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Pubbl. Ven, 15 Gen 2016

Da chi veniamo giudicati? Il giudice naturale precostituito per legge tra imparzialità, terzietà e capacità

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Fabio Zambuto


Da chi veniamo giudicati? Perché possiamo essere giudicati? Nell´alveo delle garanzie strutturali che connotano il “giusto processo legale” figurano precipuamente l’imparzialità e la terzietà del giudice. Questi, come gli altri indefettibili requisiti dell’impianto processuale, trovano attuazione nei precetti normativi che regolano il processo penale poiché l’ordinamento stesso configura degli strumenti idonei a tutelare le garanzie della collettività. Bisogna vedere però fino a che punto le armi previste dal legislatore siano utili e adoperabili, e in che termini un mancato rispetto dei precetti normativi possa inficiare nel procedimento e, in particolare, nella libertà personale di ciascuno dei consociati.


Sommario

1. Il Giudice “naturale” ed imparziale – 2. Le vicende interpretative dell’art. 25 Cost. – 3. Deroghe processuali al principio di “naturalità” – 4. L’indipendenza dell’organo giudicante in Italia e nei Trattati Internazionali – 5. La tutela dei principi – 6. Astensione e Ricusazione del Giudice – 7. L’incubo del giudice suspectus e gli effetti sulla sentenza

 

1.      Il Giudice “naturale” ed imparziale

Nell’affrontare la tematica in oggetto bisogna porre a fondamento l’osservazione secondo cui l’imparzialità del giudice deve essere considerata «alla stregua di un canone oggettivo indeclinabile per la disciplina della funzione giurisdizionale [1]».

Per quanto concerne la normativa volta a tutelare il principio dell’imparzialità va rilevato che, essendo detto principio correlato ad una molteplicità di variabili, appare impossibile fissare dei criteri atti ad escludere con assoluta certezza il rischio di una sua compromissione [2].

Al riguardo la Corte Costituzionale ha osservato che il legislatore deve limitarsi a delineare le sole ipotesi in cui il rischio di un condizionamento in capo al giudice «è così pregnante da poter concretamente incidere sulla garanzia di un giudizio che sia il frutto genuino ed esclusivo degli elementi di valutazione e di prova assunti nel processo e del dispiegarsi della difesa delle parti [3]». Molteplici sono le disposizioni costituzionali riferibili al canone in esame, dovendosi rilevare come «alla figura del giudice delineata dalla Costituzione sia connaturata una posizione di estraneità rispetto agli interessi coinvolti nella res iudicanda e di assenza di pregiudizi [4]».

E’ stato sottolineato come «l’imparzialità dei giudici deve annoverarsi tra quei principi non scritti che preesistono addirittura all’esercizio del potere costituente [e che] formano una sorta di piattaforma di diritto naturale, o, se si vuole, di quei diritti inviolabili dell’uomo, ai quali fa riferimento […] l’art. 2 cost., conferendo loro valenza e dignità Costituzionale [5]».

Ulteriore riferimento Costituzionale è stato individuato, secondo una parte della dottrina, nell’art. 25 comma 1 Cost., tendente a garantire la presenza di un  giudice naturale precostituito per legge. Va premesso, a questo punto, che «nella corrente manualistica, fino alla vigilia dell’entrata in vigore del “nuovo” art. 111 Cost., si palesi costante il rinvio all’art. 25, comma 1, Cost. quale fonte primaria di tutela della garanzia dell’imparzialità del giudice: il principio del giudice naturale precostituito per legge – si osserva – mira a garantire la presenza di un giudice imparziale nel singolo processo[6] ».

 

2.      Le vicende interpretative dell’art. 25 Cost.

Guardando alle vicende interpretative dell’art. 25, primo comma, Cost. nella loro successione cronologica, occorre notare come in un primo periodo si sia affermata la tendenza a ridurre la portata di questa espressione al divieto di istituzione di giudici straordinari [7], con conseguente limitazione delle sue possibilità di pratica applicazione a casi relativamente marginali.

Altro ciclo interpretativo si aprì invece a seguito di una sentenza della Corte Costituzionale [8], la quale mise in evidenza la norma istitutiva della riserva assoluta di legge in materia di competenza del giudice, segnalando come essa comportasse l’incostituzionalità di qualunque disposizione legislativa che conferisse, non solo ad organi dell’esecutivo, ma anche ad organi giudiziari il potere di modificare post factum la competenza del giudice, ed al tempo stesso riaffermò la portata della norma sostanziale espressa dal principio del giudice naturale, identificandola nella necessità di dare al cittadino la certezza che le sue azioni saranno giudicate da un organo precostituito, cioè individuabile in base a regole preesistenti alla regiudicanda e tali da escludere qualunque discrezionalità sulla scelta[9].

La stessa Corte Costituzionale, con la sentenza 502 del 1991 [10], ritiene ex professo che la garanzia Costituzionale di imparzialità dell’organo della giurisdizione si radichi nell’art. 25 Cost. [11]

Il fatto che la carta Costituzionale prescriva che nessuno possa essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge consiste anche nell’affermare le basi e le fondamenta della disciplina codicistica sulla competenza giudiziale.

E’ insita nella disposizione una parte di immediata percezione che induce indubbiamente a ritenere che il giudice debba essere precostituito rispetto all’oggetto del procedimento, sancendo in questo modo l’assunto per cui non è possibile stabilire la competenza successivamente alla realizzazione dell’evento e quindi scegliere ad hoc il giudice.

Ciascun cittadino gode del diritto di conoscere ex ante quale sarà il giudice competente a giudicare. Nella norma inoltre si parla di giudice “naturale”, ed in questo senso l’impostazione prevalente ritiene si tratti di due dizioni sinonimiche.

Al contrario, altre parti dottrinali sostengono che il giudice naturale sia quello che per caratteristiche o altre ragioni sia il più idoneo a giudicare in quel dato procedimento.

Secondo un’interpretazione dottrinale la “naturalità” come connotato distinto dalla “precostituzione legale”, starebbe a indicare una necessaria aderenza del giudice rispetto al locus commissi delicti [12].  E’ stato affermato che in tanto un giudice può essere definito “naturale” in quanto risulti tertius super partes, non “prevenuto”, essendo sottratto ad ogni pressione o condizionamento esterno [13].

