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Pubbl. Mer, 10 Gen 2024
Sottoposto a PEER REVIEW

Per la Corte costituzionale anche per l´autoriciclaggio è illegittimo il divieto di prevalenza dell´attenuante sulla recidiva

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Lorenzo Vasile
Praticante AvvocatoUniversità degli Studi di Roma La Sapienza



Nella recente sentenza n. 188 del 2023 la Corte costituzionale ha dichiarato l´illegittimità dell´art. 69, co. 4, c.p. nella parte in cui esclude la prevalenza dell´attenuante ai sensi dell´art. 648 ter.1, co. 2, c.p., così come previsto dalla Legge del 15.12.2014 n. 18, sulla recidiva ex art. 99 co 4 c.p.


Sommario: 1) Premessa; 1.1) L’art. 69, co. 4, c.p., i precedenti giurisprudenziali e di legittimità e i contrasti con gli artt. 3, 25, co. 2 e 27, co. 3, Cost.; 1.2) L’art. 648 ter.1 c.p. tra vecchia e nuova formulazione; 2) La sentenza; 3) Conclusioni.

1. Premessa

Il presente studio esporrà il recente, ma non ultimo, intervento della Corte costituzionale avente ad oggetto l’art. 69, co. 4, c.p.; la citata disposizione, già a più riprese contestata in sede di legittimità costituzionale, statuisce il divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti sulla recidiva di cui all’art. 99, co. 4, c.p., che, con la pronuncia n. 188 del 2023, oggetto del presente testo, è da considerarsi illegittimo relativamente alla sua applicazione nei casi disciplinati dall’art. 648 ter.1, comma secondo, c.p., nella sua formulazione prevista antecedentemente all’introduzione della riforma n. 195 del 2021.

1.1. L’art. 648 ter.1 c.p. tra vecchia e nuova formulazione

L’attuale testo dell’art. 648 ter.1, co. 3, c.p., così come modificato dall’art. 1, co. 1, lett. f), n. 3) del D.lgs n. 195 del 2021, dispone che: «La pena è diminuita se il denaro, i beni o le altre utilità provengono da delitto per il quale è stabilita la pena della reclusione inferiore nel massimo a cinque anni»; l’articolo in questione – che disciplina la condotta di chi, al fine di occultare od ostacolare l’identificazione di denaro, beni o altre utilità provenienti da delitti, avendo commesso o concorso a commetterli, trasferisce i proventi di tali crimini in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative – in pendenza di causa è stato oggetto di importanti modifiche legislative, comportando una riflessione ermeneutica relativamente all’individuazione della novella rationae temporis adatta.

È, infatti, noto che il Diritto penale si fonda sul principio tempus regit actum, per cui l’efficacia della legge è circoscritta al tempo in cui la legge medesima è in vigore[1];  nel caso di specie, essendo la condotta posta in essere dall’agente relativa a marzo 2019, il Giudice a quo ha ritenuto, con cognizione di causa, doversi applicare la disciplina tracciata dal legislatore nel 2014 e superata solo nel 2021 da nuovo intervento normativo.

Quanto predetto è fondato e condiviso dalla Corte de quo; orbene, giova ricordare che l’efficacia della legge penale nel tempo è sorretta da principi di carattere generale, tra cui quello dell’art. 2, co. 4, c.p. che prevede nei casi di disposizioni soltanto modificative dell’incriminazione, l’applicazione di quella più favorevole al reo; a tal fine, per «stabilire […] quale delle due discipline sia più favorevole»[2] si deve rintracciare quella che, applicata al caso concreto, sia la meno gravosa, in termini di periodo di reclusione, per l’ipotetico condannato, nel caso di specie, chiaramente la novella del 2014, perché, difatti, indica una pena dimezzata rispetto a quella edittale, a differenza dell’attuale novella riconfigurata come mera attenuante comune.

Pertanto, fatta questa premessa, doverosa più che utile, il lettore potrà perdonare l’odierno scrivente se si concentrerà, da qui in avanti, più dettagliatamente sulla formulazione testuale antecedente a quella attuale.

