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Pubbl. Lun, 13 Mag 2024

Nel licenziamento disciplinare la contestazione può essere differita in ragione del tempo necessario all´accertamento dei fatti

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Carmen Scarfò
Dottorando di ricercaUniversità degli Studi di Reggio Calabria Mediterr



La pronuncia Cass. civ., Sez. lavoro, Ord., ud. 05/12/2023, dep. 16/01/2024, n. 1686 rappresenta l’occasione per affrontare l’analisi del c.d. “licenziamento disciplinare”, irrogato a seguito di comportamenti particolarmente gravi del lavoratore che impediscono la prosecuzione del rapporto di lavoro e come tale sottoposto ad oneri formali (o procedimentali) particolarmente incisivi - anche al fine di tutelare il lavoratore - indiscussa e storica parte debole del contratto di lavoro -, siccome verrà illustrato nel prosieguo della presente trattazione. Congiuntamente al tema del licenziamento disciplinare si esaminerà quello del potere disciplinare – di cui il licenziamento de quo costituisce l’espressione -, il quale deve essere esercitato nel rispetto dei requisiti sostanziali e procedimentali tracciati dagli artt. 2106 c.c. e dall’art. 7 L. 300/1970, la cui assenza determina l’inesistenza dello stesso potere e di conseguenza la nullità della sanzione disciplinare.


ENG The rulling Cass. civ., Sez. lavoro, Ord., ud. 05/12/2023, dep. 16/01/2024, n. 1686 represent the opportunity to address the analysis of the so-called “disciplinary dismissal”, imposed following particulary serious behaviour by the worker which prevents the continuation of the employment relationship and as such subjected to particularly incisive formal (or procedural) burdens – also with the aim of protecting the worker – undisputed and historical weak part of the employment contract -, as will be illustrated later in this discussion. Together with the issue of disciplinary dismissal, we will examine that of disciplinary power - of which the dismissal in question constitutes the expression - which must be exercised in compliance with the substantive and procedural requirements outlined by the art. 2106 c.c. and by the art. 7 L. 300/1970, the absence of which determines the non-existence of the same power and consequently the nullity of the disciplinary sanction.

Sommario: 1. Il potere disciplinare del datore di lavoro: natura e fondamento; 2. I requisiti sostanziali e procedimentali del potere disciplinare del datore di lavoro; 2.1. I requisiti sostanziali; 2.2. I requisiti procedimentali; 3. Il licenziamento disciplinare; 4. Il c.d. “principio di tempestività del licenziamento disciplinare” e la decisione della Suprema Corte Ord. n. 1686/2024; 5. Conclusioni.

1. Il potere disciplinare del datore di lavoro: natura e fondamento

Il potere disciplinare costituisce uno degli aspetti del potere direttivo e di controllo del datore di lavoro, il cui fondamento è da rinvenirsi nell’art. 2106 c.c, il quale statuisce che: “l’inosservanza delle disposizioni contenute nei due articoli precedenti[1] può dar luogo all’applicazione di sanzioni disciplinari, secondo la gravità dell’infrazione”.

In un primo tempo, l’impostazione tradizionale vedeva nel potere sanzionatorio riconosciuto al datore di lavoro un profilo tipico del vincolo di subordinazione del prestatore di lavoro[2], da considerarsi come sanzione degli inadempimenti contrattuali[3], legata alla tutela dell’organizzazione aziendale e alla salvaguardia dell’equilibrio interno dell’azienda[4].

Tuttavia, gran parte della dottrina, ritenendo che tale tesi era scarsamente conciliabile con la struttura egualitaria del contratto di lavoro, giungeva da un lato, a collegare il potere disciplinare con il diritto comune, riconducendolo all’area delle c.d. pene private convenzionali[5]; dall’altro ad individuare la fonte del potere sanzionatorio del datore di lavoro nell’organizzazione del lavoro ovvero nella contrattazione collettiva[6].

A composizione di tale contrasto ermeneutico intervenne nel 1970 il legislatore con l’emanazione della L. 300/1970 (c.d. Statuto dei lavoratori), volto a tutelare la posizione del singolo lavoratore all’interno dei luoghi di lavoro[7]. In particolare, coerenti soluzioni sistematiche erano offerte dall’art. 7 St. Lav., il quale - integrando quanto disposto dall’art. 2106 c.c. - definiva le modalità dell’effettivo esercizio del potere disciplinare e, dunque, il procedimento con cui il datore di lavoro poteva contestare al dipendente tutti i comportamenti elusivi degli obblighi contrattuali[8].

Pertanto, la più autorevole dottrina evidenziava che, per effetto dell’introduzione nel nostro ordinamento dell’art. 7 St. Lav., da una parte, il potere disciplinare e i suoi connaturali limiti sostanziali – rilevanza dell’adempimento e proporzionalità fra sanzione e infrazione – venivano ricondotti alla funzione organizzatoria del contratto di lavoro[9]; dall’altra parte, i limiti introdotti dallo Statuto dei Lavoratori spogliava il potere disciplinare di quell’immediatezza che nel codice lo caratterizzava come potere autocratico per assoggettarlo a forme di esercizio e di controllo dirette a garantire la posizione contrattuale del lavoratore, rendendolo così compatibile con la logica egualitaria del contratto[10]

2. I requisiti sostanziali e procedimentali del potere disciplinare del datore di lavoro

Definite dunque le fondamenta, nonché la natura del potere disciplinare del datore di lavoro, è necessario volgere lo sguardo ad un ulteriore è fondamentale aspetto: l’esercizio in concreto del potere disciplinare mediante una disamina dei cc.dd. requisiti sostanziali e procedimentali.

2.1. I requisiti sostanziali

Presupposto sostanziale del potere disciplinare è, in primo luogo, la sussistenza del fatto addebitato ovverossia di un comportamento che integri una concreta e manifesta violazione degli obblighi di diligenza, obbedienza e fedeltà posti in capo al lavoratore, ai sensi degli artt. 2104 e 2105 c.c.

Sul punto, è necessario sottolineare che mentre al datore di lavoro spetta, in conformità delle regole generali in materia di distribuzione dell’onere della prova (art. 2607 c.c.), provare la sussistenza di un comportamento illecito del lavoratore; invece, sul lavoratore grava l’onere di discolparsi anche mediante l’allegazione di fatti che scriminano la sua condotta ovvero di una situazione sopravvenuta ad esso non imputabile, secondo i principi generali di correttezza e buona fede in materia di responsabilità contrattuale (artt. 1175, 1176 e 1218 c.c.)[11].

Ulteriore presupposto necessario per un corretto esercizio del potere disciplinare da parte del datore di lavoro, la cui consacrazione testuale è da rinvenirsi nell’art. 2106 c.c.., è la c.d. “proporzionalità” tra gravità dell’infrazione e sanzione[12], il cui compito di specificazione nel nostro ordinamento è tradizionalmente svolto dalla contrattazione collettiva, le cui valutazioni, in ipotesi di contestazione, sono suscettibili di controllo ad opera del giudice[13].

