità della causa il contratto è nullo anche se non ci fosse la norma indicata, in quanto l’intento elusivo emergente dall’operazione valutata nel suo complesso mette in luca lo scopo concretamente perseguito dalle parti e, pertanto, ne inficia la causa.

Chiarito quanto sopra, in un contesto nel quale ormai la causa viene analizzata in concreto, la valutazione che essa comporta può incidere sull’equilibrio contrattuale e comportare un sindacato da parte del giudice. Appare evidente, infatti, che la ricerca dell'intento concretamente perseguito dall’operazione negoziale potrebbe far emergere una causa frustrata proprio in ragione dell’equilibrio/squilibrio tra le prestazioni, con la conseguenza che l’assetto negoziale realizzato non coincida con il programma pattuito dalle parti. Pertanto, se in concreto la causa perseguita appare irrealizzabile in ragione dello squilibrio tra le prestazioni, essa deve considerarsi mancante con la conseguenza che il contratto sarà nulla per difetto (irrealizzabilità) di causa.[5]

In tal modo, nel momento in cui venga dichiarata la nullità del contratto per difetto di causa in ragione dello squilibrio tra prestazioni, il giudice effettua un sindacato sull’equilibrio contrattuale[6].

2.2 I rimedi allo squilibrio sopravvenuto

I rapporti contrattuali di durata pongono il rilevante problema della gestione delle sopravvenienze e, in particolare, di quelle che alterno l’equilibrio delle prestazioni inizialmente pattuite tra le parti.

Il problema si acuisce poiché, spesso, i rimedi legali previsti non paiono soddisfacenti per le parti in quanto conducono, nella maggior parte dei casi, alla caducazione del contratto. Soluzione quest’ultima che nei contratti di durata non soddisfa i contraenti che, invece, non vogliono recidere il rapporto obbligatorio. Ecco che si pone il problema dei rimedi manutentivi del contratto.

2.2.1 Rimedi legali

Premesso quanto sopra, i rimedi che il Codice civile prevede per far fronte alle sopravvenienze sono: la risoluzione per impossibilità sopravvenuta e la risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta, disciplinati rispettivamente dagli artt. 1463 e 1467 c.c.

Con riferimento all’impossibilità sopravvenuta, secondo un orientamento rigoroso essa dev’essere oggettiva ed assoluta, quindi derivante da fattori esterni e non eseguibile dal debitore nemmeno con la massima diligenza; tuttavia, la teoria maggioritaria opta per una tesi più elastica, influenzata dal canone di buona fede oggettiva, che interpreta in maniera meno restrittiva l’impossibilità di eseguire la prestazione.

La risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta, invece, implica un avvenimento straordinario e imprevisto, che comporti un’alterazione del rapporto di valore tra le prestazioni, che renda eccessivamente onerosa la prestazione a carico di una parte. In tal caso, l’art. 1467, co. 3 c.c, dà la possibilità di evitare la caducazione del contratto, attribuendo alla parte cui è domandata la risoluzione la facoltà di offrire una modificazione “riequilibrante” che consenta di conservare il vincolo negoziale. In ogni caso, salvo tale ultima facoltà, trattasi di rimedi caducatori.

I rimedi appena indicati, come già anticipato, non si rivelano soddisfacenti in tutti quei casi in cui le parti hanno comunque interesse a mantenere in vita il contratto, ma a condizioni diverse.[7]

2.2.2 Rimedi giurisprudenziali

La giurisprudenza ha tentato di colmare i vuoti di tutela sopra descritti attraverso la valorizzazione del canone di buona fede oggettiva.

In particolare, si ritiene che un’espressione del principio di buona fede sia l’istituto giuridico della presupposizione, che ricorre quando una determinata situazione, ancorché non esplicitata nel contratto, sia tenuta in considerazione dai contraenti quale presupposto determinante per la permanenza del vincolo contrattuale, con la conseguenza che la sua assenza/non verificazione altera la prestazione.

