Pubbl. Mar, 19 Mar 2024
Commento alla prolusione del Corso di procedura penale (A.A. 1999-2000) del Prof. Andrea Antonio Dalia
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Gerardo Lenza
Il ”Progetto Prof. A. A. Dalia” ha lo scopo di rendere omaggio ad un grande Maestro del diritto attraverso brevi commenti, dal carattere divulgativo, relativi ai più svariati temi che interessano il diritto processuale penale. L´obiettivo è quello di restituire attualità al suo pensiero, attraverso l´analisi di relazioni rese in occasione di lezioni, convegni e congressi. Una vera sfida, oltre che una rara occasione di confronto, per chi, ancora tra i banchi delle aule universitarie, sta per affacciarsi al mondo delle professioni legali.
PROLUSIONE AL CORSO DI PROCEDURA PENALE
(A.A. 1999-2000)
Facoltà di Giurisprudenza – Università degli Studi di Salerno
Prof. Andrea Antonio Dalia
Il processo è un gioco, un gioco di regole, ed è attualissimo parlare di gioco oggi, a pochi giorni di distanza dall’approvazione di una legge modificativa della Carta costituzionale: il famoso articolo 111 della Costituzione.
Ma era necessaria questa riforma? È possibile che dopo tanti anni solo oggi ci si rende conto di adeguare a livello costituzionale i principi del giusto processo? Ci sarebbe un contrasto: se è una riforma necessaria è venuta troppo tardi, se non è necessaria, allora perché tale riforma? E solo se ci chiariamo le idee oggi, si può seguire un corso di procedura penale.
Quando, nel 1948, entrò in vigore la Costituzione repubblicana, si veniva da un’epoca di oscurantismo, un’epoca in cui la vita umana non aveva valore se non come entità da eliminare. Carnelutti parlò di morte del diritto. Si avvertì, perciò, il bisogno di proclamare i diritti naturali della persona.
Da qui le previsioni della Dichiarazione universale: «ogni persona ha diritto ...», «ogni persona deve vedersi riconoscere prerogative». E, ancora, le importanti garanzie del processo: «ogni persona ha il diritto all’udienza, ad opera di un giudice imparziale, indipendente, competente, precostituito», «ogni persona non può essere considerata colpevole prima che la sua colpevolezza non sia stata riconosciuta legalmente con una sentenza passata in giudicato»; «ogni persona deve essere informata nel più breve tempo possibile di ogni accusa le si venga mossa, affinché si possa difendere davanti ad un giudice imparziale».
Sono affermazioni, queste, che potrebbero apparire ovvie, perché non si può concepire un processo dove non vi sia il diritto al contraddittorio, non vi sia un giudice imparziale, ma un giudice di parte. È possibile che si consideri un uomo colpevole prima ancora di averlo giudicato?
A volte sui mass-media si sprecano giudizi di colpevolezza: ci si dimentica di dire i fatti per i quali taluno è condannato. C’è il verdetto, ma si trascura di dire per quale fatto!
La Costituzione del 1948 si inserì in questo filone di affermazione dei diritti dell'uomo. Basti citare già l’art. 3: «tutti sono uguali davanti alla legge»; ciò significa che nel processo penale non si distingue tra abbienti e non abbienti; quindi chi non ha la possibilità deve essere aiutato dallo Stato e trovare nella collettività dei sussidi: senza distinzioni di razza, di lingua, di sesso, di religione.
Già qui c’è il principio di eguaglianza!
Il processo giusto nasce da tali principi, ma nonostante la Carta costituzionale abbia affermato ciò, nel 1999 ci si determina in maniera particolare. La Carta costituzionale prevede quattro passaggi parlamentari, più un referendum, tranne il caso dell'approvazione, in seconda lettura, con una maggioranza dei due terzi dei Parlamentari. Pensate, nel caso dell’art. 111 c’è stata quasi l’unanimità, si sono astenuti solo13 deputati e 6 contrari.
Che cosa dice questo articolo di riforma? Al comma 1 si legge: «La giurisdizione si applica mediante il giusto processo regolato dalla legge»; questa premessa è inserita come preambolo all'art. 111, che afferma: «tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati».
La motivazione è l’occasione del controllo collettivo dell’operato dei giudici. La motivazione pone il giudice sullo stesso piano del destinatario del provvedimento. Si apre una dialettica: «Io motivo, tu condividi o impugni». Prima di tale affermazione troveremo che la giurisdizione si attua mediante il giusto processo.
Poi, ancora, si legge: «ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti ad un giudice terzo, imparziale. La legge assicura la durata ragionevole del processo».
Allora, ritorno alla domanda, era necessaria tale riforma?
Noi avevamo nella giustizia penale, con il codice previgente, un processo di tipo marcatamente autoritario, che si presentava come un processo misto (tra accusatorio e inquisitorio).
La differenza tra accusatorio e inquisitorio è che nell’accusatorio c’è un soggetto che accusa, un soggetto accusato e il giudice che decide sull’accusa. Nell’inquisitorio c’è un giudice che accusa e giudica. Le tre persone dell’accusatorio si riducono alle due persone dell’inquisitorio. Quindi, se chi accusa giudica pure, chi è accusato non può difendersi.