2.2. I requisiti procedimentali

I requisiti procedimentali del potere disciplinare sono disciplinati dall’art. 7 St. Lav. - della cui ratio si è ampiamente argomentato nei paragrafi che precedono[14] -, i quali, parimenti ai requisiti sostanziali, sono presupposti del potere disciplinare, di talché la loro assenza si traduce nella inesistenza del potere e conseguentemente nella nullità della sanzione[15].

Nello specifico, l’art. 7 richiede, al primo comma, la (pre)esistenza del c.d. “codice disciplinare” aziendale[16], cioè di un testo che individui in modo sufficientemente chiaro le infrazioni, le sanzioni e le relative procedure di contestazione, di modo che non si abbia la creazione ex post delle une e delle altre[17].

In tema di individuazione delle infrazioni e delle relative sanzioni, l’orientamento prevalente ritiene che il codice disciplinare non debba contenere una precisa e sistematica previsione delle singole infrazioni, delle loro varie graduazioni e delle corrispondenti sanzioni, essendo sufficiente una proporzionata correlazione tra le singole ipotesi di infrazioni e le corrispondenti previsioni sanzionatorie, anche se suscettibili di adattamento secondo le effettive e concrete inadempienze del lavoratore[18].

A ciò si aggiunga che l’art. 7, primo comma, St. Lav., impone al datore di lavoro di portare il codice disciplinare a conoscenza dei lavoratori “mediante affissione in un luogo accessibile a tutti”, presupposto indefettibile[19] per un corretto esercizio del potere disciplinare, pena l’inapplicabilità del codice disciplinare[20].

Il primo comma della norma statutaria sancisce, inoltre, l’obbligo del datore di lavoro di applicare “gli accordi o i contratti collettivi”, ove la regolamentazione del potere disciplinare sia contenuta in previsioni collettive applicabili al contratto di lavoro, chiarendo così che il potere disciplinare può essere esercitato dal datore di lavoro anche in assenza di una specifica regolamentazione collettiva in materia[21].

Quanto alla tipologia legale delle sanzioni[22] in concreto applicabili, l’art. 7, cc. III e IV, St. Lav., contempla il richiamo verbale, l’ammonizione scritta, la multa per un massimo di quattro ore e la sospensione dal lavoro e dalla retribuzione per un massimo di dieci giorni.

Siffatta tipologia di sanzioni, secondo l’opinione prevalente, esaurirebbe l’area delle sanzioni irrogabili anche nella tipizzazione dei contratti collettivi, di guisa che provvedimenti e/o istituti attinenti alla normale gestione del rapporto di lavoro - quali il trasferimento, il mutamento delle mansioni - non sarebbero utilizzabili come sanzioni, pena la distorsione della loro funzione fisiologica.[23]

Tuttavia, la risalente giurisprudenza di legittimità, in controtendenza a questa opinione, più rettamente riteneva legittimo sia il trasferimento del lavoratore, il cui comportamento sanzionabile abbia determinato una incompatibilità con l’ambiente di lavoro[24], sia il trasferimento per mancanze[25], se previsto come sanzione disciplinare dai contratti collettivi[26].

In ogni caso, il datore di lavoro, ai sensi dell’ultimo periodo dell’art. 7, c. I, St. Lav., non può irrogare la sanzione al lavoratore senza prima avergli contestato l’addebito e senza averlo sentito a sua difesa[27]“.

Invero, siffatta contestazione, espressione lampante della fondamentale garanzia del contraddittorio[28], seppur da un lato deve essere immediata e specifica; dall’altro non può essere lacunosa, sicché tra conoscenza del fatto e sua contestazione non può trascorrere più del tempo ragionevolmente necessario al datore di lavoro per fare un minimo di accertamenti ed assumere la decisione di dare inizio al procedimento disciplinare[29].

Sotto tale ultimo profilo, dunque, non è superfluo sottolineare che l’ampiezza di siffatto intervallo temporale è variabile in dipendenza del tipo di addebito, nonché della struttura organizzativa in cui il lavoratore è assunto, la quale non costituisce elemento sufficiente a legittimare un prolungato ritardo della contestazione, salvo che il datore di lavoro non alleghi e provi le cause che hanno determinato la dilazione[30], in quanto – in assenza di prova rigorosa della sussistenza di specifiche ragioni organizzative impeditive di una più celere definizione della procedura disciplinare - il ritardo in questione, pur con riguardo ad un’organizzazione aziendale complessa e articolata sul territorio, deve essere ascritto alla cattiva organizzazione del datore di lavoro[31].

Diversamente, in ipotesi di illecito disciplinare permanente, il requisito dell’immediatezza deve essere valutato al momento di esaurimento della condotta e in ipotesi di condotta che integri anche gli estremi di una fattispecie penale la contestazione, pervenuta anche a considerevole distanza di tempo, è da considerarsi legittima quando il datore di lavoro attenda gli esiti dell’accertamento svolto in sede penale[32].

In relazione al requisito della specificità la contestazione è da ritenersi congrua quando individua i fatti contestati, unitamente alle eventuali ritenute aggravanti[33], con sufficiente precisione, apparendo così idonea a consentire al lavoratore di predisporre una puntuale difesa in ordine ai fatti che gli vengono addebitati[34]. Ne consegue che logico corollario della specificità della contestazione è la sua immutabilità (la cui funzione garantista è pacifica), la quale preclude al datore di lavoro far valere, a sostegno della legittimità della sanzione irrogata, circostanze nuove rispetto a quelle contestate[35].

Il datore di lavoro, al fine di rendere effettivo il diritto di difesa del lavoratore, per un verso è tenuto a sentire oralmente il lavoratore che ne fa richiesta[36], per altro verso non può applicare “provvedimenti disciplinari più gravi del rimprovero verbale […] prima che siano trascorsi cinque giorni dalla contestazione per iscritto del fatto che vi ha dato causa”, siccome disposto dal comma 5 della norma statutaria in commento.

L’art. 7 St. Lav non prevede un termine entro cui il datore di lavoro debba assumere il provvedimento disciplinare, né alcun obbligo in capo al datore di motivare il provvedimento disciplinare in concreto adottato rispetto alle difese avanzate dal dipendente.

Pertanto, queste lacune venivano colmate (e sono colmate) nel primo caso dalla contrattazione collettiva, la quale - per evitare il rischio che il datore di lavoro tenga artatamente sulla corda[37]il lavoratore – stabiliva (e stabilisce) un termine decadenziale trascorso il quale il provvedimento disciplinare non può essere più irrogato[38]; nel secondo caso, invece, dalla giurisprudenza di legittimità, la quale con orientamento – divenuto peraltro costante – riteneva che il provvedimento disciplinare potesse esser motivato “per relationem”, ossia attuata mediante richiamo a quanto specificato nella lettera di contestazione degli addebiti[39], salvo che il codice disciplinare (o il contratto collettivo) preveda l’obbligo del datore di lavoro di motivare la sanzione, la sua inosservanza, estrinsecandosi in una violazione di forma convenzionale, determinerà la nullità del provvedimento disciplinare.