Introdotto con L. del 15.12.2014, n. 18, l’art. 648 ter.1 testimonia la volontà di perseguire la lotta al riciclaggio che l’opinione pubblica ha, con forza, trasmesso alla politica[3]; nonostante, quindi, il fine della norma, apparsa figlia, più che di un’esigenza normativa, di una necessaria immolazione sacrificale volta a ripulire l’immagine di una classe dirigente accusata di essere «connivente […] con “furbetti” e “furboni”»[4], essa, nell’originale formulazione, rappresentava un corretto connubio tra repressione e rieducatività, prevedendo, oltre ad una causa di non punibilità per le condotte che non si traducano in una distorsione del mercato, ma che si esauriscano in un mero godimento personale dei beni, anche di una circostanza attenuate, al co. 2, che prevedeva una pena esattamente dimezzata rispetto a quella edittale, per i casi in cui il delitto presupposto fosse «punito con la reclusione inferiore nel massimo a cinque anni».

Fondamentale, ai fini ermeneutici e pratici, è sottolineare che quest’ultima è da ritenersi attenuante a carattere speciale e non fattispecie autonoma di reato, tesi che corrisponde alla soluzione pacificamente adottata dalla giurisprudenza della Corte di cassazione rispetto alla simile previsione di cui all’art. 648, co. 4, c.p. (Cass. Sez. VII Pen., ord. 8 luglio-21 ottobre 2022, n. 39944; Sez. II Pen., sent. 13 maggio-1° luglio 2021, n. 25121.).

La riforma n. 195 del 2021 ha, invece, inasprito quella che era la previgente previsione legislativa in materia (non solo relativamente all’articolo esaminato, ma anche nei confronti dei reati di cui agli artt. 648, 648 bis, 648 ter), allargando il novero dei reati presupposto anche ad alcune contravvenzioni e ai delitti colposi e, nel caso dell’autoriciclaggio, ha trasformato la circostanza di cui sopra in attenuante ad effetto comune, rendendola, quindi, più sfavorevole rispetto al reo.

Recente intervento dottrinale[5] ha fatto notare come quelle operate dal legislatore delegato sono state scelte positive, ma «al contempo [hanno] determinato (o lasciato irrisolti) alcuni importanti nodi problematici e profili di irrazionalità nel sistema, che meriterebbero viceversa di essere sciolti ed emendati, senza particolare sforzo, con un intervento correttivo del legislatore.», ma, a parere dello scrivente, esse appaiono come eccessivamente ed inutilmente gravose nei confronti di eventuali imputati, i quali, in seguito alla riforma, potrebbero esser condannati a pene eccessive rispetto all’oggetto dei reati presupposto sottesi ai singoli reati di cui agli artt. 648 e ss. c.p.; probabilmente l’aver diminuito il favor della circostanza attenuante e l’aver espanso l’area di punibilità anche alle contravvenzioni e ai delitti colposi ha prodotto un eccesso di irrigidimento, essendo sufficiente, forse, l’introduzione di una sola tra le due modifiche al comparto originario della disposizione.

1.2. L’art. 69, co.4, c.p. e i precedenti giurisprudenziali e di legittimità

La disposizione censurata è contenuta nell’art. 69 c.p. che disciplina il coordinamento delle norme riguardanti le circostanze aggravanti e attenuanti, il c.d. bilanciamento; generalmente si distinguono tre ipotesi, contenute nei primi tre commi: 1) quando concorrono insieme circostanze aggravanti e circostanze attenuanti, e le prime sono dal giudice ritenute prevalenti, non si tiene conto delle diminuzioni di pena stabilite per le circostanze attenuanti, e si fa luogo soltanto agli aumenti di pena stabiliti per le circostanze aggravanti (co. 1); 2) se le circostanze attenuanti sono ritenute prevalenti sulle circostanze aggravanti, non si tiene conto degli aumenti di pena stabiliti per queste ultime, e si fa luogo soltanto alle diminuzioni di pena stabilite per le circostanze attenuanti (co. 2); c) se fra le circostanze aggravanti e quelle attenuanti il giudice ritiene che vi sia equivalenza, si applica la pena che sarebbe inflitta se non concorresse alcuna di dette circostanze (co. 3).