Il nostro sistema anteriore alla Costituzione era un sistema a forte impronta inquisitoria, perché avevamo il giudice istruttore, che ricercava le fonti di prova, le compulsava, quindi raccoglieva la prova, e poi rinviava a giudizio l'imputato, il quale si doveva aspettare solo che si verificasse, con le forme sacre del dibattimento, un convincimento che già era stato formato, ed espresso dal giudice istruttore. Quindi, il dibattimento aveva una funzione di verifica rispetto ad una prova che era stata formata, per lo più segretamente, dal giudice istruttore senza la partecipazione delle parti, con ampia proiezione del profilo inquisitorio del processo. Perché in uno Stato autoritario l’individuo non ha diritti, il titolare dei diritti è lo Stato e quindi lo Stato, al massimo, delega all’individuo alcune sue prerogative ma non gli riconosce prerogative naturali.
Nel 1956 è entrata in funzione la Corte costituzionale, che è il giudice delle leggi, è l’organo che verifica se le leggi ordinarie sono conformi o no ai principi costituzionali. Dal momento della sua costituzione, la Corte Costituzionale si è sempre attivata per tentare di adeguare il codice di estrazione autoritaria alla Costituzione.
La Corte costituzionale è intervenuta più volte per adeguare il codice di impronta autoritaria ai principi costituzionali del giusto processo.
Questo lavoro è durato molti anni fino a che il Parlamento italiano, sensibile a questi continui moniti della Corte Costituzionale e influenzato anche dalle esperienze nord-americane, decise di produrre una legge di delega al governo perché realizzasse la riforma del codice di procedura penale.
Questa legge contiene un preambolo che dice che il nuovo codice attua i principi del sistema accusatorio e attua i principi della Costituzione e i principi delle convenzioni internazionali relative al processo penale. Nel 1987 la legge delega, l’anno successivo entra in vigore il codice Vassalli, cioè il codice della Riforma, cioè il primo codice della Repubblica, a forte impronta accusatoria, perché non c’è più la figura del giudice istruttore, la prova non viene più raccolta durante le indagini. Addirittura, questo legislatore distingue il procedimento penale in due segmenti: il primo, di natura quasi amministrativa, il procedimento per le indagini; il secondo, quello del processo, momento della giurisdizione.
Il magistrato del pubblico ministero e la polizia giudiziaria debbono svolgere indagini quando hanno una notizia di reato, queste indagini non hanno valore processuale, non hanno valore di prova, ma debbono servire solo al pubblico ministero per stabilire se promuovere o non promuovere l’azione penale e, nel momento in cui promuove l'azione penale, si rivolge al giudice: da qui inizia il processo.
Attività non giurisdizionale, amministrativa, salvo gli atti irripetibili, gli atti che non possono essere assunti dal giudice. Ma l'idea fondamentale è che l’attività che svolge il pubblico ministero nelle indagini non ha rilevanza di prova: la prova si deve formare in dibattimento davanti al giudice nel contraddittorio tra le parti, perché solo allora il giudice è terzo e da allora c'è la garanzia dell’imparzialità.
E allora, paradossalmente, dopo un decennio di applicazione del codice, che è stato introdotto per applicare i principi del giusto processo, il Parlamento italiano si accorge che deve inserire il giusto processo nella Costituzione. Come mai? I principi enunciati dal testo di riforma già erano presenti!
Quando si dice all’art. 24: «tutti possono agire in giudizio per la tutela dei loro diritti e interessi legittimi» (1 comma); «la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del processo» (2 comma): combinando questi criteri si ha il contraddittorio. L’art. 24 ha costituzionalizzato il contraddittorio — come dice il prof. Mandrioli — in entrambi i commi, perché la giurisdizione è diritto di azione e di difesa.
Quando, ancora, si parla di giudice terzo e imparziale, tale principio è ravvisabile, prima che nell’art. 111, già nell’articolo 101: «il giudice è soggetto soltanto alla legge», questo a garanzia dell'indipendenza dello status di magistrato.
Così l'art. 25 cost.: «Nessuno può essere sottratto al giudice naturale precostituito per legge»; e, allora, la naturalità non è imparzialità? La precostituzione non è segno di indipendenza?
La durata ragionevole del processo è rinvenibile nell’art. 13, ultimo comma: «la carcerazione preventiva deve essere stabilita per legge nella sua durata».
Allora, c’erano già nella Costituzione i principi del giusto processo? Certo!
In sostanza il contraddittorio è «diritto» e «regola del processo» allo stesso tempo.
Quando un ordinamento processuale penale assicura il contraddittorio garantisce il giusto processo, perché impedisce le sopraffazioni, le prepotenze di una parte sull'altra; c'è agonismo, ma non c'è contrapposizione. Non sono i gladiatori che si combattono per eliminarsi, ma sono gli attori che svolgono la parte. È, allora, il ludo scenico, non circense se c'è contraddittorio. Se non c'è il contraddittorio, allora, diventa la lotta.
Ecco la lotta. Spesso noi sentiamo parlare del processo come lotta: non il processo come gioco, ma il processo come lotta. Anche esponenti qualificati, prestigiosi della vita politica italiana usano questo termine: il processo deve essere lotta alla criminalità organizzata.
