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Pubbl. Mar, 5 Mar 2024

L´autoproduzione portuale: radici e prospettive alla luce degli ultimi orientamenti della giurisprudenza amministrativa

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Roberto Colucciello
Laurea in GiurisprudenzaUniversità degli Studi di Foggia



La problematica del lavoro portuale ha da sempre avuto un doppio risvolto: imprenditoriale da un lato, inteso nel senso della concorrenza secondo i principi comunitari, e sociale dall’altro, laddove le maestranze portuali spesso sono poco inclini a cedere quote di lavoro a soggetti terzi, comunque non rientranti nelle organizzazioni poc’anzi menzionate. Gli orientamenti giurisprudenziali, nel corso degli anni e fino ai giorni nostri, non hanno di certo contribuito a rendere il tema dell’autoproduzione portuale del tutto pacifico, tanto che i giudici amministrativi hanno interpretato le norme esistenti, principalmente l’art. 16 della Legge 84/94, in modo diverso, rendendo il quadro poco chiaro.


ENG

Port self-production: roots and prospects in the light of the latest directions of adminmistrative jurisprudence

The problem of port work has always had a double aspect: entrepreneurial on the one hand, understood in the sense of competition according to community principles, and social on the other, where port workers are often reluctant to cede work quotas to third parties, however not included in the organizations mentioned above. The jurisprudential orientations, over the years and up to the present day, have certainly not contributed to making the issue of port self-handling completely peaceful, so much so that the administrative judges have interpreted the existing rules, mainly art. 16 of Law 84/94, in a different way, making the picture unclear.

Sommario: 1. Introduzione - 2. Le operazioni portuali – 3. Quadro normativo in materia di autoproduzione dei servizi portuali – 4. Orientamenti giurisprudenziali – 5. Conclusioni

1. Introduzione

La necessità di addivenire ad un contributo del genere ha l’ambizione, umile direi, di arricchire con qualche elemento di riflessione e proposta il dibattito, sempre in atto, circa gli sviluppi dell’ordinamento portuale italiano, nonostante le ultime novelle normative intervenute in materia.

Ogni proposta di modifica di un sistema in atto non dovrebbe perseguire solamente l’obiettivo di superare le disfunzioni eventualmente constatate, ma anche quello di facilitare l’evoluzione del sistema stesso verso un assetto più razionale e maggiormente congruente con gli obiettivi assegnati.

Sul sistema portuale italiano vi è il diffuso convincimento che le riforme apportate fino a questo momento non si siano tradotte in un progetto di vasto respiro, in cui tutti gli elementi sono ispirati ad una visione unitaria, ma si sono concretate sovente in piccoli interventi di manutenzione, che solo marginalmente toccano il quadro generale.

D’altra parte, anche a livello eurounitario si riscontrano incertezze e difficoltà di elaborare proposte di riforma soddisfacenti, sicché neppure il riferimento alla situazione europea potrebbe rappresentare al momento una soluzione.

La difficoltà che incontra l’elaborazione di un organico disegno di riforma è certamente dovuta alla resistenza al mutamento che incontra ogni istanza riformatrice, ma nel caso dei porti operano anche due fattori interrelati fra loro, che possono essere sintetizzati di seguito.

In primis, per usare un’espressione che mi sembra appropriata, nei porti coesistono un’anima pubblica e un’anima commerciale[1], essendo sedi di attività imprenditoriali che peraltro rivestono al tempo stesso un rilevante interesse pubblico per la loro importanza strategica.

Inoltre, le diverse attività che si svolgono all’interno dei porti sono considerate servizio pubblico o di pubblico interesse. Questa doppia anima del porto ha comportato e comporta una serie di intrecci fra pubblico e privato: necessità di autorizzazioni per l’espletamento di certe attività, controlli, diritti esclusivi, sovvenzioni dirette o indirette per lo sviluppo di attività ritenute di interesse strategico, solo per fare qualche esempio.

Il quadro di riferimento delle attività portuali è quindi caratterizzato e condizionato dalla convergenza di una normativa frastagliata, sovente poco chiara e coerente, connessa alla tutela di interessi settoriali o a impostazioni funzionali e organizzative incompatibili con le esigenze di efficienza e produttività.

In tale quadro, i rapporti di potere fra le varie forze sociali, e i diversi interessi che trovano nei porti il loro campo di azione, possono trovare l’occasione di irrigidirsi nella difesa dell’esistente, ostacolando un’evoluzione in senso riformatore.

In secondo luogo, il sistema complessivo del trasporto, di cui i porti costituiscono una parte importante, è a sua volta in profonda evoluzione, circostanza che non è senza influenze sul ruolo che i porti devono svolgere, e giustifica pressioni evolutive, non sempre inserite in una visione di insieme, e comunque ostacolate dalla resistenza di chi fruisce di situazioni consolidate.

Come accennato, il problema portuale è dibattuto anche a livello comunitario, ma anche in questo caso con inadeguatezze e problematicità di varie delle soluzioni proposte.

Una riforma del sistema portuale italiano deve poggiare su un’analisi svolta su due piani, la situazione europea e quella nazionale, ricercando soluzioni a livello nazionale che siano coerenti con le linee evolutive che emergono a livello europeo. Si tratta di contribuire alla definizione di una politica portuale europea che non contrasti con gli obiettivi di efficienza organizzativa e funzionale che devono essere perseguiti in tutti gli Stati membri.

E comunque, affinché gli operatori privati possano operare ed investire efficacemente nel settore portuale è però fondamentale garantire un quadro normativo certo, in cui ruoli e responsabilità siano chiaramente delineati[2].

Il presente lavoro, partendo da una breve disamina concernente le operazioni portuali, entrerà nel vivo analizzando l’autoproduzione dei servizi portuali quale istituto autonomo nell’ambito del diritto marittimo, per poi passare agli orientamenti giurisprudenziali, nazionali e comunitari, che mettono in luce i “patemi” dello stesso, con innegabili implicazioni anche di carattere sociale.

2. Le operazioni portuali

Nel panorama normativo nazionale, con la Legge n. 84/1994, recante “Riordino della legislazione in materia portuale”, e le successive modifiche e integrazioni, il diritto portuale italiano ha subito un processo di profonda trasformazione, resasi necessaria dall’esigenza di adeguare l’ordinamento interno ai principi di diritto comunitario, dotandolo, nelle intenzioni del legislatore, di un moderno apparato normativo di settore.

