Pubbl. Mer, 17 Apr 2024
La Cassazione sull´estorsione mediante minaccia silente commessa da un appartenente a un´associazione mafiosa
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Chiara Squizzato
Il presente contributo, partendo da un´analisi degli elementi costitutivi della fattispecie di estorsione di cui all´art. 629 c.p., è volto ad esaminare la sentenza della Corte di Cassazione n. 39386 del 2 ottobre 2023, che afferma il principio di diritto secondo cui, in caso di estorsione con minaccia silente proveniente da soggetto appartenente ad un sodalizio mafioso, sussiste l´aggravante di cui all´art. 628, co. 3, n. 3 c.p., la cui configurabilità è correlata alla sola provenienza qualificata della condotta intimidatoria, ma non quella di cui all´art. 416 bis.1 c.p., sotto il profilo dell´utilizzo del metodo mafioso, che postula un´ulteriore esternazione, funzionale alla semplificazione delle modalità commissive del reato
Sommario: 1. Analisi della fattispecie; 2. Svolgimento del processo; 3. Motivi della decisione; 4. Conclusioni.
1. Analisi della fattispecie
Al fine di una migliore comprensione della sentenza oggetto della presente disamina, appare utile soffermarsi brevemente sull’istituto di cui trattasi, ovverosia sulla fattispecie di estorsione.
Il delitto di estorsione trova la propria disciplina nel Capo I del Titolo XIII del Libro II, relativo ai delitti contro il patrimonio mediante violenza alle cose o alle persone, in particolare all’art. 629 c.p.
Il primo comma dell’articolo sopracitato è volto a descrivere il fatto di estorsione, affermando che «chiunque, mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o ad omettere qualche cosa, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, è punito con la reclusione da cinque a dieci anni e con la multa da euro 1.000 a euro 4.000», mentre il secondo comma è teso a rendere applicabili all’estorsione le circostanze aggravanti di cui all’ultimo comma dell’art. 628 c.p., dettate con riguardo al delitto di rapina.
Il delitto di estorsione è procedibile d’ufficio e la competenza è devoluta al Tribunale monocratico, ovvero a quello in composizione collegiale, a seconda che ricorra la fattispecie semplice oppure quella aggravata ex art. 629, co. 2 c.p.
Per quanto riguarda la struttura, l’estorsione si caratterizza per essere un reato plurioffensivo, nella misura in cui lo stesso è lesivo sia del patrimonio, sia della libertà di autodeterminazione del soggetto passivo, trattandosi di un’aggressione per la quale è richiesta la cooperazione della vittima.
Dal punto di vista fenomenologico, il delitto di estorsione si può manifestare in concreto con fatti di diversa gravità, essendo ravvisabile questa caratteristica già dal fatto vi è diversità a seconda che l’azione sia intrapresa mediante minaccia o violenza. Ulteriormente, va evidenziato, anche in relazione al caso oggetto della pronuncia che si vuole esaminare, che il fenomeno estorsivo, soprattutto se seriale, si lega alla criminalità organizzata, potendo assumere una rilevanza e una gravità tali da compromettere la stessa economia di un determinato territorio. L’estorsione è, infatti, un tipico settore di attività economica illecita, in mano a gruppi criminali organizzati, spesso di stampo mafioso.
Il delitto di estorsione è un reato comune, in quanto soggetto attivo può essere chiunque, e rientra nel novero dei reati a forma vincolata, dal momento che le modalità di condotta sono costituite dalla violenza o dalla minaccia e l’evento consiste nella costrizione psichica da cui scaturisce l’atto dispositivo che cagiona il profitto o il danno.
La violenza, di per sé, non pone particolari problematiche, mentre attenzione deve essere posta sulla minaccia, la quale, strutturalmente, si compone di tre elementi: la prospettazione, l’oggetto della prospettazione e la dipendenza della verificazione del male o danno ingiusto dalla volontà dell’autore.
Per quanto attiene alla prospettazione, essa può essere attuata con qualsiasi mezzo, potendo essere diretta, indiretta, reale, simbolica, allusiva[1]. Il male prospettato si pone come alternativa all’azione o omissione che l’agente vuole che si realizzi per procurarsi il profitto con altrui danno. Fondamentale è che il male prospettato sia ingiusto, dovendosi, a tal proposito, chiarire che è minaccia la prospettazione di un male ingiusto di per sé, qualsiasi sia la finalità perseguita[2].
Violenza e minaccia devono produrre un effetto di costrizione nella vittima, un evento psichico di difficile accertamento ex post sulla base di spiegazioni mediante leggi scientifiche, con riguardo al quale, infatti, la dottrina maggioritaria ritiene necessario un giudizio prognostico ex ante, da effettuarsi caso per caso, ponendo in rilievo le circostanze concrete in cui la condotta è stata compiuta[3].
Sotto il profilo soggettivo, l’estorsione è un delitto punito a titolo di dolo generico, dal momento che, secondo dottrina[4] e giurisprudenza[5] il procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno non costituisce lo scopo in vista del quale l’autore del reato pone in essere il comportamento sanzionato dalla norma, bensì rappresenta un elemento oggettivo della fattispecie di cui trattasi.
2. Svolgimento del processo
Il caso di specie prende le mosse dalla sentenza emessa in secondo grado dalla Corte di Appello di Palermo in data 25 gennaio 2022, la quale, con riguardo all’imputato G.S., assolveva per il capo n. 1 (art. 416 bis c.p.) perché “il fatto non sussiste” ed escludeva le aggravanti sui capi 3 (estorsione aggravata) e 12 (alterazione della libertà di voto per le elezioni regionali siciliane del novembre 2017); in merito a C.F., la Corte d’appello confermava la sentenza del GUP di Palermo di condanna ex art. 416 bis c.p., con le circostanze aggravanti di cui ai commi 4 e 6; infine, in riferimento all’imputato D.S.P., condannato in primo grado per il capo n. 4 (favoreggiamento aggravato), con esclusione dell’aggravante di cui all’art. 416 bis.1 c.p., in secondo grado è stato accolto l’appello del Pubblico Ministero sull’aggravante, con conseguente rideterminazione della pena.
Per quanto di interesse in questa sede, in seguito ai molteplici ricorsi proposti avverso tale sentenza, merita attenzione il ragionamento offerto dalla Suprema Corte circa i capi di imputazione nn. 1 e 3.
Come sopra già richiamato, la contestazione di cui al capo n. 1 indica G.S. e C.F. quali partecipi dell’associazione mafiosa Cosa Nostra, radicata nei territori di Mazara del Vallo, Campobello di Mazara e Castelvetrano, mentre il capo n. 3 qualifica G.S. come partecipe, in concorso con altri due soggetti, di una vicenda di estorsione, posta in essere nei confronti dei gestori di un bar, al fine del mantenimento, in quest’ultimo, delle slot machines.
Avverso la sentenza della Corte d’appello di Palermo ha proposto, anzitutto, ricorso per Cassazione il Procuratore Generale territoriale, unicamente con riguardo alla posizione di G.S. Nello specifico, circa il capo n. 1, la pubblica accusa ha denunciato il vizio di motivazione per illogicità, contraddittorietà e travisamento, per avere il giudice di secondo grado svalutato la portata indiziante di numerosi elementi di prova esposti nella decisione di condanna di primo grado e non aver tenuto conto che dalla condotta di estorsione, realizzata dall’imputato in concorso con M.D., emerge pacificamente la consapevolezza del ruolo di vertice assunto, all’interno dell’associazione, da quest’ultimo.
Con riguardo al capo n. 3, il Pubblico Ministero ha dedotto l’erronea applicazione di legge in riferimento all’esclusione della circostanza aggravante prevista all’art. 628, co. 3, n. 3 c.p., nella misura in cui sarebbe sufficiente ad integrare siffatta circostanza il fatto che l’estorsione sia stata commessa dall’imputato di cui trattasi in concorso con M.D. e B.M., in certamente appartenenti alla consorteria mafiosa.
La Suprema Corte è stata chiamata a pronunciarsi anche sul ricorso proposto da G.S., con riguardo al capo 12 – in questa sede non rilevante – e al capo n. 3. Con riguardo a quest’ultimo il condannato, deducendo l’erronea applicazione di legge e vizio di motivazione, osserva che il giudice di secondo grado avrebbe mal interpretato il contenuto delle conversazioni prodotte in giudizio e che la mera presenza di M.D., il quale non è mai stato condannato per appartenenza all’associazione mafiosa, non può essere considerata idonea a realizzare la coartazione richiesta dall’art. 628, co. 3, n. 3 c.p.
Per completezza, si deve sottolineare che hanno proposto ricorso per Cassazione anche C.F. e D.S.P., per motivi che non saranno considerati nel presente contributo.
3. Motivi della decisione
La Prima Sezione della Corte di Cassazione, in virtù della ricostruzione che si andrà ad esporre, ha accolto il ricorso proposto dal Procuratore Generale territoriale, inerente la posizione di G.S., e ha ritenuto fondati, in parte, i ricorsi presentati dalle altre parti.
La Suprema Corte ha giudicato fondato, dunque, il ricorso della pubblica accusa sulla sussistenza della circostanza aggravante di cui all’art. 629, co. 2 c.p., che richiama l’art. 628, co. 3, n. 3 c.p., con esclusione, invece, della circostanza disciplinata all’art. 416 bis.1 c.p.
Tale conclusione è supportata da un ragionamento articolato, dal momento che la complessità della normativa in materia ha condotto la Corte ad elaborare alcuni importanti principi chiarificatori, volti a distinguere le due circostanze aggravanti in esame.
Punto di partenza della pronuncia in diritto degli Ermellini è rappresentato dall’art. 628, co. 3, n. 3 c.p., il quale afferma espressamente che l’aggravante ricorre «se la violenza o minaccia è posta in essere da persona che fa parte dell'associazione di cui all’articolo 416 bis». Ad avviso del giudice di legittimità, il Legislatore ha voluto sanzionare l’aumento della capacità di intimidazione derivante dal fatto che la condotta è stata attuata da un soggetto appartenente ad un’associazione mafiosa.
Peraltro, non appare rilevante, a differenza di quanto sostenuto dalla difesa di G.S., che l’appartenenza all’associazione mafiosa sia retta da una sentenza di condanna passata in giudicato, nella misura in cui, in virtù di un orientamento ormai consolidatosi, «ai fini della configurabilità della circostanza aggravante prevista dall’art. 628 c.p., comma 3, n. 3, non è necessario che l’appartenenza dell’agente a un’associazione di tipo mafioso sia accertata con sentenza definitiva, ma è sufficiente che tale accertamento sia avvenuto nel contesto del provvedimento di merito in cui si applica la citata aggravante (così Sez. 2 n. 33775 del 4.5.2016, rv 267850)»[6].
Così chiarita la ratio dell’aggravio sanzionatorio previsto dall’art. 628, co. 3, n. 3 c.p., la Suprema Corte ha proseguito nel suo ragionamento prendendo in considerazione le censure sollevate dalla difesa, tese a contestare la sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 416 bis.1 c.p., ed ha per concluso nel senso dell’esclusione di tale circostanza.
Siffatta decisione è stata assunta valorizzando la distinzione tra le due circostanze aggravanti, al fine di evitare duplicazioni sanzionatorie non giustificate. Invero, se, da un lato, l’art. 628, comma 3, n. 3 c.p. determina un aggravio sanzionatorio qualora la violenza o minaccia sia commessa da persona che fa parte dell’associazione di cui all’art. 416 bis c.p., dall’altro lato, invece, l’art. 416 bis.1 c.p. prevede un aumento di pena nel caso in cui il reato sia posto in essere «avvalendosi delle condizioni previste dall’articolo 416 bis c.p.».
I giudici di legittimità, a tal proposito, hanno affermato che «il particolare incremento sanzionatorio introdotto dal legislatore D.L. n. 152 del 1991, art. 7 (oggi collocato nel testo del codice all’art. 416 bis.1 c.p.) pone l’interprete nella necessità di individuare non tanto il fondamento politico-criminale della scelta legislativa, quanto la concreta dimensione fenomenica delle condotte descritte nella norma, allo scopo di evitare la maggior punizione di condotte in realtà estranee al modello tipizzato o già altrove incriminate»[7].
In particolare, la Suprema Corte rileva che due sono le ragioni giustificatrici poste alla base dell’art. 416 bis.1 c.p.
Da una parte, infatti, il Legislatore ha inteso valorizzare le modalità con le quali il delitto viene commesso, ovverosia la forza di intimidazione del vincolo associativo e la condizione di assoggettamento ed omertà che ne deriva tra i consociati, a prescindere dal fatto che il soggetto responsabile sia o meno associato, nella misura in cui tali elementi siano stati effettivamente utilizzati come fattore di semplificazione della condotta. Per sostenere tale affermazione, la Corte ha richiamato il principio di diritto già affermatosi in precedenza, secondo cui «la circostanza aggravante prevista dall’art. 7 del d.l. 13 maggio 1991, n. 152, conv., in l. 12 luglio 1991, n. 203, il cui contenuto è stato trasfuso nell’art. 416-bis.1 c.p. dall’art. 8, comma 1, d. lg. 1 marzo 2008, n. 21, nella forma dell’aver commesso il fatto avvalendosi del cd. “metodo mafioso”, è configurabile nel caso di condotte che presentano un nesso eziologico immediato rispetto all’azione criminosa, in quanto logicamente funzionali alla più pronta e agevole perpetrazione del crimine, non essendo pertanto integrata dalla sola connotazione mafiosa dell’azione o dalla mera ostentazione, evidente e provocatoria, dei comportamenti di tale organizzazione»[8].
Dall’altra parte, la disposizione in esame trova la sua ratio nella volontà di punire in maniera più decisa la condotta posta in essere al fine di agevolare l’attività delle associazioni di cui all’art. 416 bis c.p., dovendo, tuttavia, a tal fine, ricorrere anche l’elemento soggettivo, consistente nella cosciente e univoca finalità di agevolare il sodalizio, e la concreta strumentalità del reato commesso rispetto alle finalità perseguite dal sodalizio criminale.
Sulla base di tali premesse, i giudici di legittimità hanno condiviso l’orientamento già consolidatosi, in virtù del quale, nel caso di soggetto associato che realizzi un’estorsione, le due aggravanti possono concorrere tra loro, anche data l’assenza di rapporti di specialità fra le norme che ne consentirebbe un assorbimento ai sensi dell’art. 84 c.p. Nello specifico, «in tema di estorsione, la circostanza aggravante di cui all’art. 7 d.l. n. 152 del 1991, conv. nella l. n. 203 del 1991, può concorrere con quella di cui all’art. 628, comma 3 n. 3 c.p., richiamata dall’art. 629, comma 2, c.p., essendo le stesse ancorate a presupposti fattuali differenti: la prima, infatti, presuppone l’accertamento che la condotta del reato sia stata commessa con modalità di tipo mafioso, pur non essendo necessario che l’agente appartenga al sodalizio criminale, mentre la seconda si riferisce alla provenienza della violenza o minaccia da soggetto appartenente ad associazione mafiosa, senza la necessità di accertare in concreto le modalità di esercizio di tali violenza o minaccia né che esse siano attuate utilizzando la forza intimidatrice derivante dall’appartenenza alla associazione mafiosa»[9].
Posto tale principio di carattere generale, la Prima Sezione della Suprema Corte, nella sentenza che ci occupa, ha rilevato che sussistono, tuttavia, delle ipotesi con riguardo alle quali, in riferimento alle specifiche modalità di realizzazione del fatto, le due aggravanti non possono coesistere.
È questo proprio il caso di specie sottoposto all’attenzione della Corte, secondo la quale «nel caso della minaccia “silente”, in cui rientra il fatto storico in esame, ad essere rilevante è esclusivamente il dato della appartenenza del soggetto - che realizza la minaccia - alla consorteria mafiosa, posto che la capacità intimidatoria è correlata alla sola appartenenza»[10].
Ne consegue che è compito del giudice del merito verificare, caso per caso, la sussistenza dei presupposti per l’applicazione delle circostanze aggravanti considerate, in ottemperanza al principio di diritto secondo il quale, nel caso di “minaccia silente”, l’applicazione dell’aggravante specifica prevista dall’art. 628, comma 3, n. 3, richiamato dal secondo comma dell’art. 629 c.p., esclude la contemporanea applicazione dell’art. 416 bis.1 c.p. Ciò trova ragione nel fatto che, in siffatta ipotesi, non si può sostenere che la forza di intimidazione e la condizione di assoggettamento e omertà tra i consociati si ergano quali fattori di semplificazione della condotta illecita.
4. Conclusioni
Dall’esame della pronuncia in commento, risulta evidente come la Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione, ribadendo orientamenti ormai consolidatisi, abbia inteso definire, in maniera chiara, le caratteristiche essenziali della circostanza prevista dall’art. 628, co. 3, n. 3 c.p. e la ratio della circostanza aggravante di cui all’art. 416 bis.1 c.p., chiarendone la possibilità di coesistenza e, conseguente, applicazione delle stesse.
