Pubbl. Mer, 13 Dic 2023
L´evoluzione giuridica del fedecommesso nel diritto romano
Modifica pagina
Giuseppe Ferrante
Il fedecommesso è una disposizione di ultima volontà molto singolare nel panorama del diritto romanistico perché caratterizzata dall´assenza di requisiti formali, consistendo più in una preghiera rivolta a chi, per testamento o per legge, è destinatario di beni ereditari. Il presente studio si pone quali obiettivi l´inquadramento generale del fedecommesso attraverso l´esegesi delle fonti in una prospettiva diacronico-giuridica nonché la definizione dell´istituto quale espressione del principio di autonomia privata.
The legal development of the fedeicommissum in the Roman Civil law
The fideicommissum is a uniquely distinct provision in the landscape of Roman Civil law of succession, characterized by the absence of formal criteria. It resembles more of a prayer directed towards those who, by will or by law, are recipients of hereditary property. The aim of this study is to provide a comprehensive overview of the fideicommissum through an exegesis of the sources in a diachronic-legal perspective and to define the institution as an expression of the principle of private autonomy.Sommario: 1. Il fedecommesso: definizione e classificazione delle figure fondamentali. 2. Le caratteristiche principali del fedecommesso e il confronto con le altre disposizioni mortis causa. 3. (segue) L’esposizione di Gaio dedicata al rapporto tra il fedecommesso e le altre disposizioni successorie: esegesi di Gai Inst. 2. 268 ss. 4. Il progressivo avvicinamento del fedecommesso alle altre disposizioni mortis causa fino all’equiparazione di Giustiniano tra fedecommessi e legati. 5. I fedecommessi che imponevano la restituzione dopo la morte. 6. (segue) La clausola si sine liberis decesserit. 7. Il fedecommesso de residuo: la bona fides e l’arbitrium boni viri. 8. (segue) Esegesi di Nov. Iust. 108. 9. Il fedecommesso lasciato alla familia. 10. La familiae mancipatio: un caso di fedecommesso “primitivo”? 11. Il fedecommesso nelle fonti repubblicane: le testimonianze di Cicerone e Valerio Massimo. 12. Il riconoscimento giuridico del fedecommesso. 13. I mutamenti successivi ad Augusto: i senatoconsulta Trebellianum e Pegasianum e quelli in tema di libertas fideicommissaria. 14. Il fedecommesso dalle costituzioni imperiali fino al diritto giustinianeo.
1. Il fedecommesso: definizione e classificazione delle figure fondamentali
Il fedecommesso è una disposizione di ultima volontà, priva di requisiti di forma, solitamente espressa con una preghiera rivolta a chi, per testamento o per legge, è destinatario di beni ereditari. Quindi, si tratta di una preghiera che poteva essere disposta sia per iscritto, in un testamento o in un codicillo, sia nuda voluntate[1]. Generalmente, proprio con i codicilli erano disposti i fideicommissa, tanto che l’Arangio-Ruiz avverte che il riconoscimento giuridico dei primi “coincide con lo sviluppo storico del fedecommesso nel tempo e nella sostanza”[2].
Inoltre, come suggeriscono le espressioni fideicommitto, fideicommissum e fideicommissarius che si rinvengono nelle fonti, è un rapporto di natura fiduciaria che si attua con le determinazioni di tre persone: il disponente o de cuius, il fiduciario[3] (erede o legatario) ed il fedecommissario beneficiario (fideicommissarius). Tale rapporto, che in origine prevedeva il rispetto di un impegno affidato esclusivamente alla fides del destinatario della preghiera[4], proprio come la fiducia diventa dopo un’articolata evoluzione cominciata ai tempi di Augusto, una figura giuridica con la coercibilità che ne consegue[5].
A seconda del contenuto della preghiera, si possono distinguere tre figure fondamentali di fedecommesso.
Nel fedecommesso “universale”, il de cuius pregava il proprio erede, testamentario o legittimo, di trasferire l’intera eredità o una quota di essa, al fedecommissario. Un esempio di questo tipo di preghiera si incontra nella lettura di un paragrafo del secondo commentario delle Institutiones di Gaio:
Gai Inst. 2. 250: Cum igitur scripserimus ‘L. Titius heres esto’, possum adicere ‘rogo te L. Titi petoque a te, ut cum primum possis hereditatem meam adire, C. Seio reddas restituas’. TRADUZIONE (BELTRANI S.): Così, avendo scritto: ‘L. Tizio sia erede’; possiamo aggiungere: ‘ti prego e ti chiedo, L. Tizio, che appena tu possa adire la mia eredità tu la renda e la restituisca a C. Seio’.
In origine, e prima del senatoconsulto Trebelliano, la disciplina del fedecommesso universale era modellata su quella del legatum partitionis, facendo sì che il fedecommissario universale non acquistava con un unico atto di accettazione. Quest’ultimo, si costituiva secondo una formula particolare, ricordata nei Tituli ex corpore Ulpiani, che avrebbe obbligato l’erede a dividere l’eredità con il legatario in misura determinata. Tuttavia, il legatario sarebbe rimasto tale indipendentemente dalla consistenza della quota che acquistava[6].
Tit. ex corp. Ulp. 24. 25: Sicut singulae res legari possunt, ita universarum quoque summa legari potest: ut puta ‘Maevius heres meus cum Titio hereditatem meam partito dividito’ quo casu dimidia pars bonorum legata videtur. Potest autem et alia pars, velut tertia vel quarta legari: quae specie partitio appellatur. TRADUZIONE (DESANTI L.): Allo stesso modo possono legarsi le singole cose, così come può legarsi l’universalità di cose: per esempio ‘Mevio, mio erede, divida la mia eredità con Tizio’; in questo caso, si considera legata la metà dei beni. Ma può anche legarsi una seconda, una terza, una quarta parte e da qui chiamasi partizione.
Per tale ragione, l’Arangio-Ruiz parla, in tema di fedecommesso universale, di un’eredità successiva[7], considerando il fedecommissario un acquirente dell’eredità (o di una quota ereditaria). Infatti, è evidente che si realizzavano due trasferimenti: il primo, dal de cuius all’erede e il secondo dall’erede al fedecommissario; in questo modo, pur restando il fiduciario l’heres iure civili, il contenuto dell’hereditas (o parte di essa) passava al fedecommissario.
Nel fedecommesso “a titolo particolare”, il de cuius pregava il proprio erede, o il legatario, di restituire un singolo bene al fedecommissario. Analizzando un responsum di Papiniano contenuto nei Digesta di Giustiniano, ci si pone in una posizione di osservazione privilegiata per capire quanto le disposizioni fedecommissarie si presentassero complesse.
D. 34. 1. 9 (Pap. 8 resp.): Alio herede instituto ita scripsit: ‘a te peto, Gai Sei, quidquid ex hereditate mea redegeris, illis alumnis meis des singulis denos aureos eandemque summam penes te esse volo, cuius ex incremento eos alere te volo: reliquum restitues Numerio conliberto nostro’. TRADUZIONE (SCHIPANI S.): Istituito un altro erede, così scrisse: ‘ti prego, Gaio Seio, riguardo a tutto ciò che avrai raccolto dalla mia eredità, di dare a quegli alunni miei dieci monete d’oro a testa e voglio che tale somma rimanga presso di te, con gli interessi della quale voglio che tu li alimenti: tutto il resto restituiscilo a Numerio, affrancato insieme a noi.
A ben vedere, con un’unica preghiera, sono disposti più fedecommessi; tuttavia, ai fini della validità, il destinatario della preghiera non poteva dover restituire per fedecommesso più di quanto avesse ricevuto in eredità o legato.