Si pensi al contratto di locazione per un breve periodo di un appartamento che si affacci su piazza del Campo di Siena nei giorni in cui si svolge il famoso Palio che, a causa di un evento imprevisto, non venga effettuato. In tal caso, è evidente come lo svolgimento dell’evento pubblico, sebbene non esplicitato nel contratto, rivesta un ruolo determinante per le parti. Non è un caso, infatti, che soprattutto quanto imperava la tesi della causa in astratto si riteneva che la mancanza dell’evento presupposto influisse sulla causa del contratto. Con la causa in concreto anche la presupposizione ha perso il suo ruolo, in quanto l’evento presupposto entra già nella valutazione dell’interesse concreto perseguito dalle parti. In ogni caso, a prescindere dalla sua rilevanza causale o no, sicuramente l’evento che non si verifica incide sull’equilibrio delle prestazioni e pertanto, alla luce del principio di buona fede, il rimedio potrebbe essere quello previsto dall’art. 1467 c.c. Dalla clausola generale di buona fede ex se, invece, in giurisprudenza si è sostenuto che, in presenza di uno squilibrio sopravvenuto ed imprevedibile, derivi un generale obbligo di rinegoziazione che, tuttavia, non garantisce un riequilibrio dell’assetto contrattuale.

2.2.3 Rimedi pattizi

Chiarito quanto sopra, a fronte dell’insufficienza dei rimedi predisposti e dal codice civile e dalla giurisprudenza, le parti hanno sempre la possibilità di prevedere e condividere rimedi in via negoziale. Sotto questo aspetto sono diverse le possibilità sfruttabili dall’autonomia negoziale.

In primo luogo, nell’alveo dei negozi preparatori al contratto, il contratto preliminare ha, tra le altre, la funzione di gestione delle sopravvenienze, che consente alle parti di tirarsi indietro dalla stipulazione del contratto definitivo in presenza di un evento sopravvenuto che alteri l’assetto di interessi prefigurato con il preliminare.

Un altro strumento sono le c.d. clausole di completamento, inserite all’interno del contratto già definitivo, che rinviano ad un momento successivo la determinazione di alcuni aspetti del negozio sui quali al momento della stipula non vi sono informazioni sufficienti.

Ancora, vi sono le clausole di adeguamento che, in presenza di obbligazioni pecuniarie, al fine di dare applicazione al principio nominalistico, consentono una rivalutazione della prestazione monetaria al variare dell’indice ISTAT sul costo della vita.

Infine, un altro fenomeno diffuso sono le clausole di “hardship”[8], con le quali le parti si impegnano ad iniziare una nuova trattativa per, eventualmente, apportare varianti all’assetto originariamente convenuto in considerazione degli eventi sopravvenuti che, talvolta, possono anche essere predeterminati.[9]

2.2.5 Conclusioni

A fronte dei diversi rimedi brevemente descritti, di natura legale, giurisprudenziale o negoziale, è possibile concludere che i diversi strumenti non garantiscono una tutela piena e incondizionata della parte contrattuale svantaggiata dalla sopravvenienza e che ha comunque interesse a mantenere in vita il rapporto obbligatorio.

È evidente, infatti, che anche a voler ritenere esistente un obbligo di rinegoziazione in capo alla controparte, esso si traduce in un obbligo a trattare ma non a riequilibrare il contratto. La parte avvantaggiata dalla sopravvenienza non può essere obbligata a ridurre la propria prestazione. Questa sarà solo obbligata ad iniziare una nuova trattativa comportandosi secondo buona fede, ma l’eventuale esito negativo della stessa non è coercibile ex art. 2932 c.c., che opera solo in presenza di un obbligo a contrarre e non quando vi sia l’obbligo di trattare.

3. I contratti asimmetrici: il secondo contratto

Si definiscono contratti asimmetrici quei negozi nei quali sussiste una netta diseguaglianza tra i contraenti. In questi, a differenze del primo contratto, dove le parti si pongono su uno stesso piano, tra le parti sussiste uno squilibrio ab origine, che legittima il sindacato giudiziale sull’equilibrio negoziale. Ne deriva che, in questa tipologia di contratti, non vi è alcuna preclusione all’intervento giudiziale sul contratto.