La riforma della legislazione portuale va inquadrata nell’ambito della tendenza volta al superamento delle forme di statalismo e alla valorizzazione del mercato e della concorrenza[3] che, sotto la spinta del diritto comunitario in particolare, ha interessato diversi settori del diritto pubblico dell’economia.

Il Codice della navigazione del 1942, adottato con Regio Decreto 30 marzo 1942, n. 327, ed il Regolamento della navigazione marittima, introdotto dal D.P.R. 15 febbraio 1952, n. 328, disciplinavano l’amministrazione, l’uso ed il godimento del demanio marittimo portuale; le attività di polizia nei porti; le operazioni portuali e le altre attività economiche svolte negli scali; il lavoro portuale ed i servizi cd. ancillari alla navigazione.

La regolamentazione contenuta in tali fonti era caratterizzata da un’impronta marcatamente pubblicistica attinente sia al porto nella sua dimensione statica, inteso cioè come bene demaniale, sia nella sua dimensione dinamica, con riferimento quindi alle attività economiche ivi esercitate.  

La natura di bene demaniale dell’infrastruttura porto ha senza dubbio influenzato l’intera disciplina delle attività economiche svolte in ambito portuale, per la qual cosa che la scelta operata dal legislatore, cioè, controllare e disciplinare tutte le attività esercitate al suo interno, può essere interpretata, infatti, come volta a garantire a chiunque di poter godere di un bene di natura pubblica e come tale appartenente alla collettività[4].

Poiché il regime demaniale di certi beni era funzionale al perseguimento di interessi pubblici, appariva del tutto naturale che la disciplina di tali beni si combinasse con quella delle attività che ivi si svolgevano, in modo tale che entrambe le regolamentazioni risultassero coordinate tra loro e concorressero alla realizzazione degli interessi collettivi[5].

Il fatto che le attività svolte all’interno del porto fossero concepite unicamente come funzionali al perseguimento di interessi superiori comportava che la realizzazione e la tutela degli interessi privati all’interno dei porti risultassero significativamente limitate e condizionate dalle suddette finalità pubblicistiche. 

Per quanto concerne, in particolare, il regime dei servizi a favore delle merci, ossia le operazioni portuali, gli artt. 108-112 Cod. Nav. prevedevano un invadente intervento del potere amministrativo nei confronti dei soggetti interessati a svolgere le suddette attività nonché sugli assetti gestionali delle stesse; in particolare, il quadro normativo previgente, e in particolare l’art. 110, comma 1 Cod. Nav., sottoponeva l’esercizio delle operazioni portuali per conto terzi al rilascio di un titolo concessorio da parte del Comandante del Porto.

Quest’ultimo aveva il potere di determinare il numero massimo delle imprese concessionarie in relazione alle esigenze del traffico, nonché di approvare il relativo provvedimento in favore delle compagnie e dei gruppi portuali ai quali tali attività potevano essere riservate ai sensi del citato art. 110 Cod. Nav. 

Analogamente, anche ai fini dell’esercizio delle operazioni portuali per conto proprio era richiesto un titolo di legittimazione pubblicistico.

Infatti, l’art. 210 Reg. Nav. Mar. sottoponeva tali attività ad un regime di autorizzazione o, nel caso in cui l’operatore vi si dedicasse in modo abituale, ad un regime di licenza. Inoltre, tanto in riferimento alle operazioni portuali per conto terzi che per quelle per conto proprio, l’art. 110, comma 5 Cod. Nav. escludeva espressamente che gli operatori potessero avvalersi di propri dipendenti, essendo la materiale esecuzione di tali attività riservata alle compagnie o gruppi portuali.

Come è stato osservato, il regime organizzativo delineato dal Codice della navigazione mirava a realizzare la massima funzionalizzazione verso l’interesse pubblico delle attività dei soggetti privati operanti nel settore portuale e, coerentemente con tale obbiettivo, prevedeva un alto grado d’ingerenza del potere amministrativo sui soggetti interessati alla navigazione marittima e sui beni ad essi relativi[6].

L’approccio del legislatore dimostrava di privilegiare la dimensione statica del porto quale bene demaniale destinato ad un uso pubblico, la cui natura giustificava una pervasiva regolamentazione delle attività economiche ivi esercitate, piuttosto che il suo carattere dinamico, in modo da valorizzare gli aspetti economici che rendono il porto una realtà imprenditoriale.

Il quadro normativo portuale ante L. 84/94 attribuiva alle Autorità Marittime, costituite dall’insieme degli uffici periferici del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti e dalle Capitanerie di Porto, sia la gestione che l’amministrazione delle attività economiche esercitate in ciascun porto italiano.

Come accennato poc’anzi, la normativa previgente prevedeva la possibilità che i servizi a favore delle merci fossero effettuati da imprese private in regime di concessione. Tuttavia, le singole leggi speciali istitutive degli Enti Pubblici Portuali ne avevano esteso le competenze fino ad includere anche la gestione diretta di alcune attività portuali e, in particolare, delle operazioni portuali. 

Conseguentemente, oltre ad esercitare tipiche funzioni amministrative, i suddetti enti erano legittimati ad esercitare direttamente attività d’impresa. Tale situazione di commistione tra attribuzioni amministrative ed attività imprenditoriali in capo ai medesimi soggetti produceva effetti negativi sull’efficienza e sulla produttività del sistema portuale nel suo insieme oltre che sulla concorrenza tra le imprese operanti nei porti. L’assetto previgente limitava, infatti, la libertà di iniziativa economica privata senza essere peraltro in grado di indurre all’efficienza le poche imprese private che operavano nei porti.

Gli Enti Pubblici Portuali (e, laddove non istituiti, l’Autorità Marittima) disponevano di ampi poteri di regolazione e di controllo sull’intero ciclo delle operazioni portuali, ivi comprese le relative tariffe, poteri che, peraltro, erano spesso esercitati in modo discrezionale.

Tali enti gestivano sia i beni che i servizi direttamente, oppure attraverso società partecipate, sostituendosi così al mercato, o quantomeno comprimendolo e distorcendolo sensibilmente. In ciascuno scalo, inoltre, il lavoro portuale era soggetto a penetrante regolazione pubblicistica ed era riservato alle compagnie portuali, vere e proprie corporazioni in grado di influenzare considerevolmente l’amministrazione, sottraendo alle imprese portuali il controllo sulle modalità di organizzazione, l’efficienza ed i costi di questo lavoro.

Tuttavia, a partire dagli anni ‘90 ragioni e fattori di diversa natura, ma tra loro connessi, hanno contribuito a minare, per poi farlo crollare, tale sistema, aprendo la via alla riforma operata dalla Legge n. 84/1994 di riordino della normativa portuale.

L’assetto normativo in materia portuale così come concepito risultava del tutto anacronistico in quanto affondava le proprie radici in un’epoca in cui il lavoro manuale dell’uomo costituiva ancora un elemento fondamentale nelle operazioni di movimentazione delle merci ed in cui le tecniche e i sistemi di trasporto erano molto differenti da quelli odierni. In epoca antecedente alla Seconda Guerra Mondiale, infatti, il carico delle navi veniva movimentato, fuori e dentro la stiva delle imbarcazioni, in sacchi o scatole grazie alla forza fisica dei lavoratori portuali.

In tale contesto storico, considerato il limitato livello di meccanizzazione del ciclo di carico e scarico delle merci, la movimentazione della merce negli scali portuali richiedeva l’impiego di un numero rilevante di lavoratori e tempi lunghi, tanto che le navi potevano restare ormeggiate in banchina anche per diversi giorni.

 In particolare, le compagnie di lavoro portuale esercitavano un peso significativo nelle dinamiche portuali (uno sciopero dei lavoratori portuali poteva arrecare significativi danni agli armatori).  Inoltre, in molti Stati europei, in Italia principalmente, l’infrastruttura portuale rappresentava il terminale marittimo naturale degli stabilimenti industriali localizzati sulle coste.

La circostanza che i porti rappresentassero il necessario sbocco sul mare dei commerci esercitati nelle rispettive aree geografiche aveva reso gli scali portuali imprescindibili.

L’evoluzione del sistema economico mondiale e della tecnologia del trasporto aveva determinato profonde ripercussioni sull’assetto portuale e sull’organizzazione delle attività economiche ivi esercitate; in particolare, la diffusione dei container aveva radicalmente modificato la gestione, la composizione e la dimensione del lavoro portuale. Contestualmente, la diffusione dei container aveva reso possibile una riduzione dei tempi di sosta delle navi in porto mentre il superamento del lavoro portuale puramente manuale provocò una drastica diminuzione del numero di lavoratori da destinare al ciclo delle operazioni portuali[7].

Parallelamente, la crescita degli scambi commerciali, nazionali e internazionali, nonché la trasformazione dell’economia, avevano introdotto una crescente contendibilità dei porti con il conseguente rischio per gli scali meno efficienti di perdere rilevanti quote di mercato. Gli scali portuali costituivano ormai parte di una rete di trasporti di dimensioni sovranazionali, rendendo palese la necessità di un coordinamento dei porti con le reti infrastrutturali di trasporto, di tal guisa che nessun porto potesse più contare su alcuna rendita di posizione o su consolidate nicchie di mercato[8].

Poiché, quindi, a partire dagli anni Ottanta il Mediterraneo cominciava a riacquistare un ruolo centrale nei traffici marittimi ed i porti italiani, al centro di direttrici di traffico di grande sviluppo, emergevano sempre in numero maggiore imprese in grado di organizzare e di gestire l’intero ciclo delle operazioni portuali secondo criteri di efficienza imprenditoriale, che reclamavano spazi e libertà di organizzazione all’interno dei porti [9]

L’evoluzione tecnica ed economica sopra richiamata, sia pure in termini sintetici, aveva messo in crisi il previgente assetto normativo ed organizzativo dei porti italiani sancito dal Codice della Navigazione, rendendo evidente l’improcrastinabile necessità di adeguare la disciplina portuale italiana agli standard internazionali già adottati dai Paesi economicamente più avanzati per la gestione dei traffici marittimi.

I porti erano ormai considerati non più come meri luoghi ovvero beni, bensì come infrastrutture caratterizzate e dotate di un’adeguata efficienza gestionale capace di velocizzare l’intero ciclo delle operazioni portuali, permettendo di far fronte all’aumento del volume dei traffici e di competere con gli scali concorrenti sia nazionali che internazionali.

Tale nuovo inquadramento funzionale del porto, coerente con un approccio economicistico favorevole allo sviluppo delle diverse attività d’impresa all’interno di ciascuno scalo, condusse il legislatore a ripensare l’intera «architettura giuridica» portuale[10].

A tal proposito, un ruolo fondamentale ebbe la giurisprudenza comunitaria, a partire dalla nota sentenza della Corte di Giustizia europea c.d. «Porto di Genova I»[11].

La decisione della Corte di Giustizia della CE, nota come «Porto di Genova I», fu una svolta epocale per il sistema portuale italiano [12].

La predetta pronuncia aveva individuato, infatti, le più gravi carenze e contraddizioni dell’assetto organizzativo italiano delle operazioni di movimentazione delle merci rispetto ai principi comunitari in materia di concorrenza, evidenziando la necessità di una profonda riforma della disciplina in materia portuale fino ad allora contenuta nel Codice della Navigazione. 

Sulla sua scia e sulla scorta di altre rilevanti iniziative della Commissione europea, il quadro normativo è stato oggetto di una lenta ma inesorabile revisione da parte del legislatore italiano, incentrata sull’inquadramento della realtà portuale come sede di attività d’impresa da svolgersi secondo regole di mercato e sulla base di modelli organizzativi coerenti con le nuove esigenze dei traffici [13]

Senza entrare troppo nel dettaglio, per sommi capi si può dire che la sentenza «Porto di Genova I» aveva censurato diversi aspetti della disciplina portuale italiana, in particolare l’illegittimità di alcune disposizioni del Reg. Cod. Nav., tra cui gli artt. 152 e 156, che riservavano ai soli cittadini italiani la possibilità di far parte delle compagnie portuali (alle quali era riservato l’esercizio delle operazioni portuali), per contrasto con il principio di libera circolazione dei lavoratori di cui all’art. 39 dell’allora TCE. 

Inoltre, la decisione della Corte di Giustizia dichiarava l’incompatibilità con il con gli artt. 82 e 86 TCE degli artt. 110 e 111 Cod. Nav. dal momento che, prevedendo una riserva a favore delle compagnie portuali, che risultavano quindi in una posizione dominante su una parte del mercato delle operazioni portuali, inducevano tali imprese concessionarie a sfruttare abusivamente la propria posizione dominante.

Al riguardo, la Corte di Giustizia ha ritenuto che nella pratica il suddetto abuso di posizione dominante portasse «le imprese e le compagnie ad esigere il pagamento di servizi non richiesti, o a fatturare prezzi sproporzionati oppure a non servirsi della tecnologia moderna, con conseguente aumento dei costi delle operazioni e ritardi nella loro esecuzione, ovvero ancora a concedere riduzioni di prezzo a taluni utenti compensate allo stesso tempo mediante aumenti di prezzi fatturati ad altri utenti»[14].

Infine, tralasciando la problematica relativa alle tariffe applicate alle compagnie portuali per lo svolgimento delle operazioni portuali, il regime monopolistico in materia delle operazioni portuali previsto dalla normativa italiana previgente è stato censurato anche per contrasto con il principio della libera circolazione delle merci di cui all’art. 28 TCE[15].

L’obbligo previsto dalla legge di ricorrere alle imprese monopoliste per la movimentazione delle merci impediva, infatti, agli utenti portuali di autoprodurre a costi inferiori le operazioni di imbarco e sbarco delle merci, rendendo di conseguenza «più onerose e, pertanto, ostacolando le importazioni di merci in provenienza da altri Stati membri»[16].

3. Quadro normativo in materia di autoproduzione dei servizi portuali

La richiamata sentenza dei giudici comunitari ha precisato, inoltre, che i servizi resi dalle compagnie portuali, considerate le modalità ed il contesto in cui sono erogati, non fossero qualificabili come «attività di interesse economico generale» ai sensi dell’art. 86 TCE [17].

Tale fondamentale precisazione ha condotto, quindi, al riconoscimento del c.d. diritto di autoproduzione (self-handling) delle operazioni di carico e scarico delle merci nei porti da parte delle imprese di trasporto marittimo comunitarie.

In particolare, secondo la Corte di Giustizia l’autoproduzione costituisce un limite generale alla posizione di monopolio rivestita delle imprese. In questo senso, infatti, il diritto di autoproduzione sussiste solo nel caso in cui, non ricorrendo le condizioni di applicabilità dell’art. 86 TCE, che legittimerebbero un regime di esclusiva a favore dell’impresa in questione, l’impresa monopolista sia nella posizione di poter abusare della propria posizione dominante in contrasto con l’art. 82 TCE.

La sentenza «Porto di Genova I» ha, dunque, individuato gli specifici profili d’incompatibilità e le specifiche esigenze di adeguamento dell’ordinamento portuale italiano rispetto ai fondamentali principi posti dal diritto comunitario e, in particolare, rispetto al divieto di discriminazioni sulla base della nazionalità, alla disciplina della concorrenza, al principio della libera prestazione dei servizi portuali e alla libera circolazione delle merci.

Oltre a questo rilevante intervento giurisprudenziale comunitario, anche la Commissione speciale europea contribuiva in modo significativo ad individuare i contenuti normativi dei quali il legislatore italiano avrebbe dovuto tenere conto nell’auspicata riforma; in particolare, a mezzo lettera d’ingiunzione del 31 luglio 1992[18], inviata all’allora Ministro degli Affari Esteri italiano, la Commissione europea diffidava l’Italia ad adottare misure idonee a rendere il proprio ordinamento portuale conforme ai precetti del diritto comunitario della concorrenza[19].

Confermati i profili di incompatibilità della disciplina nazionale già rilevati dalla Corte di Giustizia con la sentenza «Porto di Genova I», la Commissione europea riteneva che l’obbligo imposto agli utenti dei porti italiani di ricorrere esclusivamente ai servizi delle compagnie portuali, titolari dell’esclusiva nelle operazioni di carico e scarico delle merci, fosse incompatibile, non solo con la libertà di circolazione delle merci, ma anche con la libertà di circolazione e prestazione dei servizi sancita dall’art. 49 TCE, «in quanto gli operatori che effettuano collegamenti marittimi internazionali e che sono dotati delle attrezzature necessarie si vedono negata la possibilità di utilizzarle», essendo escluso che nell’ambito delle operazioni portuali trovassero applicazione le deroghe previste dall’art. 46 TCE o le esigenze imperative individuate dalla giurisprudenza comunitaria[20]

In questo modo la Commissione europea, oltre a ribadire il favor dell’ordinamento comunitario per l’autoproduzione delle operazioni portuali, ne ha anche chiarito l’ambito di applicazione rispetto a quanto precedentemente affermato dalla Corte di Giustizia secondo la quale il diritto di autoproduzione era configurabile in relazione alla sola libertà di circolazione delle merci e, in particolare, al divieto di restrizioni quantitative all’importazione[21].

Ad onor del vero, al tempo in cui la Corte di Giustizia emetteva la richiamata sentenza «Porto di Genova I» e la Commissione europea notificava al governo italiano la citata lettera d’ingiunzione, il diritto per le imprese portuali di autoprodurre le operazioni di carico e scarico delle merci aveva già una base normativa nell’ordinamento interno.

In questo senso, infatti, l’art. 9 della Legge 10 ottobre 1990, n. 287 stabiliva che «la riserva per legge allo Stato ovvero ad un ente pubblico del monopolio su un mercato, nonché la riserva per legge ad un’impresa incaricata della gestione di attività di prestazione al pubblico di beni o servizi contro corrispettivo non comporta per i terzi il divieto di produzione di tali beni o servizi per uso proprio, della società controllante o delle società controllate»[22]; in particolare, il secondo comma di detta disposizione statuiva che il diritto di autoprodurre può essere limitato esclusivamente per motivi di ordine pubblico, sicurezza pubblica e difesa nazionale, e in materie riguardanti il settore delle telecomunicazioni.

L’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato e la dottrina si erano mostrate favorevoli ad un’applicazione piena della suddetta norma anche al lavoro portuale.

In particolare, l’authority italiana, ripetutamente adita da operatori che intendevano autoprodurre le operazioni portuali, se, da una parte, aveva escluso la possibilità di adottare alcun provvedimento direttamente coercitivo o precettivo, indicando la competenza in materia della giurisprudenza ordinaria, avendo ravvisato in riferimento all’autoproduzione una situazione di diritto soggettivo, dall’altra, non aveva esitato a rilevare l’inadeguatezza della normativa portuale italiana, auspicando un intervento normativo che consentisse agli utenti del porto di poter produrre in proprio tali operazioni[23].

Con l’entrata in vigore della Legge 84/94, una delle novità più rilevanti apparve la riorganizzazione delle attività di impresa svolte in porto, ossia le “operazioni portuali” ed i “servizi portuali”, enunciati dall’art. 16.

Secondo l’art. 16, comma 1, sono operazioni portuali, se svolte in ambito portuale: il carico, lo scarico, il trasbordo, il deposito, il movimento in genere delle merci e di ogni altro materiale.

Invero, sono da considerarsi servizi portuali, introdotti dalla L. 186/2000, quelli riferiti a prestazioni specialistiche, complementari e accessorie al ciclo delle operazioni portuali.

Il comma 4 dell’art. 16 stabilisce che per l’autorizzazione all’esercizio di tali attività (dunque di tutte le operazioni portuali di cui al primo comma) da parte dell’Autorità portuale o, dove non istituita, dell’Autorità marittima, il Ministro competente, con proprio decreto, determina i requisiti di carattere personale e tecnico organizzativo, di capacità professionale e finanziaria degli operatori e delle imprese richiedenti, adeguati alle attività da espletare.

A tale proposito, l’art. 8 del D.M. n. 585/1995 stabilisce le condizioni necessarie affinché le imprese possano svolgere in regime di autoproduzione le operazioni portuali. In particolare, il primo comma dell’art. 8 stabilisce che l’autorizzazione ad autoprodurre le operazioni portuali possa essere rilasciata non a qualunque utente portuale, bensì esclusivamente «al vettore marittimo o impresa di navigazione o al noleggiatore, o per essi ad un loro rappresentante che dovrà spenderne il nome».

Inoltre, il rilascio dell’autorizzazione allo svolgimento in regime di autoproduzione delle operazioni portuali è subordinato all’accertamento da parte dell’Autorità Portuale (oggi Autorità di Sistema Portuale) che l’impresa richiedente possieda determinati requisiti elencati in dettaglio all’art. 8, comma 4 del D.M. n. 585/1995.

In particolare, alla presentazione della domanda l’istante deve dimostrare:

a) «la dotazione da parte della nave di mezzi meccanici idonei ed adeguati allo svolgimento delle operazioni da compiere»;

b) «la presenza nella tabella di armamento ovvero nell’organico della sua struttura operativa in ambito portuale, ove costituita, di un numero di elementi sufficienti ed in grado di espletare le operazioni in massima sicurezza»;

c) «la sussistenza di un contratto assicurativo che garantisca persone e cose da eventuali danni derivanti dall’attività svolta in connessione del rilascio dell’atto autorizzatorio richiesto».

La verifica da parte dell’autorità di controllo del rispetto dei predetti requisiti da parte dell’impresa che intende svolgere in regime di autoproduzione le operazioni portuali si spiega nell’esigenza di garantire, da un lato, che dette attività siano effettuate in sicurezza, dall’altro, la parità di trattamento delle imprese che autoproducono i servizi alle merci in questione rispetto alle imprese che li svolgono per conto terzi o per conto proprio ai sensi dell’art. 16, comma 3 della Legge n. 84/1994.razioni portuali sono soggette alla vigilanza dell’Autorità portuale ovvero, laddove non istituita, dell’Autorità marittima, anche con riferimento all’applicazione delle tariffe indicate da ciascuna impresa autorizzata.

Tali operazioni possono subire delle limitazioni: infatti, le autorità in argomento (l’una o l’altra a seconda dell’istituzione o meno dell’Autorità portuale), sentita la commissione consultiva locale, determinano il numero massimo di autorizzazioni che possono essere rilasciate, tenendo conto delle esigenze di funzionalità del porto e del traffico, assicurando, comunque, il massimo della concorrenza nel settore.

L’art. 18, comma 1, prevede che le autorità in argomento diano in concessione alle imprese legittimate ad operare nell’ambito portuale, a seguito della prevista autorizzazione di cui all’art. 16, comma 3, le aree demaniali e le banchine che insistono nell’ambito portuale.

Dette imprese, quindi, possono disporre in maniera esclusiva di un terminale in porto, assumendo così, quali imprese terminaliste (rectius, operatori terminalisti) un ruolo centrale in quanto in grado di fornire alle navi i più importanti servizi

portuali attraverso l’utilizzo di postazioni fisse.

Per il rilascio della concessione de qua è necessario che le imprese terminaliste possiedano idonei presupposti organizzativi e professionali tali da assicurare operatività e funzionalità alle varie attività portuali allo scopo di fornire un idoneo servizio.

In ogni porto l’impresa concessionaria di un’area demaniale è tenuta ad esercitare direttamente l’attività per la quale ha ottenuto la concessione: ne consegue, di massima, che detta impresa non può appaltare a terzi soggetti attività portuali inerenti la concessione ottenuta. Il soggetto destinatario della concessione è uno solo: l’operatore terminalista, al quale è preclusa la terziarizzazione di servizi o fasi di attività oggetto della concessione medesima.

Un generico affidamento ad altre imprese portuali delle attività in argomento di fatto aggirerebbe il vincolo normativo de qua.

Tuttavia la giurisprudenza prima[24], la Legge n. 172 del 2003 (che ha integrato il comma 7 dell’art. 18 della legge n. 84 del 1994) poi, hanno ammesso che alcuni servizi o fasi di attività possono essere affidati a terzi soggetti, ma solo in motivate e specifiche circostanze finalizzate ad esaudire particolari necessità che trovano giustificazione nelle fisiologiche esigenze di specializzazione, nel completamento della fisiologia dei servizi offerti, oppure nell’integrazione temporanea di carenza di professionalità nell’organico dell’impresa, ecc..

