Pubbl. Gio, 18 Apr 2024
Le Sezioni Unite sul diritto all´assegno in caso di scioglimento dell´unione civile
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Nicola Balsamo
Con la sentenza n. 35969 del 27 dicembre 2023, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno affermato il seguente principio di diritto: « In caso di scioglimento dell´unione civile, la durata del rapporto, prevista dall´art. 5, sesto comma, della legge n. 898 del 1970, richiamato dall´art. 1, comma venticinquesimo, della legge n. 76 del 2016, quale criterio di valutazione dei presupposti necessari per il riconoscimento del diritto all´assegno in favore della parte che non disponga di mezzi adeguati e non sia in grado di procurarseli, si estende anche al periodo di convivenza di fatto che abbia preceduto la formalizzazione dell´unione, ancorché lo stesso si sia svolto in tutto o in parte in epoca anteriore all´entrata in vigore della legge n. 76 cit.».
Sommario: 1. Il fatto; 2. La pronuncia delle SS.UU.; 3. Conclusioni.
1. Il fatto
Con la sentenza in epigrafe, la Corte di legittimità si è pronunciata su di una questione «di particolare importanza» ed avente ad oggetto la possibilità di valutare, ai fini del riconoscimento dell'assegno di cui all'art. 5, sesto comma, della legge 1° dicembre 1970, n. 898, nel caso di unione civile costituita ai sensi dell'art. 1 della legge n. 76 del 2016 e della quale sia stato pronunciato lo scioglimento, i fatti intercorsi tra le parti anteriormente all'instaurazione dell'unione civile.
La vicenda trae origine dalla richiesta della parte attrice di scioglimento dell’unione civile costituita nel dicembre del 2016 con la controparte e con l’esclusione dell'obbligo di corrispondere un assegno alla convenuta, ritenuta economicamente autosufficiente. La convenuta, regolarmente costituitasi, non si oppose allo scioglimento della sopra citata unione, chiedendo in via riconvenzionale il riconoscimento dell'assegno, in considerazione dello squilibrio patrimoniale e reddituale esistente con l'attrice e dell'oggettivo peggioramento delle sue condizioni economiche.
All’esito, il Presidente del Tribunale di Pordenone ha riconosciuto alla convenuta un assegno provvisorio di Euro 350,00 mensili, pure confermato dalla Corte d’Appello di Trieste con ordinanza del 17 luglio 2019, a seguito del reclamo proposto dall’attrice. In seguito, dopo aver pronunciato lo scioglimento dell'unione con sentenza non definitiva, il Tribunale ha attribuito alla convenuta un assegno di Euro 550,00 mensili, richiamando l'orientamento della giurisprudenza di legittimità in tema di assegno divorzile ed attribuendo rilievo assorbente alla funzione compensativa-risarcitoria, consistente nell'indennizzare l'avente diritto per la perdita di chances determinata dalla rinuncia a migliori opportunità di lavoro, in funzione dell'unità e dello svolgimento della vita familiare.
La cennata sentenza è stata impugnata innanzi alla Corte d'Appello di Trieste, la quale ha rigettato la domanda di riconoscimento dell'assegno divorzile e la domanda di restituzione delle somme corrisposte nel corso del giudizio.
La Corte ha reputato irrilevante il pregiudizio economico subito dalla ex partner. In particolare, ha ritenuto di non dover considerare la scelta dalla parte appellata di privilegiare il legame affettivo con la ex compagna, così come il conseguente trasferimento della sua residenza, in seguito alla scelta di convivere con la parte attrice, nonché le dimissioni rassegnate dal lavoro svolto precedentemente, trattandosi di eventi verificatisi in epoca anteriore all'entrata in vigore della L. 20 maggio 2016, n. 76, non avente efficacia retroattiva.
Avverso la predetta sentenza è stato proposto ricorso per Cassazione. Così, dato il particolare interesse e i dubbi sul tema, la Prima Sezione civile, investita della decisione della controversia, ha disposto la trasmissione degli atti alla Prima Presidente, che ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite, «ai fini della risoluzione di una questione di massima di particolare importanza, avente ad oggetto la possibilità di valutare, ai fini del riconoscimento dell'assegno di cui all'art. 5, sesto comma, della legge 1° dicembre 1970, n. 898, nel caso di unione civile costituita ai sensi dell'art. 1 della legge n. 76 del 2016 e della quale sia stato pronunciato lo scioglimento, i fatti intercorsi tra le parti anteriormente all'instaurazione dell'unione civile».