Infine, l’art. 7 St. Lav., fatta salva la facoltà di adire l’autorità giudiziaria, incentiva, ictu oculi, la via arbitrale per la risoluzione di controversie aventi ad oggetto la contestazione della legittimità dell’irrogato licenziamento disciplinare, dal momento che il lavoratore “al quale sia stata applicata una sanzione disciplinare può promuovere, nei venti giorni successivi, anche per mezzo dell’associazione alla quale sia iscritto ovvero conferisca mandato, la costituzione, tramite l’ufficio provinciale del lavoro e della massima occupazione[40], di un collegio di conciliazione e arbitrato, composto da un rappresentante di ciascuna delle parti e da un terzo membro scelto di comune accordo o, in difetto di accordo, nominato dal direttore dell’ufficio del lavoro. La sanzione disciplinare resta sospesa fino alla pronuncia da parte del collegio[41].”

3. Il licenziamento disciplinare

Il licenziamento, disciplinato dalla L. n. 604/1966[42], è l’atto con il quale il datore di lavoro recede unilateralmente[43] dal contratto di lavoro con un suo dipendente[44].

Com’è noto, si distingue tra licenziamento individuale, se riguarda un singolo lavoratore, e licenziamento collettivo nell’ipotesi di più lavoratori[45].

La legge n. 604/1966 sancisce il principio della necessaria giustificazione del licenziamento. Difatti, il licenziamento, sia esso individuale o collettivo, trova la propria legittimità, innanzitutto, nella presenza di una specifica motivazione, che può attenere o alla persona del lavoratore (giusta causa[46] o giustificato motivo soggettivo[47] nel licenziamento individuale) o all’impresa (giustificato motivo oggettivo nel licenziamento individuale; ragioni economiche od organizzative dell’imprese nel licenziamento collettivo[48]).

Particolare attenzione, per la rilevanza che assume nella prassi giudiziaria, è il c.d. licenziamento disciplinare” volto a sanzionare un comportamento colposo o comunque manchevole del prestatore di lavoro, il quale - non essendo collegato con oggettive esigenze organizzative o produttive dell’azienda - è una tipologia di recesso che comprende sia il licenziamento per giustificato motivo soggettivo, sia il licenziamento per giusta causa.

Ne discende che il licenziamento disciplinare è da ritenersi espressione del potere disciplinare del datore di lavoro e come tale è sottoposto ad oneri formali più incisivi, dal momento che l’adozione del provvedimento espulsivo deve necessariamente essere preceduta dalla procedura prevista dall’art. 7 St. Lav. e quindi dalla contestazione dei fatti addebitati e dall’eventuale audizione a difesa del dipendente.

Giova rammentare in questa sede che l’applicazione dell’art. 7 St. Lav. al licenziamento disciplinare costituisce l’esito di un lungo percorso interpretativo che ha visto nel tempo di susseguirsi di diversi orientamenti. Secondo un primo orientamento, il licenziamento de quo non rientrava tra le sanzioni disciplinari e dunque non era soggetto alla procedura di cui all’art. 7 St. Lav., giacché la citata norma disciplina solo il rimprovero, la multa e la sospensione ed il comma 4 della medesima prevede che le sanzioni disciplinari non possano mai comportare un mutamento definitivo del rapporto. Per contra, un secondo orientamento, sul presupposto che il licenziamento disciplinare fosse la più grave delle sanzioni, riteneva che esso dovesse godere di tutte le garanzie procedurali previste nell’art. 7 St. Lav.[49] A queste due contrapposte tesi, se ne aggiungeva una terza secondo cui l’art. 7 St. Lav. diveniva applicabile solo quando la contrattazione collettiva annoverava il licenziamento tra le sanzioni disciplinari, sottoponendolo così alle garanzie della norma stessa, dovendo altrimenti applicarsi la disciplina del licenziamento[50].

Tale contrasto interpretativo veniva sopito dalla Corte Costituzionale, la quale investita del problema affermava che i primi tre commi dell’art. 7 St. Lav. devono applicarsi a tutti i licenziamenti disciplinari in ragione della sostanziale omogeneità, sul piano della potenziale idoneità lesiva, tra sanzione e licenziamento disciplinare, che mal tollererebbe una disciplina differenziata[51].

Pertanto, a seguito dell’intervento della Corte costituzionale risultano estesi al licenziamento considerato disciplinare il principio di pubblicità del codice disciplinare[52] e l’obbligo di preventiva contestazione dell’addebito[53], per dar modo al lavoratore di fornire elementi a difesa eventualmente con l’assistenza del sindacato[54]; non risulta, invece, applicabile al licenziamento disciplinare la c.d. pausa di riflessione di cinque giorni, prevista dal comma V dell’art. 7 St. Lav., purché il lavoratore abbia fatto pervenire al datore le proprie giustificazioni[55].

4. Il c.d. “principio di tempestività del licenziamento disciplinare” e la decisione della Suprema Corte Ord. n. 1686/2024

Ultroneo, e non meno importante, requisito del licenziamento disciplinare è il c.d. “principio di tempestività del licenziamento disciplinare” (o principio dell’immediatezza) secondo cui il licenziamento di cui trattasi, parimenti alla contestazione disciplinare, deve essere intimato in stretta correlazione temporale con il verificarsi dei fatti che giustificano la cessazione del rapporto[56] e cioè nel momento in cui il datore di lavoro, tenuto conto delle circostanze concrete, ha avuto piena conoscenza del fatto posto a fondamento del recesso[57] dal contratto di lavoro stipulato con il dipendente.

Invero, il principio di tempestività del licenziamento disciplinare si atteggia diversamente a seconda che si stratti di licenziamento disciplinare per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa.

Nel primo caso, è pacifico che la regola dell’immediatezza abbia una portata relativa, nel senso che la reazione del datore di lavoro ai comportamenti illeciti del dipendente, seppur deve essere tempestiva onde evitare incertezze che discenderebbero da uno stato protratto di risolubilità del rapporto, può essere ritardata allo scopo di meglio valutare la gravità del comportamento del lavoratore, anche in ragione di una sua eventuale reiterazione.

In ipotesi di licenziamento disciplinare per giusta causa, invece, il principio di tempestività del licenziamento disciplinare è applicato dall’impostazione tradizionale con particolare rigore, dal momento che – essendo i fatti contestati a distanza di tempo dalla loro commissione non idonei ad “impedire la prosecuzione anche provvisoria del rapporto[58]“ - il datore di lavoro deve portare “a conoscenza del lavoratore i fatti contestati non appena essi appaiono ragionevolmente sussistenti[59]“.

Tuttavia, nella giurisprudenza di legittimità, sin da tempi risalenti[60], si registra un orientamento di segno diverso.