All’interno di questa categoria è possibile distinguere tra il c.d. secondo contratto ed il terzo contratto.[10]

Il secondo contratto riguarda i contratti stipulati tra professionista e consumatore, rientranti nella disciplina consumeristica e nei quali lo squilibrio rilevante non è economico, ma normativo. In tal caso lo squilibrio deriva da una carenza informativa tra le parti, poiché il negozio avviene tra un professionista ed un consumatore, il quale non ha tutte le informazioni idonee a poter valutare consapevolmente la convenienza di un contratto. Proprio tale deficit informativo lo espone a possibili abusi da parte del professionista e, pertanto, è considerato parte debole del contratto.

Come già anticipato, nel contratto del consumatore lo squilibrio rilevante è quello normativo ed è questo ad essere sindacabile dal giudice. Infatti, ai sensi dell’art. 34 codice del consumo, non è oggetto di sindacato l’eventuale vessatorietà della clausola sul corrispettivo. Ciò in ragione del fatto che il corrispettivo, a condizione che sia espresso in maniera chiara e trasparente, non cela alcun rischio per il consumatore, in quanto egli è in grado di valutare l’eventuale squilibrio di quel prezzo rispetto al contratto. In altri termini, con riferimento al corrispettivo non sussiste quel rischio di abuso da parte del professionista sul contraente debole derivante da un deficit informativo.[11]

Tornando all’equilibrio normativo, il codice del consumo indica, all’art. 33, tutta una serie di clausole, dette vessatorie, che comportano uno squilibrio eccessivo tra le parti in favore del contraente forte. Tali clausole si presumono vessatorie e, salvo prova contraria, sono inefficaci. Il sindacato del giudice sulle stessa dovrà basarsi su una valutazione complessiva che, ovviamente, tenga conto del complessivo assetto regolamentare e che, anche alla luce di una visione d’insieme, faccia apparire il negozio squilibrato. Nell’ottica di una tutela del contraente debole, tali clausole potranno divenire inefficaci in quanto colpita dalla c.d. nullità di protezione, ovverosia quella particolare tipologia di nullità la cui attivazione è rimessa alla volontà della parte debole.[12]

3.1 I poteri giudiziali sulle clausole abusive

Come già anticipato, la sanzione per le clausole abusive ai sensi dell’art. 33 Cod. del consumo è la nullità “di protezione”. La nullità, come è noto, fa venir meno la clausola; pertanto, ci si chiede se ed in che misura possa intervenire il giudice sostituendo la clausola abusiva con una norma interna suppletiva, secondo il meccanismo previsto dagli artt. 1419, co. 2 e 1339 c.c., ai sensi del quale la nullità della singola clausola non comporta la nullità dell’intero contratto in quanto esse sono sostituite di diritto da norme imperative.

Ciò chiarito, in tal caso la situazione è diversa, in quanto la sostituzione non avverrebbe con norme imperativa, ma con norme suppletive. La peculiarità deriva da un fenomeno nuovo, introdotto proprio dal codice del consumo.

In tal caso, infatti, si è in presenza di clausole abusive che derogano norme dispositive e che, nonostante ciò, sono nulle.[13] La nullità, in tal caso, è una conseguenza del carattere abusivo della clausola ed è proprio tale aspetto che trasforma il diritto dispositivo in cogente. Per esemplificare, si pensi ad una clausola che abbia derogato una norma derogabile ma in maniera eccessiva al punto tale da creare uno squilibrio tra le prestazioni, tale clausola, ove non sia stata oggetto di trattava, diventa vessatoria.

È in tal caso che si pone il problema di capire cosa accade, perché se non è una clausola essenziale il contratto si conserva ed è immaginabile una integrazione giudiziale mediante il diritto positivo?

Sul punto, la costante giurisprudenza della Corte di Giustizia è contraria all’integrazione giudiziale che modifichi il contenuto della clausola. Si ritiene che una simile possibilità minerebbe l’effetto dissuasivo che la sanzione della nullità esercita sui professionisti. Questi, infatti, consapevoli che, nella peggiore delle ipotesi, il giudice interviene a riequilibrare il contratto, sarebbero incentivati a “provarci” senza correre il pericolo che decada l’intera operazione.