Questo bilanciamento delle circostanze è rimesso alla libera valutazione del giudice chiamato a calibrare la pena secondo le peculiarità del caso concreto; ed è proprio in questo quadro teorico-normativo che si pone il comma quarto della disposizione citata, infatti, dice l’art. 69, co. 4, c.p.: «Le disposizioni del presente articolo si applicano anche alle circostanze inerenti alla persona del colpevole, esclusi i casi previsti dall'articolo 99, quarto comma, nonché dagli articoli 111 e 112, primo comma, numero 4), per cui vi è divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti sulle ritenute circostanze aggravanti, ed a qualsiasi altra circostanza per la quale la legge stabilisca una pena di specie diversa o determini la misura della pena in modo indipendente da quella ordinaria del reato».

Chiaramente, il citato testo (modificato con l’art. 3, L. 5 dicembre 2005, n. 251, c.d. ex Cirielli), si pone all’interno della disciplina come norma dallo spiccato fine derogatorio di portata generale, riguardante tre circostanze aggravanti inerenti alla persona del colpevole: la recidiva reiterata (art. 99, co. 4, c.p.), protagonista della vicenda; la determinazione al reato di persona non imputabile, ovvero, non punibile (art. 111 c.p.); la determinazione al reato di un minorenne, o di infermo psichico, ovvero l’essersene avvalso al fine di commettere un delitto per il quale è previsto l’arresto in flagranza (art. 112, co. 1, n. 4), c.p.)[6].

La riforma del citato comma è parte di una tendenza legislativa avente come obiettivo il porre un argine alla discrezionalità del Giudice in fase di determinazione della pena, in via contraria all’ampliamento, in tal senso, apportato dalla riforma del 1974; si ravvisava, agli occhi del legislatore, un atteggiamento troppo “mite” nei confronti dei rei, quantomeno in tema di criminalità organizzata, terrorismo e ulteriori reati dal carattere “eccezionale”.

E proprio a tale filone legislativo che si deve la nascita della categoria delle cc.dd. circostanze privilegiate o a c.d. “blindatura forte”, ovvero, circostanze il cui regime edittale viene garantito ex lege, non operandosi, quindi, alcun giudizio di comparazione con quelle di segno opposto e, per cui, opera, quindi, un vero e proprio divieto di prevalenza o di equivalenza.

Sono da considerarsi tali, per esempio, le aggravanti in tema di terrorismo (art. 1, co. 3, D.L. 15 dicembre 1979, n. 625, convertito dalla L. 6 febbraio 1980, n. 15, art. 280, co. 5, c.p. e, dal 2003, art. 280 bis, co. 5, c.p.), di reati di stampo mafioso (art. 7, D.L. 13 maggio 1991, n. 152, convertito dalla L. 12 luglio 1991, n. 203, ora art. 416 bis.1 c.p.); sul tema conviene citare direttamente le parole della Corte costituzionale che spiegano egregiamente la legittimità di una tale scelta normativa «[h]a affermato questa Corte (sentenza n. 38 del 1985) che “[n]ell’art. 69 c.p. […] l’obbligatorietà del giudizio di bilanciamento ha una sua razionalità nell’essenza stessa di quella valutazione, che è giudizio di valore globale del fatto”. Ma il legislatore può sospendere l’applicazione dell’art. 69 c.p., togliendo al giudice il potere discrezionale di operare il bilanciamento a compensazione delle aggravanti o a favore delle attenuanti in un’ottica di inasprimento sanzionatorio. Si tratta di una “grave limitazione” che in sé non è illegittima, ma non può accompagnarsi anche alla irrilevanza ex lege delle circostanze attenuanti. Con questa limitazione, si è quindi riconosciuto che appartiene alla discrezionalità del legislatore introdurre speciali ipotesi di circostanze aggravanti privilegiate che sono sottratte al bilanciamento di cui all’art. 69 c.p.»[7].

Giova sottolineare, però, che quelle indicate dall’art. 69, co. 4, c.p., non rientrano pienamente in questa categorizzazione, essendo, in realtà, da considerarsi a privilegio c.d. parziale, ovvero a c.d. “blindatura debole”, nel senso che si sottraggono al bilanciamento in termini di minusvalenza, ma che hanno resistenza parzialmente vincibile mediante la neutralizzazione del possibile aumento, a seguito di un giudizio di equivalenza con le circostanze attenuanti.

Pertanto, in presenza di una delle tre circostanze aggravanti introdotte dalla L. 5 dicembre 2005, n. 251, il bilanciamento non è escluso, ma è «parzialmente predeterminato»[8], essendo esclusa o, meglio, vietata, solo la prevalenza di attenuanti su di esse, rimanendone consentita, però, un’eventuale “pareggio”.

In tema è intervenuta, egregiamente, la Corte Suprema di cassazione a Sezioni Unite, di cui si riporta il seguente passaggio: «Le circostanze attenuanti che concorrono sia con circostanze aggravanti soggette a giudizio di comparazione ai sensi dell’art. 69 c.p., sia con circostanza che invece non lo ammette in modo assoluto, devono essere previamente sottoposte a tale giudizio e, in caso di ritenuta equivalenza, si applica la pena che sarebbe inflitta – per il reato aggravato da circostanza “privilegiata” – se non ricorresse alcuna di dette circostanze» (Cass. Sez. Un., 29 aprile 2021, n. 42414, Pres. Cassano, est. Rosi, ric. Cena e altri)[9].

Inoltre, sempre con la stessa finalità, la L. del 2005, ha sostituito anche l’art. 99 c.p., nella sua formulazione precedente di gran lunga più tenue, avendo, il legislatore del 1974, non solo ridotto gli incrementi di pena per le varie ipotesi di recidiva e prevedendo come facoltativo il conseguente aumento della pena; con la sua nuova formulazione, invece, si ha avuto la reintroduzione dell’obbligatorietà applicativa e un aumento del rigore, oltre che, per i casi di recidiva reiterata, l’aumento di pena elevato rispettivamente a metà per quella semplice e a due terzi per quella specifica.

Senza non troppo stupore, la norma oggetto d’esame, è stata più volte impegnata in giudizi di legittimità costituzionale presso la Corte di Palazzo della Consulta, per asseriti contrasti con gli artt. 3 (principio di eguaglianza), 25, comma secondo (principio di offensività del reo) e 27, comma terzo (necessaria proporzionalità della pena tendente alla rieducazione del condannato) Cost., portando a diverse pronunce di illegittimità riferite all’applicazione del divieto di prevalenza rispetto a specifiche diminuzioni di pena di alcune figure di reati.

Giova ricordare, a proposito, l’ottima sentenza della Corte costituzionale n. 94 del 2023, la quale nel punto 10 del “considerato in diritto” ha stilato una sintetica illustrazione, partendo dalla “capostipite”, la n. 251 del 2012, delle varie rationes decidendi che si sono susseguite nel tempo; sicuramente, sospinta dal forte impatto mediatico sotteso al giudizio, giunto sino alla sentenza del 6 luglio-11 ottobre 2022, n. 38184, della Corte di cassazione, dovuto al clamore del reato per cui si perseguiva[10] (attentato dinamitardo ai danni della scuola Allievi Carabinieri di Fossano), la sentenza n. 94 risulta, ad oggi, la fonte più attenta e completa da cui “attingere sapere”.

Nel caso di specie, in sintesi, la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Torino otteneva la cassazione con rinvio della pronuncia con cui la Corte d’Appello di Torino condannava l’imputato per il reato di cui all’art. 422 c.p., in quanto il fatto doveva essere riqualificato nella fattispecie del più grave art. 285 c.p.; riconosciuta la sussistenza della pretesa agitata della Procura, il Giudice a quo, il quale, correttamente, constatava l’eccessività della pena irrogabile nei confronti del reo ha invocato l’intervento della Corte di Palazzo della Consulta.