La lotta alla criminalità organizzata è compito della polizia, dello Stato come amministrazione di polizia; il processo deve essere momento di garanzia per chi, combattuto dallo Stato, viene sconfitto e viene portato davanti al giudice per il giudizio.
Noi non dobbiamo combattere con uno strumento di garanzia, ma con uno strumento di attacco: perquisizioni, intercettazioni, blocchi stradali, controlli dei patrimoni illeciti. Questi sono gli strumenti, non il pentito che in dibattimento accusa, non accusa, ritratta! Rendiamo efficiente l'apparato di prevenzione e di repressione! Ma questo è un fatto amministrativo, che poi troverà le sue conclusioni nelle determinazioni dell'ufficio del pubblico ministero, che promuove l'azione penale, ma nel momento in cui si va davanti al giudice scatta la garanzia del processo.
E allora perché — torno alla domanda iniziale — dopo dieci anni di processo ispirato alla regola della legalità si avverte la necessità di modificare la Costituzione? Perché quel compito di adeguamento della legislazione pre-vigente alla Costituzione, così scrupolosamente svolto per oltre 40 anni dalla corte Costituzionale, con l’entrata in vigore del nuovo codice a tendenza accusatoria è finito, anzi si è invertito?
La Corte costituzionale, che per 40 anni è stata garante del giusto processo, adeguando una legislazione autoritaria ai principi costituzionali, dopo l’entrata in vigore di un codice che attuava tali principi ha invertito la rotta e ha modificato le norme in senso inquisitorio.
Quella Corte, che aveva garantito i diritti della persona nel processo, oggi li sta riducendo!
Pensate alla famosa sentenza sull'art. 513 che prevedeva: se un pentito, un collaborante, un mafioso che decide di collaborare, perché trova una convenienza economica, di sicurezza per sé e per i suoi familiari (fa una scelta amorale, di convenienza economica, di utilità) fa delle accuse; queste accuse debbono essere ripetute in presenza dell’accusato, deve essere dato all’accusato il diritto di contro-interrogarlo. Si accusa dietro un paravento in assenza della difesa e in dibattimento non si va a confermare, ad affrontare il contro-esame. Questa regola fu ritenuta dal Parlamento inaccettabile, in quanto ritenne che l'accusa doveva essere confermata in dibattimento. Tuttavia la Corte Costituzionale affermò che il nostro processo è improntato al principio del contraddittorio, dell'oralità, ma accanto a questi, c’è quello di non dispersione. Ed in nome di questa non dispersione bisogna, dice la Corte, trovare un equilibrio tra i principi.
La Corte Costituzionale, accanto al contraddittorio, come essenza del processo, fa emergere il principio di non dispersione e in nome di questo principio — aggiunge — si devono consentire, ammettere, dei sacrifici del contraddittorio.
La non dispersione non è un principio del processo, ma è una esigenza immanente nell’intero iter dell’accertamento penale. Non dispersione è evitare il pericolo che vada perso qualcosa che può essere rilevante ai fini della ricostruzione del fatto, quindi ci possono essere dei meccanismi di pre-assunzione probatoria, che poi sono previsti nel nuovo codice: l'incidente probatorio. La non dispersione la si tutela applicando meccanismi di pre-assunzione probatoria, che però sono meccanismi garantisti.
Ci possono essere forme diverse di contraddittorio (anziché pubblico, riservato), ma ci deve essere il contraddittorio, cioè la presenza difensiva di fronte alla presenza accusatoria, davanti ad un giudice.
In virtù di questo equilibrio artificioso della Corte costituzionale è saltata la regola del giusto processo. Di qui la necessità del Parlamento di modificare la Costituzione. Ma doveva essere modificata la Corte costituzionale, non la Costituzione! Perché possiamo cambiare dieci volte la Costituzione, ma fino a quando ci sarà un organo, chiamato giudice delle leggi, orientato in un certo modo nella interpretazione dei principi costituzionali, sarà inutile.
Il problema è che si deve ricondurre il processo nelle aule di giustizia, in quanto il processo è ormai uscito dal palazzo; si fa nelle piazze; tutti giudicano tutti, tranne i giudici.
C’è un passo bellissimo di una prolusione che Salvatore Satta tenne, nel 1949, all'Università di Catania e che intitolò «Il mistero del processo». Conclude richiamando un altro grande del diritto, Carnelutti. Dice Satta: Carnelutti ha un’illuminante intuizione quando dice che il principio della pubblicità nel dibattimento si spiega soltanto in quanto si riconosca al pubblico, che ha il diritto di assistere al processo, la qualità di parte e appunto in quanto parte gli è vietato di manifestare opinioni e sentimenti, di tenere contegno tale da intimidire o provocare; se egli fosse terzo, cioè estraneo al conflitto di interessi esploso nel reato, tutto ciò sarebbe superfluo. E aggiunge: come parte preme contro la sottile barriera di legno che lo divide dal giudice, se riesce a superarla materialmente sarà il linciaggio, se riesce a superarla spiritualmente sarà la parte che giudicherà e non il giudice, cioè non si avrà giudizio.
Questo è il processo penale. Se lo lasciamo al giudice, che applica le regole in serenità, avremo una sentenza che sarà l’esito di un giudizio; se lo condizioniamo, noi non avremo mai giudizio.