Occorre precisare che quanto sopra indicato non sembra negare la possibilità al giudice di intervenire in quei casi in cui l’annullamento del contratto nella sua interezza esponga il consumatore a conseguenze particolarmente pregiudizievoli e penalizzanti (si pensi alle conseguenze derivanti dall’annullamento di un contratto di mutuo). Ciò anche in ragione del fatto che la ratio della Direttiva 93/13 non è la caducazione dell’intero contratto in presenza di clausole abusive ma, al contrario, quello di mantenerlo in vita ristabilendo l’uguaglianza tra le parti. In questi casi, pertanto, la direttiva non sarebbe ostativa all’intervento giudiziale che eviti la caducazione dell’intero contratto sostituendo la clausola abusiva con una disposizione di diritto nazionale di natura suppletiva.

Qualora invece, da un lato, il contratto privato della clausola abusiva non possa rimanere in piedi e, dall’altro, non sia percorribile la strada della integrazione suppletiva per assenza di una norma, una strada indicata dal Giudice europeo è quella della rimessione alla trattativa delle parti.[14] Trattasi di una soluzione che si pone in coerenza con la ratio legis, che va individuata nell’obiettivo di riequilibrare il negozio, mantenendolo in vita ma dissuadendo il professionista da comportamenti abusivi.

Ancora, il giudice di Lussemburgo è stato recentemente investito sulla possibilità per un giudice nazionale di esaminare d’ufficio tutte le altre clausole contrattuali non impugnate dal legislatore, per verificare se esse possano essere considerate abusive.

Sul punto, posto che il giudice nazionale deve conformarsi al principio dispositivo, per cui sono le parti a dover individuare l’oggetto della controversia ed al divieto di ultra petita, che impedisce al giudice di statuire al di là delle pretese delle parti. La Corte di Giustizia ha precisato che l’interprete deve procedere alla lettura delle pretese sottoposte a suo giudizio comprendendone il contenuto alla luce dei motivi dedotti a sostegno delle stesse. Pertanto, rientrano nell’obbligo di esame ex officio solo le clausole contrattuali che, anche se non interessate dal ricorso, sono connesse all’oggetto della controversia definito dalle parti. Dunque, la “connessione” può essere lo strumento per estendere la valutazione complessiva del giudice.[15]

4. Il terzo contratto

Il c.d. terzo contratto rientra anch’esso nell’alveo dei contratti asimmetrici, in quanto stipulato tra soggetti diseguali la cui disuguaglianza, tuttavia, nasce da una situazione di dipendenza economica e non da un deficit informativo esistente tra consumatore e professionista. Tale contratto, infatti, è concluso tra professionisti e, in particolare, tra imprese.

La situazione di dipendenza economica che causa la disuguaglianza è determinata dall’instaurazione di un precedente rapporto contrattuale di durata, nel quale un’impresa effettua investimenti specifici, non facilmente riconvertibili in altre attività, ai quali non si associa una durata minima del rapporto tale da poter rientrare dall’investimento compiuto. In tale situazione è evidente che l’impresa è soggetta ad un rischio di abuso da parte del contraente economicamente forte che, in ragione della sua posizione privilegiata, potrebbe abusarne.

Pertanto, anche in tale contratto si aprono le porte del sindacato sull’equilibrio al giudice, al fine di evitare che l’estorsione contrattuale si traduca nell’imposizione di condizioni economiche inique.[16] In particolare, in materia di subfornitura, ai sensi dell’art. 6, co. 3 l. n. 192/1998 “È nullo il patto con cui il subfornitore disponga, a favore del committente e senza congruo corrispettivo, di diritti di privativa industriale o intellettuale.”.