Siffatto orientamento - muovendo dall’assunto secondo cui la regola dell’immediatezza del licenziamento e della contestazione, la cui ratio riflette l’esigenza dell’osservanza della regola della buona fede e della correttezza nell’attuazione del rapporto di lavoro, non consente all’imprenditore datore di lavoro di procrastinare “ad infinitumla contestazione medesima così da rendere difficile la difesa del dipendente o perpetuare l’incertezza sulla sorte del rapporto - giunge ad affermare che la regola della tempestività del licenziamento disciplinare si declina in senso relativo, potendo essere compatibile con un intervallo di tempo, più o meno lungo, laddove l’accertamento e la valutazione dei fatti richieda uno spazio temporale maggiore ovvero quando la complessità della struttura organizzativa dell’impresa possa far ritardare il provvedimento di recesso[61].

In senso conforme al suesposto indirizzo giurisprudenziale si colloca, tra le altre, l’ordinanza n. 1686/2024 pronunciata dalla Sezione Lavoro della Corte di Cassazione in esito ad un ricorso proposto da una lavoratrice avverso una decisione della Corte di Appello di Milano, la quale - confermando la sentenza dei Giudici di Prime cure – considerava tempestivo, e dunque legittimo, il licenziamento disciplinare intimato alla ricorrente da parte della ditta di cui era dipendente, a seguito di affermazioni proferite dalla lavoratrice alla responsabile del punto vendita, in presenza di colleghe, che integravano – secondo i Giudici territoriali – gli estremi della giusta causa ex art. 2119 c.c., in quanto manifestazione di minaccia grave[62] e di insubordinazione[63].

In particolare, la Corte di Cassazione con la pronuncia in commento, dichiarando inammissibile il secondo motivo di ricorso proposto dalla ricorrente[64], riteneva – richiamando numerosi precedenti giurisprudenziali di legittimità conformi – che “In tema di licenziamento disciplinare, l’immediatezza della contestazione va intesa in senso relativo, dovendo dare conto delle ragioni che possono cagionare il ritardo (quali il tempo necessario per l’accertamento dei fatti o la complessità della struttura organizzativa dell’impresa), con valutazione riservata al giudice di merito ed insindacabile in sede di legittimità, se sorretta da motivazione adeguata e priva di vizi logici[65].”

In conclusione, si può affermare che la giurisprudenza di legittimità con il descritto orientamento, in parte riconosce e riafferma che il fondamento logico-giuridico della regola della tempestività del licenziamento disciplinare rispetto al fatto causativo del medesimo non soddisfa solo l’esigenza di assicurare al lavoratore incolpato l’agevole esercizio del diritto di difesa, ma appaga l’esigenza di impedire che l’indugio del datore di lavoro possa avere effetti intimidatori, nonché quella di tutelare l’affidamento che il dipendente deve poter fare sulla rinuncia dello stesso datore di lavoro a sanzionare una mancanza disciplinare allorquando questi manifesti, attraverso la propria inerzia protratta nel tempo, un comportamento in tal senso concludente[66]; per altro verso, sancisce che non devono ritenersi illegittime le indagini preliminari del datore di lavoro che siano volte ad acquisire elementi di giudizio necessari per verificare la configurabilità (o meno) di un illecito disciplinare e per identificare il responsabile[67].

5. Conclusioni 

Come illustrato nei paragrafi che precedono il licenziamento disciplinare per essere qualificato legittimo deve rispettare particolari ed incisivi requisiti sostanziali e procedurali, tra i quali rientra il principio di tempestività dell’irrogazione del licenziamento disciplinare rispetto al relativo fatto causativo.

L’ordinanza n. 1686/2024 della Sezione Lavoro della Core di Cassazione mette in risalto l’attualità della questione relativa alla stretta correlazione temporale che vi deve essere tra il licenziamento disciplinare e il fatto causativo del medesimo, tradotta – siccome più volte affermato – nel c.d. “principio di tempestività del licenziamento disciplinare”.

La base normativa della sentenza in commento è da rinvenirsi indubbiamente nei doveri generali di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175, 1375 c.c., che impongono al datore di lavoro di espletare le indagini preliminari ritenute opportune in tempi considerevolmente ragionevoli – tenuto conto anche di numerosi fattori che possono prolungarne la durata – prima dell’irrogazione di un provvedimento disciplinare, quale il licenziamento disciplinare, che incidono pressoché radicalmente sul rapporto di lavoro e, di conseguenza, sulla dignità del dipendente.

In altri termini, i giudici di legittimità – anche in considerazione del volto poliedrico degli assetti aziendali – richiedono implicitamente al datore di lavoro nell’esternazione del potere disciplinare standard di diligenza più elevati, per un verso, al fine di promuovere le condizioni che rendano effettivo il diritto al lavoro”; per altro verso, con lo scopo di tutelare il lavoro “in tutte le sue forme ed applicazioni[68].”

Pertanto, si può concludere affermando che – sulla base della ratio della sentenza in commento – il dovere di controllo ed il potere disciplinare del datore di lavoro, di cui all’art. 2106 c.c. e art. 7 St. Lav., devono avere un rapporto di complementarietà con l’art. 24 e 41 Cost. e con gli artt. 1175 e 1375 c.c.[69], essendo necessario che il datore di lavoro li attui (i.e. eserciti i suddetti poteri) con diligenza e buona fede, al fine di tutelare sia il diritto di difesa del lavoratore, sia un’efficiente e produttiva organizzazione aziendale. 


Note e riferimenti bibliografici

[1] L’art. 2106 c.c., in altri termini, prevede la facoltà per il datore di lavoro di irrogare sanzioni disciplinari nei confronti del dipendente che violi gli obbli di diligenza, obbedienza e fedeltà, sanciti rispettivamente dall’art. 2104 c.c. e dall’art. 2105 c.c.

[2] Carinci F., De Luca Tamajo R., Tosi P., Treu T., Diritto del lavoro. Il rapporto di lavoro subordinato, Ottava edizione, UTET Giuridica, 2022, 288.

[3] E. Ghera, Diritto del lavoro, Cacucci Editore, 1993, 114.

[4] M. Persiani, Contratto di lavoro e organizzazione, 1966, p. 196 afferma << Il lavoratore può essere destinatario di sanzioni disciplinari allorquando non rispetti le regole a tutela dell’integrità aziendale. >>

[5] Carinci F., De Luca Tamajo R., Tosi P., Treu T., Diritto del lavoro. Il rapporto di lavoro subordinato, op. cit., 288; F. Santoro Passerelli, Nozioni di diritto del lavoro, Ventitreesima edizione, Jovene, 1995, 196 e L. Gaeta, G. Vardaro, Sanzioni disciplinari, I, Rapporto di lavoro privato, in Enciclopedia Giuridica, 1990, 3 e 6, affermano << Essendovi una stretta correlazione fra le sanzioni disciplinari e l’alveo della responsabilità contrattuale, le sanzioni disciplinari sono state incluse nella categoria delle pene private >>; L. Montuschi, Potere disciplinare e rapporto di lavoro, Giuffrè, Milano, 1973, 109 e 126, afferma << Essendo le sanzioni disciplinari inquadrate come pene private anomale, vengono distinte dai rimedi tipici del diritto civile, avvicinandosi maggiormente a quelli del diritto penale nella loro funzione afflittiva e preventiva. >>

[6] Carinci F., De Luca Tamajo R., Tosi P., Treu T., Diritto del lavoro. Il rapporto di lavoro subordinato op. cit., 288; C. Assanti, Le sanzioni disciplinari nel rapporto di lavoro, Giuffrè, Milano, 1963.