2. La pronuncia delle SS.UU.
Anzitutto, occorre inquadrare il quadro normativo di riferimento, costituito dalla Legge numero 76 del 2016, la quale all’art. 1, comma 25, disciplina le unioni civili e statuisce l’applicazione, in quanto compatibili, degli «articoli 5, primo, quinto, sesto, settimo, ottavo, decimo e undicesimo comma, 9 secondo comma, 9-bis, 10 secondo comma, 12-bis, 12-ter, 12-quater e 12-quinquies della legge 1° dicembre 1970, n. 898, nonché le disposizioni di cui al Titolo IV-bis del libro secondo del codice di procedura civile ed agli articoli 6 e 12 del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 132, convertito, con modificazioni, dalla legge 10 novembre 2014, n. 162».
Si rende necessario un breve excursus, relativo alla genesi della cennata legge.
Prima dell'entrata in vigore del corpus, la Corte Costituzionale aveva già sottolineato il vuoto normativo in materia di unioni tra persone dello stesso sesso. In tal senso, la Corte si era espressa con la celebre sentenza n. 138/2010.[1]
Il riconoscimento delle unioni omoaffettive e la loro riconduzione al matrimonio era già allora una questione al centro di un acceso dibattito. Con la citata sentenza, la Corte Costituzionale enunciò il diritto delle coppie omosessuali ad ottenere una condizione di coppia riconosciuta giuridicamente, allo stesso modo del matrimonio per le coppie eterosessuali. Dunque, la Corte ha riconosciuto l’unione omosessuale come stabile convivenza tra persone dello stesso sesso, a cui devono essere riconosciuti una serie di diritti e doveri, pur spettando al legislatore il dovere di scegliere, nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge, le forme di tutela più idonee.
E ancora.
La pronuncia fondamentale non proviene dalla giurisprudenza italiana, ma da una pronuncia della Corte EDU.
Il corpus normativo dedicato alle unioni civili, infatti, nasce in forza della situazione creata dalla sentenza Oliari c. Italia della Corte EDU, pronunciata nel 2015, ove si accertò l’inammissibilità del vuoto normativo in materia di unioni tra persone del medesimo sesso, che violava l’articolo 8 della CEDU[2].
Effettuata tale breve quanto necessaria digressione, ci si può ora soffermare sull'analisi della legge sulle unioni civili, in particolare, con riferimento all'articolo 5 della Legge n. 898/1970.
Il predetto articolo prevede, al sesto comma, che, in tema di divorzio, il tribunale «tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, dispone l'obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell'altro un assegno quando quest'ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive». Ebbene, ad avviso del Procuratore generale, l’espresso riferimento dell’articolo alla «durata del matrimonio» non può considerarsi idoneo a giustificare l'estensione della valutazione finalizzata al riconoscimento dell'assegno al periodo di convivenza anteriore alla costituzione dell'unione civile, non trattandosi di un presupposto previsto per l'attribuzione dell'assegno divorzile, ma di un criterio incidente esclusivamente sulla sua quantificazione, e rilevante, in particolare, sotto il profilo perequativo-compensativo.
La ricostruzione sopra fornita, pure formalmente corretta, non è stata condivisa dalla Corte di legittimità.