Un ulteriore riferimento all’equilibrio contrattuale nel terzo contratto con accesso ad esso da parte del giudice si rinviene anche nel D.lgs.  231/2002, che all’art. 7 prevede “Le clausole relative al termine di pagamento, al saggio degli interessi moratori o al risarcimento per i costi di recupero, a qualunque titolo previste o introdotte nel contratto, sono nulle quando risultano gravemente inique in danno del creditore. Si applicano gli articoli 1339 e 1419, secondo comma, del codice civile.”.[17]

Note e riferimenti bibliografici

[1] Cfr. G. Chiné, M. Fratini, A. Zoppini, Manuale di diritto civile, VIII Edizione, Nel Diritto Editore 2016/2017

[2] Cfr. Francesco Gazzoni, Manuale di diritto privato, Edizioni Scientifiche Italiane, XVII edizione, Napoli 2015

[3] Cfr. Roberto Giovagnoli, Manuale di diritto civile, Itaedizioni, Torino 2019

[4] Cfr. Cassazione Sez. Unite, Sentenza n. 5657 del 23 febbraio 2023 “… lo squilibrio delle prestazioni non può farsi coincidere la convenienza del contratto. Chi ha fatto un cattivo affare non può pretendere di sciogliersi dal contratto invocando “lo squilibrio delle prestazioni”. L’intervento del giudice sul contratto non può che essere limitato a casi eccezionali, pena la violazione del fondamentale principio di libertà negoziale (così, ex multis, Sez. 6 - 2, Ordinanza n. 36740 del 25/11/2021, Rv. 663148 - 01).  La terza ragione è che lo squilibrio (economico) tra le prestazioni se è genetico legittima il ricorso alla rescissione per lesione; se è sopravvenuto legittima il rimedio della risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta. L’esistenza di tali rimedi esclude dunque la necessità stessa di ricorrere a fantasiose invenzioni circa la “immeritevolezza” d’un contratto che preveda “prestazioni squilibrate” … In conclusione, il giudizio di “immeritevolezza” di cui è menzione nell’art. 1322 c.c. non può mai trasformarsi in una magica porta di Ishtar attraverso la quale veicolare un inammissibile intervento del giudice sulla convenienza dell’affare.”

[5] Cfr. Roberto Giovagnoli, op. cit.

[6] Un settore interessato in tal senso è quello dei contratti finanziari stipulati tra investitore ed intermediario. Tali contratti possono tradursi in negozi tipici, atipici ovvero anche in collegamenti negoziali, ma in ogni caso la causa in concreto si traduce nella realizzazione di una finalità previdenziale per l’investitore e nell’interesse a collocare sul mercato prodotti appetibili e fruttuosi per l’intermediario. In tal caso, qualora il rischio dell’operazione finanziaria gravi totalmente sull’investitore, il contratto si paleserà squilibrato, rendendo del tutto irrealizzabile la finalità dell’investitore. In tal caso, l’irrealizzabilità della causa si tradurrà in un difetto di causa e, pertanto, in una declaratoria di nullità.

[7] Cfr. Francesco Gazzoni, Manuale di diritto privato, Edizioni Scientifiche Italiane, XVII edizione, Napoli, 2015

[8] La definizione di hardship, il cui termine significa difficoltà, si rinviene nel testo dei principi Unidroit ed in particolare si fa riferimento a quegli eventi che alterano l’equilibrio del contratto a causa dell’accrescimento dei costi della prestazione di una delle parti o per la diminuzione del valore della controprestazione. Tali eventi, in particolare, devono verificarsi o conoscersi solo dopo la stipulazione del contratto; non potevano essere previsti ed il rischio degli stessi non era posto “a carico” della parte svantaggiata.

[9] Cfr. Roberto Giovagnoli, op. cit.

[10] Cfr. M. Bianca, Diritto civile 3 il contratto, terza edizione, Giuffrè Francis Lefrebvre 2019

[11] Cfr. art 34, comma 2, Cod. Consumo “La valutazione del carattere vessatorio della clausola non attiene alla determinazione dell’oggetto del contratto, ne’ all’adeguatezza del corrispettivo dei beni e dei servizi, purche’ tali elementi siano individuati in modo chiaro e comprensibile.”