[7] Così Carinci F., De Luca Tamajo R., Tosi P., Treu T., Diritto del lavoro. Il rapporto di lavoro subordinato op. cit., 9, afferma che lo Statuto dei lavoratori è << un testo caratterizzato dall’intento di dare cittadinanza ai diritti sanciti dalla Carta fondamentale, anche all’interno dei luoghi di lavoro, non solo garantendo la presenza del sindacato, ma tutelando direttamente la posizione del singolo lavoratore. >>

[8] Secondo G. Vardaro, Il potere disciplinare giuridificato, DLRI, 1986, 25 e M. Persiani, Contratto di lavoro e organizzazione, op. cit., 148-150, permane nell’esercizio del potere disciplinare da parte del datore di lavoro una preminenza degli interessi aziendali, i quali, però, rientrano nel più ampio concetto di contratto come modalità di organizzazione dell’impresa.

[9] Così Carinci F., De Luca Tamajo R., Tosi P., Treu T., Diritto del lavoro. Il rapporto di lavoro subordinato op. cit., 288.  

[10] Così Carinci F., De Luca Tamajo R., Tosi P., Treu T., Diritto del lavoro. Il rapporto di lavoro subordinato op. cit., 288; V. anche L. Mengoni, Le modificazioni del rapporto di lavoro alla luce dello Statuto dei lavoratori, in G. Pera (a cura di), L’applicazione dello Statuto dei Lavoratori, Milano, 1974, 17 ss.; L. Montuschi, Potere disciplinare e rapporto di lavoro, op. cit. afferma che con l’introduzione dell’art. 7 St. Lav. << il potere disciplinare viene cristallizzato, non di certo sminuito >>; G. Pera, Sanzioni disciplinari, Art. 7, in commento allo Statuto dei diritti dei lavoratori, C. Assanti, G. Pera (a cura di), 1972, 74.

 

[11] Carinci F., De Luca Tamajo R., Tosi P., Treu T., Diritto del lavoro. Il rapporto di lavoro subordinato, op. cit., 289, nota 97 afferma << Del resto, a rigore, la violazione degli obblighi di diligenza, obbedienza e fedeltà da parte del dipendente determina non solo l’applicabilità delle sanzioni disciplinari, ma anche l’insorgere al diritto al risarcimento del danno da responsabilità contrattuale, come ricorda Cass. 12 gennaio 2009, n. 394. >>

[12] Cass., 22 febbraio 2016, n. 3416 afferma << la proporzionalità della sanzione disciplinare è nozione che di essere specificata in via interpretativa mediante la valorizzazione di fattori esterni relativi alla coscienza generale… pertanto, nella valutazione complessiva della proporzionalità è senz’altro rilevante anche la tenuità dell’elemento psicologico sottese alle condotte ascritte al prestatore >>. Carinci F., De Luca Tamajo R., Tosi P., Treu T., Diritto del lavoro. Il rapporto di lavoro subordinato, op. cit., 290 e 295 evidenzia che << Sulla relazione di proporzionalità influisce correntemente, nei termini di un aggravamento della sanzione, l’eventuale recidiva, vale a dire la circostanza che una determinata sanzione sia stata già sanzionata >>, sicché essa << […] deve essere contestata solo se concorre ad integrare l’infrazione >> e non invece << quando è assunta semplicemente come criterio di determinazione dell’entità della sanzione, giacché allora non costituisce un aspetto del fatto addebitato. >>

[13] La giurisprudenza di legittimità, ex multis Cass., 28 gennaio 2019, n. 2289; Cass., 16 febbraio 1988, n. 1604, è concorde nel ritenere che il giudice possa valutare in concreto la sussistenza del requisito della proporzionalità nonostante la previsione nei contratti collettivi di specifiche ipotesi di infrazioni e delle relative sanzioni. Carinci F., De Luca Tamajo R., Tosi P., Treu T., Diritto del lavoro. Il rapporto di lavoro subordinato, op. cit., 290 rileva che << È controverso sel nel potere di controllo giudiziale rientri quello di sostituire la sanzione adottata dal datore di lavoro con la sanzione adeguata, ovvero se il giudice debba limitarsi a dichiararne l’illegittimità. Siccome il difetto di adeguatezza integra la carenza di un presupposto del provvedimento sanzionatorio e comporta conseguentemente la nullità della sanzione, sembra ritenere che siffatto potere sostitutivo possa riconoscersi al giudice, esclusivamente su puntuale domanda di parte, ex art. 1424 c.c. […], che prevede la conversione del contratto nullo in un contratto diverso qualora, avuto riguardo allo scopo perseguito dalle parti, debba ritenersi che esse lo avrebbero voluto se avessero conosciuto la nullità. >>

[14] V. § 1.

[15] V. Carinci F., De Luca Tamajo R., Tosi P., Treu T., Diritto del lavoro. Il rapporto di lavoro subordinato op. cit., 290

[16] Art. 7, c. I, St. Lav. << Le norme disciplinari relative alle sanzioni, alle infrazioni in relazioni alle quali ciascuna di esse può essere applicata ed alla procedura di contestazione delle stesse, devono essere portate a conoscenza dei lavoratori mediante affissione in un luogo accessibile a tutti.

[17] V. Carinci F., De Luca Tamajo R., Tosi P., Treu T., Diritto del lavoro. Il rapporto di lavoro subordinato op. cit., 290 -292.