La pronuncia della Corte di Cassazione si inserisce nel solco già tracciato dalla sentenza dell'11 luglio 2018, n. 18287, che ha definitivamente superato le precedenti teorizzazioni. Nella predetta sentenza, le Sezioni Unite hanno ritenuto opportuno superare la rigida distinzione tra criteri attributivi e determinativi dell'assegno di divorzio, in favore di un'interpretazione dell'art. 5 più coerente con i principi costituzionali di uguaglianza, pari dignità dei coniugi, libertà di scelta, reversibilità della decisione ed autoresponsabilità. Il giudice, nell’applicare la norma, effettua una valutazione fondata innanzitutto sulle condizioni economico-patrimoniali delle parti, da collegare causalmente con gli altri indicatori previsti dalla prima parte dell'art. 5, al fine di accertare se l'eventuale squilibrio esistente all'atto dello scioglimento del vincolo dipenda dalle scelte di conduzione della vita familiare adottate e condivise dai coniugi, con il sacrificio delle aspettative professionali e reddituali di una delle parti, in funzione dell'assunzione di un ruolo trainante endofamiliare.[3
Nell’ambito dell’analisi sull’applicazione di tale norma, è emerso il ruolo di fondamentale importanza rivestito dalla durata del rapporto «quale fattore di valutazione del contributo fornito da ciascun coniuge alla formazione del patrimonio comune e di quello dell'altro coniuge, oltre che delle effettive potenzialità professionali e reddituali sussistenti al momento della cessazione del vincolo» (cfr. nel medesimo senso, Cass., Sez. I, 23/01/2019, n. 1882). Ad avviso della Corte di legittimità «tale fattore è destinato dunque ad operare non soltanto in senso limitativo, escludendo il diritto all'assegno o consentendone la riduzione al di sotto del livello correlato alla valutazione comparativa tra i redditi e le sostanze dei coniugi, ma anche in senso ampliativo, giustificandone il riconoscimento anche a fronte dell'autosufficienza economica dell'istante, ove lo squilibrio economico-patrimoniale rilevabile all'epoca della cessazione del rapporto appaia causalmente riconducibile alle scelte compiute in funzione della costituzione del nucleo familiare e della soddisfazione delle esigenze comuni e di quelle dell'altro coniuge». Si sottolinea, in altri termini, non tanto il lato assistenziale dell’assegno divorzile, quanto il lato perequativo-compensativo. Così facendo, la Corte vuole valorizzare le concrete modalità di svolgimento della vita familiare, ridimensionando la rilevanza attribuita alla durata legale del matrimonio «quale criterio di selezione delle vicende da prendere in considerazione ai fini del riconoscimento e della quantificazione dell'assegno». In tal modo, la Corte garantisce una più ampia valutazione dei rapporti concreti intercorsi tra i coniugi, tenendo conto delle scelte da questi ultimi compiute nel corso del rapporto, in funzione della realizzazione di una comunione materiale e spirituale che esiste e produce effetti anche anteriormente rispetto al matrimonio e che sono destinate ad avere una serie di effetti in epoca successiva sulla situazione economico-patrimoniale di ciascuno dei coniugi.
L’interpretazione fornita dalla Corte sembra inserirsi perfettamente nel moderno tessuto sociale, caratterizzato per la sempre più ampia diffusione delle convivenze di fatto, che conducono spesso al vincolo matrimoniale. Ebbene, l’allungarsi della convivenza tra futuri coniugi può portare all’anticipazione di quelle che sono scelte prima compiute in costanza di matrimonio, perfino il formarsi di un’unione familiare comprendente i figli, rinunce e sacrifici lavorativi, accrescimenti di patrimonio diversi e, in definitiva, benefici diversi di cui non può non tenersi conto in caso di successivo scioglimento del vincolo matrimoniale (o di scioglimento dell’unione civile, come nella presente fattispecie).
Invero, la sentenza oggetto della presente disamina si inserisce in un moderno filone giurisprudenziale che fa emergere l’importanza della convivenza di fatto, quale modello familiare collegato al matrimonio e non solo ad esso alternativo. Infatti, in tempi recenti, le stesse Sezioni Unite hanno evidenziato il bisogno di una normativa maggiormente aderente agli odierni interessi dei coniugi e ad una più moderna regolamentazione degli effetti patrimoniali dovuti alla crisi del matrimonio (si veda Cass., SS.UU., 5 novembre 2021, n. 32019).
In definitiva, può dirsi superato quell’orientamento che attribuiva rilevanza in modo esclusivo alla durata del matrimonio ed agli eventi avvenuti in sua costanza, a favore di un maggior rilievo a tutte le concrete vicende che hanno segnato la vita dei coniugi, anche prima del vincolo coniugale.