[12] Cfr. A. Plaisant, Dal diritto civile al diritto amministrativo, terza edizione, Forumlibri 2018

[13] La novità del fenomeno deriva dal fatto che le norme sul contratto, solitamente, sono di due tipi: cogenti e dispositive/suppletive. Le prime sono inderogabili e qualsiasi deroga rende nulla la clausola, con conseguente eterointegrazione cogente in sostituzione della clausola nulla. Quelle dispositive/suppletive operano in maniera diversa, perché se le parti non dicono nulla esse integrano il contratto, ma solo in presenza di una lacuna, se, al contrario, le parti intendono regolare diversamente quell’aspetto ciò è possibile e quindi la norma suppletiva non integra il contratto. In altri termini, l’integrazione tramite la norma suppletiva è eventuale e dipende da una lacuna.

[14] Cfr. Corte di Giustizia UE, sez. I, 25 novembre 2020, causa C-269/19, secondo cui: “l’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 93/13 deve essere interpretato nel senso che, in seguito all’accertamento del carattere abusivo delle clausole che definiscono il meccanismo di fissazione del tasso d’interesse variabile in un contratto di prestito come quello di cui trattasi nel procedimento principale, e qualora tale contratto non possa sussistere dopo la soppressione delle clausole abusive in questione, l’annullamento di detto contratto avrebbe conseguenze particolarmente dannose per il consumatore, e non esista alcuna disposizione di diritto nazionale di natura suppletiva, il giudice nazionale deve adottare, tenendo conto del complesso del suo diritto interno, tutte le misure necessarie per tutelare il consumatore dalle conseguenze particolarmente dannose che l’annullamento di detto contratto potrebbe provocare. In circostanze come quelle di cui trattasi nel procedimento principale, nulla osta, in particolare, a che il giudice nazionale rinvii le parti ad una trattativa allo scopo di fissare il metodo di calcolo del tasso d’interesse, purché determini il quadro di tali trattative e queste siano volte a stabilire tra i diritti e gli obblighi delle parti contraenti un equilibrio reale che tenga conto segnatamente dell’obiettivo di tutela del consumatore sotteso alla direttiva 93/13.”

[15] Cfr. F. Caringella, D. Dimatteo, E. Succu, Giurisprudenza ragionata di diritto civile, Dike Giuridica, 2023

[16] Cfr. art. 9 l. n. 192/1998 ““1. È vietato l'abuso da parte di una o più imprese dello stato di dipendenza economica nel quale si trova, nei suoi o nei loro riguardi, una impresa cliente o fornitrice. Si considera dipendenza economica la situazione in cui un impresa sia in grado di determinare, nei rapporti commerciali con un'altra impresa, un eccessivo squilibrio di diritti e di obblighi. La dipendenza economica è valutata tenendo conto anche della reale possibilità per la parte che abbia subito l'abuso di reperire sul mercato alternative soddisfacenti. 2. L'abuso può anche consistere nel rifiuto di vendere o nel rifiuto di comprare, nella imposizione di condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose o discriminatorie, nella interruzione arbitraria delle relazioni commerciali in atto. 3. Il patto attraverso il quale si realizzi l'abuso di dipendenza economica è nullo. Il giudice ordinario competente conosce delle azioni in materia di abuso di dipendenza economica, comprese quelle inibitorie e per il risarcimento dei danni. 3-bis. Ferma restando l'eventuale applicazione dell'articolo 3 della legge 10 ottobre 1990, n. 287, l'Autorità garante della concorrenza e del mercato può, qualora ravvisi che un abuso di dipendenza economica abbia rilevanza per la tutela della concorrenza e del mercato, anche su segnalazione di terzi ed a seguito dell'attivazione dei propri poteri di indagine ed esperimento dell'istruttoria, procedere alle diffide e sanzioni previste dall'articolo 15 della legge 10 ottobre 1990, n. 287, nei confronti dell'impresa o delle imprese che abbiano commesso detto abuso. In caso di violazione diffusa e reiterata della disciplina di cui al decreto legislativo 9 ottobre 2002, n. 231, posta in essere ai danni delle imprese, con particolare riferimento a quelle piccole e medie, l'abuso si configura a prescindere dall'accertamento della dipendenza economica.”

[17] Cfr. A. Plaisant, op. cit.