[18] Cfr. da ultimo Cass., 12 novembre 2021, n. 33811. Contra, per una specifica ed analitica predeterminazione delle condotte vietate, Cass., 24 maggio 1985, n. 3157. In dottrina Carinci F., De Luca Tamajo R., Tosi P., Treu T., Diritto del lavoro. Il rapporto di lavoro subordinato op. cit., 292 afferma << Certo la funzione garantista della norma non può essere svuotata attraverso clausole la cui indeterminatezza consenta nella sostanza la creazione del precetto da parte del datore di lavoro volta per volta, successivamente al fatto oggetto della sanzione. Ma neppure si può dimenticare che un’analitica elencazione di tutti i comportamenti vietati è impensabile ed altrettanto impensabile è una correlazione tra infrazione e sanzione che non presenti ragionevoli margini di elasticità. In proposito il criterio generale di buona fede ben può offrire uno strumento orientativo per stabilire in concreto quando un determinato fatto possa essere ricondotto ad una declaratoria del codice disciplinare. >>

[19] Cass., 7 febbraio 1987, n. 1314; Cass. 28 febbraio 1986, n. 2228 si sono orientate a considerare equipollente all’affissione del codice disciplinare qualsiasi mezzo che consentisse e garantisse ai lavoratori la conoscenza o la conoscibilità del codice disciplinare, ivi inclusa la consegna del contratto collettivo che lo contenga. Successivamente, Cass., S.U., 5 febbraio 1988, n. 1208. Cass., 23 febbraio 1996, n. 1434 e Cass., 9 agosto 2001, n. 10997 ritenevano rettamente necessaria l’affissione del codice disciplinare, salvo che la mancanza fatta valere dipendesse dalla violazione di norme di legge e comunque di doveri fondamentali dei lavoratori, riconoscibili come tali senza necessità di una specifica previsione.

[20] Carinci F., De Luca Tamajo R., Tosi P., Treu T., Diritto del lavoro. Il rapporto di lavoro subordinato op. cit., 292-293 osserva << La pronuncia, cui la giurisprudenza successiva pare essersi pacificamente uniformata, si fonda sulla lettera dell’art. 7 [ … ], sulla funzione stessa del potere disciplinare (che, in quanto diretto ad assicurare la collaborazione del dipendente come soggetto integrato nella collettività aziendale, richiede uno strumento di pubblicazione dotato di caratteristiche di obiettività), nonché sulla natura del codice disciplinare (che, in quanto atto recettizio, avente come destinataria una collettività di lavoratori, ex art. 1334 cod. civ. produce effetti solo dal momento in cui sia portato a conoscenza della detta collettività unitariamente considerata) >>.  

[21] Art. 7, c. I, St. Lav. dispone << Esse (n.d.r. le norme disciplinari) devono applicare quanto in materia è stabilito da accordi e contratti collettivi di lavoro ove esistano. >> In dottrina, Carinci F., De Luca Tamajo R., Tosi P., Treu T., Diritto del lavoro. Il rapporto di lavoro subordinato op. cit., 290 afferma che << …il potere disciplinare compete al datore di lavoro e questi può esercitarlo anche in carenza di regolamentazione collettiva >>.

[22] Il termine è proprio di Carinci F., De Luca Tamajo R., Tosi P., Treu T., Diritto del lavoro. Il rapporto di lavoro subordinato op. cit., 291

[23] Così Carinci F., De Luca Tamajo R., Tosi P., Treu T., Diritto del lavoro. Il rapporto di lavoro subordinato op. cit., 291 ove si afferma anche che << Il limite sarebbe peraltro rafforzato, secondo questa opinione, dal comma 4 dell’art. 7, secondo cui “non possono essere disposte sanzioni disciplinari che comportino mutamenti definitivi del rapporto di lavoro.”  >>

[24] Cfr. Cass., 13 novembre 1991, n. 12088; Cass., 16 aprile 1992, n. 4655.

[25] Il termine è proprio di Carinci F., De Luca Tamajo R., Tosi P., Treu T., Diritto del lavoro. Il rapporto di lavoro subordinato op. cit., 291.

[26] V. ex plurimis Cass., 24 marzo 2010, n. 7045.

[27] C. Cost., 30 novembre 1982, n. 204 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dei commi primo, secondo e terzo <>; C. Cost., 25 luglio 1989, n. 427 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dei commi secondo e terzo << nella parte un cui è esclusa la loro applicazione al licenziamento per motivi disciplinari irrogato a imprenditore che abbia meno di sedici dipendenti. >>. In dottrina, R. Sanlorenzo, Licenziamenti e vizi procedurali: disarmonie nel sistema delle tutele, in Lavoro Diritti Europa, 2/2023, 5, afferma che << La conoscibilità delle norme disciplinari, la preventiva contestazione dell’addebito, il diritto del lavoratore di essere sentito, non sono vuote prescrizioni formali, ma concorrono a tutelare la dignità del lavoratore. >>

[28] Cass., 25 gennaio 2008, n. 1661; Cass., 23 ottobre 2007, n. 22236. Così R. Sanlorenzo, Licenziamenti e vizi procedurali: disarmonie nel sistema delle tutele, op. cit., 9-10 evidenzia che << […] Cass., n. 4879/2020, […] ribadisce la necessità di una contestazione dell’addebito disciplinare che delinei i contorni del “fatto contestato”: il radicale difetto di contestazione dell’infrazione, determina invece (come affermato in modo chiaro da Cass. 14.2.2016 n. 25745) l’inesistenza dell’intero procedimento, e non solo l’inosservanza delle norme che lo disciplinano. >>

[29] Cfr. ex multis Cass., 7 dicembre 1982, n. 6691; Cass., 28 novembre 2008, n. 28448; Cass., 13 febbraio 2015, n. 2902.

[30] Cfr. Cass., 9 agosto 2013, n. 19115.

[31] Cass., 19 novembre 2021, n. 35664 ha posto in evidenza che ai fini della valutazione dell’immediatezza della contestazione e del tempestivo esercizio dell’azione disciplinare, il ritardo nella contestazione dell’addebito non può essere giustificato dal fatto che i diretti superiori gerarchici del lavoratore abbiano omesso di riferire tempestivamente agli organi titolari del potere disciplinare in ordine all’infrazione posta in essere dal dipendente, in quanto della sussistenza di specifiche ragioni organizzative in assenza di di prova rigorosa della sussistenza di specifiche ragioni organizzative impeditive di una più celere definizione della procedura disciplinare, il ritardo in questione, pur con riguardo ad un’organizzazione aziendale complessa e articolata sul territorio, deve essere ascritto alla cattiva organizzazione del datore di lavoro.

[32] Cass., 7 aprile 2011, n. 7951 ha rilevato come non possa considerarsi violato dal datore di lavoro il principio di immediatezza laddove egli, avviate le indagini senza pervenire ad un sicuro accertamento della colpevolezza, avendo scelto ai fini di un corretto accertamento del fatto di attendere l’esito degli accertamenti svolti in sede penale, contesti l’addebito solo quando attraverso le scelte processuali del lavoratore nel processo penale, conclusosi con applicazione della pena a richiesta dell’imputato, abbia acquisito piena consapevolezza della riferibilità dei fatti al dipendente.

[33] Cass., 4 gennaio 2016, n. 21 ha sottolineato che devono essere oggetto di specifica e rituale contestazione anche le circostanze ritenute aggravanti della condotta inadempiente, non potendo altrimenti il datore porle a fondamento della sanzione.