Il processo come gioco significa rispetto delle regole del gioco.
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Commento di Gerardo Lenza
Studente iscritto al III anno del corso di laurea in giurisprudenza
Dipartimento di Scienze Giuridiche – Università degli Studi di Salerno
1. Profili introduttivi
La prolusione al corso di procedura penale A.A. 1999-2000 del Prof. Andrea Antonio Dalia si concentra sull’introduzione agli studenti del processo penale come gioco, in cui si tiene conto della riforma costituzionale che sarebbe intervenuta di lì a poco sull’art. 111 Cost.
Il giusto processo è un tema fortemente dibattuto, ancora oggi, in dottrina e giurisprudenza, che consente un’analisi trasversale sulla amministrazione della giustizia, nello specifico caso, quella penale, e la tutela dei diritti inviolabili dell’uomo riconosciuti e garantiti, in primo luogo, dall'art. 2 della nostra Carta costituzionale, oltre che da Carte internazionali, una su tutte la CEDU.
Bisogna, però, parimenti, riflettere, come sosteneva il Professore prima che intervenisse la Riforma, sulla sua effettiva necessità. In altre parole, bisogna individuare quale sia stato l’obiettivo perseguito dalla Riforma, dato che i diritti previsti dai nuovi commi dell’art. 111 Cost. sono talvolta desumibili già da altre disposizioni costituzionali preesistenti, e se questo sia stato effettivamente raggiunto.
Il tema della tutela dei diritti fondamentali in sede processuale è collegato alle situazioni nelle quali gli stessi vengono trascurati mediante la formazione di un giudizio anticipato di colpevolezza da parte dell’opinione pubblica prima che intervenga una sentenza, senza che vi siano il contraddittorio e la presenza di un giudice imparziale. Inoltre, è necessario sottolineare, come è evidente anche nella prolusione, l’operato della Corte costituzionale prima della Riforma che aveva l’obiettivo di ricondurre il processo penale nei limiti del rispetto dei diritti inviolabili, sottraendolo ad una matrice fortemente autoritaria alla quale si ispirava, secondo il codice di procedura penale previgente.
È proprio in questa sede che il processo penale è assimilato dal Professore ad un gioco e non una lotta, in cui “non sono i gladiatori che si combattono per eliminarsi, ma sono gli attori che svolgono la parte.” Suddetto gioco è corollato dai principi del giusto processo, tra i quali si individua, ad esempio, il diritto al contraddittorio, che, da un lato, “impedisce le sopraffazioni, le prepotenze di una parte sull'altra”, dall’altro, garantisce l’“agonismo” tra le parti stesse. I dubbi del Professore in merito alla Riforma si sono rivelati fondati e veritieri, in particolare considerate le numerose sentenze di condanna emesse dalla Corte europea dei diritti dell’uomo contro l’Italia per violazione dei principi del giusto processo, ex art. 6 CEDU.
Il contributo si propone di dar nuova vita, utilizzando il parametro dell’attualità, alla prolusione, risalente ad un periodo immediatamente precedente alla Riforma dell’art. 111 Cost., analizzandone gli aspetti cui si è fatto brevemente accenno, le innovazioni apportate dall’introduzione dei nuovi commi, e, infine, comparando gli obiettivi della Riforma ed i risultati effettivamente ottenuti. Bisogna tener conto, infine, del clima di entusiasmo nel quale è stata approvata la Riforma stessa, considerato che in Parlamento sia stata approvata quasi all’unanimità, escludendo 13 deputati astenuti e 6 contrari, e gli orientamenti odierni della dottrina e della giurisprudenza, in particolar modo quella della Corte europea dei diritti dell’uomo.
2. L’articolo 111 Cost. e il giusto processo
L’art. 111 Cost. è stato riformato con la L. cost. 23 novembre 1999, n. 2 che ha introdotto cinque nuovi commi recanti esplicitamente i principi che devono trovar cittadinanza in sede processuale affinché si possa parlare di giusto processo: i primi due commi ne positivizzano alcuni attinenti alla generalità dei processi, mentre i successivi ne prevedono altri, inerenti nello specifico al processo penale. I principi previsti dai primi commi sono: la riserva di legge, il contraddittorio in condizione di parità tra le parti, l’imparzialità del giudice e la ragionevole durata del processo.
Il principio della riserva di legge in materia processuale, previsto dal primo comma, stabilisce che solo ed esclusivamente il legislatore, mediante la legge, può disciplinare lo svolgimento del processo, escludendo da tale competenza organi amministrativi e giurisdizionali.
Nel secondo comma sono positivizzati i principi restanti. Il principio del contraddittorio implica che le parti siano poste nelle condizioni di esporre le proprie difese, prima che subiscano gli eventuali effetti di un provvedimento giurisdizionale. Bisogna però fare una distinzione tra contraddittorio “debole” e contraddittorio “forte” che si differenziano per l’intensità della partecipazione delle parti coinvolte in un procedimento giudiziario, in particolare nell’ambito della formazione della prova. Il primo, detto anche contraddittorio postumo per il momento in cui si realizza, enunciato nel secondo comma, si concretizza con il diritto di argomentare su di una prova già formata; il secondo previsto nel quarto comma, stabilisce che la prova si formi secondo un metodo dialettico tra le parti. Il secondo periodo del quarto comma, invece, andando a configurare una sanzione a carico di chi si sia sottratto al contraddittorio, prevede che “la colpevolezza dell'imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all'interrogatorio da parte dell'imputato o del suo difensore”.