Le medesime conclusioni valgono qualora la controversia abbia ad oggetto lo scioglimento di un'unione civile costituita da persone del medesimo sesso, essendo i medesimi i principi alla base dell’unione, anche se la convivenza della coppia è anteriore alla L. n. 76/2016. Anzi, escludere il periodo di convivenza solo perché precedente all'entrata in vigore della legge n. 76 del 2016 comporterebbe la frustrazione delle finalità perseguite dalla medesima legge, impedendo di tenere conto delle scelte (spesso determinanti soprattutto per il futuro) compiute dalle parti nella fase iniziale del rapporto, in cui la convivenza ha dovuto necessariamente svolgersi in via di mero fatto per causa non imputabile alle parti, essendo all'epoca preclusa alle coppie omosessuali la possibilità di contrarre un vincolo formale. Ebbene, ai fini della risoluzione della controversia, non v’è chi non veda come sia necessario tener conto sia dei principi costituzionali sia della genesi della legge sulle unioni civili, indissolubilmente collegata alla sentenza della Corte EDU 21 luglio 2015, Oliari e altri c. Italia, con cui fu, come sopra esposto, accertata la violazione dell'art. 8 della CEDU[4], per quanto attiene alla vita privata e familiare, non avendo lo Stato italiano mai emanato una normativa diretta ad attribuire un vero e proprio riconoscimento giuridico alle coppie omosessuali attraverso la previsione di forme di unione civile o di unione registrata. In sostanza, negare la rilevanza del rapporto pregresso in virtù dell’entrata in vigore della legge sulle unioni civili nel solo 2016 costituirebbe una violazione dell'art. 8 della CEDU ed una ingiustificata discriminazione a danno delle coppie omosessuali, il cui proposito di contrarre un vincolo formale non ha potuto concretizzarsi solo ed unicamente per un vuoto normativo causato dall’inerzia del legislatore.
3. Conclusioni
In conclusione, le Sezioni Unite, sulla scorta di quanto sopra esposto, hanno affermato il seguente principio di diritto: «In caso di scioglimento dell'unione civile, la durata del rapporto, prevista dall'art. 5, sesto comma, della legge n. 898 del 1970, richiamato dall'art. 1, comma venticinquesimo, della legge n. 76 del 2016, quale criterio di valutazione dei presupposti necessari per il riconoscimento del diritto all'assegno in favore della parte che non disponga di mezzi adeguati e non sia in grado di procurarseli, si estende anche al periodo di convivenza di fatto che abbia preceduto la formalizzazione dell'unione, ancorché lo stesso si sia svolto in tutto o in parte in epoca anteriore all'entrata in vigore della legge n. 76 cit.». Tale principio ben si inserisce nel moderno contesto sociale e mette in luce la spinta propulsiva che deriva dalla giurisprudenza, che spesso anticipa il legislatore nella tutela di soggetti ingiustamente discriminati, la cui vita è stata a lungo segnata da un “limbo” legislativo contrario ai valori e ai diritti garantiti dalla CEDU.
[1] La Corte, nel dichiarare l’inammissibilità della questione, ha affermato che «gli articoli 12 della CEDU e 9 della Carta di Nizza prevedono specificamente il diritto di sposarsi e di costituire una famiglia. Per il principio di specialità, dunque, sono queste ultime le norme cui occorre fare riferimento nel caso in esame. Orbene, l’art. 12 dispone che «Uomini e donne in età maritale hanno diritto di sposarsi e di formare una famiglia secondo le leggi nazionali regolanti l’esercizio di tale diritto». A sua volta l’art. 9 stabilisce che «Il diritto di sposarsi e il diritto di costituire una famiglia sono garantiti secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio». In ordine a quest’ultima disposizione va premesso che la Carta di Nizza è stata recepita dal Trattato di Lisbona, modificativo del Trattato sull’Unione europea e del Trattato che istituisce la Comunità europea, entrato in vigore il 1° dicembre 2009. Infatti, il nuovo testo dell’art. 6, comma 1, del Trattato sull’Unione europea, introdotto dal Trattato di Lisbona, prevede che «1. L’Unione riconosce i diritti, le libertà e i princìpi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 7 dicembre 2000, adattata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo, che ha lo stesso valore giuridico dei trattati». Non occorre, ai