[34] Carinci F., De Luca Tamajo R., Tosi P., Treu T., Diritto del lavoro. Il rapporto di lavoro subordinato op. cit., 294 rileva che << La contestazione deve insomma individuare i fatti addebitati con sufficiente precisione, sia pure sinteticamente, per modo che non residui incertezza circa l’ambito dei fatti su cui il lavoratore è chiamato a rendere le giustificazioni. >>

[35] Così Carinci F., De Luca Tamajo R., Tosi P., Treu T., Diritto del lavoro. Il rapporto di lavoro subordinato op. cit., 295, ove si osserva che il principio di immutabilità della contestazione che informa il potere disciplinare risponde ai principi di garanzia del contraddittorio. Nella giurisprudenza di legittimità Cass., 25 agosto 1993, n. 8956 ritiene che non sia violato il canone dell’immutabilità per una mera divergenza tra i fatti contestati e quelli che sorreggono il provvedimento disciplinare, se ciò non comporta una lesione del diritto di difesa del lavoratore.

[36] In dottrina Carinci F., De Luca Tamajo R., Tosi P., Treu T., Diritto del lavoro. Il rapporto di lavoro subordinato op. cit., 295 evidenzia che il datore di lavoro può anche ricevere le eventuali giustificazioni scritte del dipendente senza onere di invitarlo a svolgere difese orali.

[37] Così Carinci F., De Luca Tamajo R., Tosi P., Treu T., Diritto del lavoro. Il rapporto di lavoro subordinato op. cit., 296.

[38] In tema v. Cass., 18 marzo 2008, n. 7295; Cass., 5 agosto 2003, n. 11833.

[39] V. Cass., 20 marzo 1991, n. 2963.

[40] Ora specifiche sezioni delle direzioni regionali e provinciali del lavoro, ai sensi del D.M. 7 novembre 1996, n. 687

[41] Carinci F., De Luca Tamajo R., Tosi P., Treu T., Diritto del lavoro. Il rapporto di lavoro subordinato op. cit., 297, evidenzia che << Si tratta, secondo l’opinione prevalente, di un arbitrato irrituale (L. Montuschi, 1972), specie in ragione delle disposizioni, oggi novellate ma non ancora ferme sul punto, degli artt. 4 e 5 della L. 11 agosto, n. 533, le quali ammettono l’arbitrato rituale, a differenza di quanto previsto per l’arbitrato irrituale, solo se ciò sia contemplato nei contratti o accordi collettivi, facendo perciò venir meno la possibilità di arbitrati rituali previsti dalla legge. >>

[42] Carinci F., De Luca Tamajo R., Tosi P., Treu T., Diritto del lavoro. Il rapporto di lavoro subordinato op. cit., 454 afferma che << Una disciplina legislativa della materia, pur da molti auspicata, trovò inizialmente l’opposizione, oltre che da parte datoriale, della Cisl, sempre ostile nei confronti di interventi legislativi in materie ritenute di competenza dell’autonomia collettiva. >> L’A. evidenzia, inoltre, che con l’introduzione della L., 15 luglio 1966, n. 604, si è passati << da un potere di recesso che, nella ispirazione del codice civile, era ritenuto sostanzialmente insindacabile e svincolato da oneri causali […] ad un potere il cui esercizio è limitato alla sussistenza di una delle cause identificate dal legislatore (giusta causa, giustificato motivo). >>

[43] Carinci F., De Luca Tamajo R., Tosi P., Treu T., Diritto del lavoro. Il rapporto di lavoro subordinato op. cit., 448 evidenzia che << Il recesso unilaterale è espressione del potere di ciascuna delle parti di sciogliere il rapporto con il semplice mezzo della comunicazione all’altra parte; come tale è un diritto potestativo riconosciuto dall’ordinamento in deroga al principio generale secondo cui il contratto può essere sciolto solo per mutuo consenso. In quanto atto unilaterale recettizio il recesso per produrre effetto deve essere portato a conoscenza del destinatario. >>

[44] Carinci F., De Luca Tamajo R., Tosi P., Treu T., Diritto del lavoro. Il rapporto di lavoro subordinato op. cit., 447 - 448 afferma che << L’estinzione del rapporto di lavoro può avvenire: a) per recesso del datore di lavoro ( = licenziamento) o per recesso del lavoratore ( = dimissioni) […] b) per risoluzione consensuale […] c) per scadenza del termine nei contratti di lavoro a tempo determinato […] c) per altre particolari circostanze specificatamente  previste dalla legge […] d) per morte del lavoratore. >>

[45] L’impresa che intenda da corso ad un licenziamento collettivo è tenuta ad attivare una procedura che si sostanzia in un confronto con le organizzazioni sindacali. L’osservanza di tale procedura costituisce un requisito di efficacia dei licenziamenti, anche se la sua violazione, secondo la previsione della L. n. 92/2012 e del D.lgs n. 23/2015, non determina più la reintegrazione nel posto di lavoro, ma conseguenze meramente risarcitorie. La sanzione del ripristino del rapporto di lavoro è prevista solo nelle ipotesi di mancanza della forma scritta dell’atto di intimazione del licenziamento o di violazione dei criteri di scelta. Per i lavoratori assunti successivamente alla data del 7 marzo 2015, inoltre, anche l’illegittimità del recesso datoriale per violazione dei criteri di scelta è sanzionata con una tutela meramente indennitaria. Nella individuazione dei lavoratori da licenziare l’impresa è tenuta a rispettare i criteri di scelta stabiliti dalla contrattazione collettiva o, in mancanza, dall’art. 5, L. 223/1991.

[46] L’art. 2119 c.c. autorizza ciascuna delle parti a recedere per giusta causa dal contratto <>. In giurisprudenza v. Cass., 21 dicembre 1982, n. 7102, per la quale l’art. 2119 c.c. << fa riferimento non già ad un inadempimento ma ad una causa che non consente la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto e che può non coincidere con inadempimenti contrattuali, ma sia tale da scuotere quel rapporto fiduciario proprio del rapporto di lavoro subordinato. Da ultimo, Cass., 14 giugno 2022, n. 19165; Cass., 27 maggio 2022, n. 17288 ritengono che ai fini della sussistenza della giusta causa non sia sufficiente una valutazione in astratto, ma occorre verificare se – tenuto conto della natura e qualità del singolo rapporto, della posizione delle parti, delle mansioni espletate, del particolare grado di fiducia connesso alla struttura dell’impresa o alla qualifica rivestita nonché della intensità dell’elemento intenzionale e di quello colposo – la mancanza commessa, per le sue modalità oggettive e soggettive, si rilevi talmente grave da non consentire la prosecuzione del rapporto di lavoro. In dottrina Carinci F., De Luca Tamajo R., Tosi P., Treu T., Diritto del lavoro. Il rapporto di lavoro subordinato op. cit., 459 afferma che << […] rientrano nelle ipotesi di giusta causa anche quelle condotte del lavoratore esterne al rapporto di lavoro (e che pertanto non realizzano un inadempimento degli obblighi contrattuali in quanto si verificano nella sfera privata del lavoratore) ma che hanno riflessi sul vincolo di fiducia tra le parti. >> Nello stesso senso, V. anche F. Santoro Passerelli, Giusta causa, NNDI, VII, 1961.