Procedendo con l’analisi del terzo comma, il principio della parità tra le parti sancisce che nessuna di esse deve essere svantaggiata in termini di partecipazione al processo o accesso alla giustizia. Tuttavia, la sua portata è differente qualora si parli di processo civile e processo penale. Infatti, nel processo civile si sostanzia con una eguaglianza assoluta tra attore e convenuto, mentre nel processo penale con l’equilibrio di poteri.
È disposto, inoltre, che ogni processo si svolga “davanti a giudice terzo ed imparziale”, positivizzando il principio dell’imparzialità del giudice. L’espressione non è ridondante, dato che per giudice terzo si fa riferimento alla qualità del giudice, che deve rimanere neutrale rispetto alle influenze esterne, non potendo cumulare altre funzioni processuali, mentre per giudice imparziale si intende che il giudice non sia mosso da favoritismi o pregiudizi rispetto alle parti, garantendo un processo equo.
Il principio della ragionevole durata del processo è di derivazione sovranazionale, la cui previsione è stata necessaria in seguito a numerose sentenze di condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo, che si sono susseguite nel corso del tempo nei confronti dell'Italia per la violazione di suddetto principio. L’obiettivo perseguito è l’efficienza processuale, che comunque non può intaccare le garanzie dell’imputato, come è implicito nell’espressione “ragionevole”. Per far fronte ai numerosi ricorsi davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo contro l’Italia in cui i ricorrenti lamentavano la violazione del principio in esame, ex art. 6 CEDU, è stata emanata la Legge n. 89 del 24 marzo 2001, cd. Legge Pinto, che ha determinato il criterio dell’esaurimento delle vie di ricorso interne prima di ricorre alla Corte europea dei diritti dell’uomo. La legge citata prevede il diritto ad una equa riparazione, ex art. 3 co.1, stabilito dalla Corte di appello del distretto in cui ha sede il giudice innanzi al quale si è svolto il primo grado del giudizio presupposto, qualora venisse violato il diritto ad una ragionevole durata del processo.
Al terzo comma sono stati previsti i diritti dell’accusato, con cui si possono intendere sia l’imputato che la persona soggetta alle indagini. Tuttavia, quest’ultima accezione non è compatibile con la parola “processo”, che, intesa in senso stretto, esclude le indagini preliminari. In primo luogo, si rileva che l’accusato debba essere, “nel più breve tempo possibile, informato riservatamente della natura e dei motivi dell'accusa elevata a suo carico”. Il concetto del “più breve tempo possibile” non è sinonimo di “immediatamente”, dato che l’informazione deve pervenire all’accusato compatibilmente con l’efficacia delle indagini. In relazione, invece, alle modalità con cui debbono pervenire suddette informazioni, bisogna sottolineare l’avverbio “riservatamente”, al fine di evitare che l’opinione pubblica possa essere condizionata, prima che intervenga una sentenza.
In seguito, è previsto che l’accusato “disponga del tempo e delle condizioni necessari per preparare la sua difesa”, implicando gli istituti delle indagini difensive e del gratuito patrocinio. È riconosciuto, inoltre, il diritto a confrontarsi con l’accusatore, nella parte in cui è previsto che l’accusato “abbia la facoltà, davanti al giudice, di interrogare o di far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico”. Analizzando tale disposto, è necessario evidenziare che, per una maggior garanzia nei confronti dell’imputato, il confronto debba avvenire dinanzi al giudice pur non specificandosi chi sia il soggetto predisposto a condurre l’esame stesso.
L’imputato è altresì titolare del diritto alla prova quando si fa riferimento alla possibilità di “ottenere la convocazione e l'interrogatorio di persone a sua difesa nelle stesse condizioni dell'accusa e l'acquisizione di ogni altro mezzo di prova a suo favore”.
L’ultimo diritto a favore dell’accusato previsto dal terzo comma è il diritto di essere assistito da un interprete qualora, come prevede la disposizione, non comprenda o non parli la lingua impiegata nel processo.
Il quinto comma contempla tre eccezioni al già menzionato principio del contraddittorio: il consenso dell’imputato, che determina la facoltà in capo al giudice di valutare delle prove formatesi unilateralmente; l’accertata impossibilità di natura oggettiva, con cui si intendono i casi di situazioni di forza maggiore in cui non si possa più assumere un determinato elemento di prova mediante il contraddittorio; la provata condotta illecita, cioè comportamenti contra ius che inducano il soggetto a sottrarsi al contraddittorio.