Gai Inst. 2. 261: Item potest non solum propria testatoris res per fideicommissum relinqui, sed etiam heredis aut legatarii aut cuiuslibet alterius. Itaque et legatarius non solum de ea re rogar ipotest, ut eam alicui restituat quae ei legata sit, sed etiam de alia, sive ipsius legatarii sive aliena sit. Hoc solum observandum est, ne plus quisquam rogetur aliis restituere, quam ipse ex testamento ceperit; nam quod amplius est, inutiler relinquitur. TRADUZIONE (BELTRANI S.): Può essere lasciata per fedecommesso non solo una cosa propria del testatore, ma anche una cosa dell’erede, del legatario o di chiunque altro. Pertanto, anche il legatario, non solo può essere pregato di restituire a qualcuno la cosa a lui legata, ma anche un’altra cosa, sia del legatario stesso, sia altrui. C’è solo da osservare questo, che uno non sia pregato di restituire ad altri più di quanto egli stesso abbia preso per testamento; il di più, infatti, lo si lascia inutilmente.
Nel fedecommesso “di libertà”, il de cuius pregava l’erede, un legatario o un fedecommissario, di manomettere uno schiavo, proprio o altrui. Nell’Epitome Ulpiani si ha traccia della locuzione fidei committo accompagnata dall’impiego del verbo rogare, per incaricare l’erede della manomissione di uno schiavo.
Tit. ex corp. Ulp. 2. 7: Rogo, fidei committo heredis mei, ut Stichum servum manumittat. TRADUZIONE (DESANTI L.): Prego, commetto alla fede del mio erede di manomettere il servo Stico.
Seguendo l’insegnamento del Talamanca, la libertas fideicommissaria è una disposizione con effetti obbligatori, in quanto il beneficiario resta schiavo finché non venga effettivamente manomesso o la libertà gli sia stata conferita in virtù di una sentenza del magistrato[8]: quindi, essendo la manomissione un atto strettamente personale che richiedeva la collaborazione dell’onorato, in mancanza di quest’ultima si ricorse ad una coazione indiretta, in ossequio al favor libertatis: attraverso il processo, lo schiavo perveniva alla libertà indipendentemente dall’atto di manomissione[9]. Lo status dello schiavo beneficiario di libertà fedecommissaria è stato oggetto di una serie di senatoconsulti che disciplinavano la vicenda processuale anomala dell’assenza in giudizio dell’onerato[10].
Per la classificazione delle diverse figure di fedecommesso, occorre un’ultima precisazione, in quanto nelle fonti vi è traccia di disposizioni ulteriori, sempre espresse in forma di preghiera, il cui contenuto non è classificabile nelle tre categorie descritte. Ad esempio, quando si prega di avere cura di una persona incapace, come testimonia un frammento del Digesto attribuito a Scevola:
D. 34. 4. 30 (Scaev. 20 dig.): […] fideique tuae, Atti, committo, ut in primis Semproniam sororem tuam pro tua pietate et regere et tueri velis. TRADUZIONE (SCHIPANI S.): Commetto alla tua fede, Atti, che innanzitutto, secondo la tua pietà, tu voglia accudire e tutelare tua sorella Sempronia
Queste disposizioni, se indirizzate all’erede, potevano probabilmente assumere, a seconda dei casi, valore di fedecommesso o di modus, il quale venne in parte attratto nell’ambito delle disposizioni fedecommissarie verso la fine del principato, a causa “della sua incerta collocazione nel diritto romano e, pur sotto diversi profili, anche nel diritto attuale”[11].
2. Le caratteristiche principali del fedecommesso e il confronto con le altre disposizioni mortis causa
La forma è il profilo che maggiormente differenzia il fedecommesso dalle altre disposizioni di ultima volontà del sistema successorio romano. Infatti, il ius civile imbrigliava l’istituzione di erede[12] in un rigido formalismo, prevedendo che l’istituzione dovesse essere fatta sollemni more, così come si legge chiaramente in Gaio:
Gai Inst. 2. 116: Ante omnia requirendum est, an institutio heredis solemni more facta sit: nam aliter facta istitutione nihil proficit, familiam testatoris ita venire testeque ita adhibere et ita nuncupare testamentum, ut supra diximus. TRADUZIONE (BELTRANI S.): Bisogna anzitutto ricercare se l’istituzione di erede sia compiuta in modo solenne: fatta diversamente, a nulla serve vendere il patrimonio del testatore, impiegare i testimoni e compiere le dichiarazioni orali richieste per il testamento, nel modo sopra detto.
Al contrario, tali formule solenni non valevano per il fedecommesso che poteva essere fatto liberamente in termini di raccomandazione e di preghiera, verbis precativis[13], “essendo questo il modo più corretto di rivolgersi ad un amico”[14], affidando al suo onore l’adempimento di quei voleri che giuridicamente non potevano imporsi. Tra le forme verbali particolarmente frequenti, bisogna ricordare rogo, peto, fideicommitto, mitto, mando, volo, come risulta dal testo di Gaio:
Gai Inst. 2. 249: Verba autem utilia fideicommissorum haec recte maxime in usu esse videntur: peto, rogo, volo, fideicommitto. Quae proinde firma singula sunt, atque si omnia in unum con gesta sint. TRADUZIONE (BELTRANI S.): Le parole poi utili dei fedecommessi pare che siano le seguenti: chiedo, prego, voglio, affido. Ciascuna delle quali, vale come se tutte si fossero espresse con una sola.
In particolare, nel frammento attribuito ad Ulpiano, il lemma et similia sembra delineare un sistema aperto, consentendo di poter ritenere idonea alla manifestazione di un fedecommesso ogni tipo di espressione purché estrinsecasse la volontà del testatore. Non a caso, autorevole dottrina ha sostenuto che il fedecommesso non traesse la sua efficacia dai verba, quanto nella voluntas defuncti[15]; e, senza dubbio, tale volontà era già centrale nel IV d. C. come testimoniato ancora dall’Epitome Ulpiani:
Tit. ex corp. Ulp. 25. 1: Fideicommissum est, quod non civilibus verbis, sed prexative relinquitur nec ex rigore iuris civilis proficiscitur, sed ex voluntate datur relinquentis. TRADUZIONE (DESANTI L.): È fedecommesso quel che viene lasciato non con parole civili, ma in forma di preghiera; e che non deriva dal rigore del diritto civile, ma è dato in forza della volontà di colui che lo lascia.
A ben vedere, come sostenuto dal Talamanca, “i fedecommessi avevano un precativo modo in qualche modo tipizzato”[16]: quindi, non erano ammesse formule estranee alla non imperatività del fedecommesso, una disposizione che in qualche modo faceva leva sul discernimento e sul buon giudizio del destinatario della preghiera. In particolare, come ricordato nelle Sententiae Pauli, non si poteva fare uso dei verbi relinquo e commendo:
Paul. sent. 4. 1. 6: Fideicommittere his verbis possumus rogo, peto, volo, mando, deprecor, cupio, iniungo. Desidero quoque et impero verba utile faciunt fideicommissum. Relinquo vero et commendo nullam fideicommissi pariunt actionem.TRADUZIONE (DESANTI L.): Possiamo incaricare di un fedecommesso con le seguenti parole: domando, voglio, incarico, prego, desidero, ingiungo. Le parole desidero e comando rendono valido un fedecommesso. Mentre le parole lascio e raccomando non producono alcuna azione da fedecommesso.