Il vigente panorama normativo, pertanto, ammette che l’impresa terminalista possa essere autorizzata dalle autorità preposte (al rilascio della concessione), e previa sua motivata richiesta, ad affidare, a propria volta, ad altre imprese portuali, legittimamente autorizzate (individuate, quindi, nell’ambito di quelle già autorizzate ad operare ai sensi dell’art. 16), l’esercizio di precise e specifiche attività comprese nel ciclo produttivo.

Nel nostro paese ci sono stati casi in cui ottenere l’autorizzazione ex art. 16, comma 3, L. 84/94 non è sempre così scontato, come evidenziato dal caso Coe Clerici Logistics, esaminato dal Tribunale di primo grado dell'Unione europea[25].

La Coe Clerici Logistics è una compagnia di navigazione triestina, appaltatrice del servizio di trasporto di carbone per l'ENEL. Nell'agosto del 1996 la compagnia aveva chiesto all'Autorità portuale di Ancona l'autorizzazione a utilizzare, in regime di autoproduzione, la banchina n. 25 del porto per scaricare il carbone nel magazzino portuale dell'ENEL. Il 17 febbraio 1998 con lettera del Presidente dell'Autorità portuale, la Coe Clerici Logistics era stata informata che il rilascio dell'autorizzazione richiedeva il consenso della società Ancona Merci s.con.p.a., concessionaria esclusiva della banchina n. 15. Con successiva lettera 13 marzo 1998, l'Autorità portuale aveva altresì informato la Coe Clerici Logistics della circostanza che era stata costituita un'apposita Commissione di studio sul regime dell'autoproduzione nel porto.

Posto ciò, la giurisprudenza ha precisato che l'Autorità portuale può negare l'autorizzazione solo in casi singoli, mentre non può vietare in via generale e astratta l'autoproduzione nell'intero porto[26].

Ma ritornando al nostro argomento di partenza, abbiamo detto che l’ autoproduzione del lavoro portuale, così come indicata nell’ art. lo 16, comma 4, lett. d della L. 84/94 consente a favore dei vettori marittimi la possibilità di esercizio delle operazioni portuali da effettuarsi all’arrivo o partenza della nave dotate di propri mezzi meccanici e di proprio personale adeguato alle operazioni portuali determinandone corrispettivo e cauzione sotto il controllo dell’Autorità competente, specie in tema di adeguatezza e professionalità del personale medesimo attivato in autoproduzione se pur a carattere occasionale.

Non solo, infatti la medesima norma di rango legislativo prevede altresì al comma 3 dall’art. 16 che le autorizzazioni ad operare per conto terzi come annualmente stabilite dalle Autorità competenti quindi a carattere duraturo ipotizzando apposite strutture terrestri stabili. Quindi è la nave ad autoprodurre servizi per il tramite di suo personale e di propri mezzi tecnici e meccanici pur dovendo garantire all’organo di controllo le migliori condizioni di sicurezza.

Non è l’unica ipotesi: abbiamo il terminalista come autorizzato nell’uso di una porzione di banchina demaniale marittima anche se in questo caso le limitazioni all’autoproduzione riguardano il ciclo delle operazioni portuali, come individuate e garantite dal contenuto autorizzatorio/concessorio ex artt. 16 e 18 L. 84/94.

In un quadro cosi delineato, va a collocarsi la L. n.77 del 2020 di conversione del Decreto Legge n. 34 del maggio 2020, meglio noto come “Decreto Rilancio”, all’interno della quale il Ministro dei Trasporti, tra le altre, ha inteso prevedere nell’articolo 199 la possibilità che la singola Autorità di Sistema Portuale corrisponda al soggetto fornitore di lavoro portuale un contributo economico per il biennio 2020/2021, riconducibile alla flessione dei traffici come conseguenza della pandemia, prorogando proprio di due anni le autorizzazioni per i fornitori di lavoro portuale[27]

Ancora, nell’articolo 199-bis, ha introdotto requisiti più restrittivi ai fini dell’esecuzione in autoproduzione delle operazioni portuali, prevedendo l’autoproduzione solo qualora non sia possibile soddisfare la domanda di svolgimento delle predette operazioni né mediante le imprese autorizzate, né tramite il ricorso all’impresa od agenzia per la fornitura di lavoro portuale temporaneo.

Si è intervenuti legislativamente a modifica dall’art. lo 16 comma 4 lettera d, oggi abrogata con il nuovo comma 4 – bis, che consente agli armatori di svolgere le operazioni portuali in regime di autoproduzione con personale dedicato e con mezzi adeguati.

Tale prerogativa residuale si colloca nel non poter soddisfare la domanda di lavoro portuale, si ribadisce, né mediante le imprese autorizzate ex art. lo 16 né mediante quelle autorizzate per la fornitura di lavoro temporaneo ex art. 17.

4. L’autoproduzione delle operazioni portuali alla luce degli ultimi orientamenti giurisprudenziali

Un istituto così controverso e complesso, le cui implicazioni sono di diversa natura, economico-imprenditoriale da un lato, e giuslavoristico e sociale dall’altro, non poteva non subire anche oscillazioni di natura giurisprudenziale, laddove i tribunali aditi hanno avuto più volte orientamenti diversi, e ciò a discapito sia dei ricorrenti che dei convenuti.

Un aspetto dibattuto era costituito dalla possibilità o meno che le attività di rizzaggio e derizzaggio potessero essere svolte in autonomia dal vettore o dovessero essere ricondotte alle attività dei lavoratori portuali, intendendosi come tali quelle attività tese a legare con rizze i beni trasportati via mare.

Il Consiglio di Stato[28], in relazione alle operazioni portuali ex art. 16 L. 84/94, ossia carico, scarico, trasbordo, deposito e movimento in genere delle merci e di ogni altro materiale svolte in ambito portuale, sanciva la non estensibilità in caso di autoproduzione o self handing anche alle operazioni nautiche quali quelle di rizzaggio e derizzaggio.