Una volta analizzato il disposto dei nuovi commi introdotti con la Riforma costituzionale in esame, bisogna soffermarsi sul concetto di giusto processo e sulle sue implicazioni ordinamentali: è un’espressione che attiene ad una qualità dei processi in cui ogni soggetto è coinvolto e nel quale sono sintetizzati tutti i diritti inviolabili dell’uomo riconosciuti e garantiti dall’art. 2 Cost. Esso trova cittadinanza in numerose costituzioni nazionali e Carte internazionali, come ad esempio la CEDU che lo prevede, come già accennato, ex art. 6, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea ex art. 47 ed il Patto internazionale sui diritti civili e politici ex art. 14. Da un punto di vista comparatistico, invece, il giusto processo viene per la prima volta previsto nella Costituzione Americana con la cd. due process of law clause, individuabile nel V Emendamento e nel XIV Emendamento. La clausola citata stabilisce che un soggetto non può essere privato della vita, della libertà o della proprietà senza un processo legale equo e giusto. Nonostante ciò, è evidente che nel sistema giudiziario americano suddetta impostazione potrebbe presentare dei punti di debolezza, dovuti a due elementi in particolare: la forte influenza della politica sul sistema giudiziario, che si manifesta chiaramente con le elezioni o la nomina dei prosecutors, e la presenza della giuria, in sede processuale penale, chiamata a giudicare sull’innocenza o sulla colpevolezza di un soggetto, composta da cittadini selezionati casualmente da un pool di potenziali giurati, non dotati di una professionalità tale che consenta loro di giudicare, come avviene in Italia con la magistratura giudicante, in maniera terza ed imparziale.
3. Analisi delle criticità: Innovazione o ripetizione?
Nella prolusione, il Prof. A. A. Dalia si pone insistentemente un interrogativo circa la necessità della riforma costituzionale, dato che i principi a cui si è fatto un breve accenno sono desumibili o, in alcuni casi, esplicitamente previsti dagli artt. 3, 13, 24, 25, 101 Cost.
In primo luogo, il principio di eguaglianza ex art. 3 Cost. prevede che “tutti i cittadini sono eguali davanti alla legge”, di conseguenza, come è sottolineato nella prolusione stessa, in ambito processuale è escluso che si possano operare discriminazioni sulla base di sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali. Ciò determina un necessario intervento dello Stato, secondo il principio dell’eguaglianza sostanziale previsto nel secondo comma dell’art. 3, a favore dei soggetti che non siano titolari di risorse sufficienti per poter accedere alla giurisdizione, andando a configurare istituti che sono richiamati anche nell’art. 111 co. 3 Cost. come il gratuito patrocinio.
L’art. 24, come diretta conseguenza del principio supremo di eguaglianza, ha costituzionalizzato il diritto di difesa anche a favore dei meno abbienti, sancito a livello sovranazionale dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea dal terzo comma dell’art. 47. Inoltre, si può desumere mediante una lettura in combinato dei primi due commi uno dei diritti esplicitamente previsti nell’art. 111 Cost.: il diritto al contraddittorio, che deve svolgersi in condizioni di parità tra le parti in tutte le fasi del procedimento. Infine, l’art. 24 fa riferimento al tema degli errori giudiziari, prevedendo che la legge determina le condizioni e i modi per la riparazione agli stessi. In particolare, la disciplina cui si fa riferimento è contenuta nella Legge Pinto, già richiamata in tema di equa riparazione per la violazione del termine ragionevole della durata di un procedimento. A ciò si ricollega il disposto dell’ultimo comma dell’art. 13: “La legge stabilisce i limiti massimi della carcerazione preventiva”, che implica il principio della ragionevole durata dei procedimenti stesso.
In aggiunta a ciò, bisogna soffermarsi sul primo comma dell’art. 25 Cost.: “Nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge”. Quest’ultimo, come sottolineato dal Prof. Dalia, non fa altro che prevedere due elementi, quali l’imparzialità e la terzietà, che devono caratterizzare il giudice in sede processuale, presenti ab initio nella nostra Costituzione, che sono stati presentati come elementi di novità nel contesto della Riforma costituzionale che ha coinvolto l’art. 111 Cost. Strettamente affine al tema è la disciplina contenuta nell’art. 101 Cost. che, prima della Riforma stessa, ha costituzionalizzato le garanzie di indipendenza, imparzialità, professionalità e soggezione unica alla legge della magistratura.
Secondo una breve analisi, di conseguenza, il contenuto normativo delle nuove disposizioni che sono state introdotte con la Riforma non è autenticamente nuovo, ma svolge una funzione di ricezione e di sintesi rispetto a delle norme desumibili da altri articoli della Costituzione, fatta eccezione per il quarto ed il quinto comma da cui discendono delle norme che hanno una funzione innovativa dell’ordinamento.
