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Pubbl. Ven, 8 Gen 2016

Ricorso inammissibile e legge favorevole: Disamina della pronuncia delle Sezioni Unite n. 46653 del 2015.

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Gemma Occhipinti


Le Sezioni unite della Corte di cassazione, decidendo su questione riferita alla nuova disciplina in materia di stupefacenti, hanno stabilito che, in caso di ricorso inammissibile e privo di motivi relativi al trattamento sanzionatorio, è applicabile in sede di legittimità -e d’ufficio- la legge sopravvenuta modificativa del trattamento sanzionatorio in senso più favorevole all’imputato (emanata successivamente alla pronuncia impugnata). Ciò anche nell’ipotesi in cui la pena inflitta rientri nella nuova cornice edittale in riferimento alla quale, il giudice del rinvio, dovrà comunque riesaminare la questione.


Antefatto. Il giudice di Bari aveva confermato la condanna in primo grado dell’imputata, riducendo la pena inflitta per concessione dell’attenuante ex art. 73 co. 5 DPR 309/1990 e revocando la pena accessoria dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici. A seguito di ricorso in Cassazione, la Quarta Sezione annullava la sentenza limitatamente al trattamento sanzionatorio, per errore nel bilanciamento tra attenuante della lieve entità e aumento per la continuazione. La Corte d’Appello, a seguito del rinvio, aveva ricalcolato la pena inflitta. Contro tale sentenza erano stati addotti, come motivi di censura, il vizio di motivazione sulla responsabilità del ricorrente ed il vizio di motivazione nel rigetto del riconoscimento delle attenuanti generiche.

Il ricorso veniva quindi assegnato alla Terza Sezione che con ordinanza rimetteva la questione alle Sezioni Unite, rilevando preliminarmente come i motivi del ricorso fossero da ritenere inammissibili, atteso che il giudice del rinvio era stato investito esclusivamente del compito di rivedere il trattamento sanzionatorio. Nell’ordinanza si ricordava come la disciplina del traffico illecito di stupefacenti avesse subito, nel tempo, profonde innovazioni per effetto sia della pronuncia 32/2014 della Corte Cost. che dell’entrata in vigore delle leggi 10/2014 e 79/2014 [1]. Nell’ordinanza, inoltre, si rilevava come la reviviscenza della legge 309/1990 nel suo testo originario (precedente alla l. 49/2006) comportasse -per l’ipotesi in esame- la necessità di applicazione del più favorevole regime previsto dalla nuova disciplina per le “droghe pesanti” ponendo, pertanto, il problema dell’applicabilità d’ufficio della disciplina prevista dal co.4 art. 2 cp anche nel caso di ricorso inammissibile. In conclusione, si è ritenuto necessario l’intervento risolutore delle SS.UU. in merito alla rilevabilità d’ufficio – in presenza di un ricorso inammissibile che sollevi censure sul trattamento sanzionatorio – degli effetti derivanti dalle modifiche normative riguardanti l’ipotesi di reato prevista dal co. 5 art. 73 DPR 309/1990 anche nel caso in cui la pena inflitta rientri nella cornice edittale oggi vigente.

A parere delle SS.UU., la soluzione del quesito richiede che vengano esaminati una serie di problemi di rilievo anche costituzionale tra cui: 1) valutazione della natura e dell’ambito di applicazione del principio nullum crimen et nulla poena sine lege, in modo da poter comprendere se possa ritenersi illegale una pena che rientri nella cornice edittale vigente pur in presenza di modifiche normative che abbiano reso più favorevole il successivo trattamento sanzionatorio applicabile all’imputato; 2) esclusa – in questa ultima ipotesi – l’illegalità della pena, disamina della facoltà per il giudice di illegittimità di rilevare d’ufficio, nel caso di ricorso inammissibile, la possibilità di applicare il trattamento sanzionatorio più favorevole.

Il principio nullum crimen et nulla poena sine lege ha radici antiche: oggetto di considerazione già in epoca romana, fu affermato formalmente per la prima volta nella dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, per venire poi ripreso sia nel codice Zanardelli che nel codice Rocco all’art. 1. Pur mancando una sua menzione espressa nella Carta Costituzionale, si ritiene che discenda direttamente dal principio di legalità affermato, proprio in materia penale, all’art. 25 co.2. In tale disposizione risiede il fondamento legale non solo al principio di irretroattività della norma penale, ma anche della potestà punitiva del giudice riguardando: non solo la pena principale, ma anche tutte le ulteriori misure che, in qualche modo, incidono sulla libertà personale e sulla dignità della persona.

In considerazione di tali principi, per poter ritenere illegale la pena, non è sufficiente che la stessa sia stata determinata con riferimento ad un fatto la cui gravità, il legislatore, ha ritenuto di attenuare rispetto a quella prima ipotizzata riducendo la pena in precedenza prevista (il giudice infatti, potrebbe riconfermare la prima pena inflitta ove la ritenesse adeguata anche al nuovo assetto sanzionatorio). Laddove però il giudice non disponga di alcuno strumento normativo per ricondurre a giustizia una pena irrogata con riferimento ad un quadro normativo mutato a favore dell’imputato, si porrebbe in discussione la compatibilità di questo sistema con l’art. 25 co.2 Cost.

Nel caso de quo, ci troviamo in presenza di una successione di norme che hanno modificato il trattamento sanzionatorio in senso favorevole all’imputato, sia nella determinazione della pena sia nell’autonomia accordata alla fattispecie relativa al fatto di lieve entità. Merita quindi applicazione il disposto del co.4 art. 2 cp.

