Pubbl. Mer, 28 Feb 2024
Il rapporto di occasionalità necessaria tra fatto illecito e mansioni del dipendente: la responsabilità civile dell´ente pubblico
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Francesco Salvo
Quando le condotte formali e materiali del pubblico dipendente espongono l´Amministrazione alla tutela risarcitoria.
Necessary occasional relationship between unlawful act and employee duties; civil liability of the public body.
When the illicit conduct of the public employee entails the civil liability of the Administration.Sommario: 1. Premessa; 2. L'applicazione dell'art. 2049 c.c. alla P.A. al vaglio della sentenza n. 13246 del 16/05/2019 delle SS.UU. della Corte di Cassazione civile; 3. La sentenza della Cassazione penale del 15/12/2023, n. 50097 comportamento proiettato ai fini istituzionali, condotta abnorme ed occasionalità necessaria; 4. L'accertamento del nesso di occasionalità quale elemento necessario a fondare la responsabilità indiretta della P.A.; 5. L’illiceità conseguente a meri comportamenti del personale pubblico e la responsabilità della P.A.; 6. Conclusioni
«Perché resti integro il rapporto organico, fonte della diretta responsabilità dell'ente, occorre che il comportamento del reo possa dirsi in linea con le finalità proprie dell'amministrazione pubblica, nel senso che la responsabilità dell'ente deve ritenersi sussistente laddove il comportamento illecito del dipendente - ancorché deviato per violazione di norme regolamentari o per eccesso di potere - risulti comunque finalizzato al raggiungimento dei fini istituzionali, rimanendo in tal senso insensibile il rapporto organico all'azione illecita con il conseguente coerente coinvolgimento dell'ente stesso nell'obbligo risarcitorio(…)
è abnorme solo la condotta del lavoratore che attivi un rischio assolutamente eccentrico o esorbitante dalla sfera di governo del soggetto titolare della posizione di garanzia; pertanto, è abnorme quel comportamento che risulti del tutto avulso dalle mansioni affidate al lavoratore e dai compiti che gli sono assegnati e che determini un evento lesivo assolutamente non prevedibile e scollegato dall'attività lavorativa».
Cass. pen., Sez. IV, Sent., (data ud. 14/11/2023) 15/12/2023, n. 50097
1. Premessa
La vicenda sottesa alla sentenza in commento ha visto imputato un dipendente di una società pubblica di trasporti che, al momento dei fatti, era in servizio presso la fermata della metropolitana cui era preposto. Constatata la presenza di due utenti, tra i quali un minore, dentro un ascensore bloccato, egli è intervenuto nel tentativo di liberarli, intraprendendo, si legge in sentenza, «una rischiosa manovra di apertura di emergenza delle porte dell'ascensore bloccato in corrispondenza del vano di un ascensore affiancato, senza avvertire gli occupanti del varco di 40 cm. venutosi a creare tra le due cabine e senza avvalersi di apposito dispositivo di collegamento, causava la morte del minore B.B., il quale precipitava nel varco creatosi tra i vani degli ascensori affiancati, cadendo da un'altezza di oltre venti metri».
I giudici di merito, nel conseguente procedimento penale, avevano condannato l’imputato per il reato di cui all'art. 589 c.p., comma 2, per avere cagionato la morte del minore, con violazione dell’art. 20 D.Lgs. n. 81 del 2008, in relazione all'ordine di servizio di cui era destinatario, che stabiliva l'utilizzo esclusivo delle chiavi di emergenza per lo sblocco degli ascensori da parte delle persone autorizzate alle operazioni di soccorso e ciò in ossequio al regolamento di esercizio ascensori ad uso pubblico installati nelle stazioni delle linee ferroviarie regionali e nelle metropolitane.
La sentenza offre lo spunto per approfondire il concetto di occasionalità necessaria e le implicazioni giuridiche conseguenti, nel caso di fatti penalmente rilevanti.
2. I criteri di applicazione dell'art. 2049 c.c. alla P.A. enunciati dalla sentenza n. 13246 del 16/05/2019 delle SS.UU. della Corte di Cassazione civile
Le motivazioni della stessa pronuncia devono essere lette alla luce dell’arresto giurisprudenziale delle SS.UU. della Corte di Cassazione del 16/05/2019 con la sentenza n. 13246, pronuncia questa che ha inteso dirimere i contrasti interpretativi – verificatisi in ambiti penali, civili ed amministrativi – in ordine alla responsabilità della Pubblica Amministrazione per reati commessi dai propri dipendenti nei confronti degli utenti del servizio pubblico.