Detto orientamento del supremo organo di Giustizia Amministrativa sembrava negare la possibilità che le operazioni di rizzaggio e derizzaggio potessero essere esercitate da soggetti diversi dai lavoratori portuali, a differenza poi di un successivo orientamento[29], secondo il quale il rizzaggio e il derizzaggio potessero essere inquadrati tra i servizi portuali che possono essere svolti anche da un vettore marittimo, ovviamente previa autorizzazione ex art. 16 L. 84/94.

Recentissimamente, la giustizia amministrativa, come nei casi poc’anzi riportati, ha dimostrato ancora una volta di non avere un orientamento comune in detta materia.

Dapprima respingendo le argomentazioni della parte ricorrente, una società attiva nella fornitura di servizi portuali, che, sul presupposto di una presunta riduzione del suo volume di affari, aveva impugnato un atto autorizzativo da parte dell’Autorità Marittima adita rilasciato ad una società armatoriale per l’esercizio di operazioni di rizzaggio/derizzaggio e imbarco/sbarco mezzi in regime di autoproduzione; in particolare, la corte amministrativa metteva in risalto il principio secondo il quale non esiste alcune preclusione normativa all’esercizio delle operazioni e servizi portuali in regime di autoproduzione[30].

Successivamente, un diverso giudice amministrativo[31] respingeva il ricorso di una compagnia di navigazione avverso un provvedimento di diniego di un’Autorità di Sistema Portuale circa una richiesta di autorizzazione ad avvalersi del personale imbarcato per lo svolgimento di operazioni portuali; in tal caso, secondo l’autorità giudiziaria amministrativa, l’autoproduzione è consentita soltanto qualora nel porto interessato non vi siano le necessarie maestranze e attrezzature.

Ancora, il giudice amministrativo ha rilevato che tale impostazione non risulta lesiva dei principi eurounitari in materia di concorrenza e di libera circolazione delle merci perché, consentendo lo svolgimento delle operazioni in questione anche a soggetti diversi dalle compagnie portuali, essa non determina posizioni dominanti pregiudizievoli per la concorrenza e per il commercio intracomunitario.

La diatriba di natura giurisprudenziale, viene ripresa, in un certo qual modo dal capitolo dedicato all’autoproduzione portuale nel lungo documento presentato il 23 marzo 2021 dall’Autorità Garante della Concorrenza sulla Legge annuale sulla concorrenza, che ha riacceso la battaglia su questo argomento tra armatori e sindacati[32].

Dalla lettura del documento si evince chiaramente come l’Antitrust si schiera con i primi, chiedendo l’abrogazione del comma 4bis dell’articolo 16 della Legge numero 84 del 28 gennaio 1994, che consente l'autoproduzione delle operazioni e dei servizi portuali solo nel caso in cui nel porto non vi siano le necessarie attrezzature o maestranze.

L’Autorità sostiene che “il ricorso all’autoproduzione può essere un elemento importante per contenere l’eventuale potere di mercato delle compagnie portuali e stimolare l’efficienza nella fornitura di servizi portuali”.

Inoltre, “la norma appare suscettibile di ridurre la competitività dei porti italiani rispetto ai porti limitrofi di altri Stati membri”, perché i vettori potrebbero scegliere un porto straniero proprio per la possibilità di svolgervi l’autoproduzione. Questa richiesta ha provocato un’immediata reazione da parte dei sindacati, che sostengono il divieto all’autoproduzione. In una nota congiunta, Filt Cgil, Fit Cisl e Uiltrasporti ritengono l’indicazione dell’Antitrust assolutamente inappropriata ben lontano dalla realtà dei fatti[33].

Secondo le sigle sindacali, il vero nodo è la forte spinta dello shipping nel difendere il proprio potere di mercato e favorire una liberalizzazione selvaggia dei servizi tecnico nautici e della stessa autoproduzione.

5. Conclusioni

In base alla riforma della l. 84/1994, ai sensi del d.lgs. 4 agosto 2016 n. 169, e del d.lgs. 13 dicembre 2017 n. 232, i porti costituiscono un grande mercato, in cui le scelte strategiche di pianificazione urbanistica portuale, di attuazione delle politiche concessorie del demanio marittimo, delle strategie di marketing e promozione del sistema portuale sui mercati internazionali, delle verifiche dei piani di sviluppo portuale, proseguono all’unisono con attività di coordinazione ed armonizzazione tra le stesse Autorità di sistema portuale, verso un obiettivo strategico comune[34].

Nonostante i diversi tentativi normativi, la difficoltà che incontra l’elaborazione di un organico disegno di riforma è certamente dovuta alla resistenza al mutamento che incontra ogni istanza riformatrice, ma nel caso dei porti, e ciò accade anche in altri paesi europei, operano anche due fattori interrelati fra loro, che possono essere sintetizzati di seguito.

In primo luogo, come meglio specificato in premessa di questo lavoro, nei porti coesistono un’anima pubblica e un’anima commerciale, essendo sedi di attività imprenditoriali che peraltro rivestono al tempo stesso un rilevante interesse pubblico per la loro importanza strategica.

Inoltre, varie attività che si svolgono all’interno dei porti sono considerate servizio pubblico o di pubblico interesse.

Questa doppia anima del porto ha comportato e comporta una serie di intrecci fra pubblico e privato: necessità di autorizzazioni per l’espletamento di certe attività, controlli, diritti esclusivi, sovvenzioni dirette o indirette per lo sviluppo di attività ritenute di interesse strategico.

Il quadro di riferimento delle attività portuali è quindi caratterizzato e condizionato dalla convergenza di normative particolari, non sempre orientate agli stessi obiettivi, spesso ereditate da situazioni pregresse, legate alla tutela di interessi settoriali o a impostazioni funzionali e organizzative incompatibili con le esigenze di efficienza e produttività.

In questo contesto i rapporti di potere fra le varie forze sociali, e i diversi interessi che trovano nei porti il loro campo di azione, possono trovare l’occasione di irrigidirsi nella difesa dell’esistente, ostacolando un’evoluzione in senso riformatore.