Tuttavia, in via interpretativa si è spesso riconosciuta efficacia di fedecommesso anche a disposizioni ambigue, in cui la volontà di chi dispone non si manifestava in maniera incontrovertibile, ma piuttosto in termini di consiglio:
D. 32. 11. 9 (Ulp. 2 fideicomm.): Haec verba: ‘te, fili, rogo ut praedia, quae ad te pervenerint, pro tua diligentia diligas et curam eorum agas, ut possint ad filios tuos pervenire’, licet non satis exprimunt fideicommissum, sed magis consilium quam necessitatem relinquendi, tamen ea praedia in nepotibus post mortem patris eorum vim fideicommissi videntur continere.TRADUZIONE (SCHIPANI S.): Queste parole: ‘ti prego, figlio mio, di avere cari i fondi che pervennero a te, secondo la tua diligenza, e di averne cura, in modo che possano pervenire ai tuoi figli’, sebbene non esprimano propriamente un fedecommesso, ma più un consiglio che un obbligo di lasciare quei fondi, tuttavia a favore dei nipoti, dopo la morte del padre loro, risultano avere la forza di un fedecommesso.
Sotto il profilo dell’efficacia, invece, si scorgono dei punti di contatto tra il mondo dei legati ed il fedecommesso e, in particolare, con il legatum per damnationem[17] che dava vita ad un rapporto obbligatorio[18]: l’onerato dal de cuius si configurava come debitore, mentre il fedecommissario era suo creditore. Tuttavia, mentre il legato per damnationem poteva gravare unicamente sull’erede testamentario, la rogatio fideicommissaria poteva indirizzarsi indistintamente a qualsiasi soggetto avesse ricevuto per eredità: erede legittimo, legatario, bonorum possessor, donatario mortis causa e addirittura, ad un altro fedecommissario.
Ulteriore punto di contatto tra legati e fedecommesso lo si individua nel momento dell’acquisto, in quanto l’efficacia della disposizione fedecommissaria era subordinata all’acquisto dell’eredità da parte dell’erede. A riguardo, poteva accadere che l’accettazione dell’eredità giungesse con ritardo e che nelle more il fedecommissario fosse deceduto: giuridicamente parlando, essendo morto prima di aver acquistato il diritto, il contenuto del fedecommesso non poteva trasmettersi ai suoi eredi. Tuttavia, al fine di evitare che la disposizione rimanesse inefficace, fu applicata anche al fedecommesso la dottrina del dies cedens e del dies veniens elaborata in materia di legato[19]. Secondo tale dottrina, il diritto al lascito sorge immediatamente con la morte del de cuius (dies legati cedit, dies fideicommissi cedit), ma diviene concretamente esigibile al momento dell’accettazione dell’eredità (dies legati venit, dies fideicommissi venit)[20].
L’analogia con i legati continua, infine, nell’ambito della tutela processuale: non vi è dubbio che, non appena nasce la giurisdizione in tema di fedecommessi[21] tanto al legatario per damnationem, quanto al fedecommissario, a protezione dei rispettivi diritti di credito[22], veniva concessa un’azione personale: l’actio ex testamento per il legatario, la petitio fideicommissi al fedecommissario[23]. Questo tipo di tutela è ribadita anche in un passo delle Pauli Sententiae, fonte che, seppur tarda, in maniera lapidaria ribadisce che:
Paul. sent. 4. 1. 18: Ius omne fideicommissi non in vindicatione, sed in petitione consistit. TRADUZIONE (DESANTI L.): Tutto il diritto dei fedecommessi è basato non sulla rivendica, ma sulla richiesta.
Pertanto, al pari di ogni altro debitore, nel caso in cui il fiduciario versasse in mora debendi, avrebbe dovuto corrispondere interessi e frutti al fedecommissario, proprio come testimoniato da Gaio:
Gai Inst. 2. 280: Item fideicommissorum usurae et fructus debentur, si modo moram solutionis fecerit, qui fideicommissum debebit; legatorum vero usurae non debentur, idque rescripto divi Hadriani significatur. scio tamen Iuliano placuisse in eo legato, quod sinendi modo relinquitur, idem iuris esse, quod in fideicommissis; quam sententiam et his temporibus magis optinere video. TRADUZIONE (BELTRANI S.): Si devono gli interessi e i frutti dei fedecommessi, solamente se chi doveva il fedecommesso lo avrà adempiuto in ritardo; mentre per i legati non si devono gli interessi, questo è manifesto da un rescritto del divino Adriano. So, però, che Giuliano giudicò in quel legato, lasciato sinendi modo, che si applicava la stessa disposizione dei fidecommessi; rilevo che tale opinione in questi tempi ottiene maggior consensi.
Tuttavia, si deve sottolineare una differenza processuale notevole: mentre l’actio ex testamento aveva dimora nel processo ordinario, destinato alla condanna pecuniaria, la petitio aveva natura extra ordinem, la cui cognizione ammetteva la condemnatio in ipsam rem[24]: pertanto, l’onerato di un fedecommesso poteva essere condannato alla medesima prestazione alla quale risultava obbligato, assicurando così che la volontà del de cuius avrebbe avuto piena attuazione. Ma c’è di più: infatti, anche la cautio fideicommissorum servandorum causa, con cui il pretore, dietro richiesta del fedecommissario poteva imporre all’onerato di prestare una cautio con la quale promettesse di conservare integri i beni oggetto del fedecommesso era uno strumento del tutto analogo alla cautio legatorum servandorum causa, introdotta prima nel legato per damnationem ed estesa poi anche a quello per vindicationem[25]. Se l’erede non avesse prestato la cautio a favore del legatario, il pretore immetteva quest’ultimo nei beni ereditari con la missio in possessionem legatorum servandorum causa: allo stesso modo, quando il fiduciario avesse rifiutato di prestare la propria cautio, al fedecommissario spettava la missio in possessionem fideicommissorum servandorum causa[26]. Per concludere l’elenco degli strumenti processuali esperibili dal fedecommissario, va menzionata anche la missio in possessionem Antoniniana, così denominata perché introdotta da una costituzione dell’imperatore Caracalla in materia di legato e “solo successivamente applicata anche al fedecommesso”[27]. Tale missio consentiva al fedecommissario, decorsi sei mesi dal giorno della comparizione in tribunale, di essere immesso nei beni ereditari ed anche nei beni propri dell’erede[28], laddove l’onorato non avesse fornito sufficienti garanzie in ordine all’esecuzione del contenuto della preghiera.
3. L’esposizione di Gaio dedicata al rapporto tra il fedecommesso e le altre disposizioni successorie: esegesi di Gai Inst. 2. 268 ss.
Gaio, in chiusura del secondo commentario, mette a fuoco il fedecommesso, dapprima confrontandolo con il legato, per poi estendere il paragone alle altre disposizioni di ultima volontà. Tale lettura offre le necessarie conferme per ambientare nel contesto storico punti di contatto e le differenze tracciati tra il fedecommesso e le altre disposizioni mortis causa. Come si è osservato, il metodo di esposizione seguito da Gaio, “dà luogo ad una sorta di duplicazione delle principali disposizioni di ultima volontà”[29]: infatti, al legato si affiancava il fedecommesso a titolo particolare, alla manumissio testamento, il fedecommesso di libertà e all’istituzione di erede, quello universale.
Gai Inst. 2. 268: Multum autem differunt ea, qua per fideicommissum relincuntur, ab his quae directo iure legantur. TRADUZIONE (BELTRANI S.): Sotto molti aspetti vi è differenza tra le cose che sono lasciate per fedecommesso e quelle che sono legate in forma diretta.
Innanzitutto, si ha il riscontro che il fedecommesso poteva essere lasciato a carico del successore legittimo, a differenza del legato, consentendo anche a chi morisse in assenza di testamento di disporre dei propri beni, seppur non completamente: in altre parole, il principio nemo pro parte testatus pro parte intestatus decedere potest risultava parzialmente soddisfatto perché almeno una parte dell’eredità sarebbe stata assegnata in conformità con la volontà del de cuius.
Gai Inst. 2. 270: Item intestatus moriturus potest ab eo, ad quem bona eius pertinent, fideicommissum alicui relinquere; cum alioquin ab eo legari non possit.TRADUZIONE (BELTRANI S.): Così chi morirà intestato può lasciare a qualcuno un fedecommesso a carico di colui al quale spettano i suoi beni; mentre a carico di tale persona non si può legare.
Nel successivo paragrafo si ha anche la conferma dell’attitudine della sostituzione fedecommissaria (propria, in particolare, del fedecommesso di famiglia) a realizzare una sequela di fedecommessi, in quanto il fedecommesso poteva essere a carico anche di un altro fedecommissario (oltreché a carico dell’erede, del successore legittimo o del legatario): in sostanza, ciascun fedecommissario poteva essere a sua volta pregato di restituire ad altri e via di seguito.
Gai Inst. 2. 271: Item a legatario legari non potest; sed fideicommissum relinqui potest. Quin etiam ab eo quoque, cui per fideicommissum relinquimus, rursus alii per fideicommissum relinquere possumus.TRADUZIONE (VIGNALI G.): Così, a carico di un legatario non si può legare; mentre si può lasciare un fedecommesso. Che anzi, anche a carico di colui al quale lasciamo per fedecommesso, possiamo lasciare nuovamente per fedecommesso ad altri.
Accantonato temporaneamente il confronto con i legati, Gaio continua con le differenze tra il fedecommesso e la manumissio testamento che, contrariamente al fedecommesso di libertà, non consente di liberare uno schiavo altrui[30]. Infatti, il fedecommesso di libertà non comportava la liberazione ipso iure dello schiavo, bensì obbligava il fiduciario a compiere la manomissione; invece, la manomissione testamentaria, attribuendo direttamente e immediatamente la libertà, doveva avere ad oggetto necessariamente uno schiavo del testatore.
Gai Inst. 2. 272: Item servo alieno directo libertas dari non potest; sed per fideicommissum potest.TRADUZIONE (BELTRANI S.): Così, al servo altrui non può essere data la libertà in modo diretto; ma per fedecommesso lo si può fare.
Tuttavia, se si analizza un frammento di Pomponio, in cui probabilmente il giurista riferisce la autentica opinione di Plauto, risulta evidente che il fedecommesso di libertà aveva acquisito un’efficacia sostanzialmente simile a quella della manomissione testamentaria, consentendo la liberazione automatica dello schiavo senza il bisogno della successiva manomissione del soggetto che era stato pregato dal de cuius[31].
D. 40. 4. 40 (Pomp. 5 ex Plaut.): […] In omnibus fere causis fideicommissas libertates pro directo datis habendas. TRADUZIONE (DESANTI L.): Quasi sotto ogni profilo le libertà per fedecommesso devono considerarsi come date in forma diretta.
La trattazione prosegue con la distinzione rispetto alle disposizioni di istituzione di erede e diseredazione, le quali dovevano essere contenute necessariamente nel testamento, e mai nei codicilli anche nell’ipotesi in cui questi fossero stati confermati. Tuttavia, se è vero che dai codicilli si poteva pregare l’erede istituito nel testamento di restituire ad altri l’eredità, è altrettanto vero che con la posizione di un fedecommesso universale all’interno dei codicilli, si realizzavano effetti del tutto simili a quelli di una institutio o di una exheredatio. Infatti, l’operazione sostanziale era la seguente: da una parte, il fedecommesso attribuiva, al pari dell’istituzione di erede, l’eredità al fedecommissario; dall’altra, al pari della diseredazione, la sottraeva all’erede testamentario destinatario della preghiera.
Gai Inst. 2. 273: Item codicillis nemo heres institui potest neque exheredari, quamvis testamento confirmati sint. At is qui testamento heres institutus est, potest codicillis rogari, ut eam hereditatem alii totam vel ex parte restituat, quamvis testamento codicilli confirmati non sint.TRADUZIONE (BELTRANI S.): Così, nessuno può essere istituito erede o diseredato nei codicilli, per quanto siano confermati nel testamento. Ma colui che è istituito erede nel testamento può essere pregato nei codicilli di restituire ad altri l’eredità, tutta o in parte, sebbene i codicilli non siano confermati nel testamento.
La diversità formale e giuridica del fedecommesso universale rispetto all’heredis institutio consentì anche di superare talune incapacità di ricevere per testamento, come ad esempio quella prevista per le donne dalla lex Voconia del 169 a. C. di ricevere da cittadini il cui patrimonio superasse i centomila assi. Allo stesso modo, i latini Iuniani, i quali erano privati della testamentifactio passiva ai sensi della lex Iunia del 19 d. C. Anzi, con ogni probabilità, la ragione sociale di superare tali incapacità è stata la vicenda originaria del fedecommesso[32].
Inoltre, l’impiego del fedecommesso universale, sempre inteso come disposizione alternativa nella trasmissione della hereditas, riusciva ad aggirare anche l’ostacolo dato dal principio semel heres semper heres. Circa l’elusione del principio, la fattispecie considerata da Gaio è il divieto, introdotto da un senatoconsulto, di non poter manomettere ed istituire erede un servo proprio di età inferiore ai trent’anni. Già al tempo, plerisque, da intendersi come la maggior parte dei giuristi, suggeriva di rinviare la manomissione e quindi la trasmissione dell’eredità al tempo in cui il servo avrebbe compiuto il trentesimo anno facendo ricorso al fedecommesso universale, non consentendo l’istituzione di erede di apporre un termine iniziale o finale all’acquisto ereditario. Gaio descrive anche il meccanismo alla base dell’operazione: in primis, il testatore prorogava la manomissione cum annorum XXX erit; dopodiché pregava che l’eredità venisse restituita al servo non appena divenuto uomo libero.
Gai. Inst. 2. 276: Item cum senatusconsulto prohibitum sit proprium servum minorem annis XXX liberum et heredem instituere, plerisque placet posse nos iubere liberum esse, cum annorum XXX erit, et rogare, ut tunc illi restituatur hereditas. TRADUZIONE (VIGNALI G.): Così, essendo proibito da un senatoconsulto di istituire libero ed erede il proprio servo minore di trent’anni, ritengono i più che noi possiamo disporre che sia libero quando avrà trent’anni e pregare che allora gli venga restituita l’eredità.
Le successive considerazioni di Gaio sono dedicate a differenze minori che col tempo andarono anche scomparendo. Esemplificando, talvolta si legge che i legati si domandano per formulam, mentre i fedecommessi apud consulem (se il testatore si trovava a Roma), vel apud eum praetorem qui praecipue de fideicommissis ius dicit (se in provincia)[33]; talaltra, si mette in risalto la questione del bilinguismo proprio dei fedecommessi, per cui i legata graece scripta non valent, mentre i fideicommissa valent[34]. Da una parte, il bilinguismo favoriva la comprensione del diritto, dall’altra consentiva ai novi cives di esercitare la propria autonomia negoziale usando la lingua che meglio conoscevano, diversa dal latino[35].
Gai. Inst. 2. 278: Praeterea legata per formulam petimus; fideicommissa vero Romae quidem apud consulem vel apud eum praetorem, qui praecipue de fideicommissis ius dicit, persequimur, in provinciis mero apud praesidem provinciae. TRADUZIONE (VIGNALI G.): Inoltre, chiediamo i legati per formula; i fedecommessi invece li chiediamo a Roma davanti al console o davanti al pretore competente della specifica giurisdizione dei fedecommessi, nelle province solo davanti al preside della provincia.
Gai Inst. 2. 281: Item legata Graece scripta non valent; fideicommissa vero ualent.TRADUZIONE (VIGNALI G.): I legati scritti in lingua greca non sono validi mentre lo sono i fidecommessi.
Inoltre, Gaio evidenza che il fedecommesso consente di svolgere maggiori e diverse operazioni giuridiche rispetto alle disposizioni del ius civile: questo è quanto intende quando afferma che la causa fideicommissorum, cioè la funzione concretamente assolta dai fedecommessi, risultasse longe latior[36].
Infatti, al tempo di Gaio, soltanto una causa non si poteva realizzare attraverso il fedecommesso: la nomina di un tutore testamentario.
Gai Inst. 2. 289: Sed quamvis in multis iuris partibus longe latior causa sit fideicommissorum quam eorum quae directo relincuntur, in quibusdam tantundem valeant, tamen tutor non aliter testamento dari potest quam directo, veluti hoc modo ‘liberis meis Titius tutor esto’, vel ita ‘liberis meis Titium tutorem do’; per fideicommissum vero dari non potest. TRADUZIONE (BELTRANI S.): Nonostante in molti settori del diritto la funzione assolta dai fedecommessi sia di gran lunga più ampia rispetto a quelle delle disposizioni lasciate in forma diretta, ed in alcuni casi si equivalgono, il tutore non può tuttavia essere nominato nel testamento se non in modo diretto, per esempio in questo modo: ‘Tizio sia tutore dei miei figli’, oppure ancora: ‘ai miei figli do come tutore Tizio’; per fedecommesso, invece, non si può nominare.
A ben vedere, anche questo limite, nella prassi, viene progressivamente superato. Infatti, proprio nei casi in cui la nomina di un tutore testamentario sarebbe risultata impossibile[37], si ricorreva al fedecommesso: basti pensare che, come naturale conseguenza del rapporto di coniugio, il de cuius, avrebbe preferito affidare il proprio figlio impubere alle cure materne, anziché all’assistenza di un soggetto estraneo. In questi casi, sicuramente frequenti, il pater avrebbe dovuto prima diseredare il figlio, poi istituire erede la moglie ed ancora pregarla affinché restituisse l’eredità al figlio stesso, al raggiungimento di un’età adeguata. Così facendo, la madre dell’impubere, erede fiduciaria a seguito della diseredazione dell’impubere, aveva l’obbligo di conservare e amministrare il patrimonio del de cuius, esercitando de facto, prerogative proprie del tutore. Tale meccanismo è descritto nel Digesto in un frammento attribuito a Paolo:
D. 36. 1. 76. 1 (Paul. 2 decr.): Fabius Antoninus impuberem filium Antoninum et filiam Honoratam reliquens exheredatis his matrem eorum Iuniam Valerianam heredem instituit et ab ea trecenta et quasdam res filiae reliquit, reliquiam omnem hereditate filio Antonino, cum ad annum vicensimum aetatis pervenisset, voluit restitui. TRADUZIONE (SCHIPANI S.): Fabio Antonino, lasciando il figlio Antonino impubere, e la figlia Onorata, dopo averli diseredati istituì erede la loro madre Giunia Valeriana e a suo carico lasciò alla figlia trecento sesterzi e altre cose, mentre volle che la rimanente parte dell’eredità fosse restituita al figlio Antonino, quando fosse giunto al ventesimo anno di età.
In riferimento a questa ipotesi di diseredazione, in un frammento ulpianeo, i compilatori giustinianei la annoverano tra quelle non dovute alla mala mente parentis e pertanto non nocive per il diseredato:
D. 38. 2. 12. 2 (Ulp. 44 ad ed.): Si quis non mala mente parentis exheredatus sit, sed alia causa, exheredatio ipsi non nocet: ut puta pone furoris causa exheredatum eum vel ideo, quia impubes erat, heredemque institutum rogatum ei restituere hereditatem. TRADUZIONE (DESANTI L.): Se qualcuno sia stato diseredato non per malanimo del genitore, ma per un’altra causa, la diseredazione non gli nuoce: per esempio, supponi che egli sia stato diseredato a causa di una malattia mentale, oppure perché impubere e che l’erede istituito sia stato pregato di restituirgli l’eredità.
Tuttavia, definire questo tipo di tutela in negativo, mette in risalto il suo aspetto utile, ma rischia di perdere di vista il significato primario della volontà del de cuius: infatti, essendo finalizzata ad assicurare la presenza materna nella gestione dell’eredità del figlio, in vista della futura restituzione, non è soltanto “utile”, ma anche maggiormente assistenzialista per il beneficiario perché garantisce il rispetto del suo patrimonio, materiale sì, ma anche affettivo, rendendo centrale il ruolo della mater, che, in assenza dell’escamotage fedecommissario, sarebbe stata destinata ai margini nell’amministrazione dei beni di famiglia.
4. Il progressivo avvicinamento del fedecommesso alle altre disposizioni mortis causa fino all’equiparazione di Giustiniano tra fedecommessi e legati
Continuando con la lettura del commentario gaiano, si delineano alcune regole che, inizialmente esclusive dei legati e della istituzione di erede, si estesero anche al mondo dei fedecommessi. Innanzitutto, si fa riferimento alle incapacità di ricevere che colpivano peregrini[38], caelibes e orbi: va osservato che in questo modo si iniziò a perdere l’intuizione originaria alla base del fedecommesso, realizzandosi un’eterogenesi dei fini che rese applicabili tali incapacità anche ad un istituto che era nato appositamente per eluderle.
Gai Inst. 2. 285: Ut ecce peregrini poterant fideicommissa capere: et fere haec fuit origo fideicommissorum. Sed postea id prohibitum est; et nunc ex oratione divi Hadriani senatusconsultum factum est, ut ea fideicommissa fisco vindicarentur. TRADUZIONE (VIGNALI G.): Gli stranieri potevano ricevere per fedecommessi: e questa fu probabilmente l’origine dei fedecommessi. Ma in seguito ciò fu proibito e su proposta di Adriano fu emanato un senatoconsulto affinché tali fedecommessi passassero al fisco.
Gai Inst. 2. 286-286a: Caelibes quoque, qui per legem Iuliam hereditates legataque capere prohibentur, olim fideicommissa videbantur capere posse. Item orbi, qui per legem Papia mob id, quod liberos non habent, dimidias partes hereditatum legatorumque perdunt, olim solida fideicommissa videbantur capere posse. Sed postea senatus consulto Pegasiano proinde fideicommissa quoque ac legata hereditatesque capere posse prohibiti sunt; eaque translata sunt ad eos, qui in eo testamento liberos habent, aut si nulli liberos habebunt, ad populum, sicuti iuris est in legatis et in hereditatibus, quae eadem aut simili ex causa caduca fiunt. TRADUZIONE (VIGNALI G.): Anche i celibi, cui la legge Giulia proibisce di prendere eredità e legati, un tempo sembra che potessero prendere i fedecommessi. E così i senza figli che per effetto della legge Papia perdono la metà delle eredità e dei legati, un tempo sembra che potessero prendere i fedecommessi integralmente. Ma poi il senatoconsulto Pegasiano impedì loro di prendere i fedecommessi allo stesso modo che i legati e le eredità; e i fedecommessi furono trasferiti a coloro che in quel testamento hanno figli o, se nessuno abbia figli, allo Stato, con lo stesso criterio dei legati e delle eredità che nello stesso caso o in casi simili diventano caduchi.
Inoltre, tale estensione normativa riguardò anche il divieto di pregare incertae personae[39] (abrogato con Giustiniano) e quello di disporre il lascito in maniera sanzionatoria[40].
Gai Inst. 2. 287: Item olim incertae personae vel postumo alieno per fideicommissum relinqui poterat, quamvis neque heres institui neque legari ei posset, sed senatus consulto, quod auctore divo Hadriano factum est, idem in fideicommissis, quod in legatis hereditatibusque consitutum est. TRADUZIONE (VIGNALI G.): Così, un tempo, a persona incerta o postumo altrui si poteva lasciare per fedecommesso, benché non si potesse istituirli eredi o far loro legati; ma con un senatoconsulto fatto per iniziativa del divino Adriano fu stabilito per i fedecommessi lo stesso regime dei legati e delle eredità.
Gai Inst. 2. 288: Idem poenae nomine iam non dubitatur, nec per fideicommissum quidem reliqui posse. TRADUZIONE (VIGNALI G.): Più non si dubita che lo stesso non possa lasciarsi a titolo di pena, neppure per fedecommesso.
Tuttavia, è solo nel corso del dominato che emerge la volontà politica di avvicinare il regime giuridico delle disposizioni mortis causa “dirette” a quello del fedecommesso[41]. Dall’analisi delle fonti, si distinguono due tipi di avvicinamento operati dalle costituzioni imperiali: da una parte, si estendevano le forme del ius civile anche in materia di fedecommesso; dall’altra, si assimilava il fedecommesso alle altre disposizioni mortis causa snellendone la forma.
Sul primo versante, con una costituzione imperiale del 326 d. C., pervenutaci nel Codex Theodosianus, Costantino aveva eliminato il carattere assolutamente informale dei codicilli, richiedendo per la validità in ceteris voluntatibus (quindi anche dei codicilli intestati) come per il testamento dell’epoca, l’intervento di cinque o sette testimoni[42]; in caso contrario, tali disposizioni sarebbero state infermae.
C. Th. 4. 4. 1: IMP. CONSTANTINUS A. CONSTANTIO P(RAEFECTO) P(RAETORI)O. In codicillis, quos testamentum non praecedit, sicut in voluntatibus testamenti septem testium vel quinque interventum non deesse oportet: sic enim fiet, ut testantium successiones sine aliqua captione serventur. Si quando igitur testium numerus defecerit, instrumentum codicilli habeatur infirmum. Quod et in ceteris voluntatibus placuit observari. TRADUZIONE (DESANTI L.): Nel caso di codicilli non preceduti da testamento, come per le volontà in forma testamentaria, non deve mancare la presenza di cinque o di sette testimoni; le disposizioni successorie così eseguite saranno preservate senza alcuna frode. Quindi, nell’eventualità in cui il numero dei testimoni dovesse mancare, l’istituzione codicillare sarà considerata invalida. È nostra premura che questa regola sia osservata in tutte le disposizioni di ultima volontà.
Per quanto riguarda la seconda operazione, invece, è efficace citare degli estratti di una costituzione dell’imperatore Costanzo del 339 d. C., tramandata nel Codex Iustininani in cui si aboliscono sia i sollemnia verba per l’istituzione di erede, sia le formule specifiche per i legati. In riferimento alle istituzioni di erede, quel che colpisce è la decisione del linguaggio normativo: nel IV d. C., infatti, non solo per le istituzioni di erede observantiam imperativis et directis verbis non necessariam est, ma addirittura è percepito indignum che observationes inanes possano invalidare la volontà dei defunti, al punto che questi libera facultatem habent di manifestarla in maniera aliunde, cioè in quacumque instrumenti materia conscribere et quibuscumque verbi suti. L’univocità di linguaggio è parimenti riscontrabile nella parte dedicata ai legati, dove si prescrive che, tanto nei fedecommessi quanto nei legati, observantia verborum non necessaria est.
C. 6. 23. 15: Quoniam indignum est ob inanem observationem irritas fieri tabulas et iudicia mortuorum, placuit ademptis his, quorum imaginarius usus est, istitutioni heredis verborum non esse necessariam observantiam, utrum imperativis et directis verbis fiat an inflexa. 1. Nec enim interest, si dicatur ‘heredem facio’ vel ‘istituo’ vel ‘volo’ vel ‘mando’ vel ‘cupio’ vel ‘esto’ vel ‘erit’, sed quibuslibet confecta sententiis, quolibet loquendi genere formata institutio valeat, si modo per eam liquebit voluntatis intentio, nec necessaria sint momenta verborum, quae forte seminecis et balbutiens lingua profudit. 2. Et in postremis ergo iudiciis ordinandis amota erit sollemnium sermonum necessitas, ut, qui facultates proprias cupiunt ordinare, in quacumque instrumenti materia conscribere et quibuscumque verbi suti liberam habeant facultatem. TRADUZIONE (DESANTI L.): Siccome è indegno che a causa di un inutile precetto siano invalidati i testamenti e le ultime volontà dei defunti, fu deciso che, abolite le formalità il cui uso è fittizio, non sia necessaria l’osservanza di parole prescritte per la istituzione di erede, né rilevante il fatto che essa sia posta in essere con parole imperative e dirette oppure in forma indiretta. 1. E perciò non importa, se si dica ‘faccio erede’ o ‘voglio’ o ‘incarico’ o ‘desidero’ o ‘sia’ o ‘sarà’, ma l’istituzione valga qualunque sia la frase con la quale viene disposta, e qualunque sia il modo di esprimersi con il quale viene formulata, se peraltro attraverso di essa risulterà manifesta la volontà del testatore, né sia necessaria la rapida successione delle parole, che una lingua talvolta morente e balbuziente pronunciò. 2. E dunque, nelle disposizioni di ultima volontà sarà abolita la necessità di parole solenni, in modo che, coloro che desiderano disporre delle proprie sostanze, abbiano libera facoltà di scrivere in qualunque specie di documento e di servirsi di qualsiasi espressione.
C. 6. 37. 21: In legatis vel fideicommissis verborum necessaria non sit observantia, ita ut nihil prosus intersit, quis talem voluntatem verborum casus exceperit aut quis loquendi usus effuderit. TRADUZIONE (DESANTI L.): Nei legati e nei fedecommessi non sia necessaria l’osservanza di parole prescritte, cosicché non sia affatto rilevante quale formula avrà disposto tale volontà o quale modo di esprimersi l’avrà manifestata.
Con il trionfo del principio di libertà della forma tipico del fedecommesso, non risultava più possibile distinguere una disposizione diretta da una fedecommissaria in base ai verba utilizzati, ma era necessario fare riferimento ad ulteriori elementi per desumere la voluntas defuncti. In quest’ottica, divennero determinanti le altre due discriminanti: la persona del fiduciario, in quanto anche nel basso impero il legato poteva gravare unicamente sull’erede testamentario (e non su qualsiasi altro soggetto che avesse ricevuto, a qualunque altro titolo, beni ereditari); e la natura dell’atto, in quanto i codicilli non confermati non potevano contenere né le istituzioni di erede, né i legati.
Questi avvicinamenti sono la prova della grande fortuna e dell’importante funzione assunta dal fedecommesso in epoca classica. Infatti, come si vedrà nell’esaminare la vicenda evolutiva dell’istituto, grazie ad esso si riuscì non solo a superare il formalismo del ius civile, ma anche ad ampliare il contenuto stesso del testamento.