L’art. 69, co. 4, c.p. coordinato con la norma di cui all’art. 285, comportava l’inapplicabilità di una qualsiasi attenuante con la tragica conseguenza (essendo quella d’imputazione una dei sei soli casi di reato puniti con la pena principale dell’ergastolo[11]) di una certa condanna “fine pena mai”; ciò, nonostante fossero state riconosciute all’imputato la circostanza attenuante di cui all’art. 311, oltre che, le generiche, ai sensi dell’art. 62 bis c.p., che quantomeno, in virtù dell’art. 65 c.p. avrebbero garantito una più consona condanna riqualificata nella reclusione per anni dai venti ai ventiquattro.

In particolare, il rimettente lamentava una violazione degli artt. 3 Cost., in riferimento alla violazione del principio di uguaglianza, in quanto determinerebbe l’applicazione della medesima pena dell’ergastolo a fatti dal differente nocumento; 25, comma secondo, in riferimento alla sproporzionalità tra gravità della condotta e pena irrogata, da calibrarsi proprio per mezzo degli elementi circostanziali, affinché sia garantita la finalità rieducativa e non solo punitiva della sanzione; 27, comma terzo, Cost., «in quanto si avrebbe l’applicazione della più grave fra le sanzioni detentive a prescindere da ogni considerazione sulla gravità dell’offesa in concreto arrecata»; oltre che il contrasto con il principio statuito dalla sent. n. 1538, Cass. Sez. I Pen., 15 novembre 1978, per cui la compatibilità dell’ergastolo ai principi costituzionali sulla proporzionalità della pena può essere affermata, quanto all’art. 285 c.p., soprattutto in considerazione del fatto che, proprio attraverso l’applicazione delle circostanze attenuanti, «non si sottrae al giudice la possibilità di far luogo alla pena della reclusione in luogo di quella dell’ergastolo».

Posto questo piccolo excursus sui fatti sottesi alla pronuncia e prima di esaminare più attentamente le restanti pronunce rilevanti, giova preliminarmente evidenziare che sebbene attinenti a reati e attenuanti diversi, da esse si possono ricavare principi comuni; la giurisprudenza della Corte ha raggruppato in tre gruppi i casi di illegittimità riscontrati, ovvero, quelli in cui essa è dovuta: 1) dalla particolare ampiezza della divaricazione tra la pena base e quella risultante all’applicazione dell’attenuante; 2) dalla natura di alcune attenuanti, di particolare rilievo rispetto alle fattispecie di reato non circostanziato, per esempio nei casi di condotte diverse, che necessitano di essere differenziate fra loro nel trattamento sanzionatorio; 3) dall’importanza del profilo soggettivo del reo, ovvero, dai casi in cui è la ridotta rimproverabilità soggettiva dell’autore ad essere causa di contrasto. 

Appartengono alla prima categoria, la più vasta, le pronunce n. 251 del 2012, n. 74 del 2016 e n. 201 del 2023 relative agli artt. 73, co. 5 e 7 e 74, co. 7, D. P. R. 309/90 e la n. 105 del 2014, relativamente al reato di cui all’art. 648, co. 2, c.p.; in tutte queste pronunce è stata «riconosciuta alle singole attenuanti, anche non ad effetto speciale, una necessaria funzione riequilibratrice del marcato divario tra una pena particolarmente elevata per il reato base a fronte di quella che altrimenti risulterebbe dall’applicazione dell’attenuante; funzione che, per il rispetto dei principi costituzionali di eguaglianza (art. 3, primo comma, Cost.), di offensività della condotta sanzionata penalmente (art. 25, secondo comma, Cost.) e di proporzionalità della pena tendente alla rieducazione del condannato (art. 27, terzo comma, Cost.), non può essere compromessa dal divieto di prevalenza sulla recidiva reiterata recato dalla disposizione censurata.».

Al secondo raggruppamento, che si ricorda riguardare casi in cui l’intento del legislatore, nel disporre l’attenuante, era quello di differenziare nettamente il disvalore oggettivo tra l’ipotesi base e quella circostanziata, appartiene sicuramente la pronuncia odierna, la n. 188 del 2023, poiché, sebbene sussumibile anche alle restanti ipotesi, è proprio la natura della disposizione di cui al comma secondo a risultare violata dal divieto di prevalenza: il legislatore nel momento in cui l’ha prevista come attenuante speciale ha voluto imprimere una netta differenziazione, trasferita anche sul piano sanzionatorio, tant’è che questa volontà è talmente palese che giurisprudenza minoritaria la riconosceva come autonoma figura di reato; la proiezione di un’identica pena alle due ipotesi tradirebbe gli stessi intenti legislativi.

2. La sentenza n. 188 del 2023

Giudice a quo nella questione di legittimità è il Tribunale ordinario di Firenze, il quale, nel corso di un giudizio relativo al reato di autoriciclaggio (nella versione rationae temporis applicabile, come ampiamente descritto dinanzi) ex art. 648 ter.1 c.p. ha rimesso la questione di legittimità con ordinanza del 18 luglio 2022 alla Corte costituzionale.

Evitando inutili ripetizioni con quanto già escusso nel primo paragrafo, in questa sede l’analisi della norma si limiterà a quanto utile all’odierno caso concreto e, quindi, in primis alla sua formulazione anteriforma e, in secundis, in ottica funzionale all’applicazione dell’art. 69, co. 4, c.p..

La rimessione alla Corte di Palazzo della Consulta riguarda l’asserito contrasto tra gli artt. 3, 25, secondo comma e 27, terzo comma, Cost. e l’art. 69, co. 4, nella parte in cui vieta la prevalenza della circostanza attenuante del secondo comma, per come previsto nella formula del 2014, sulla recidiva ex art. 99, co. 4, c.p.; in subordine la censura è sollevata in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. e il medesimo articolo nella misura in cui vieta la prevalenza di più circostanze attenuanti sulla recidiva.

La causa originale, da cui è scaturito il rinvio, è incentrata su un presunto caso di tentato autoriciclaggio della refurtiva “bottino” di tre ipotizzati furti ai danni di tre diverse gioiellerie – tutti contestati con le aggravanti di cui agli artt. 61, co. 1, n. 2) «l’aver compiuto il reato per eseguirne od occultarne un altro, ovvero per conseguire o assicurare a sé o ad altri il prodotto o il profitto o il prezzo ovvero la impunità di un altro reato;», 625, co. 1, n. 4) «fatto commesso con destrezza;» e 99, co. 4, c.p. – asseritamente compiuto dall’imputato A. M., il quale avrebbe nella stessa giornata, derubato le attività e tentato di disfarsi del corpo del reato tramite la sua cessione presso un “compra oro”; data l’entità risibile della refurtiva, la condizione familiare del reo – padre di quattro figli di cui uno afflitto da disabilità – e del percorso terapeutico intrapreso dall’imputato, in ordine al reato di furto il bilanciamento tra attenuanti (generiche) ed aggravanti (destrezza e recidiva) ha portato all’applicazione della pena base di tre anni; per il tentato autoriciclaggio, il Tribunale ordinario di Firenze, ha riconosciuto, oltre all’attenuante di cui al comma secondo, anche le generiche, risultate entrambe inapplicabili a causa dell’ora illegittimo e famigerato quarto comma.

Ritenuta iniqua l’eccessiva, ma doverosa (allo stato dei fatti), pena prospettata all’imputato, il Giudice rimette la questione alla Corte delle leggi, la quale non può far altro che accogliere tutte le doglianze prospettatele: era, infatti, lapalissiano, alla luce degli innumerevoli interventi in sede di legittimità costituzionale, il finale di un ulteriore libello censuratore.

Difatti, la Corte riconosce l’illegittimità della disposizione, statuendone l’irrazionalità per una serie di motivi: in primis, in ordine di rimessione e non di importanza, in quanto avendo la circostanza a carattere speciale una previsione punitiva notevolmente differenziata rispetto alla pena base, sinonimo di un nocumento al sistema sociale-economico oggettivamente inferiore, non se ne comprenderebbe una pena tantum severa quantum ingiusta, per via della sola sussistenza della recidiva reiterata – circostanza statisticamente molto frequentemente riscontrata negli imputati di reati contro il patrimonio – e, quindi, per causa non integrante il “fatto” di reato, ma relativo alla personalità soggettiva dell’imputato.

Nulla quaestio, tra l’altro, se la personalità del reo escluda una tendenza al crimine, ma trasmetta solo un evidente disagio sociale, avulsa da necessità rieducative, ma, tuttalpiù bisognosa di aiuto (certamente è da ricordare il saggio ed antico detto ne misereris pauperis in iustitia, caro a Calamandrei[12], ma allo stesso tempo non si può prescindere dalle motivazioni che spingono alla condotta recriminata, tra l’altro oggetto di espressa previsione normativa, ex art. 133, co. 2, n. 1); noto cantautore direbbe «che è un delitto il non rubare quando si ha fame»[13] come ad indicare che soventemente il compimento di un reato è un gesto estremo spinto dalla necessità e non da tendenze criminali, sintomo di una carenza endemica nel sistema, non imputabile al reo, il quale, sebbene in torto, è anch’egli una vittima; sul punto anche C. Beccaria: «non si può chiamare precisamente giusta una pena di un delitto, finché la legge non ha adoperato il miglior mezzo possibile nelle date circostanze d’una nazione per prevenirlo»[14]; in tal casi, è più consona una pena compassionevole, piuttosto che punitiva, affinché il condannato, una volta espiate le proprie colpe, possa reinserirsi in una società da lui riconosciuta come giusta.).

Quanto predetto non è un mero virtuosismo, ma, bensì, si traduce in una violazione del canone della proporzionalità della pena fondato sugli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost., il quale si oppone a che siano comminate dal legislatore pene manifestatamente sproporzionate rispetto al disvalore oggettivo e soggettivo del reato; tale è un principio posto a tutela non solo, in chiave garantista, del condannato, ma anche dell’efficacia preventiva del diritto penale  come ricostruito da importanti giureconsulti: «sugli effetti criminogeni dei cataloghi sanzionatori che non rispettino la proporzione legata ai differenti disvalori dei reati: “Se una pena uguale è destinata a due delitti che disegualmente offendono la società, gli uomini non troveranno un più forte ostacolo per commettere il maggiore delitto, se con esso vi trovino unito un maggior vantaggio”»[15].

Inoltre, dalla norma censurata pare scaturire anche un vulnus al principio di offensività di cui all’art. 25, secondo comma, Cost. per cui la pena è da concepirsi come risposta ad un singolo fatto di reato e che non sia utilizzata come misura primariamente volta al controllo della pericolosità sociale del suo autore, cosa che avverrebbe applicando la norma censurata, prevedendo essa il raddoppio della pena minima, a parità di disvalore oggettivo del fatto, per qualità soggettiva dell’imputato.

3. Conclusioni

Vi è nell’autore di questo breve studio la consapevolezza di aver dedicato, forse, troppo spazio ad argomenti apparentemente estranei al focus principale della trattazione; probabilmente, travolto dalla smania di esporre il proprio pensiero, egli ha peccato di virtuosismo, ma allo stesso tempo è fiducioso che il lettore gli perdonerà qualche eccesso di stile di troppo.

D’altronde, però, egli è altrettanto consapevole che inconsciamente non ha fatto altro che cercare di applicare quelli che sono i principi che regolano il metodo deduttivo, ovvero, il partire dal generale per giungere (de ducere) al particolare; e proprio questo era il suo intento primario, ovvero, cercare di fornire un commento quanto più completo ed esaustivo della sentenza in epigrafe, partendo, però, dal suo contorno e quindi, rimembrando l’insegnamento fornitogli negli anni universitari, fornire un’adeguata collocazione spazio-temporale al tema giuridico trattato.

È suo compito ora, però, per completare quest’esercizio tecnico, ricompiere il percorso mentale che lo ha portato a questo punto e sforzarsi a ragionare, questa volta, induttivamente ripercorrendo la strada tracciata inversamente, partendo dal particolare per giungere al generale.

Il nastro di partenza non è altro che la pronuncia di illegittimità costituzionale del divieto di prevalenza, ormai da ritenersi notoria; il punto d’arrivo è il provare a tracciare i risvolti futuri in materia e le sue possibili emergenti doglianze.