A rappresentare il contributo innovativo della pronuncia è il fatto che i giudici di legittimità hanno voluto sottolineare che, sebbene le due disposizioni di legge possano concorrere tra loro, ciò non impedisce che, in determinate ipotesi, in virtù delle specifiche circostanze del caso concreto, non possano essere ritenute sussistenti entrambe. È questo il caso della minaccia silente, con riferimento alla quale, ad avviso della Suprema Corte, può ritenersi sussistente e, dunque, applicarsi la sola circostanza di cui all’art. 628, co. 3, n. 3 c.p.
Pertanto, la Corte di Cassazione, in virtù di quanto esposto, con riguardo ai ricorsi considerati nel presente contributo, accoglie il ricorso proposto dal Procuratore Generale, annullando la sentenza impugnata nei confronti di G.S., con riferimento all’assoluzione dal delitto di cui al capo n. 1 e all’esclusione dell’aggravante di cui all’art. 628 c.p., comma 3, n. 3 per il delitto di cui al capo 3, rinviando alla Corte d’Appello di Palermo per un nuovo giudizio. Ancora, la Suprema Corte, accoglie, in parte, il ricorso proposto da G.S., annullando senza rinvio la sentenza di secondo grado nella parte in cui aveva riconosciuto la sussistenza dell’aggravante ex art. 416 bis.1 c.p.
[1] Cfr. F. MANTOVANI, Diritto penale. Parte speciale, Padova, 2016, VI ed., vol. I, 352 ss.; G. FIANDACA, E. MUSCO, Diritto penale. Parte speciale, Bologna, 2013, IV ed., vol. II, 223 ss.; R. BARTOLI, M. PELISSERO, S. SEMINARA, Diritto penale. Lineamenti di parte speciale, Torino, 2022, II ed., 355 ss.
[2] Vedi R. BARTOLI, M. PELISSERO, S. SEMINARA, Diritto penale. Lineamenti di parte speciale, cit., 356. Gli Autori evidenziano che, in ogni caso, sarà successivamente necessario verificare se la finalità era giusta ovvero ingiusta, in quanto solo se il soggetto ha minacciato un male ingiusto per una finalità ingiusta si rientra nell’estorsione; diversamente, se la finalità è giusta, la fattispecie che viene in rilievo è quella dell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni.
[3] V. [3] F. MANTOVANI, Diritto penale. Parte speciale, cit., 352 ss.; G. FIANDACA, E. MUSCO, Diritto penale. Parte speciale, cit., 222; R. BARTOLI, M. PELISSERO, S. SEMINARA, Diritto penale. Lineamenti di parte speciale, cit., 358.
[4] Si veda M. RIVERDITI, Manuale Teorico-Pratico di diritto penale. Parte generale e speciale, Padova, 2018, 1321 ss.; R. BARTOLI, M. PELISSERO, S. SEMINARA, Diritto penale. Lineamenti di parte speciale, cit., 359.
[5] Cfr., ex multis, Cass. Pen., Sez. III, 17 marzo 2004.
[6] Cfr. Cass. Pen., Sez. I, 2 ottobre 2023, n. 39836 (ud. 19 aprile 2023), in De Iure.
[7] Cfr. Cass. Pen., Sez. I, 2 ottobre 2023, n. 39836 (ud. 19 aprile 2023), in De Iure.
[8] V. Cass. Pen., Sez. I, 28 febbraio 2018, n. 26399, in De Iure.
[9] Cfr. Cass. Pen., Sez. V, 23 ottobre 2013, n. 2907, in De Iure.
[10] V. Cass. Pen., Sez. I, 2 ottobre 2023, n. 39836 (ud. 19 aprile 2023), in De Iure.
Bibliografia
AMAOLO A., Delitti contro il patrimonio con la cooperazione della vittima: l’estorsione ex art. 649 c.p., 2016, in Ratio Iuris, 2016.
BARTOLI R., PELISSERO M., SEMINARA S., Diritto penale. Lineamenti di parte speciale, Torino, 2022, II ed.
FIANDACA G., MUSCO E., Diritto penale. Parte speciale, Bologna, 2013, IV ed., vol. II.
MANTOVANI F., Diritto penale. Parte speciale, Padova, 2016, VI ed., vol. I.
RIVERDITI M, Manuale Teorico-Pratico di diritto penale. Parte generale e speciale, Padova, 2018.