Note e riferimenti bibliografici

[1] Cfr. Vezzoso G., La riforma dei porti in una prospettiva europea, in Rivista di Diritto dell’Economia, dei Trasporti e dell’Ambiente, Vol. XIII, 2015, pag.256

[2] Cfr. Colucciello R., Dalle Autorità Portuali alle Autorità di Sistema Portuale: funzioni di governo e funzioni di gestione, in Cammino Diritto, Rivista di informazione giuridica, 2023, pag. 2

[3] Cfr. Taccogna G., Le operazioni portuali nel nuovo diritto pubblico dell’economia, Milano, 2000, pag.1 

[4] Cfr. Casanova M., Inquadramento del tema: la normativa italiana fino agli anni ‘80 e le procedure amministrative tradizionali per i sevizi portuali, in Fanara E. (a cura di), Autorità Antitrust e Commissione europea UE versus società italiane di gestione dei servizi portuali ed aeroportuali (la liberalizzazione dei servizi), Messina, 1995, pag. 13. 

[5] Cfr. Taccogna G., op. cit., pag. 50 

[6] Cfr. Carbone S.M., La c.d. privatizzazione dei porti e delle attività portuali in Italia tra disciplina nazionale e diritto comunitario, in Dir. mar., 2000, pag. 385

[7] Si consideri, ad esempio, che il numero dei camalli (così erano definiti lavoratori portuali del porto di Genova) nel 1970 era pari a 8.000 unità, mentre nei primi anni del 1990 il loro numero era sceso a poco più di 500.

[8] Cfr. Nerli F., La concorrenza nel settore portuale, in Dir. mar., 1, 2001

[9] Cfr. Carbone S.M., La c.d. privatizzazione dei porti e delle attività portuali in Italia tra disciplina nazionale e diritto comunitario, in Dir. mar., 2, 2000, pag. 387

[10] Cfr. Carbone S.M., Munari F., La disciplina dei porti tra diritto comunitario e diritto interno, Milano, 2006, pag. 5, e sullo stesso argomento Colucciello R., op. cit., pag. 5

[11]CGCE 10 dicembre 1991, causa C-179/90, Siderurgica Gabrielli c. Merci Convenzionali Porto di Genova, in Dir. mar., 1991, 1128 ss.

[12] Cfr. Macrì F., Diritto di autoproduzione e servizi tecnico-nautici ancillari alla navigazione: alcune riflessioni ricostruttive, in Dir. comm. int., 3, 2002, pag. 641

[13] Cfr. Giardini A., I porti e i servizi portuali, in Zunarelli S. (a cura di), Il Diritto del Mercato del Trasporto, Padova, 2008, pag. 305

[14] CGCE 10 dicembre 1991, causa C-179/90, cit., punto 19

[15] L’allora art. 28 (ex art. 30) TCE sanciva che «Sono vietate fra gli Stati membri le restrizioni quantitative all’importazione nonché qualsiasi misura di effetto equivalente»

[16] CGCE 10 dicembre 1991, causa C-179/90, cit., punto 21

[17] CGCE 10 dicembre 1991, causa C-179/90, cit., punto 28

[18] Lettera d’ingiunzione della Commissione europea del 31 luglio 1992, in Dir. mar. 1992, pag. 855

[19] Cfr. Carbone S.M., Munari F., Gli effetti del diritto comunitario sulla riforma portuale in Italia. Risultati e prospettive, in Dir. mar., 1994, pag. 4

[20] Il concetto di «esigenze imperative» è stato utilizzato per la prima volta dalla Corte di Giustizia nella celebre sentenza Cassis de Dijon del 20 febbraio 1979, C-120/78 ed è stato successivamente ribadito in diverse altre occasioni. In particolare, nella sentenza 13 dicembre 1990, C-238/89, Pall Corp. c. P.J. Dahlhausen & Co., la Corte di Giustizia ha precisato che costituisce «un principio giurisprudenziale consolidato quello secondo il quale gli ostacoli agli scambi intracomunitari che scaturiscono da discrepanze tra le norme nazionali vanno accettati nei limiti in cui dette disposizioni, indistintamente applicabili ai prodotti nazionali e ai prodotti importati, possono giustificarsi in quanto necessarie per soddisfare le esigenze tassative inerenti tra l’altro alla tutela dei consumatori o alla correttezza delle operazioni commerciali. Ma per poter venir tollerate, è necessario che dette disposizioni siano proporzionate alla finalità perseguita e che lo stesso obiettivo non possa venire perseguito con provvedimenti che intralciano in minor misura gli scambi comunitari»

[21] Cfr. Macrì F., op. cit. pag. 646

[22] Legge 10 ottobre 1990, n. 287, recante «Norme per la tutela della concorrenza e del mercato»

[23] AGCM, provv. n. 53 del 13 marzo 1991, Società Cardile & Bros, in Boll., 1991, pag. 2; provv. n. 52 del 13 marzo 1991, Società Golfo e Calcagno, in Boll., 1991, pag. 2; parere del 27 marzo 1991, in Boll., 1991, pag. 52.

[24] T.A.R. Puglia, Sez. Lecce, 24 gennaio 2002

[25] Tribunale di primo grado, sentenza 17 giugno 2003, causa T-52/00, Coe Clerici Logistcs s.p.a. c. Commissione delle Comunità europee con Autorità portuale di Ancona.

[26] TAR Sardegna, sentenza 12 maggio 2009, n. 672; Corte d'appello di Genova, sentenza 8 marzo 1999, n. 159

[27] Cfr. Nigro T., L’autoproduzione delle operazioni e dei servizi portuali nella prospettiva “covid”, in Il Nautilus, mare-porti-trasporti-logistica e sport, 2 gennaio 2021

[28] Cons. Stato, sez. II, sent. n. 1177/1996

[29] TAR Sicilia, sez. III, sent. n. 875/2009

[30] TAR Sicilia, sez. III, sent. n. 3557/2022

[31] TAR Liguria, sent. n. 647/2023

[32] Cfr. Antitrust favorevole all’autoproduzione nei porti, in Rivista online Trasporto Europa, 23 marzo 2021

[33] Cfr. Antitrust favorevole all’autoproduzione nei porti, in Rivista online Trasporto Europa, 23 marzo 2021

[34] Cfr. Scotto L., Dagli Enti portuali alle Autorità di sistema portuale nel coacervo di competenze nazionali e locali, in Diritti Regionali, Rivista di diritto delle autonomie territoriali n. 1/2020, 23 febbraio 2020, pag. 217