Occorre allora verificare se il sindacato del giudice sia ancora possibile quando il ricorso è inammissibile ovvero se, a questa soluzione, osti la formazione del giudicato che dovrebbe conseguire all’inammissibilità dell’impugnazione. Il progressivo superamento dell’antico principio dell’intangibilità del giudicato si spiega, in particolare, con la necessità di risolvere quelle situazioni in cui si sia verificata una lesione di un diritto o di una garanzia fondamentale della persona. Orbene, costituisce lesione di questi principi la circostanza che una persona sia stata giudicata -con riferimento ad un quadro normativo nel frattempo modificato a seguito di un’evidente variazione di giudizio di disvalore della condotta da parte del legislatore- indipendentemente dalla circostanza che ci si trovi o meno in presenza di una vera e propria illegalità della pena. Pertanto esiste l’obbligo, per il giudice di cognizione, di rimuovere la situazione di violazione di un principio fondamentale dell’ordinamento, quale il diritto dell’imputato di essere giudicato in base al trattamento più favorevole tra quelli succedutisi nel tempo (salvo che il legislatore non abbia inteso derogare al principio della retroattività della lex mitior). Occorre però chiedersi se questa affermazione abbia valore assoluto oppure valga per i soli casi in cui la responsabilità o la pena siano ancora in discussione -sia pure con la proposizione di un ricorso che ordinariamente sarebbe destinato ad una pronuncia di inammissibilità. Com’è noto, l’art. 609 co.2 cpp prevede che la Cassazione decida anche le questioni rilevabili d’ufficio, in ogni stato e grado del processo, e quelle che non sarebbe stato possibile dedurre in grado di appello. Nel nostro caso, sia la sentenza di rinvio che il ricorso sono stati pronunziati prima che entrassero in vigore i primi mutamenti normativi, per cui non esisteva alcuna preclusione a proporre successivamente motivi conseguenti alle innovazioni normative di cui si è detto. Va comunque rilevato che l’invocazione del trattamento sanzionatorio meno grave neppure ha formato oggetto di censure diversamente e successivamente proposte. Ritengono peraltro le SS.UU., che questa violazione della disciplina sostanziale applicabile possa essere rilevata d’ufficio dal giudice di legittimità anche se l’imputato, con il ricorso originario, non abbia proposto alcun motivo riguardante la pena, né alcuna ragion di critica alla sua determinazione da parte del giudice di rinvio (pur dopo le rilevanti modifiche normative intervenute successivamente alla sentenza di conferma di condanna). I motivi a favore della rilevabilità d’ufficio della questione di cui trattasi (indipendentemente dal momento in cui il ricorso sia stato proposto) sono i seguenti:

-          in primo luogo, la stessa formulazione dell’art. 2 co.4 c.p., richiede esclusivamente che la sentenza impugnata non sia divenuta irrevocabile e dunque che non sia stata pronunziata la sentenza che dichiara inammissibile o rigetta il ricorso. Solo con questa decisione, la sentenza impugnata, diviene irrevocabile per l’inequivoco disposto contenuto nell’art. 648 co.2 secondo periodo cpp.;

-          in secondo luogo, la necessità di eliminare le conseguenze di una lesione di un diritto fondamentale della persona, prescinde dalla formale proposizione di motivi riguardanti questo aspetto della responsabilità. Una pena irrogata in base a criteri non più corrispondenti al giudizio di disvalore della condotta espresso dal legislatore, è una pena che -anche se da ritenere “legale” nel senso già indicato- risulta particolarmente idonea a violare il criterio di proporzionalità che deve assistere, in ogni caso, l’esercizio del potere punitivo attribuito all’autorità giudiziaria. Resta ferma, tuttavia, la possibilità del giudice di riconfermare, dietro adeguata motivazione, la pena inizialmente inflitta qualora la ritenesse adeguata anche al sistema sanzionatorio successivamente introdotto.

In conseguenza di quanto detto, le SS.UU. hanno ritenuto che la Corte di Cassazione, nel caso di ricorso inammissibile per qualunque ragione e con il quale non vengano proposti motivi riguardanti il trattamento sanzionatorio, può rilevare d’ufficio (con conseguente annullamento sul punto) che la sentenza impugnata era stata pronunziata proprio prima dei mutamenti normativi che hanno modificato il trattamento sanzionatorio in senso favorevole all’imputato; ciò anche nel caso in cui la pena inflitta rientri nella cornice edittale sopravvenuta alla cui luce, il giudice di rinvio, dovrà riesaminare tale questione.

Non può invece essere dichiarata l’estinzione dei reati per i quali sia intervenuta condanna, malgrado sia ormai decorso il termine di prescrizione previsto dalla legge. Nella specie, essendo l’affermazione di responsabilità divenuta definitiva con la sentenza di annullamento pronunziata dalla Quarta Sezione, il processo è proseguito per la sola determinazione del trattamento sanzionatorio; ciò non consente di applicare l’indicata causa di estinzione del reato.

La sentenza viene quindi annullata con rinvio per una nuova determinazione della pena in base ai criteri indicati. Vanno invece ritenuti inammissibili, e quindi rigettati per le considerazioni già svolte, i motivi di ricorso proposti dal ricorrente.

 



[1] Con la sentenza della Consulta, infatti, si è ripristinata la distinzione tra droghe “leggere” e droghe “pesanti” che era già stata prevista nella previgente normativa (con la legge Vassalli-Iervolino) e che era venuta meno con la legge Fini-Giovanardi n. 49/2006. Con le leggi del 2014, invece, era stata mutata la disciplina del fatto di lieve entità ex co.5 art. 73 DPR 309/1990 che è divenuto autonoma ipotesi di reato e non più circostanza attenuante