L’esigenza che ha sollecitato l’esercizio delle funzioni nomofilattiche della Corte di legittimità è stata quella di evitare che, a fronte dell’illecito del singolo dipendente, la responsabilità della P.A., e quindi la risarcibilità del pregiudizio patito dai consociati, potesse essere limitata rispetto alla speculare responsabilità delle persone giuridiche private, che – nel sottosistema civilistico – rimangono pacificamente esposte al fatto proprio del dipendente per mezzo delle regole di cui all’art. 2049 c.c.
La Cassazione ha preliminarmente constatato l’orientamento di buon parte della giurisprudenza – soprattutto civile ed amministrativa – secondo il quale la responsabilità del dipendente di un ente pubblico è direttamente imputabile all’ente stesso, in forza di criteri pubblicistici, ma ciò esclusivamente nel caso in cui l’agente abbia perseguito fini istituzionali, quando cioè, in virtù del rapporto organico, l’azione vada imputata direttamente all’ente.
Si tratta in particolare dell’orientamento secondo il quale «affinché ricorra la responsabilità della P.A. per un fatto lesivo posto in essere dal proprio dipendente - responsabilità il cui fondamento risiede nel rapporto di immedesimazione organica - deve sussistere, oltre al nesso di causalità fra il comportamento e l'evento dannoso, anche la riferibilità all'amministrazione del comportamento stesso, la quale presuppone che l'attività posta in essere dal dipendente sia e si manifesti come esplicazione dell'attività dell'ente pubblico e, cioè tenda, pur se con abuso di potere, al conseguimento dei fini istituzionali di questo nell'ambito delle attribuzioni dell'ufficio o del servizio cui il dipendente è addetto»[1].
Una seconda prospettiva ermeneutica, estensiva dell’ambito di responsabilità della P.A., è stata espressa soprattutto dalle sezioni penali, spesso chiamate a giudicare reati commessi da dipendenti pubblici per fini non istituzionali, bensì personali ed egoistici (si pensi al peculato). Secondo questo orientamento, in caso di reati commessi per scopi non istituzionali, si è ritenuta comunque responsabile la Pubblica Amministrazione, sulla base dei criteri privatistici in tema di responsabilità del preponente privato ai sensi dell’art. 2049 c.c., richiamando, quale presupposto, il nesso di occasionalità tra condotta illecita e danno[2].
Le Sezioni Unite hanno propeso per questa seconda soluzione, curandosi di circostanziare la materia della responsabilità della Pubblica Amministrazione nell’ipotesi di fatto illecito, anche penale, del dipendente.
Adottando i criteri dettati dalla sentenza delle Sezioni Unite, bisogna dapprima individuare quale fine si sia posto l’agente e, in particolare, se questo fosse un fine perseguito statutariamente dall’ente, oppure un fine personale, egoistico e/o individuale. Ed invero, gli scopi dell’ente possono essere perseguiti sia con l’adozione di un formale provvedimento amministrativo, emesso nell’ambito e nell’esercizio di poteri autoritativi e discrezionali della P.A., sia con mera attività materiale che non si traduca in provvedimenti amministrativi formali (si pensi all’attività delle forze dell’ordine ed alle note finalità di prevenzione e sicurezza da esse perseguite, che spesso non si concretizzano in formali provvedimenti amministrativi, bensì in attività per lo più materiali di certo idonee a cagionare danni a terzi se illecitamente espletate).
Fatta questa distinzione, la Cassazione ha precisato che la responsabilità della P.A. è diretta, quando l’agire del pubblico dipendente risulti proteso al perseguimento delle finalità istituzionali, sia che si concretizzi in atti provvedimentali, sia che consista in attività materiali. La responsabilità può tuttavia anche essere indiretta o per fatto altrui, quando il pubblico dipendente abbia perseguito fini non istituzionali, ma personali o che comunque non siano riconducibili alla manifestazione del potere pubblicistico[3].
Quale che sia la natura diretta od indiretta della responsabilità l’Amministrazione può comunque essere esposta alle conseguenze risarcitorie dell’illecito, poiché – come si legge nella pronuncia delle Sezioni Unite - «deve ammettersi la coesistenza dei due sistemi ricostruttivi, quello della responsabilità diretta soltanto in forza del rapporto organico e quello della responsabilità indiretta o per fatto altrui: entrambi sono validi, poiché il primo non esclude il secondo ed ognuno viene in considerazione a seconda del tipo di attività della P.A. di volta in volta posta in essere»[4].