L’equiparazione formale vera e propria tra legati e fedecommessi, invece, avviene con Giustiniano che statuisce la loro omologazione già a livello di sistema: infatti, sono entrambi collocati nel trentesimo libro dei Digesta, intitolato “De legatis et fideicommissis” che si apre proprio con il frammento ulpianeo, con ogni probabilità interpolato dai compilatori bizantini, che affermava come i legati fossero ormai equiparati per omnia, in ogni aspetto, ai fedecommessi.
D. 30. 1 (Ulp. 67 ad ed.): Per omnia exaequata sunt legata fideicommissis. TRADUZIONE (SCHIPANI S.): In tutto e per tutto i legati sono equiparati ai fedecommessi.
Come si è osservato, “non è sancita l’equiparazione dei fedecommessi ai legati, ma dei legati ai fedecommessi”[43] e si tratta di un’osservazione importantissima perché rivela il senso stesso della riforma giustinianea secondo cui, in caso di contrasto, la disciplina quasi humaniori del fedecommesso doveva prevalere su quella del legato. Procedendo per gradi, il disegno di unificazione, rappresentato nel Codex Iustiniani, inizia con il congiungimento dei certa verba con i verbis precativis, e nell’avvicinare definitivamente disposizioni dirette e indirette, si ammette addirittura la possibilità di rendere una divinità testimone di quanto pregato (che, stando alla voce verbale, riportata in lingua greca, doveva trattarsi di un costume ancora in voga presso le comunità orientali dell’Impero). In seguito, si afferma che i legati ed i fedecommessi possedevano identica efficacia e identica tutela processuale, indipendentemente dalle parole utilizzate per la loro posizione: in altre parole, si ribadiva il principio della libertà di forma e la centralità della volontà del disponente, stabilendosi che qualsiasi disposizione, indipendentemente dalle parole del testatore, potrà valere sia come legato, sia come fedecommesso. Infine, si afferma che l’impegno della legislazione statale[44] nell’assicurare soccorso a coloro che muoiono deve essere della stessa natura di quello prestato ai viventi: per la prima volta, in materia di fedecommesso, si esplicita che il dettato normativo si basa non verbis, sed ipsis rebus.
C. 6. 43. 2: IMP. IUSTINIANUS A. IULIANO P(RAEFECTO) P(RAETORI)O. Omne verbum significans testatoris legitimum sensum legare vel fideicommittere volentis utile atque validum est, sive directis verbis, quale est ‘iubeo’ forte, sive precariis utetur testator, quale est ‘rogo’, ‘volo’, ‘mando’, ‘fideicommitto’, sive iuramentum posuerit, cum et hoc nobis audientibus ventilatum est, testatore quidem dicente ‘ἐνορκῶ’, partibus autem huiusmodi verbum huc atque illuc lacerantibus. 1. Sit igitur secundum quod diximus ex omni parte verborum non inefficax voluntas secundum verba legantis vel fideicommittentis et omnia, quae naturaliter insunt legatis, ea et fideicommissis inhaerere intellegantur et e contrario, quidquid fideicommittitur, hoc intellegatur esse legatum, et si quid tale est, quod non habet natura legatorum, hoc ei ex fideicommissis accommodetur, et sit omnibus perfectus eventus, ex omnibus nascantur in rem actiones, ex omnibnus hypothecariae, ex omnibus personales. 2. Ubi autem aliquid contrarium in legatis et fideicommissis eveniat, hoc fideicommisso quasi humaniori adgregetur et secundum eius dirimatur naturam. 3. Et nemo moriens putet suam legitimam voluntatem re probari, sed nostro semper utetur adiutorio, et quemadmodum viventibus providimus, ita et morientibus prospiciatur: et si specialiter legati tantummodo faciat testator mentionem, hoc et legatum et fideicommissum intellegatur, et si fidei heredis vel legatarii aliquid committatur, hoc et legatum esse videatur. Nos enim non verbis, sed ipsis rebus leges imponimus. TRADUZIONE (DEFALCO I.): Qualunque parola che significhi il legittimo intendimento del testatore di legare o fedecommettere è utile e valida, sia che il testatore si serva di parole dirette, come per esempio ‘ordino’, sia di parole di preghiera, come per esempio ‘prego’, ‘voglio’, ‘incarico’, ‘commetto alla fede’, ossia che abbia interposto un giuramento, visto che di fronte a noi si è discusso anche un caso del genere, in cui un testimone diceva ‘dio mi è testimone’ e le parti contestavano tale affermazione in tutti i sensi. Pertanto, secondo quanto abbiamo detto, qualunque sia il tipo dell’espressione adoperata, non sia inefficace la volontà secondo le parole del legante e del fedecommittente, e tutte le regole che per natura ineriscono ai legati, si intendono inerire anche ai fedecommessi, e al contrario, ciò che viene fedecommesso, si intende essere legato, e se vi sia qualche principio che la natura dei legati non possieda, questo gli sia esteso dai fedecommessi e vi sia per tutti un pieno effetto, da tutti nascano azioni reali, da tutti azioni ipotecarie, da tutti azioni personali. Ove poi si trovi qualcosa di incongruente, nei legati e nei fedecommessi, ciò sia ricondotto al fedecommesso, in un certo senso più umano e si dirima secondo la natura di quest’ultimo. 3. E nessuno, morendo, ritenga che la sua legittima volontà sia riposta nel nulla, ma si serva sempre del nostro soccorso, e come noi provvediamo ai viventi, così si abbia cura anche di coloro che muoiono: e se il testatore faccia menzione in modo speciale del solo legato, questo si intenda sia come legato sia come fedecommesso, e se commetta qualcosa alla fede dell’erede o del legatario, questi risulti essere anche un legato. Noi, infatti, non imponiamo leggi sopra le semplici parole, bensì sopra i fatti.
Le note conclusive in merito alla riforma giustinianea sono riconducibili a due correnti di pensiero: la prima, inaugurata dal Grosso, rileva che l’unificazione perseguita da Giustiniano non è riuscita a sopprimere ogni distinzione concettuale in materia: a confermarlo, è l’impianto delle Institutiones Iustiniani Augusti, in cui legati e fedecommessi sono ancora trattati separatamente[45]. Invece, la seconda afferma che pur volendo considerare definitiva l’assimilazione delle due figure, questa poteva realizzarsi soltanto nel fedecommesso a titolo particolare: infatti, il fedecommesso universale presentava più punti di contatto con l’istituzione di erede che con il legato[46].
Per quel che riguarda la prima teoria, la più risalente, va osservato che, il Grosso ricorda sì il carattere didattico dell’opera, ma tralascia la funzione di aggiornamento che assumeva nel rapporto col diritto vigente. Infatti, si hanno esempi di novità legislative introdotte non da una costituzione, ma direttamente dalle Istituzioni, come nel caso dell’abolizione delle norme limitatrici delle manomissioni[47].
In Inst. 1. 6. 7 si legge che i limiti imposti dalla lex Aelia Sentia non sono più tollerabili, ritenendo inaccettabile che un soggetto possa disporre per testamento di tutti i suoi averi, ma non possa fare altrettanto con gli schiavi. I veteres iureconsulti consideravano la libertà inestimabile e proprio per questo avevano stabilito delle limitazioni: invece, Giustiniano, scegliendo la media quodammodo via[48], decide di consentire la manomissione testamentaria anche al dominus che abbia completato il diciassettesimo anno e cominciato il diciottesimo. È stato osservato che, nonostante i toni usati dai commissari giustinianei fossero polemici, non raggiungono l’asprezza della parafrasi di Teofilo, dove invece, si legge di una κᾰτᾰγέλᾰστος νόμος (ridicula lex), definendola una ἀτοπία (absurditas)[49].