[47] L’art. 3 della L. 604/1966 ha introdotto la nozione di giustificato motivo soggettivo da intendersi come << notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore >>. Carinci F., De Luca Tamajo R., Tosi P., Treu T., Diritto del lavoro. Il rapporto di lavoro subordinato op. cit., 464 afferma << Il criterio di identificazione del carattere notevole dell’inadempimento va valutato anche nel grado di colpa del lavoratore >>. In giurisprudenza ex multis Cass., 19 settembre 2016, n. 18317 annovera nelle cause che possono condurre al licenziamento per giustificato motivo soggettivo anche lo scarso rendimento del lavoratore, posto in essere in violazione delle regole di prudenza e di diligenza.

[48] Cfr. art. 3 L. 604/1966. Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo è collocato, tanto dalla dottrina, quanto dalla giurisprudenza, in un’area di << extrema ratio >>, in quanto il medesimo è da considerarsi legittimo soltanto quando il lavoratore non possa essere impiegato in posizioni di lavoro alternative (c.d. obbligo di << repechage >>), che rientrano nella professionalità già acquisita dal lavoratore, comprese le mansioni inferiori: Cass., 18 gennaio 2022, n. 1386; Cass., 23 febbraio 2022, n. 5981; Cass., 3 dicembre 2019, n. 31520; Cass., 11 dicembre 2019, n. 29099. In dottrina, Cfr. Carinci F., De Luca Tamajo R., Tosi P., Treu T., Diritto del lavoro. Il rapporto di lavoro subordinato op. cit., 468.

[49] V Carinci F., De Luca Tamajo R., Tosi P., Treu T., Diritto del lavoro. Il rapporto di lavoro subordinato op. cit., 483. In giurisprudenza, v. Cass., 6 maggio 1977, n. 1752; Cass., 4 maggio 1977, n. 1649; Cass., 29 aprile 1976, n. 1533

[50] Così Carinci F., De Luca Tamajo R., Tosi P., Treu T., Diritto del lavoro. Il rapporto di lavoro subordinato op. cit., 483 che alla nota 98 richiama Cass., S.U., 28 marzo 1981, n. 1781.

[51] Corte Cost., 30 novembre 1982, n. 204.

[52] Sulla necessità che il codice venga affisso, non essendo a tal fine sufficienti modalità di comunicazioni diverse v. Cass., 12 novembre 2021, n. 33811. Cass., 9 luglio 2021, n. 19588; Cass., 7 novembre 2019, n. 28741; Cas., 9 aprile 2018, n. 8703; Cass., 20 marzo 2018, n. 6893Corte Cost. n. 427/1989 affermano che << la mancata affissione disciplinare o l’omessa previsione di una specifica infrazione non inficiano la legittimità del licenziamento quando i fatti addebitati al dipendente configurino illeciti penali o gravi violazioni di doveri fondamentali del lavoratore>>, in quanto << il lavoratore non rischia di incorrere in sanzioni per fatti da lui non preventivamente conosciuti come mancanze. >>

[53] Cass., 08 novembre 2021, n. 32542 mette in evidenza che lo scopo della contestazione dell’addebito, anche nei licenziamenti disciplinari, è quello di consentire al lavoratore l’immediata difesa.

[54] In tema Cass., 20 giugno 2019, n. 16598 afferma che << […] ai licenziamenti disciplinari sono state estese […] soltanto alcune delle garanzie procedimentali che sono previste dall’articolo 7 della legge 20 maggio 1970 n. 300 per le sanzioni conservative, fra le quali vanno annoverate le garanzie di contestazione dell’addebito e di audizione a difesa del lavoratore in colpato (di cui ai commi 2ˆe 3ˆ) – esigendo, “come essenziale presupposto delle sanzioni disciplinari”, lo svolgersi di un procedimento che “rinviene il suo marchio distintivo nella regola del contraddittorio audiatur et altera pars. >>

[55] Cfr. Cass., S.U., 7 maggio 2003, n. 6900; Cass., S.U., 18 maggio 1994, n. 4845.

[56] Così Carinci F., De Luca Tamajo R., Tosi P., Treu T., Diritto del lavoro. Il rapporto di lavoro subordinato op. cit., 485 che alla nota 108 richiama Cass., 30 luglio 2018, n. 20162.

[57] Cfr. ex plurimis Cass., 24 agosto 2021, n. 23332; Cass., 20 settembre 2019, n. 23516.

[58] Cass., 10 dicembre 2021, n. 3939.

[59] Cfr. ex aliis Cass., 13 febbraio 2013, n. 3532. In dottrina V. Carinci F., De Luca Tamajo R., Tosi P., Treu T., Diritto del lavoro. Il rapporto di lavoro subordinato op. cit., 485.

[60] Cass., 24 giugno 1995, n. 7178; Cass., 25 luglio 1994, n. 6903.

[61] Cass., 14 ottobre 2022, n. 30271; Cass., 08 novembre 2021, n. 32542; Cass., 7 ottobre 2019, n. 24976; Cass., 20 settembre 2019, n. 23516.

[62] Cass., Sez. Lav., 16/01/2024, n. 1686 evidenzia che la minaccia grave deve << intendersi quale prospettazione di volere arrecare ad un superiore un danno ingiusto. >>

[63] Cass., Sez. Lav., 16/01/2024, n. 1686 evidenzia che la insubordinazione << ricomprende qualsiasi comportamento atto a pregiudicare l’esecuzione ed il corretto svolgimento delle disposizioni – con violazione, pertanto, degli obbli di collaborazione e fedeltà – nel quadro della organizzazione aziendale […]. >>

[64] Nello specifico la ricorrente con il secondo motivo di ricorso denunciava << L’omessa valutazione circa un fatto decisivo per il giudizio, […], ai sensi dell’art. 360, co. 1, c.p.c., per non avere la Corte territoriale rilevato l’intempestività della contestazione, a fronte di una asserita eccezionale gravità della condotta di immediato accertamento, essendo decorsi ben ventisei giorni tra la commissione dei fatti addebitati e la notifica della contestazione disciplinare. >>

[65] Cass., Sez. Lav., 16/01/2024, n. 1686; in tema v. ex aliis Cass. 281/2016

[66] Così R. Sanlorenzo, Licenziamenti e vizi procedurali: disarmonie nel sistema delle tutele, op. cit., 9-10; Cass., S.U., 30985/2017 afferma che << l’inerzia del datore di lavoro di fronte alla condotta astrattamente inadempiente del lavoratore può essere considerata quale dichiarazione implicita per facta concludentia, dell’insussistenza in concreto di alcuna lesione del suo interesse. >>

[67] Cass., 20 giugno 2019, n. 16598.

[68] Cfr. A. La Mendola, Licenziamento per giusta causa: tardività della contestazione, in Diritto e pratica del lavoro, 9/2018, 581-582.

[69] Cfr. A. La Mendola, Licenziamento per giusta causa: tardività della contestazione, op. cit., 581-582.