Se la responsabilità diretta espone di certo l'Amministrazione a responsabilità, la responsabilità indiretta per fatto altrui può configurarsi mediante l'applicazione dell’art. 2049 c.c., servendosi del principio cuius commoda eius et incommoda, in forza del quale, se un soggetto (in questo caso la P.A.) si avvale di un altro per il perseguimento di propri fini, l’attività così posta in essere dal secondo deve essere attribuita al primo e ciò sia per gli effetti favorevoli che per quelli pregiudizievoli.
Il principio, invero, non è nuovo alla giurisprudenza ed alla dottrina.
Originariamente[5] la responsabilità del preponente era ricondotta a culpa in vigilando o in eligendo, e gli era quindi concesso di fornire la prova liberatoria contraria a quella che era una presunzione di responsabilità. Questa impostazione, soprattutto per quel che riguarda la culpa in eligendo, può essere certo adoperata per il rapporto di lavoro privato, ma è poco compatibile con le dinamiche del pubblico impiego, atteso che in ambito pubblicistico la selezione del personale è notoriamente disciplinata a priori dalla legge, in base a precise regole (cfr. per esempio art. 35 D.lvo n. 165/2001), in ossequio all’art. 97 Cost. È forse questa una delle ragioni per le quali storicamente l’applicazione dell’art. 2049 c.c. non ha trovato cittadinanza nella responsabilità della Pubblica Amministrazione.
Tuttavia, questa impostazione è ormai desueta anche in ambito privatistico, ove si è progressivamente affermata la convinzione che «la responsabilità extracontrattuale di cui all'art. 2049 c.c., essendo fondata sul presupposto della sussistenza di un rapporto di subordinazione tra l'autore dell'illecito e il proprio datore di lavoro e sul collegamento dell'illecito stesso con le mansioni svolte dal dipendente, prescinde del tutto da una "culpa in eligendo" o "in vigilando" del datore di lavoro ed è quindi insensibile all'eventuale dimostrazione dell'assenza di colpa, con la conseguenza che l'accertamento della non colpevolezza del datore di lavoro compiuto dal giudice penale non vale ad escluderla»[6].
La stessa teoria trova conforto in quella dottrina secondo la quale la responsabilità ex art. 2049 c.c. è basata sul rischio del lavoro, che il legislatore ha posto a carico del datore di lavoro[7].
La prestazione lavorativa, infatti, è acquisita dal datore di lavoro, talché, quando la stessa cagiona un danno, ciò deve ricadere nel rischio di impresa.
Non si tratta pertanto di una responsabilità oggettiva, bensì di una responsabilità per colpa del dipendente che viene comunicata al datore di lavoro.
Questa impostazione – del tutto sovrapponibile a quella risultante dall'applicazione del poc’anzi citato principio cuius commoda eius et incommoda - favorisce l’estensione della disciplina ex art. 2049 c.c. ad impiegati e datori di lavoro pubblici, non essendo ancorata ad una presunzione di responsabilità per culpa in vigilando o, tantomeno, in eligendo, bensì al rischio insito nell’espletamento della prestazione lavorativa e quindi nell’obbligo di rendere questa con rigore e professionalità, soprattutto quando la stessa possa ledere diritti soggettivi od anche interessi legittimi di terzi[8].
Il dato letterale dell’art. 2049 c.c. non contempla la regolamentazione della responsabilità personale del dipendente, ma la teoria che si fonda sul rischio del lavoro consente anche di aprire il varco verso la responsabilità personale del dipendente. Se infatti fosse ammessa la prova contraria alla culpa in eligendo od in vigilando si ammetterebbe implicitamente l’impossibilità per il preponente di agire in regresso nei confronti del preposto, qualora il primo non fosse stato in grado di fornire detta prova liberatoria; di contro la teoria del rischio del lavoro consente al danneggiato di agire sia contro il preponente che contro il preposto, con maggiori chances di solvibilità[9].
La responsabilità del preposto è infatti espressamente prevista dall’art. 28 Cost., anch’esso perfettamente compatibile, pure sul piano letterale, alla teoria del rischio da lavoro, laddove prevede una responsabilità diretta dei funzionari e dei dipendenti pubblici dal punto di vista civile, penale ed amministrativo, con conseguente estensione della sola responsabilità civile allo Stato e agli enti pubblici, che – a differenza di quella penale – è scevra dal vincolo di personalità ex art. 27 comma I Cost. D’altronde non v’è ragione di non applicare la responsabilità ex art. 2043 c.c. al dipendente che abbia commesso un fatto illecito, circostanza confermata peraltro dagli artt. 22 e 23 D.P.R. n. 3/1957, che fanno ricadere sullo stesso gli obblighi risarcitori conseguenti al danno ingiusto da lui cagionato con dolo o colpa grave.
La Suprema Corte ha comunque recentemente ribadito che, ancorché il fatto illecito del dipendente sia connesso con le funzioni tipicamente esercitate, questi, una volta condannato per il risarcimento, può agire in via di regresso ex art. 1299 c.c. verso l'Ente preponente, allo scopo di ripartire la responsabilità in ragione delle eventuali rispettive colpe[10].
3. La sentenza della Cassazione penale del 15/12/2023, n. 50097: comportamento proiettato ai fini istituzionali, condotta abnorme ed occasionalità necessaria.
La ratio sottesa all’applicazione dell’art. 2049 c.c. al pubblico impiego, come osservato dalla giurisprudenza e dalla dottrina citate, è principalmente quella di equiparare la responsabilità dell’Amministrazione a quella del datore di lavoro privato, e ciò per evitare una diversificazione dei relativi regimi normativi, che si tradurrebbe in un ingiustificato privilegio dell’Ente pubblico ed in un altrettanto immotivato sfavore per le azioni di risarcimento del danneggiato, il quale sarebbe sensibilmente privato di adeguate garanzie di solvibilità.
L’applicazione degli automatismi caratteristici dell’art. 2049 c.c. al fatto illecito del dipendente pubblico consentono quindi di attribuire la responsabilità civile della sua condotta all’Amministrazione. Presupposto per attivare il detto meccanismo è che il dipendente pubblico abbia agito come tale, manifestando l’immedesimazione organica con l’Ente di appartenenza. Sicché, come nel campo privato, anche in quello pubblicistico occorre perimetrare la responsabilità dell’Ente, segnando, nell’ottica della certezza del diritto, un quanto più chiaro confine tra condotte illecite realizzate da chi personifica la Pubblica Amministrazione e condotte che invece restano ancorate alla sfera soggettiva e giuridica del loro autore materiale, essendo queste insuscettibili di accostarsi alla sfera di competenza dell’organismo pubblico.
Le responsabilità assunte nell’intraprendere un’attività di impresa sono insite nella libertà di iniziativa economica che l’art. 41 Cost. garantisce, purché l’esercizio di tale diritto non arrechi danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà ed alla dignità umana, dovendosi così riconoscere tutela verso chi evidentemente, anche terzo rispetto all’impresa, in qualunque modo, entri con essa in contatto.
Se la Carta fondamentale garantisce i diritti di utenti e lavoratori dell’impresa, a maggior ragione devono ricevere analoga tutela coloro i quali entrino in contatto con la P.A., entità questa tenuta a garantire superiori standard di sicurezza, sia per la più diffusa estensione del proprio impatto sociale, sia perché le finalità perseguite sono poste nell’interesse dei consociati e orientate al rispetto delle esigenze di buon andamento ed imparzialità ex art. 97
Cost. non previste per gli enti privati.
Ciò posto, come per le persone giuridiche, anche per la P.A. sussiste un rapporto di immedesimazione organica con le persone fisiche che ne fanno parte integrante. Nel senso che, per mezzo della persona fisica preposta all’organo, è la stessa persona giuridica che vuole ed agisce, stante che la persona giuridica è un’entità astratta che non può aver propria volontà se non per il tramite di una persona fisica[11]. La personalità del dipendente pubblico e quella dell’Ente si sovrappongono quindi divenendo un unicum (quasi) inscindibile. Considerato l’abbandono da parte della giurisprudenza del concetto di culpa in eligendo o di culpa in vigilando nella responsabilità ex art. 2049 c.c., e la conseguente impossibilità per la P.A. di rendere prova liberatoria rispetto al fatto illecito del dipendente, alcuni definiscono la responsabilità del preponente come oggettiva[12], ma a prescindere dall’inquadramento in una specifica categoria extracontrattuale, occorrerà sempre valutare la sussistenza della colpa o del dolo dell’agente nel quale la P.A. si è personificata.
La sentenza delle sezioni penali n. 50097/2023, pur non richiamando quella delle S.U. civili n. 13246/2019, ne applica comunque i principi in termini di responsabilità diretta ed in particolare definisce gli elementi concreti del nesso di occasionalità che lega l’azione del dipendente con la prestazione lavorativa.
La Corte afferma che sussiste in astratto una relazione tra prestazione ed illecito, quando questi viene compiuto «sfruttando i compiti svolti», anche se l’agente ha esorbitato «i limiti delle sue incombenze e persino se ha violato gli obblighi a lui imposti», (nello stesso senso viene richiamata la sentenza della Sez. 6, n. 44760 del 04/06/2015). Nel concreto si legge nella pronuncia che «si è accertato che il fatto è stato commesso durante l'orario di lavoro del dipendente, sul luogo di lavoro ed a causa della disponibilità da parte del dipendente delle chiavi che consentivano l'apertura delle porte di emergenza dell'ascensore bloccato».
L’impianto motivo ha quindi il merito di estrarre dalla condotta quei suoi singoli segmenti che mettono in luce come il rapporto di lavoro sia stato occasione dell’evento. Il dipendente era infatti in orario di servizio e sul luogo cui è stato a ciò preposto. Tali circostanze, senz’altro, sono già sufficienti ad attivare il meccanismo dell’immedesimazione organica, perché in quel momento storico il preposto agiva come se fosse il preponente; per riprendere una definizione poc’anzi richiamata, e ricorrendo ad una ficto iuris, a volere e ad agire era la persona giuridica[13]. C
ome si vedrà nel paragrafo successivo, qualunque azione compiuta nell’orario e sul posto di lavoro difficilmente fuoriesce dal regime del rapporto organico, ma, nel caso in esame, vi è anche un ulteriore elemento che ne rende pacifica la sussistenza, ovvero la disponibilità delle chiavi dell’ascensore, che – secondo apposito regolamento – non dovevano essere utilizzate dall’autore dell’incauta condotta, bensì da personale appositamente formato per operazioni di soccorso. Il possesso delle dette chiavi era dovuto a ragioni di servizio, così come il loro – seppur improprio – utilizzo, sicché l’immedesimazione organica non può venir meno per il fatto che le operazioni di soccorso non rientrassero nelle mansioni contrattuali dell’agente.
Alla luce delle superiori considerazioni, può cogliersi il valore dell’ulteriore lembo motivazionale della sentenza in commento, laddove si precisa che «occorre che il comportamento del reo possa dirsi in linea con le finalità proprie dell'amministrazione pubblica, nel senso che … il comportamento illecito … risulti comunque finalizzato al raggiungimento dei fini istituzionali ….». In concreto, l’azione compiuta dal dipendente, finalizzata a soccorrere gli utenti rimasti intrappolati nell’ascensore, non era certamente egoistica e compiuta per fini personali, bensì era «in linea con le finalità» del datore di lavoro. Applicando i principi promananti dalla Sezioni Unite civili, la Pubblica Amministrazione è in questo caso responsabile in via diretta, perché il lavoratore risulta aver agito, pur se impropriamente, per soccorrere gli utenti della società pubblica, quindi, giustamente, non è stato richiamato l’art. 2049 c.c., non essendo necessario far ricorso allo schema della responsabilità indiretta.
La Corte afferma, inoltre, che la sussistenza del nesso di occasionalità è insuscettibile di essere contraddetta dalla tematica, sollevata dalla difesa, secondo la quale l’agente non avrebbe agito perseguendo le finalità dell’Ente, bensì scopi altruistici e quindi individuali. La prospettiva non è stata ritenuta meritevole di accoglimento. Piuttosto, il lodevole sforzo ermeneutico di considerare un fine altruistico come sconnesso da quelli statutari della persona giuridica viene ricondotto dalla Corte di Cassazione, e prima di essa dai giudici del secondo grado, a circostanza incidente sulla valutazione della condotta, al solo fine del trattamento sanzionatorio. Pur se estraneo alle proprie mansioni, il fine del dipendente è stato comunque quello di tutelare l’incolumità dei passeggeri e quindi di «realizzare l'interesse dell'azienda al regolare svolgimento dell'attività del trasporto».
Il meccanismo adottato dalle Sezioni Unite civili con l’approdo giurisprudenziale del 2019 rende peraltro non decisivo etichettare il fine perseguito, essendo stato chiarito in quella occasione che «deve ammettersi la coesistenza dei due sistemi ricostruttivi, quello della responsabilità diretta soltanto in forza del rapporto organico e quello della responsabilità indiretta o per fatto altrui: entrambi sono validi, poiché il primo non esclude il secondo ed ognuno viene in considerazione a seconda del tipo di attività della P.A. di volta in volta posta in essere»[14].
Quindi la Cassazione ha definito come decisivo l’accertamento del nesso di occasionalità, la positiva verifica del quale può condurre a ritenere responsabile la P.A. ora in via diretta, quando il fine dell’agente coincide con quello dell’Ente, ora in via indiretta ex art. 2049 c.c., quando il fine è individuale od egoistico. Ecco, quindi, che, dei tre elementi evidenziati dalla citata sentenza n. 50097/2023 (orario di lavoro – luogo di lavoro – scopo perseguito), l’ultimo, cioè il fine dell’azione, è servito a definire come diretta la responsabilità della società pubblica, ma anche laddove il fine fosse stato personale e non in linea con gli scopi statutari, è plausibile ritenere che la responsabilità sarebbe stata comunque accertata, ancorché in via indiretta.
4. L'accertamento del nesso di occasionalità quale elemento necessario a fondare la responsabilità indiretta della P.A.
L’accertamento del nesso di occasionalità deve essere realizzato attraverso le linee guida tracciate dalla più volte citata sentenza delle Sezioni Unite civili, ove si fa ricorso ai criteri della causalità adeguata e, quindi, ad un giudizio controfattuale adattato alla tematica specifica. La Suprema Corte ha in particolare statuito che «il preponente pubblico … risponde del fatto illecito del proprio funzionario o dipendente ogni qual volta questo non si sarebbe verificato senza l’esercizio delle funzioni o delle attribuzioni o dei poteri pubblicistici».
Tra i precursori giurisprudenziali dell’affermato principio vi è la sentenza della Cassazione civile, Sez. III, n. 22058 del 22/09/2017, dove si precisa che l’accertamento non va concentrato sul nesso di causalità tra le mansioni affidate al dipendente e l'illecito, poiché il rapporto di occasionalità necessaria sussiste piuttosto quando le mansioni assegnate al dipendente abbiano reso possibile o comunque agevolato il comportamento produttivo del danno al terzo. In sintesi, non occorre che l’illecito sia stato perpetrato esercitando la mansione affidata.
I due arresti giurisprudenziali, quello del 2019 e quello del 2017, hanno in concreto riguardato, il primo, un reato di peculato di un cancelliere per sottrazione di somme depositate presso un ufficio giudiziario e, il secondo, un delitto di violenza sessuale di un medico anestesista in danno di paziente narcotizzato in vista di un intervento chirurgico. L’azione eseguita per commettere i reati in questione non è sovrapponibile ad alcuna delle mansioni proprie delle qualifiche rivestite. Entrambe le fattispecie denotano peraltro un fine illecito dell’autore, che ben si discosta da quelli dell’Ente. Tuttavia, per i rispettivi autori, è stato possibile commettere il reato solo sfruttando l’incarico ricoperto, e ciò è sufficiente a far ricadere la loro condotta nel perimetro di responsabilità della Pubblica Amministrazione, poiché se non avessero rivestito la qualifica, rispettivamente, di cancellerie e di anestesista, non si sarebbero verificati i delitti in esame.
L’incarico lavorativo ricoperto è stato pertanto l’occasione per commettere l’illecito, tanto essendo sufficiente a realizzare l’immedesimazione organica tra l’agente e la Pubblica Amministrazione e ad attivare i meccanismi tipici della responsabilità indiretta di cui all’art. 2049 c.c.
L’occasionalità necessaria è quindi data da un giudizio controfattuale, secondo il quale, rimuovendo ipoteticamente le mansioni o l’incarico ricoperto dal dipendente, l’illecito non sarebbe stato realizzabile. Nel caso in cui, invece, l’illecito sarebbe stato ugualmente possibile, deve dedursi che la funzione ricoperta non sia stata decisiva, con conseguente venir meno dell’immedesimazione organica tra ente e persona fisica, assumendo quest’ultima la responsabilità esclusiva della propria azione.
5. L’illiceità conseguente a meri comportamenti del personale pubblico e la responsabilità della P.A.
Si è detto in precedenza come gli scopi dell’ente possano essere perseguiti sia con l’adozione di un formale provvedimento amministrativo, emesso nell’ambito e nell’esercizio di poteri autoritativi e discrezionali della P.A., sia mediante un’attività materiale che non si traduca in provvedimenti amministrativi formali, bensì consista in meri comportamenti. Il caso sotteso alla sentenza n. 50097/2023 delle Sezioni Penali della Cassazione dimostra come gli atti illeciti perpetrati mediante meri comportamenti possano dar luogo ad una responsabilità diretta dell’Amministrazione, sempreché questi rimangano in linea con lo scopo dell’Ente.
La parte conclusiva di questa analisi verte pertanto sull’accertamento dell’occasionalità necessaria, proprio in ipotesi di atti illeciti consistenti in comportamenti che non diano luogo a provvedimenti formali, trattandosi probabilmente delle vicende di maggiore complessità esegetica, quantomeno al fine di determinare, sul piano della responsabilità civile, il coinvolgimento della Pubblica Amministrazione nell’eventuale illecito.
Uno dei settori più adatti a spiegare questo fenomeno è quello occupato dagli operatori delle forze dell’ordine, che spesso sono chiamati a perseguire i fini dell’Amministrazione con mansioni operative, dinamiche e non provvedimentali, per garantire la sicurezza sociale e l’ordine pubblico.
Dal raffronto di due precedenti giurisprudenziali, in particolare, appare potersi segnare una linea di confine tra fenomeni di corresponsabilità dell’Amministrazione e casi di esclusiva responsabilità personale dell’agente, confine che può tracciarsi proprio tramite l’opportuna lettura del principio di occasionalità necessaria.
Si tratta, in particolare, delle sentenze della sezione civile della Corte di Cassazione n. 21408 del 10/10/2014 e n. 26527 del 17/12/2007. La prima riguardante un agente di Polizia che, al di fuori delle attività di servizio, feriva una persona esplodendo un colpo di pistola di ordinanza; la seconda riguardante ancora un operatore di polizia che aggrediva un terzo, sempre fuori dall'orario di lavoro, e non nell'esercizio delle proprie funzioni. È interessante notare perché per la prima vicenda sia stata ritenuta sussistente l’occasionalità di lavoro e quindi la responsabilità dell’Amministrazione accanto a quella dell’agente, mentre nel secondo si è ritenuta responsabile la sola persona fisica.
Dall’opportuno approfondimento delle due vicende, apparentemente analoghe, possono denotarsi decisivi tratti differenzianti. I fatti giudicati dalla sentenza n. 21408/2014 si sono verificati per un'animata discussione intrapresa da alcuni frequentatori di un luna park. Il poliziotto è intervenuto per sedare gli animi e riportare l’ordine pubblico, atteso peraltro che ciò è avvenuto in un luogo aperto al pubblico e quindi in presenza di altri frequentatori che avrebbero potuto subire nocumento dall’aggravarsi della disputa. L’intervento ha quindi avuto un fine di pubblica sicurezza dell’Amministrazione nella quale l’agente era organicamente immedesimato.
Dalla narrativa della sentenza si evince peraltro che l’agente si è dapprima qualificato e, successivamente, non riuscendo a sedare gli animi, ha utilizzato l’arma in dotazione per evitare di essere aggredito. Atteso il fine perseguito dall’agente, la Suprema Corte ha ritenuto sussistente la responsabilità della Pubblica Amministrazione, valutando l’azione come espressione dell’immedesimazione organica tra persona fisica e giuridica. D’altronde, pur avvenendo i fatti fuori dall’orario di servizio, è noto che gli appartenenti alla Polizia di Stato siano considerati in servizio permanente, non cessando dalla loro qualità di pubblici ufficiali anche quando non comandati in servizio[15]. Quindi l’azione ritenuta poi lesiva è certamente compiuta dall’Amministrazione per mano del proprio dipendente che ne ha perseguito lo scopo, agendo in linea con esso.
L’altro caso posto in evidenza, quello trattato dalla citata sentenza n. 26527/2007, ha riguardato un’aggressione fuori dall’orario di servizio per la quale un agente di polizia era già stato giudicato responsabile dal giudice penale. In questo caso i giudici civili del merito, occupandosi della responsabilità civile della Pubblica Amministrazione, avevano constatato come la condotta non presentasse nessun elemento che potesse collegare l'aggressione operata con le pubbliche funzioni normalmente esercitate da un agente di polizia. Piuttosto l’agente aveva compilato una relazione di servizio dopo il fatto, per giustificare l’accaduto, senza che questa fosse stata ritenuta credibile. Non occorre addentrarsi sui fatti sinteticamente riportati nella decisione, quanto piuttosto sulla questione che la Corte di legittimità ha posto in evidenza, ovvero la ricerca di elementi che colleghino la condotta agli scopi normalmente eseguiti dal corpo di appartenenza dell’agente, analisi questa che ha evidentemente fatto emergere la sussistenza di una aggressione che nulla ha avuto a che vedere con le funzioni di pubblica sicurezza, e ciò a prescindere dal fatto che tutto sia avvenuto fuori dall’orario di servizio. Ciò constatato l’Amministrazione è stata ritenuta esente da responsabilità.
Entrambi i ragionamenti adoperati nelle sentenze dalla Corte di Cassazione ora esaminate sono aderenti alla logica del giudizio controfattuale.
Nel primo caso, escludendo ipoteticamente la sussistenza del rapporto di servizio tra l’agente e l’Amministrazione di Pubblica Sicurezza, l’agente non avrebbe commesso l’illecito, essendo intervenuto all’interno del luna park per fini di ordine pubblico, qualificandosi all’uopo come pubblico ufficiale ed utilizzando un’arma detenuta per ragioni di servizio. La dinamica affrontata dall’altra pronuncia e gli eventi ad essa conseguenti non subiscono invece mutamenti ipotizzando l’assenza della qualifica di pubblico ufficiale, che rimane neutra ai fini della realizzazione dell’aggressione, cosicché da far venir meno l’ipotesi della immedesimazione organica.
6. Conclusioni
La varietà di orientamenti sul tema della responsabilità della P.A. si è sensibilmente stabilizzata a seguito dell'intervento delle SS.UU. civili con la sentenza n. 13246 del 2019, che ha dato modo di mitigare i contrasti giurisprudenziali sorti al riguardo in ambito civile, penale ed amministrativo. Nel solco tracciato dal detto arresto giurisprudenziale si è posta la sentenza della Cassazione penale n. 50097/2023 che, frazionando la condotta nei vari elementi che l’hanno caratterizzata, ha valutato il fine perseguito dall’agente e l’aderenza dello stesso allo scopo del datore di lavoro pubblico. Il positivo accertamento circa la coincidenza tra le finalità dell’Ente e quelle dell’agente dà luogo ad una responsabilità diretta che, in questo caso, è stata perseguita con un comportamento materiale e non con atti formali.
L’approfondimento sul tema nel tempo operato dalla giurisprudenza dà oggi la possibilità di distinguere due livelli di responsabilità della P.A. per fatto dei propri dipendenti. Una responsabilità diretta, che si verifica, comunemente, qualora l’illecito venga perpetrato con atti formali, nonché quando lo stesso sia dovuto ad atti materiali, ma compiuti per realizzare scopi normalmente perseguiti dal datore di lavoro pubblico o comunque in linea con essi. In questo caso l’esposizione della P.A. alle rivendicazioni del danneggiato è fondata sul rapporto di immedesimazione organica tra Ente pubblico e dipendente, ex art. 28 Cost.
Accanto alla responsabilità diretta si colloca la responsabilità indiretta, che deve essere valutata, soprattutto in caso di comportamenti materiali, laddove il dipendente pubblico abbia cagionato un danno ingiusto perseguendo scopi individuali e non in linea con le finalità dell’Ente. In questo caso, l’interprete è chiamato a vagliare l’applicabilità della responsabilità ex art. 2049 c.c., presupposto della quale è l’accertamento del nesso di occasionalità necessaria tra l’azione illecita ed il rapporto di dipendenza con l’Amministrazione. Detto nesso sussiste ogniqualvolta il danno non si sarebbe potuto verificare senza l’esercizio delle funzioni pubbliche demandate all’agente in forza del rapporto di lavoro.
[1] Cass. civ., Sez. III, Sentenza, 12/04/2011, n. 8306
[2] cfr. Cass. pen., Sez. VI, Sentenza, 20/01/2015, n. 13799
[3] Grazia Tursi, La responsabilità civile dello Stato per i danni cagionati dalla condotta del dipendente, in Danno e Responsabilità, 2019, 4, 506
[4] Corte di Cassazione S.U. sentenza 16/05/2019, n. 13246
[5] cfr. Cassazione civile n. 5851/1979
[6] Cass. civ., Sez. III, 20/06/2001, n. 8381
[7] G. Galgano, diritto civile e commerciale vol. II, Padova, 2004, 424 e ss.
[8] si veda per la responsabilità del dipendente per lesione di interessi legittimi, Cass. civ., Sez. III, Sentenza, 31/07/2015
[9] P. Trimarchi, Rischio e responsabilità oggettiva, Milano, 1961, 57 e ss.
[10] Cass. civ., Sez. III, Sentenza, 06/07/2023, n. 19149
[11] M. Clarich, Manuale di diritto amministrativo, Bologna, 2015, 313
[12] G.M. Marino, I danni nel diritto del lavoro, Milano, 2022, 32 e ss.
[13] M. Clarich Manuale di diritto amministrativo cit.
[14] Corte di Cassazione S.U. sentenza 16/05/2019, n. 13246
[15] Cass. pen., Sez. VI, Sentenza del 09/12/2014, n. 52005; Cass. pen., Sez. VI, Sentenza del 10/11/2009, n. 42639