Un altro elemento che fa riflettere sulla effettiva necessità della Riforma è, come afferma il Professore, l’operato della Corte costituzionale in ordine alla disciplina ed all’impostazione del processo penale. Quest’ultimo si configurava, nel codice previgente di procedura penale, come un processo caratterizzato da una forte impostazione autoritaria, che la Corte, entrata in funzione nel 1956, ha cercato di ricondurre ai principi del giusto processo desumibili dalle citate disposizioni della Costituzione, già prima della Riforma dell’art. 111 Cost. Ciò significa che ha cercato di far rientrare un processo fortemente inquisitorio nei limiti di un processo accusatorio, nel rispetto delle garanzie costituzionali. Le differenze tra le due impostazioni che è necessario sottolineare in questa sede sono individuabili nel ruolo del giudice e nella formazione delle prove. Le parti, infatti, nel processo inquisitorio sono l’imputato ed il giudice istruttore, che, diversamente dal processo accusatorio, è tenuto a funzioni tipiche della magistratura giudicante, ma anche della magistratura inquirente, oltre ad essere responsabile della ricerca di prove, che, di conseguenza, non si formano nel contraddittorio tra le parti. In ultima analisi, il dibattimento diventava inizialmente una fase processuale nella quale il giudice si autoconvinceva di un giudizio già formatosi precedentemente in funzione delle prove raccolte, paventando la possibilità che le parti avrebbero potuto non avere lo stesso grado di coinvolgimento nella raccolta delle prove stesse o non avere eguale accesso a tutte le informazioni raccolte dall'autorità giudiziaria. Il tentativo di adeguamento del processo penale agli orientamenti costituzionali si è interrotto nel 1989 con l’emanazione, su continue istanze da parte della Corte costituzionale, di un nuovo codice di procedura penale, influenzato anche da altri ordinamenti come quelli nord-americani, che costruisce il processo penale sul modello accusatorio. Ciò ha determinato il venir meno della figura del giudice istruttore ed una diversa impostazione con riguardo alla formazione della prova che non avviene nella fase delle indagini, nella quale il pubblico ministero è tenuto a raccogliere degli elementi, a suo avviso rilevanti, per muovere un’accusa nei confronti dell’imputato, bensì nella fase del dibattimento davanti ad un giudice terzo ed imparziale, secondo il principio del contraddittorio tra le parti.
Ritornando al contesto in cui è stata approvata la Riforma del giusto processo, si può facilmente notare che il nuovo codice di procedura penale era stato approvato da poco più di un decennio, per questo è necessario porsi nuovamente l’interrogativo portato avanti dal Professore Dalia: era davvero necessaria tale riforma? Per dare una risposta al quesito è fondamentale riflettere sull’iter di approvazione della Riforma costituzionale ed anche sul tema del rapporto tra i poteri. In relazione al primo elemento, si riscontra che l’approvazione della legge costituzionale in esame è caratterizzata da un iter particolarmente celere, dovuto ad una concentrazione fuori dal comune dei lavori parlamentari in prima lettura, avvenuta in Senato il 24 febbraio 1999, mentre alla Camera il 10 novembre 1999. Ciò è giustificato da un’approvazione trasversale della compagine politica di positivizzare i principi del giusto processo a livello costituzionale, già rilevabili nella prassi ed implicitamente intesi nella Carta costituzionale. È però da sottolineare la presenza di una duplice preoccupazione in ordine alla compatibilità della legislazione ordinaria rispetto ai nuovi commi dell’art. 111 Cost. ed alla previsione di una eventuale disciplina transitoria. La compatibilità della legislazione ordinaria, verificata attraverso un ricorso alla Corte costituzionale, ha creato molti dibattiti, dato che la l. cost. 2/1999 non riporta alcun riferimento circa la sua efficacia retroattiva, per cui si sostiene, secondo la regola generale seguita dagli atti normativi, che produca un’efficacia irretroattiva. Ciò fa sì che non risentano degli effetti della Riforma i procedimenti avviati precedentemente oppure che si siano già esauriti al momento dell’entrata in vigore della stessa, cioè il 7 gennaio 2000. Un fattore di problematicità è racchiuso nel fatto che non tutte le norme contenute esplicitamente nei nuovi commi dell’art. 111 Cost. siano innovative dell’ordinamento, dato che, come si è rilevato più volte nel corso del contributo, molto spesso il contenuto delle norme in esame era già previsto dalla Costituzione, andando a smentire la limitazione dell’efficacia temporale della Riforma. Nonostante ciò, è utile ricordare che la funzione ricognitiva della Riforma è limitata ai primi tre commi, tenuto conto dell’innovatività dei due commi seguenti, determinando nuovi limiti della possibilità di ricorso alla Corte costituzionale per contrasto con i nuovi commi dell’art. 111 Cost. Comunque, è mancata una disciplina organica attinente ad una regolamentazione transitoria per i processi pendenti, poiché la stessa legge costituzionale mediante espresso rinvio attribuiva tale compito alla legge ordinaria, ma non è mai stata attuata, nonostante in sede di approvazione della Riforma il Parlamento si fosse fatto carico di tale onere, che è stato miseramente dimenticato.
Circa il secondo elemento, cui prima si faceva riferimento, il fulcro della riflessione si fonda sui lavori della Corte costituzionale immediatamente precedenti all’intervento della Riforma. In particolare è, a mio avviso, necessario evidenziare la sentenza costituzionale 26 ottobre 1998, n. 361, che conferma l’indirizzo giurisprudenziale seguito dalla Corte sin dall’inizio degli anni Novanta di profonda riforma del processo accusatorio, ampliando progressivamente la possibilità di utilizzare i cosiddetti “elementi di prova” raccolti nelle fasi predibattimentali in nome di un principio “di non dispersione della prova”, che sarebbe funzionale a quella “ricerca della verità” che è “fine primario e ineludibile del processo penale”. Infatti, dopo essere stata depositata, in data 2 novembre 1998, si è verificato un fermento politico che ha portato alla presentazione di svariati disegni di legge orientati alla smentita degli indirizzi espressi dalla Corte costituzionale con questa storica sentenza, culminatosi con l’approvazione della l. cost. 2/1999. In concomitanza di ciò si è registrato un mancato intervento attivo della maggior parte degli studiosi del diritto che si sarebbe aspettato qualora fossero contrari o sostenessero dei dubbi rispetto alla Riforma stessa. Tale astensione si potrebbe spiegare con l’ipotesi di un consenso massiccio o purtroppo di una scelta orientata ad evitare un isolamento dei singoli giuristi, non facendosi coinvolgere dalle scelte politiche. Tuttavia, sarebbe stato utile un intervento dei soggetti in esame, tenuto conto dello scontro tra Camere parlamentari e Corte costituzionale in una cornice di malcelato esprit de revanche delle prime sulla seconda. La maggior parte dei giuristi, inoltre, non ha avanzato neanche i propri dubbi sulle conseguenze di una così costruita Riforma costituzionale, che ha portato ad una non chiara formulazione dell’art. 111 Cost. In primo luogo, è evidente che siano state previste nei primi commi dell’articolo in esame solo alcune delle disposizioni presenti alle Carte internazionali cui la Riforma si ispira e vi sia una disposizione che non è prevista da alcuna di esse, quella cioè che sancisce il diritto dell’accusato alla “acquisizione di ogni altro mezzo di prova a suo favore”, andando ad alimentare degli interrogativi in relazione ai criteri di selezione e di formulazione dei nuovi commi dell’art. 111 Cost. In secondo luogo, la riflessione si sposta verso lo studio dei termini utilizzati, accennato nel paragrafo precedente, che hanno portato non poca confusione nell’applicazione delle norme desumibili dai commi stessi. Infatti, alcune espressioni contenute negli stessi lasciano spazio ad ambiguità attinenti alla loro portata semantica. Basti pensare al concetto di “persona accusata”, che può mutare il proprio significato in funzione dell’ambito in cui viene adoperata: imputato, con cui si intende la persona contro cui vengono mosse le accuse nel processo, inteso in senso stresso; persona soggetta alle indagini, cioè una persona che non sia stata formalmente incriminata.
L’ultimo elemento su cui mi vorrei soffermare fa riferimento al soggetto delle ultime disposizioni introdotte nell’art. 111 Cost.: l’accusato. Dall’impostazione segnata dalla Riforma sembra che vi sia un’impostazione che determina una forte attenzione alle garanzie dell’imputato che rischia di portare ad uno squilibrio. Ciò porta a sostenere che il giusto processo può essere inteso come la previsione di garanzie dal punto di vista dell’imputato, come è evidente soprattutto nel quarto comma, nel quale l’ottica del giusto processo è calibrata sulle garanzie stesse e non sull’accertamento della colpevolezza.
4. Conclusioni
Il processo penale, come ha affermato nella prolusione il Prof. Dalia, è da considerarsi un gioco in cui il giudice, tenuto conto delle sue regole, elabora un giudizio, da non intendere, di conseguenza, come una lotta, che spetta eminentemente alla polizia, che ha strumenti idonei a combattere, ad esempio, la criminalità organizzata. L’analisi effettuata precedentemente ha cercato di rispondere al quesito del Professore in relazione alla funzionalità ed all’efficacia delle regole del gioco stesso che gli attori sono tenuti a rispettare per un giusto processo.
È stata mossa una critica nei confronti del legislatore, in primo luogo, circa la possibilità di effettuare delle eventuali modifiche mirate al nostro sistema costituzionale, evitando una riforma molto più incidente, come conseguenza di un innesto nel nostro ordinamento delle disposizioni derivanti da Convenzioni sovranazionali, foriero di numerosi dubbi interpretativi, nonché applicativi. In secondo luogo, strettamente all’applicazione delle regole di nuova introduzione, si è registrata un’ulteriore problematicità in funzione della disciplina transitoria, che non è mai stata approvata dal Parlamento, determinando uno stato di dubbio sui processi pendenti. In conclusione, la riflessione si è soffermata sul rapporto tra poteri, in particolare sul rapporto tra Giudice delle leggi e Parlamento, che ha rilevato come la Riforma, che si contestualizza in seguito alla sentenza costituzionale 26 ottobre 1998, n. 361, sia frutto della proposta di numerosi disegni di legge, determinati probabilmente da orientamenti giurisprudenziali non condivisi dal potere politico.
In conclusione, la Riforma costituzionale che è stata approvata in un’atmosfera di grande entusiasmo, purtroppo, come ho cercato di far rilevare da questo contributo, costruito sulla base dei dubbi fondati del Prof. Dalia risalenti ad un periodo appena precedente all’entrata in vigore della Riforma costituzionale, a causa di numerose ambiguità e contraddizioni non è riuscita a riformare, come si sperava, il sistema processuale penale. Ciò è confermato dal mancato rispetto di uno dei parametri fondamentali e simbolici della Riforma: la ragionevole durata dei processi. Infatti, ancora oggi, nonostante il forte intervento mirato sulla legislazione ordinaria, come nel caso della Legge Pinto, oltre che su quella costituzionale, le condanne della Corte europea dei diritti dell’uomo contro l’Italia per la violazione della ragionevole durata dei processi sono molto numerose, come è confermato dalle relazioni sull’attività svolta dalla Corte stessa.