fini del presente giudizio, affrontare i problemi che l’entrata in vigore del Trattato pone nell’ambito dell’ordinamento dell’Unione e degli ordinamenti nazionali, specialmente con riguardo all’art. 51 della Carta, che ne disciplina l’ambito di applicazione. Ai fini della presente pronuncia si deve rilevare che l’art. 9 della Carta (come, del resto, l’art. 12 della CEDU), nell’affermare il diritto di sposarsi rinvia alle leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio. Si deve aggiungere che le spiegazioni relative alla Carta dei diritti fondamentali, elaborate sotto l’autorità del praesidium della Convenzione che l’aveva redatta (e che, pur non avendo status di legge, rappresentano un indubbio strumento di interpretazione), con riferimento al detto art. 9 chiariscono (tra l’altro) che «L’articolo non vieta né impone la concessione dello status matrimoniale a unioni tra persone dello stesso sesso». Pertanto, a parte il riferimento esplicito agli uomini ed alle donne, è comunque decisivo il rilievo che anche la citata normativa non impone la piena equiparazione alle unioni omosessuali delle regole previste per le unioni matrimoniali tra uomo e donna. Ancora una volta, con il rinvio alle leggi nazionali, si ha la conferma che la materia è affidata alla discrezionalità del Parlamento».
[2] La Corte affermò che «in assenza di un prevalente interesse comunitario presentato dal Governo italiano, contro il quale bilanciare gli interessi epocali delle ricorrenti, come indicato sopra, e alla luce delle conclusioni dei giudici nazionali in materia che è rimasta lettera morta, il Tribunale constata che il Governo italiano ha oltrepassato il loro margine di apprezzamento e fallito il loro obbligo positivo di garantire che i candidati abbiano a disposizione un quadro giuridico che preveda il riconoscimento e la protezione delle loro unioni omosessuali».
[3] È chiaro il ragionamento compiuto dalla Corte nella cennata sentenza, essa, dopo aver passato in rassegna i precedenti orientamenti in merito, si esprime in tal senso sull’abbandono del rigido principio di divisione tra criteri attributivi e determinativi: «Al fine d'indicare un percorso interpretativo che tenga conto sia dell'esigenza riequilibratrice posta a base dell'orientamento proposto dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 11490 del 1990 sia della necessità di attualizzare il diritto al riconoscimento dell'assegno di divorzio anche in relazione agli standards europei, questa Corte ritiene di dover abbandonare la rigida distinzione tra criteri attributivi e determinativi dell'assegno di divorzio, alla luce di una interpretazione dell'art. 5, c.6, più coerente con il quadro costituzionale di riferimento costituito, come già evidenziato, dagli artt. 2, 3 e 29 Cost». Così, chiarita la motivazione alla base del nuovo orientamento, le Sezioni Unite si soffermano sull'analisi dell'art. 5, affermando che: «L'art. 5 c. 6 attribuisce all'assegno di divorzio una funzione assistenziale, riconoscendo all'ex coniuge il diritto all'assegno di divorzio quando non abbia mezzi "adeguati" e non possa procurarseli per ragioni obiettive. Il parametro dell'adeguatezza ha, tuttavia, carattere intrinsecamente relativo ed impone una valutazione comparativa che entrambi gli orientamenti illustrati traggono al di fuori degli indicatori contenuti nell'incipit della norma, così relegando ad una funzione residuale proprio le caratteristiche dell'assegno di divorzio fondate sui principi di libertà, autoresponsabilità e pari dignità desumibili dai parametri costituzionali sopra illustrati e dalla declinazione di essi effettuata dall'art. 143 cod. civ. L'intrinseca relatività del criterio dell'adeguatezza dei mezzi e l'esigenza di pervenire ad un giudizio comparativo desumibile proprio dalla scelta legislativa, non casuale, di questo peculiare parametro inducono ad un'esegesi dell'art. 5, c.6, diversa da quella degli orientamenti passati. Il fondamento costituzionale dei criteri indicati nell'incipit della norma conduce ad una valutazione concreta ed effettiva dell'ad
[4] L’articolo 8, rubricato “Diritto al rispetto della vita privata e familiare”, prevede che «1. Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza. 2. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui».