Pubbl. Mar, 12 Mar 2024
La Corte costituzionale sul provvedimento di archiviazione per prescrizione del reato che presenti l´indagato come colpevole
Modifica paginaEditoriale a cura di Ilaria Taccola
Secondo la Corte costituzionale un provvedimento di archiviazione per prescrizione del reato, che esprima apprezzamenti sulla colpevolezza della persona indagata, viola “in maniera eclatante” il suo diritto costituzionale di difesa e il suo diritto al contraddittorio, oltre che il principio della presunzione di non colpevolezza. (C. Cost., 11 marzo 2024, (ud. 10 gennaio 2024), n. 41, Pres. Barbera; Red. Viganò)
Segnaliamo la sentenza della Corte Costituzionale, depositata l'11 marzo 2024, n. 41, con la quale la Corte ha dichiarato l’infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 411, comma 1-bis, del codice di procedura penale,
«nella parte in cui non prevede che, anche in caso di richiesta di archiviazione per estinzione del reato per intervenuta prescrizione, il pubblico ministero debba darne avviso alla persona sottoposta alle indagini e alla persona offesa, estendendo a tale ipotesi la medesima disciplina prevista per il caso di archiviazione disposta per particolare tenuità del fatto, anche sotto il profilo della nullità del decreto di archiviazione emesso in mancanza del predetto avviso e della sua reclamabilità dinanzi al Tribunale in composizione monocratica».
Secondo la Corte costituzionale un provvedimento di archiviazione per prescrizione del reato, che esprima apprezzamenti sulla colpevolezza della persona indagata, viola “in maniera eclatante” il suo diritto costituzionale di difesa e il suo diritto al contraddittorio, oltre che il principio della presunzione di non colpevolezza.
Così la Corte costituzionale nella sentenza n. 41, depositata l'11 marzo 2024, nella quale è stata dichiarata non fondata, alle condizioni chiarite nella pronuncia, una questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Lecce.
Ecco il comunicato della Corte costituzionale:
"Nel caso all’esame del Tribunale, una persona già sottoposta a indagini era casualmente venuta a conoscenza di un provvedimento di archiviazione per prescrizione già pronunciato nei suoi confronti, in cui si affermava, tra l’altro, che le accuse rivolte contro di lei erano suffragate da molteplici elementi di riscontro, puntualmente elencati.
La persona interessata aveva, quindi, proposto reclamo contro il provvedimento, manifestando al tempo stesso la propria volontà di rinunciare alla prescrizione.
Il Tribunale di Lecce aveva allora chiesto alla Corte di introdurre un generalizzato obbligo, a carico del pubblico ministero, di avvisare preventivamente la persona sottoposta alle indagini dell’eventuale richiesta di archiviazione per prescrizione del reato nei suoi confronti, in modo da consentirle di rinunciare alla prescrizione e ottenere una pronuncia che riconosca la sua innocenza. La Corte costituzionale ha ritenuto infondata la questione.
È vero che la Corte ha, in passato, riconosciuto il diritto dell’imputato a rinunciare alla prescrizione, in seguito all’esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero. Ma tale diritto non necessariamente deve riconoscersi anche a chi sia soltanto sottoposto a indagini preliminari, senza che l’ipotesi di reato a suo carico sia mai stata fatta propria dal pubblico ministero.
La Corte ha però ricordato che già durante le indagini preliminari l’interessato dispone dei mezzi ordinari a difesa della propria reputazione – a cominciare dalla denuncia per calunnia e/o diffamazione sino all’azione di risarcimento del danno – “contro qualsiasi privato che lo abbia ingiustamente accusato di avere commesso un reato, nonché contro ogni indebita utilizzazione, da parte dei media, degli elementi di indagine e dello stesso provvedimento di archiviazione, così da presentare di fatto la persona come colpevole (…).
Inoltre, un elementare principio di civiltà giuridica impone che tutti gli elementi raccolti dal pubblico ministero in un’indagine sfociata in un provvedimento di archiviazione debbano sempre essere oggetto di attenta rivalutazione nell’ambito di eventuali diversi procedimenti (civili, penali, amministrativi, disciplinari, contabili, di prevenzione) in cui dovessero essere in seguito utilizzati”, così da assicurare all’interessato in quelle sedi “le più ampie possibilità di contraddittorio (…), anche mediante la presentazione di prove contrarie”.
Inoltre, il caso specifico all’esame del Tribunale di Lecce – ha proseguito la Corte – è “emblematico di una specifica patologia”, rappresentata da un provvedimento di archiviazione per prescrizione che presenta la persona sottoposta alle indagini come colpevole, senza averle dato alcuna possibilità di difendersi dalle accuse. In proposito, la Corte ha sottolineato che tanto l’iscrizione nel registro degli indagati, quanto il provvedimento di archiviazione che chiude le indagini, sono provvedimenti concepiti dal legislatore come “neutri”, dai quali è erroneo far discendere conseguenze negative per la reputazione dell’interessato.
Se però il provvedimento di archiviazione esprima giudizi sulla colpevolezza dell’imputato, esso risulterà del tutto indebito, “a fronte della considerazione che, una volta riscontrato l’avvenuto decorso del termine di prescrizione, gli stessi poteri di indagine e di valutazione del pubblico ministero sui fatti oggetto della notitia criminis vengono meno”. Ancora, provvedimenti simili “sono in concreto suscettibili di produrre – ove per qualsiasi ragione arrivino a conoscenza dei terzi, come spesso accade – gravi pregiudizi alla reputazione, nonché alla vita privata, familiare, sociale e professionale, delle persone interessate.
Ciò che, in ipotesi, potrebbe dare altresì luogo a responsabilità civile e disciplinare dello stesso magistrato” che ha richiesto o emesso il provvedimento, in quanto ne ricorrano i presupposti di legge.
Il complessivo bilanciamento degli interessi in gioco esige, in conclusione, che sia sempre assicurata all’interessato la possibilità di un ricorso effettivo contro questi provvedimenti, che indebitamente inseriscono in un’archiviazione il contenuto tipico di una sentenza di condanna, senza che l’indagato – in ipotesi rimasto all’oscuro dell’indagine – abbia avuto alcuna concreta possibilità di esercitare il proprio diritto al contraddittorio rispetto agli elementi raccolti a suo carico dal pubblico ministero."