La Corte Costituzionale ha inoltre rilevato che il principio delineato dall’art. 25 Cost., garantendo la necessaria estraneità del giudice rispetto agli interessi ed ai soggetti coinvolti nel processo ed escludendo che la sua designazione e la determinazione delle relative competenze possano essere condizionate da fattori esterni, rappresenta uno dei presidi fondamentali dell’imparzialità , definendone «il contenuto ineliminabile di connotato intrinseco dell’attività del giudice in quanto non finalizzata al perseguimento di alcun interesse precostituito[14] ».

E’ possibile aggiungere che nelle fonti internazionali non si rinviene alcun riferimento testuale ad una specifica esigenza di “naturalità” del giudice: così l’art. 6 Cedu si limita a postulare che il giudice, oltre che indipendente ed imparziale, sia costituito per legge [15]

Nell’art. 25 comma 1 Cost., del quale è evidente il legame con il principio di “stretta legalità” delle norme penali, di cui al comma 2 dello stesso art. 25 Cost., sembra opportuno individuare almeno due dimensioni di garanzia, cioè una riserva di legge e un divieto di retroattività di norme.

Combinando i due assunti, la giurisprudenza Costituzionale, premesso che “l’art. 25 comma 1 Cost. risponde al diritto fondamentale ad avere un giudice indipendente ed imparziale, il quale, nel conflitto tra opposte pretese sottoposte al suo giudizio e tra le parti che ne sono portatrici nel processo, non possa dare adito al dubbio di essere stato appositamente istituito per quella controversia e per quelle parti”, ha più volte ribadito che tale norma tutela l’esigenza che la competenza degli organi giudiziari, al fine di una garanzia rigorosa della loro imparzialità, venga sottratta ad ogni possibile arbitrio attraverso la precostituzione per legge del giudice in base a criteri fissati in anticipo [16].

 

3.      Deroghe processuali al principio di “naturalità”

In merito alle considerazioni fin qui svolte sembra opportuno operare un richiamo ad una sentenza della Corte di Cassazione celebre non solo per il contenuto quanto per l’impatto mediatico che il caso in questione ha avuto: trattasi della vicenda Cogne[17].

Il difensore che ha assistito l’imputata nell’ultima fase del giudizio di appello ha proposto ricorso avverso la sentenza di secondo grado ed avverso una serie di ordinanze dibattimentali: tra i motivi addotti, il difensore ha invocato l’illegittimità Costituzionale dell’art. 438 c.p.p., in riferimento agli artt. 1, 3, 24, 25, 101, 102 e 111 Cost., quanto alla previsione che il giudizio abbreviato si svolga davanti al g.u.p. anche per reati di competenza della Corte d’Assise, in tal modo derogandosi al principio di necessaria partecipazione popolare all’amministrazione della giustizia e sottraendo il giudizio alla garanzia della collegialità dell’organo giudicante, con lesione dei principi costituzionali concernenti la competenza del “giudice naturale precostituito per legge” e del “giusto processo”[18].

La Corte ritiene manifestamente infondata, oltre che irrilevante (in quanto prospettata solo in questa sede anziché nella competente sede del giudizio di primo grado)  la questione di legittimità Costituzionale relativa all’art. 438 c.p.p., in riferimento agli artt. 1, 3, 24, 25, 101, 102 e 111 Cost., relativamente all’attribuzione della competenza alla celebrazione del giudizio abbreviato al giudice dell’udienza preliminare anche in caso di ordinaria competenza per materia della corte di assise. Quanto alla pretesa violazione degli artt. 1 (comma 2), 101 (comma 1) e 102 (comma 3) Cost. per la sottrazione del giudizio abbreviato alla Corte di Assise, sostiene il giudice di merito, «è sufficiente osservare che l’unica norma pertinente alla fattispecie deve, in realtà, ritenersi quella da ultimo citata che, peraltro, si limita a fissare una riserva assoluta di legge per la determinazione dei casi e delle forme della partecipazione diretta del popolo all’amministrazione della giustizia [19]».  In materia, è, appunto, la legge a determinare la competenza del g.u.p. alla celebrazione del giudizio abbreviato anche nei casi in cui la celebrazione del rito ordinario dovrebbe svolgersi dinanzi alla corte d’assise. La Corte, inoltre, asserisce che «la competenza assegnata in primo grado al g.u.p. è bilanciata dall’attribuzione della competenza per il giudizio di secondo grado alla corte d’assise d’appello, il che fa, comunque, salva l’esigenza di partecipazione del popolo all’amministrazione della giustizia nelle materie ordinariamente assegnate alla competenza di un giudice a composizione mista (di estrazione togata e popolare)[20]».

E’ proprio quest’ultima parte della pronuncia a destare particolari perplessità poiché non sarebbe corretto parlare di bilanciamento a causa di due specifici motivi che rappresentano l’uno la conseguenza dell’altro.

E’ bene precisare, infatti, che il secondo grado di giudizio né trova assoluto riscontro e riconoscimento nella Carta Costituzionale tale da giustificare una seppur velata “parificazione” di strumento di garanzia come il giudizio di primo grado, né tanto meno può ritenersi un “obbligo” dell’imputato avvalersi di un secondo grado di giudizio. Ciò che potrebbe risultare da una pronuncia di questo tipo è che chiunque voglia una maggiore garanzia, o comunque desideri essere giudicato da un organo collegiale piuttosto che da un giudice monocratico avrà sempre la possibilità di appellare la sentenza qualora abbia optato in primo grado per il giudizio abbreviato. La ratio del “bilanciamento”, in questi termini, risulta quasi infondata poiché è impensabile che si debba ricorrere in appello a causa del fatto che si è proceduto dinanzi ad un giudice singolo, quando per quel tipo di reato si sarebbe dovuto procedere dinanzi ad un collegio composto da membri togati e laici per il sol fatto di aver avallato una “opzione” fornita e auspicata dal legislatore stesso. Si badi bene, non si contesta tanto la scelta dei giudici di merito di aver rigettato la richiesta della ricorrente quanto piuttosto una delle motivazioni riportate dalla Corte stessa.

Continuando con l’analisi della pronuncia in questione, di fatti, inconfigurabile viene definita la violazione del principio del “giudice naturale” di cui all’art. 25, comma 1, Cost., «essendo l’attribuzione al g.u.p. della competenza alla celebrazione del giudizio abbreviato stabilita in via generale dalla legge ed essendo, quindi, tale organo, in caso di libera scelta di detto rito da parte del giudicabile, “precostituito per legge” (ovvero prima del processo e con valenza estesa a tutti i casi consimili), alla medesima stregua di quanto avviene per la corte d’assise qualora l’interessato accetti, invece, di assoggettarsi al giudizio ordinario[21]».

Una motivazione del genere risulta già più logica e meno ambigua rispetto a quella riportata poco sopra, se pure si pensa che il Giudice delle leggi, in un caso del tutto assimilabile a quello in esame, abbia confermato la legittimità della scelta del legislatore di affidare comunque la celebrazione del giudizio abbreviato al giudice dell’udienza preliminare anche in ipotesi di ordinaria competenza di un giudice a composizione mista (in quel caso il tribunale militare), statuendo che la previsione di detta composizione «non rispecchia un contenuto normativo costituzionalmente vincolato [22]».

Ancor prima, la Corte Costituzionale aveva positivamente scrutinato la legittimità dell’attribuzione ad un giudice monocratico, anziché collegiale, della competenza alla celebrazione del giudizio abbreviato, affermandone la natura di giudice naturale precostituito per legge a prescindere dalla sua composizione, sul rilievo che detta competenza era istituita con norma di carattere generale[23].

 

4.      L’indipendenza dell’organo giudicante in Italia e nei Trattati Internazionali

In ogni caso, è innegabile che il principio di imparzialità presupponga quello di indipendenza fissato dall’art. 101 comma 2 Cost., in base al quale i giudici sono soggetti soltanto alla legge [24].

E` stato infatti affermato che l’indipendenza si pone come strumentale rispetto all’imparzialità e questa a sua volta appare configurata in funzione della soggezione dei giudici soltanto alla legge [25], sottolineandosi che l’autonomia e l’indipendenza della magistratura « non tanto hanno il significato di criteri ordinatori per una divisione del lavoro dell’apparato statale nel suo complesso, ma piuttosto quello di garantire, in ultima istanza, la dimensione coessenziale del ruolo del giudice: l’imparzialità [26]».

Il rispetto del principio di indipendenza peraltro «è necessario ma non sufficiente per assicurare l’imparzialità, infatti, se indubbiamente un giudice al quale non sia assicurata l’indipendenza, sia nei confronti degli altri poteri dello Stato che nell’ambito interno della stessa magistratura, non può essere ritenuto imparziale, risultando inevitabilmente esposto a tutta una serie di pressioni, il giudice indipendente non necessariamente è esente da sospetti di parzialità, dovuti al pregresso compimento di attività atte ad influenzare la sua valutazione [27]».

Così, l’indipendenza non è solo approssimativamente un’“assenza di legami” con altri soggetti titolari di poteri di diritto o di fatto che possano rendere il giudice timoroso di dare determinati contenuti nelle sue decisioni.

Il giudice indipendente e imparziale trova finanche puntale spazio nelle Carte internazionali sui diritti dell’Uomo.

La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, all’art. 10 sancisce il diritto di ogni individuo “ad un’equa e pubblica udienza davanti ad un tribunale indipendente ed imparziale”; l’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo afferma il diritto di ogni persona”ad un’equa e pubblica udienza entro un termine ragionevole davanti un tribunale indipendente e imparziale”; l’art. 14 del Patto internazionale sui diritti civili e politici analogamente prescrive che “ogni individuo ha diritto ad un’equa e pubblica udienza dinanzi a un tribunale competente, indipendente e imparziale; infine, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, all’art. 47 riconosce il diritto di ogni persona “ a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente entro un termine ragionevole da un giudice indipendente e imparziale, precostituito per legge”.

La Corte europea dei diritti dell’uomo ha reiteratamente ribadito che l’imparzialità dei componenti di un organo giudicante, requisito essenziale di un “giusto processo”, va verificata sia attraverso un’analisi soggettiva, diretta ad accertare, nei limiti del possibile, il reale pensiero del giudice, sia attraverso un’indagine oggettiva, volta ad esaminare se la posizione del magistrato offra, anche “all’esterno”, garanzie tali da escludere la sussistenza di dubbi significativi sull’effettiva imparzialità [28].

Per quanto concerne specificamente l’aspetto soggettivo, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha affermato che l’imparzialità personale di un magistrato si presume fino a prova contraria [29]. Relativamente all’aspetto oggettivo è stato invece evidenziato come debba tenersi conto anche della semplice “apparenza” di parzialità [30].

In passato, l’imparzialità del giudice non trovava esplicito riconoscimento nella Carta Costituzionale, almeno prima dell’espressa enunciazione nell’art. 111 Cost, e in assenza di una previsione puntuale, il fondamento di questa regola veniva individuato in altri principi costituzionali[31].

Difatti, secondo un orientamento dottrinale il principio di imparzialità era desumibile dal principio di uguaglianza e dal principio di indipendenza, nonché a fortiori dal principio generale di imparzialità della pubblica amministrazione.

La garanzia dell’imparzialità, unitamente a quella della terzietà, trovano ora esplicito riconoscimento nell’art. 111, 2 comma Cost. e rappresentano una condizione indispensabile per la legalità nel processo. Grazie a tale esplicitazione viene sancita a livello Costituzionale, ormai anche sul piano testuale, l’impossibilità di confondere l’indipendenza del giudice con gli elementi che ne contrassegnano l’essenza e che consentono la distinzione tra giudice e non giudice [32].

Resta da capire se i due predicati connotativi della figura del giudice debbano essere considerati come una endiadi oppure abbiano un significato normativo almeno parzialmente distinto.

La dottrina infatti è divisa circa il significato dell’espressione “terzo e imparziale”, così da un lato si sostiene che essa sia una locuzione sovrabbondante, dall’altro si è rilevato che, mentre la terzietà attiene alla posizione istituzionale rivestita dal giudice, l’imparzialità connota l’esercizio delle funzioni processuali da parte dello stesso[33].

Non di rado i due concetti sono stati assimilati ed utilizzati indifferentemente come sinonimi riferiti ad un unico fenomeno.

In molte pronunce giurisprudenziali i termini sono utilizzati come fungibili[34], finanche si è detto che il principio di terzietà sia corollario di quello di imparzialità[35].