Come facilmente riscontrabile da una lettura del testo della sentenza n. 188 del 2023 vi sono ormai dei criteri generali che non possono «non condurre […] alla dichiarazione di illegittimità auspicata dal rimettente»; evitando ripetizioni, si sottolinea che fondamentalmente laddove i ricorsi avendo ad oggetto l’art. 69, co. 4, c.p. riconducano all’esigenza di mantenere «un conveniente rapporto di equilibrio tra la gravità (oggettiva e soggettiva) del singolo fatto di reato e la severità della risposta sanzionatoria, evitando […] l’”abnorme enfatizzazione delle componenti soggettive riconducibili alla recidiva reiterata, a detrimento delle componenti oggettive del reato” creata dall’art. 69, co. 4, c.p.» (sent. n. 251 del 2012, Corte costituzionale) il Giudice delle leggi non potrà che tener conto degli innumerevoli precedenti.

Dover attendere l’emersione di eventuali contrasti futuri per “raddrizzare il tiro” della norma in esame è da ritenersi un modus operandi non condivisibile per uno Stato di diritto in cui il sistema penale si fonda sul principio di precisione della norma; è chiaro che ad oggi la chiarezza della norma risulti inficiata dal susseguirsi di interventi parzialmente abrogativi, così come è altrettanto limpida la coscienza che quello esaminato non sarà di certo l’ultimo (in realtà, al momento della stesura, vi è già stato altra pronuncia analoga).

Affinché si possa garantire ai consociati una fonte puntuale ed attuale sarebbe preferibile un intervento legislativo, soprattutto dal momento che dalla corretta applicazione delle attenuanti dipendono scelte processuali non di poco conto (vedasi le pronunce in materia di collaborazione nei casi dei reati di cui agli artt. 73 e 74 D. P. R. 309/90 o anche del sequestro di persona).  


Note e riferimenti bibliografici

 [1]A. Fiorella, Le strutture del Diritto penale, 2018, cit. pag. 143;

[2] Gambardella, Lex mitior e giustizia penale, 2013

[3] A. Carmona, I reati contro il patrimonio, in Questioni fondamentali della parte speciale del diritto penale, a cura di A. Fiorella, 2019;

[4] A. Carmona, op. cit.;

[5] G. Pestelli, Riflessioni critiche sulla riforma dei reati di ricettazione, riciclaggio, reimpiego e autoriciclaggio di cui al d.lgs. 8 novembre 2021, n. 195, in Sistema Penale, 12/2021;

[6] G. Marinucci, E. Dolcini, G. L. Gatta, Manuale di Diritto penale, p. 673;

[7] Corte costituzionale sentenza n. 88 del 2019;

[8] G. Marinucci, E. Dolcini, G. L. Gatta, op. cit.;

[9] in tal caso procedendosi per i reati di cui agli artt. 624 bis e 625 c.p., venne dichiarata l’equivalenza tra le attenuanti e la recidiva, ex art. 99, co. 4, c.p., proprio in virtù del divieto di cui all’art. 69, co. 4, c.p.;

[10] inizialmente la Corte d’Appello di Torino configurò la condotta come sussumibile al reato di strage, ex art. 422 c.p.; su richiesta della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Torino, ricorsa per cassazione, fu riqualificata nel reato di cui ai sensi dell’art. 285 c.p. (Strage allo scopo di attentare alla sicurezza dello Stato);

[11] La pena fissa dell’ergastolo, oltre all’art. 285 c.p., si applica anche agli artt. 242 (Cittadino che porta le armi contro lo Stato italiano), 276 (Attentato contro il Presidente della Repubblica), 284, primo comma (Insurrezione armata contro i poteri dello Stato), 286 (Guerra civile), e 438 (Epidemia);

[12] P. Calamandrei, Elogio dei giudici scritto da un avvocato, 1959;

[13] Sulla pertinenza della citazione, è attribuita ad A. De Marsico la massima secondo cui l’Avvocato [e il giurista] penalista si riconosce dalla sua cultura extragiuridica;

[14] C. Beccaria, Dei delitti e delle pene;

[15] V. Maiello, “Legge e interpretazione nel sistema di Beccaria”; L. Picotti, “Proporzione fra delitti e le pene”, in Dir. Pen. XXI sec., 2014;