E’ bene precisare che i due concetti devono essere tenuti distinti alla luce dei propri ambiti di operatività che risultano ben differenti. Ciò lo si ricava anche dalle intenzioni del legislatore di revisione che tratta «i due attributi non come la ridondante ripetizione di due sinonimi, bensì come l’utile specificazione di due significati non coincidenti ma complementari [36]».

L’imparzialità infatti attiene al profilo operativo della funzione giurisdizionale e comporta che nel concreto esercizio del potere giurisdizionale il giudice sia estraneo alle parti e agli interessi in gioco nel processo e comunque immune da qualsiasi condizionamento in grado di pregiudicare la sua autonomia di giudizio [37].

La terzietà attiene invece al profilo istituzionale «o se si preferisce ordinamentale [38]» della funzione giurisdizionale poiché deve tenere il giudice effettivamente equidistante dalle posizioni e dalle istanze delle parti del processo.

Orbene è necessario che il giudice sia da un lato soggetto solo alla legge e indipendente dal potere politico e dalle parti, e dall’altro operi in un contesto di netta separazione di ruoli processuali, senza travalicare le proprie competenze.

Il collegamento tra i due termini risulta pertanto inscindibile e al contempo imprescindibile. In quest’ottica quindi il giudice altro non è che l’organo, distinto ed equidistante dalle parti, che grazie all’assetto funzionale, regolato dal codice di rito, dei propri rapporti con le parti stesse e con l’oggetto del processo, sia e rimanga disponibile a decidere solo sulla base delle prove legittimamente acquisite e istituzionalmente si renda impermeabile a pregiudizi che discendano da preconvinzioni o preconvincimenti [39].

Il rispetto del principio di imparzialità impone un doveroso contenimento dei poteri di integrazione probatoria attribuiti all’organo giudicante nel corso della fase dibattimentale, in quanto « un sistematico impegno del giudice nella ricerca delle prove, e quindi in attività di tipo investigativo,  sicuramente non neutrali per la scelta che implicano della direzione in cui indagare, pregiudicherebbe la sua imparzialità alterando indirettamente la parità tra accusa e difesa [40].

 

5.      La tutela dei principi

A tutela dei principi esposti sono previste dal codice di rito le norme in materia di incompatibilità, astensione e ricusazione.

A presidio dell’imparzialità è previsto un complesso sistema di cause di incompatibilità «che operano con riguardo all’esercizio delle funzioni giurisdizionali ubicate in più sedes materiae [41]». L’ordinamento giudiziario contempla quindi i casi di incompatibilità di funzioni e di incompatibilità di sede individuando agli artt. 34 e 35 c.p.p. specifiche fattispecie in considerazione del compimento di atti nello stesso procedimento o del rapporto di parentela, affinità, coniugio tra giudici nello stesso procedimento.

Bisogna peraltro ribadire come anche in tal caso non sia possibile delineare normativamente tutte le situazioni in cui il pregresso esercizio di determinate funzioni potrebbe astrattamente concretare una turbativa rispetto alla serenità del giudizio. La materia appare caratterizzata da una serie di contrasti fra l’esigenza di pervenire ad un allargamento dell’area dell’incompatibilità, onde ridurre correlativamente la possibilità di ledere il principio di imparzialità, e la necessità di evitare che l’incremento di detta area si ripercuota negativamente sulla funzionalità degli uffici giudiziari [42].

L’art. 34 c.p.p. al primo comma si occupa dell’incompatibilità con riferimento alla progressione “in verticale”  del processo [43]; in base a detta norma infatti il giudice che abbia pronunciato o abbia concorso a pronunciare sentenza in un grado del procedimento non può svolgere le funzioni di giudice negli altri gradi, né partecipare al giudizio di rinvio dopo l’annullamento o al giudizio per revisione.

In tal modo, come del resto era già stato osservato dal legislatore del 1930, si intende vietare al magistrato di giudicare due volte in ordine allo stesso fatto, impedendogli così di seguire il procedimento lungo l’intero suo corso [44].

Il secondo comma dell’art. 34 c.p.p. collega invece l’incompatibilità allo sviluppo del processo “in orizzontale”, vietando ad esempio la partecipazione al giudizio del magistrato che abbia emesso il provvedimento conclusivo dell’udienza preliminare. Il terzo comma infine delinea una serie di ipotesi di incompatibilità derivanti dal pregresso esercizio di determinate attività od uffici nell’ambito dello stesso procedimento.

Tra le norme dirette a prevenire o a superare situazioni che possono turbare e compromettere la serenità e l’imparzialità del giudice figurano poi due disposizioni che, a tal fine, privilegiando nell’ambito del bilanciamento il valore dell’imparzialità su quello del giudice naturale, introducono una deroga alle regole generali dettate in materia di competenza per territorio [45]: l’art. 11 c.p.p. individua un criterio territoriale ad hoc per i procedimenti nei quali sia coinvolto un magistrato e li affida al giudice ugualmente competente che ha sede nel capoluogo del distretto di corte d’appello determinato dalla legge, al posto di affidarli alla competenza di un ufficio giudiziario compreso nel distretto di corte d’appello in cui il magistrato esercita le proprie funzioni. 

Va osservato come il codice non configuri alcuna incompatibilità riferita all’ipotesi in cui chi ha svolto le funzioni di giudice, o ha prestato ufficio di difensore, di procuratore speciale, di curatore di una parte ovvero di testimone, perito o consulente tecnico eserciti successivamente nello stesso procedimento l’attività di pubblico ministero [46].

A sostegno di detta impostazione si osserva che il pubblico ministero riveste il ruolo di “parte” e non ha conseguentemente senso esigere l’imparzialità da tale organo.

Il codice di rito non è il solo a preoccuparsi poiché l’esigenza di tutelare l’imparzialità del giudice è altresì perseguita dagli artt. 18 (incompatibilità di sede per parentela o affinità con professionisti) e 19 (incompatibilità per vincoli di parentela o di affinità fra magistrati della stessa sede) dell’ordinamento giudiziario.

L’art. 18 ord. giud. esclude che i magistrati giudicanti e requirenti delle corti di appello, dei tribunali e delle preture possano appartenere ad uffici giudiziari nelle sedi presso le quali i loro parenti fino al secondo grado, o gli affini in primo grado, risultino iscritti nell’albo professionale degli avvocati, ed al contempo mira ad impedire che i predetti magistrati prestino servizio in uffici giudiziari innanzi ai quali i loro parenti, nei gradi sovraspecificati, esercitano abitualmente la professione di avvocato.

 

6.      Astensione e Ricusazione del Giudice

Atteso che tra i caratteri essenziali della giurisdizione penale, e non solo, vi è quello per cui il giudice deve essere terzo e imparziale, è opportuno predisporre una tu-tela non solo per situazioni codificate ma anche per quelle non previste, tali da mettere in pericolo il giudizio. Il codice di rito infatti disciplina due singolari istituti che mirano ad eliminare la possibile compresenza di variabili interpersonali e per-sonali, o per lo meno di quelle che non garantiscono una imparzialità del soggetto abilitato a decidere. «Una prima forma di tutela è stata attuata dal legislatore in via preventiva attraverso una serie di rimedi diretti in prima battuta a evitare ed impedire il verificarsi di situazioni idonee ad incidere sulla obiettività di giudizio del giudice e, in un secondo momento, a rilevare e superare vizi di imparzialità e terzietà capaci di pregiudicare la funzione giurisdizionale  ». Ragionando a contrario è possibile ricavare dal dato normativo talune componenti che sicuramente non possono far ingresso nel processo penale.

Tralasciando gli aspetti relativi all’incompatibilità in senso soggettivo che potrebbero definirsi “processuali” e che mal si inseriscono nel novero delle variabili interpersonali o personali, una prima indicazione è fornita dall’articolo 35 c. p. p. rubricato “Incompatibilità per ragioni di parentela, affinità o coniugio” , il quale prescrive che nel medesimo procedimento non possano esercitare funzioni di alcun tipo giudici che sono tra loro coniugi, parenti o affini fino al secondo grado.

Ciò risulta prevedibile se si medita sul risultato che potrebbe ottenersi in assenza di una previsione del genere. Si pensi ad un tribunale collegiale ove due terzi del collegio sia composto da una coppia di coniugi, oppure ad una situazione pregiudicante come quella in cui uno dei coniugi abbia già esercitato nel medesimo procedimento sia la funzione di giudice, sia altre funzioni separate o diverse. Il seguente articolo 36, rubricato “Astensione”, enumera una serie di casi in cui il giudice ha l’obbligo di astenersi; all’interno di questa disposizione possono rinvenirsi sicuramente componenti personali e interpersonali che il legislatore ha ritenuto estremamente nocive per il decorso processuale, tanto da prevedere un istituto a carattere preventivo come quello dell’astensione a garanzia della corretta prosecuzione del giudizio.

«In particolare, l’astensione è considerata come l’espressione più plateale del “ dovere di imparzialità”  che ricade in capo al giudice, mentre la ricusazione consacra il diritto delle parti ad una decisione imparziale.

Entrambi gli istituti concernono il giudice inteso “come persona fisica [...] e non come organo”, nonché “la idoneità concreta” dello stesso a svolgere il ruolo istituzionale secondo i canoni della imparzialità  ».

L’astensione quindi risulta essere uno strumento di prudenza che il giudice è obbligato rilevare in tutti quei casi in cui la propria figura rientri in uno dei casi enumerati dalla norma.

L’intervento decisivo sulla struttura dell’istituto dell’astensione giunge con la sentenza n. 113 del 2000  . 

L’art. 36 contiene un elenco minuzioso dei motivi che obbligano il giudice ad astenersi. Un esempio ne è il comma 1 lettera a): esso prende in esame il caso in cui il giudice possa avere interesse nel procedimento, o se alcuna delle parti private o un difensore è suo debitore o creditore, del coniuge o dei suoi figli.

In questo caso l’interesse non deve essere meramente teorico, ma tale che il giudice sia coinvolto nella vicenda in modo da renderla obiettivamente suscettibile di procurargli un vantaggio economico o morale.

Per quanto pacifica possa essere l’interpretazione delle lettere successive, è necessario porre particolare attenzione alla lettera “h” e alle diverse interpretazioni che ne sono state date nel corso del tempo.

Il codice prevede appunto che il giudice debba astenersi anche “se esistono altre gravi ragioni di convenienza”.

Lo stesso giudice remittente della citata sentenza della Corte Costituzionale n. 113 del 2000, riteneva che tale espressione non riguardasse il compimento di un’attività giurisdizionale, oggetto della questione, ma si riferisse a situazioni che investivano il giudice in quanto soggetto privato. In passato, attenta dottrina aveva già intuito come questa fosse in realtà una formula aperta e applicabile tutte le volte in cui il giudice potesse apparire imparziale. In avallo a questa teoria «affermava infatti la Corte che il valore deontico del principio del giusto processo si esprime, in questo caso, sul piano interpretativo, ed impedisce di attribuire alla locuzione “altre gravi ragioni di convenienza” un significato così ristretto da escludervi l’esercizio di funzioni in un diverso procedimento, che abbia avuto, in concreto, un contenuto pregiudicante. La disposizione in oggetto, detta la Corte al giudice di merito, pone una norma di chiusura a cui devono essere ricondotte tutte le ipotesi non ricadenti nelle precedenti lettere e nelle quali tuttavia l’imparzialità del giudice sia da ritenere compromessa».

La Corte, in questo modo, ha plasmato un vero e proprio calderone in cui di volta in volta è possibile far rientrare ipotesi non codificate, o nell’analisi qui condotta variabili, che possano pregiudicare l’imparzialità del giudizio.

La ragione poi è “grave” quando incide sulla libertà di determinazione del giudice.  «Un’ulteriore rimedio preventivo, per il caso in cui non dovesse essere presentata o accolta la dichiarazione di astensione o nell’ipotesi di cui all’art. 37, comma 1 lett. B), è costituito dalla ricusazione del giudice ad opera delle parti ».

Per certi versi può essere visto come un istituto a carattere “sanzionatorio” rispetto a quello dell’astensione in quanto qualora il giudice non dovesse astenersi per uno dei motivi pocanzi analizzati, è data la possibilità alle parti di ricusarlo.

Le parti possono ricusare il giudice sulla base dei medesimi motivi previsti per l’astensione con la sola eccezione delle “gravi ragioni di convenienza”.

Quella di non inserire la lettera “h” dell’art. 36 tra i motivi di ricusazione sembra essere stata una scelta logica del legislatore posta in essere per porre un freno all’eventuale e spropositato uso che le parti avrebbero potuto farne in modo da allungare i tempi processuali.  E’ pur vero che nelle ipotesi di ricusazione «l’effetto pregiudicante è meramente eventuale, e deve quindi essere accertato in concreto e, ove necessario, rimosso». Con un intervento della Corte Costituzionale   è stata poi dichiarata l’illegittimità Costituzionale del comma 1 di tale articolo nella parte in cui non prevede che possa essere ricusato dalle parti il giudice che, chiamato a decidere sulla responsabilità di un imputato, abbia espresso in altro procedimento, anche non penale, una valutazione di merito sullo stesso fatto nei confronti del medesimo soggetto.

Questi dunque sono i rimedi che dovrebbero consentire di prevenire eventuali situazioni in cui non viene garantito un corretto svolgimento del giudizio. Assai più complessa diventa la questione quando si analizzano gli effetti e le eventuali conseguenze di una mancata attuazione di tali strumenti nel caso in cui siano necessari.

 

7.      L’incubo del giudice suspectus e gli effetti sulla sentenza

Ciò che a questo punto è necessario capire, è quali siano gli effetti della mancanza di imparzialità e terzietà del giudice e quale sia la sorte della sentenza penale pronunciata dal giudice suspectus.

Seppur il problema si atteggi diversamente a seconda che il provvedimento decisorio sia emesso dal giudice incompatibile oppure dal giudice ricusato[47], per questioni di economia ci si arresterà in questa sede all’analisi del primo aspetto. In particolare, il problema degli effetti derivanti dalla violazione delle norme poste a tutela dell’imparzialità e della terzietà si configura nel caso in cui il giudice sia in una delle situazioni di incompatibilità individuate dall’ordinamento giudiziario o dal codice di rito e, ciononostante, eserciti le proprie funzioni.

L’assenza, nel codice di procedura penale, di disposizioni sugli effetti derivanti dalla violazione delle norme poste a tutela dell’imparzialità del giudice ha legittimato il formarsi di opinioni contrapposte a seconda che le cause di incompatibilità siano o meno ritenute riconducibili alla nozione di capacità del giudice.

Ciò risulta di fondamentale importanza alla luce delle previsioni di cui agli artt. 178, comma 1, lett. a) e 179, comma 1, c.p.p. Secondo un primo orientamento, l’esistenza di una causa di incompatibilità non incide sulla capacità del giudice e conseguentemente a ciò non produce alcuna nullità poiché può essere denunciata e rimossa attraverso il meccanismo della ricusazione[48]

Al contrario invece, muovendo dall’idea che l’incompatibilità incida sulla capacità, in quanto il giudice incompatibile, pur essendo investito delle funzioni non può esercitarle in uno specifico processo, una parte della dottrina ha affermato che le situazioni di incompatibilità generano un’incapacità del giudice e sono causa di nullità assoluta, rilevabile d’ufficio, degli atti da questi compiuti[49].

Coloro che ritengono inesistente una corrispondenza tra l’incompatibilità e la capacità fanno dipendere la sorte della sentenza del giudice incompatibile da scelte delle parti[50]: qualora il giudice non si astenga, solo attraverso la dichiarazione di ricusazione si potrà attribuire rilevanza alla situazione di incompatibilità e, in caso di accoglimento, incidere sull’efficacia degli atti compiuti e dell’eventuale sentenza pronunciata.

 Coloro che ritengono incapace il giudice incompatibile considerano la sentenza pronunciata dal giudice suspectus inficiata da nullità assoluta e così rilevabile fino al giudicato, anche d’ufficio: così però, il provvedimento decisorio sarebbe dotato di una efficacia precaria destinata a venir meno laddove, ex officio o su eccezione di parte, fosse dichiarata la nulli dell’atto. In tal senso, numerose sono state le pronunce di legittimità che in caso di incompatibilità hanno escluso la nullità invocando gli istituti di astensione e ricusazione[51].

La giurisprudenza di regola ha escluso che l’incompatibilità incida sulla capacità di giudicare in generale e determini nullità a causa del fatto che il vizio sanzionato dall’art. 178 lett. a) c.p.p. consiste nel difetto di capacità generica e non anche nel difetto di condizioni specifiche per l’esercizio delle funzioni giurisdizionali in un determinato processo.

E’ bene ricordare che in passato, in alcune occasioni, i giudici di legittimità hanno ritenuto configurabile in caso di incompatibilità una nullità relativa da ritenersi sanata ogni qualvolta le parti non abbiano fatto ricorso al rimedio della ricusazione [52].

Dato che tra i caratteri essenziali della giurisdizione vi è quello per cui il giudice deve essere terzo e imparziale, è necessario predisporre una tutela processuale non solo per le situazioni codificate, ma anche per quelle che, sia pure non previste, sono tali da mettere in pericolo l’imparzialità del giudice. In quanto caratteri indispensabili alla giurisdizione e coessenziali all’esercizio della funzione giudicante, l’imparzialità e la terzietà potrebbe dirsi che contribuiscano ad integrare i requisiti di capacità del giudice, di conseguenza la loro mancanza non è compatibile con l’esercizio del potere giurisdizionale, nel senso che comporta il venir meno in capo all’organo giudiziario il potere di decidere.

Così, la sentenza emessa da un giudice ritenuto suspectus non può non essere ritenuta viziata poiché l’atto è posto in essere da un soggetto privo del potere di compierlo [53].

Anche il dato normativo in alcune ipotesi sembra rispondere a questa esigenza quando nega al giudice il potere di pronunciare sentenza nel momento in cui viene avanzato un dubbio sulla sua imparzialità, così non può dirsi conforme al modello legale né, in considerazione della rilevanza della difformità, può essere ritenuto valido.

L’art. 34 c.p.p. nel prevedere i casi di incompatibilità determinata da atti compiuti nel procedimento, stabilisce che il giudice che si trovi in tali situazioni “ non può esercitare funzioni di giudice”, “né partecipare al giudizio”; in aggiunta, l’art. 37 comma 2 c.p.p. prescrive che il giudice “ricusato non può pronunciare né concorrere a pronunciare sentenza fino a che non sia intervenuta l’ordinanza che dichiara inammissibile o rigetta la ricusazione”.

La forma di invalidità che colpisce la sentenza emessa dal giudice suspectus è costituita da nullità non tanto per il divieto posto dall’art. 37 c.p.p. quanto per la previsione contenuta nell’art.178 lett. a) c.p.p. Tale norma non distingue la capacità generica da quella specifica, ed inoltre, la nullità è comminata per l’inosservanza delle disposizioni concernenti “le condizioni di capacità del giudice e il numero di giudici necessario per costituire i collegi stabilito dalle leggi dell’ordinamento giudiziario”; da ciò si ricava che le cause di nullità di ordine generale e assoluta individuabili nell’ordinamento giudiziario riguardano solo il numero dei giudici necessari a costituire i collegi[54]. I requisiti di capacità del giudice possono e devono essere ricercati non solo extra codicem, ma anche nell’intero sistema processuale penale. Il rinvio poi al contenuto dell’art. 33 c.p.p. ha indotto la dottrina ad affermare che i requisiti di capacità del giudice siano definiti esclusivamente da norme di carattere ordinamentale.

In verità, il rinvio alle leggi dell’ordinamento giudiziario non deve essere interpretato stricto sensu, dovendosi al contrario fare riferimento a qualsiasi disposizione normativa, ovunque collocata,  diretta a disciplinare l’attività giurisdizionale.

Diversamente il concetto di capacità del giudice finirebbe per svuotarsi di significato.

In realtà, il dato positivo Costituzionale riduce l’imparzialità e la terzietà ad elementi costitutivi della capacità del giudice, e ciò emerge dall’art. 111 Cost. che esige il giudice terzo e imparziale e la sua diretta incidenza sul piano del diritto positivo.

Anche le Sezioni Unite del 2011 hanno riconosciuto in un passaggio fondamentale della loro pronuncia[55] che non è possibile non riconoscere rilevanza anche ai difetti di capacità del giudice che dipendano “dall’assenza di requisiti posti dalla  Costituzione stessa come coessenziali per l’esercizio della funzione giudicante, vale a dire dall’inosservanza del principio di imparzialità e terzietà.

Le Sezioni Unite, quindi sottolineano come l’assenza di imparzialità e terzietà si traducano in un difetto di potere giurisdizionale. In questo modo la nullità non sanziona la violazione del divieto di pronunciare sentenza in attesa della decisione sulla neutralità del giudice, non essendovi una previsione in tal senso né essendo invocabile nel caso di specie l’art. 178 lett.a).

Ciò che rileva e giustifica la sanzione è il difetto di capacità determinato dall’assenza dei requisiti essenziali alla funzione giurisdizionale e per questo non è sufficiente la violazione del divieto di emettere sentenza, ma al contrario la nullità colpisce l’atto nel momento in cui sia accertata la violazione della norma volta a garantire l’imparzialità e la terzietà del giudice con la conseguente incapacità funzionale [56].

Incentrare la tutela sul piano sanzionatorio del principio di imparzialità e terzietà del giudice sulla nullità assoluta non è privo di controindicazioni anche in riguardo ad alcuni aspetti del piano normativo che in alcuni specifici casi riconosce efficacia all’attività compiuta dal giudice sospettato parziale.

Ad esempio l’art. 42, comma 2 c.p.p. prescrive che il provvedimento che accoglie la dichiarazione di astensione o ricusazione dichiara se “e in quale parte” gli atti compiuti dal giudice conservano efficacia; ancora, l’art. 48 comma 5 c.p.p., prevedendo la rinnovazione degli atti da parte del giudice designato dalla Cassazione, quando sia richiesta da una delle parti e non ne sia impossibile la ripetizione, riconosce implicitamente efficacia agli atti compiuti dal giudice suspectus nonché di quelli irripetibili.

Tali previsioni potrebbero al più essere intese nel senso che possano conservare efficacia solo quegli atti posti in essere prima dell’insorgere della situazione che ha minato l’imparzialità del giudice o comunque tali da non influire gravemente e concretamente sul processo.

Sicuramente non si ignora la tendenza emersa nella giurisprudenza di circoscrivere l’ambito di operatività delle nullità assolute e di applicare la sanzione processuale più grave solo in caso di concreta lesione dell’interesse tutelato, ma di questo intento si può tenere conto ricollegando tale forma di invalidità non alla mera violazione del divieto di pronunciare sentenza, ma all’accertamento di una violazione del principio di imparzialità e terzietà del giudice, e al tempo stesso riconoscendo al giudice al momento della declaratoria della nullità il potere di salvare gli eventuali atti compiuti dal giudice che, per loro natura o perché precedenti all’insorgere del vizio, non comportino la concreta lesione dell’interesse tutelato [57].

I principi esposti, come inseriti nel quadro designato dall’art. 111 Cost, rappresentano una vera e propria condicio sine qua non del giusto processo legale, e ciò sembra adeguarsi alla concezione di imparzialità del giudice elaborata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, che considera l’imparzialità del giudice richiesta dall’art. 6 Cedu, come diritto irrinunciabile e, quindi, svincolato dalla disponibilità delle parti [58], essendo requisito della giurisdizione inderogabile, perché posto non nell’interesse esclusivo del singolo, ma a tutela del corretto esercizio di una funzione statale [59].

 

 

 

 

 


[1] G. UBERTIS, Verso un “giusto processo” penale, Utet, Milano, 1997, 61.

[2] P. P. RIVELLO,  Il principio dell’imparzialita` del giudice nella giurisprudenza Costituzionale e negli interventi del legislatore, in Cass. pen., 1999, 3030.

[3] Corte cost., 25 marzo 1992, n. 124, in Giur.cost., 1992, 1064.

[4] O. MAZZA, Indipendenza e imparzialita` del giudice, in AA.VV., Protagonisti e comprimari del processo penale, (contributi coordinati da) M. Chiavario, Giurisprudenza sistematica di diritto processuale penale, Utet, Milano, 1995, 37.

[5] G. GIARDA, Imparzialità del giudice e difficoltà operative derivanti dalla incompatibilità, in Il giusto processo, Atti del convegno di Salerno, Milano, 1998, 35.

[6] G. LOZZI, Lezioni di procedura penale, Giappichelli, Torino, 1997, 46.

[7] G. COCCIARDI, Sul concetto di giudice naturale precostituito per legge e di giudice straordinario nella nostra Costituzione, in Riv. it. dir. proc. pen., 1962, 277.

[8] Corte Cost., 7 luglio 1962, n. 88, in Giur. Cost., 1962, 959.

[9] A. PIZZORUSSO, Giudice Naturale, in Enc. giur., 1991, 2.

[10] Corte Cost., sent. 30 dicembre 1991, n. 502, in Foro it., 1992, I, 625.

[11] G. DI CHIARA, L’incompatibilità endoprocessuale del giudice, Giappichelli, Torino, 2000, 18.

[12] M. CHIAVARIO, Diritto processuale penale, Utet, Milano, 2009,  99.

[13] P. PITTARO, Ancora sulla legittimità Costituzionale dei vice pretori onorari (appunti sugli artt. 25 comma 1 e 101 comma 2 della Costituzione), in Riv. it. dir. proc. pen., 1973, 241.

[14] Corte cost., 25 marzo 1992, n. 124, cit.

[15] M. CHIAVARIO, Diritto processuale penale, cit., 99.

[16] M. CHIAVARIO, Diritto processuale penale, cit., 99.

[17] Cass. pen., sez. I, 21 maggio 2008, n. 31456, in Cass. pen., 2009, 1840.

[18] Cass. pen., sez. I, 21 maggio 2008, n. 31456, cit.

[19] Cass. pen., sez. I, 21 maggio 2008, n. 31456, cit.

[20] Cass. pen., sez. I, 21 maggio 2008, n. 31456, cit.

[21] Cass. pen., sez. I, 21 maggio 2008, n. 31456, in Cass. pen., 2009, 1840.

[22] Corte Cost., n. 460/1994, in Giur. cost., 1994, 3967.

[23] Corte Cost., n. 305/1993, in Cass. pen., 1993, 2777.

[24] P. P. RIVELLO,  Il principio dell’imparzialità del giudice, cit., 3032.

[25] V. BACHELET, Sull’imparzialità del giudice, in Crit. giud., 1980, 7.

[26] M. PISANI, Giurisdizione penale, in Enc. dir., vol. XIX, 1970, 386.

[27] P. P. RIVELLO,  Il principio dell’imparzialità del giudice, cit., 3032.

[28] P. P. RIVELLO,  Il principio dell’imparzialità del giudice, cit., 3033.

[29] Cour eur. D.H.,  Affaire Campbell et Fell, 28 juin 1984, Serie A, n. 80, 41.

[30] Cour eur. D.H., Affaire De Cubber,  26 Octobre 1984, Serie A, n. 86, 14, (la sentenza e` riportata anche in Riv. it. dir. proc. pen., 1989, 929).

[31] P. CORVI, La tutela processuale della terzietà e imparzialità del giudice: si può fare di più?, in Riv. it. dir. proc. pen., 2012, 813.

[32] M. CECCHETTI, Gli elementi indefettibili del “giusto processo”: contraddittorio tra le parti in condizioni di parità, terzietà e imparzialità del giudice, ragionevole durata, in P. Tonini, (a cura di), Giusto processo. Nuove norme sulla formazione e valutazione della prova (legge 1° marzo, 2001, n. 63), CEDAM, Padova, 2001, 80.

[33] M. CECCHETTI, Gli elementi indefettibili del “giusto processo”, cit., 80.

[34] Tra tutte: Cass. pen. sez. un., 21 gennaio – 9 giugno 2011, Tanzi, in Cass. pen. 2011, 4210.

[35] Cass. pen. sez. un., 16 dicembre 2010, in Ced Cass. n. 249300.

[36] M. CECCHETTI, Gli elementi indefettibili del “giusto processo”, cit., 81.

[37] P. CORVI, La tutela processuale della terzietà e imparzialità del giudice, cit., 814.

[38] M. CECCHETTI, Gli elementi indefettibili del “giusto processo”, cit., 81.

[39] G. DI CHIARA, L’incompatibilità endoprocessuale del giudice, cit., 67.

[40] P. FERRUA, Difesa (diritto di), in Dig. disc. Pen., vol. III, Utet, Torino, 1989, 470.

[41] G. DI CHIARA, L’incompatibilità endoprocessuale del giudice, cit., 74.

[42] P. P. RIVELLO,  Il principio dell’imparzialità del giudice, cit., 3034.

[43] G. SPANGHER, Soggetti, in G. Conso – V. Grevi (a cura di), Profili del nuovo codice di procedura penale, Cedam, Padova, 1996, 24.

[44] P. P. RIVELLO,  Il principio dell’imparzialità del giudice, cit., 3035.

[45] P. CORVI, La tutela processuale della terzietà e imparzialità del giudice, cit., 816.

[46] P. P. RIVELLO,  Il principio dell’imparzialità del giudice, cit., 3036.

[47] P. CORVI, La tutela processuale della terzietà e imparzialità del giudice, cit., 816.

[48] T. RAFARACI, sub art. 37, in CHIAVARIO (diretto da), Commento al nuovo codice di procedura penale, III aggiornamento, Torino, 1998, 210.

[49] G. TRANCHINA, I soggetti, in D. Siracusano – A. Galati – G. Tranchina – E. Zappalà, Diritto processuale penale, Vol. I, Giuffrè, Milano, 2001, 66.

[50] P. CORVI, La tutela processuale della terzietà e imparzialità del giudice, cit., 818.

[51] Cass. pen., sez. V, 12 marzo 2010, Bonaventura, in Ced. Cass., 246716; e ancora, Cass. pen., sez. I, 13 dicembre 2000, Barontini, in Cass. pen., 2002, 1441; Cass. pen., sez. II, 1 aprile 1987, Toffetti, in Cass. pen., 1988, 2110.

[52] Cass. pen., sez. I, 24 maggio 1992, Arduini, in Giust. pen., 1993, III, 340.

[53] P. CORVI, La tutela processuale della terzietà e imparzialità del giudice, cit., 830.

[54] P. CORVI, La tutela processuale della terzietà e imparzialità del giudice, cit., 831.

[55] Cass. pen., sez. un., 29 gennaio-9 giugno 2011, cit., 4217.

[56] P. CORVI, La tutela processuale della terzietà e imparzialità del giudice, cit., 834.

[57] P. CORVI, La tutela processuale della terzietà e imparzialità del giudice, cit., 835.

[58] Cedu, 7 agosto 1996, Ferrantelli e Santangelo c. Italia, in Giust. pen., I, 33.

[59] G. UBERTIS, Sistema di procedura penale. Principi generali, Utet, Torino, 2007, 118.