Inst. 1. 6. 7: Cum ergo certus modus manumittendi minoribus viginti annis dominis per legem Aeliam Sentiam constitutus sit, eveniebat ut qui quattuordecim annos aetatis expleverit, licet testamentum facere possit et in eo heredem sibi instituere legataque relinquere possit, tamen, si adhuc minor sit annis viginti, libertatem servo dare non poterat. quod non erat ferendum, si is, cui totorum bonorum in testamento dispositio data erat, uni servo libertatem dare non permittebatur. quare nos similiter ei quemadmodum alias res ita et servos suos in ultima voluntate disponere, quemadmodum voluerit, permittimus, ut et libertatem eis possit praestare. sed cum libertas inaestimabilis est et propter hoc ante vicesimum aetatis annum antiquitas libertatem servo dari prohibebat: ideo nos, mediam quodammodo viam eligentes, non aliter minori viginti annis libertatem in testamento dare servo suo concedimus, nisi septimum et decimum annum impleverit et octavum decimum tetigerit. cum enim antiquitas huiusmodi aetati et pro aliis postulare concessit, cur non etiam sui iudicii stabilitas ita eos adiuvare credatur, ut et ad libertates dandas servis suis possint pervenire. TRADUZIONE (SCOTTI F.): Avendo la legge Elia Senzia stabilito un modo solo di manomettere per i minori di vent’anni, ne derivava che il maggiore di quattordici anni, nonostante potesse fare testamento, istituire erede e lasciare legati, se fosse stato ancora minore di venti anni non avrebbe potuto dare per testamento la libertà ad un suo servo. Ciò non era tollerabile perché a chi era concessa la facoltà di disporre di tutti i suoi beni per testamento, era impedito di dare la libertà anche ad uno solo dei suoi servi. Pertanto, noi gli concediamo tale facoltà di disporre mortis causa anche dei propri servi come di tutte le altre cose, nel modo che preferisce, in maniera tale da concedere loro anche la libertà. Ma essendo la libertà un bene inestimabile ed avendo perciò le antiche leggi vietato che potesse essere data al servo da chi non aveva compiuto ancora vent’anni, così noi, scegliendo una soluzione intermedia, permettiamo al minore di vent’anni di concedere la libertà per testamento al suo servo, quando però abbia compiuto diciassette anni ed abbia cominciato il diciottesimo. Infatti, se una tale età fu reputata dagli antichi sufficiente per gli altri atti, perché mai si dovrebbe credere che la capacità di discernimento non sia tale in quella età da non poter dare la libertà ai servi?
5. I fedecommessi che imponevano la restituzione dopo la morte
Il fedecommesso, nato per eludere talune incapacità di ricevere per testamento, o comunque per snellire le formalità della successione civilistica, ha finito per assumere nel tempo finalità e significati diversi. In questa direzione, si incontrano i fedecommessi che il de cuius disponeva con lo scopo di determinare le sorti dei propri beni oltre i confini della sua vita e, più nello specifico, oltre la vita di chi avesse ricevuto i suoi beni per primo. Naturalmente, davanti ad una simile volontà del defunto, l’obbligo di provvedere alla restituzione per fedecommesso sorgeva solo al momento dell’evento morte di colui che, erede o legatario, avesse ricevuto beni ereditari. Pertanto, la morte del fiduciario nella disposizione fedecommissaria era sempre necessaria: infatti, Giustiniano elabora “un generale onere fedecommissario di restituire dopo la morte, quasi sempre indicato nelle fonti come restitutionis post mortem onus”[50].
Innanzitutto, per quanto riguarda le questioni di sistema, tale categoria di fedecommessi si può definire sia dal punto di vista oggettivo come “fedecommessi da restituirsi dopo la morte dell’onerato”[51], tenendo a mente che il termine fedecommesso indicava sia la disposizione che il suo contenuto, sia dal punto di vista soggettivo come “sostituzione fedecommissaria”[52], in quanto non c’è dubbio che il fedecommissario, ottenendo i beni ereditari dopo la morte di chi li aveva per primo ricevuti, si sostituiva in qualche modo a quest’ultimo, secondo le volontà del de cuius. Volendo recuperare entrambe le denominazioni, la categoria in questione si può definire dalla prospettiva dell’istituto stesso: in tutti questi casi, infatti, il fedecommesso è uno strumento che impone la restituzione di beni ereditari a chi li aveva ricevuti nell’ambito di un originario fenomeno successorio.
Dopodiché bisogna precisare che tali fedecommessi sono ammissibili, senza porsi in contrasto col divieto di patti successori perché questo opera in riferimento alle disposizioni directis verbis, caratterizzate dalla forma imperativa diretta. Invece, tale obbligatorietà manca nel concetto del fedecommesso, una forma di disposizione non directis verbis, o appunto, fideicommissi verbis, dove la scelta tra il trasmettere o il non trasmettere è rimessa alla discrezione dell’onerato, anche tenendo conto dello sviluppo delle circostanze. La precisazione è d’obbligo perché, se non si distinguesse adeguatamente tra disposizioni imperative e non imperative, pur tenendo conto che il fedecommesso acquisterà coercibilità giuridica con Augusto, nulla distinguerebbe la categoria di fedecommessi in esame dai patti “dispositivi”.
La prima figura da analizzare in questa categoria è il fedecommesso sottoposto al termine della morte dell’erede cui si riferisce in maniera particolare Gaio:
Gai Inst. 2. 277: Item quamvis non possimus post mortem eius, qui nobis heres extiterit, alium in locum eius heredem instituere, tamen possumus eum rogare, ut cum morietur alii eam hereditatem totam vel ex parte restituat. Et quia post mortem quoque heredis fideicommissum dari potest, idem efficere possumus et si ita scripserimus ‘cum Titius heres meus mortuus erit, volo hereditatem meam ad P. Mevium pertinere’. Utroque autem modo, tam hoc quam illo, Titius heredem suum obligatum relinquit de fideicommisso restituendo. TRADUZIONE (VIGNALI G.): Così, sebbene non possiamo, dopo la morte di colui che è divenuto nostro erede, istituire erede un altro al posto suo, tuttavia possiamo pregarlo di restituire ad altri l’eredità, tutta o in parte, al momento della sua morte. E siccome un fedecommesso può essere lasciato anche dopo la morte dell’erede, possiamo ottenere il medesimo effetto anche scrivendo ‘quando il mio erede Tizio sarà morto, voglio che la mia eredità appartenga a P. Mevio’. In entrambi i modi, sia in questo che in quello, Tizio lascia obbligato il suo erede a restituire il fedecommesso.
In Gaio si osserva l’uso della clausola cum heres morietur (quando morirà l’erede, alla morte dell’erede), ma nel Digesto, in particolare in un responsum attribuito a Paolo e in un frammento di Ulpiano, si incontrano anche altre varianti che ugualmente si riferiscono al momento del decesso, ad esempio cum morieris (quando morirai, riferito all’erede o al legatario). Si tratta di formule interscambiabili tra loro che non hanno assunto diversi significati nell’indagine esegetica: tuttavia, va osservato che la dicitura cum moreretur sembra incontrarsi unicamente nella libertà fedecommissaria sottoposta a termine.
D. 31. 87. 2 (Paul. 14 resp.): Seia libertis suis fundum legavit fideique eorum ita commisit: "fidei autem vestrae, Vere et Sapide, committo, ne eum fundum vendatis eumque qui ex vobis ultimus decesserit, cum morietur, restituat Symphoro liberto meo et Successori et Beryllo, quos infra manumisi, quive ex his tunc supervivent". quaero, cum nec in prima parte testamenti, qua fundum praelegavit, eos substitutit, in secunda tamen adiecerit verbum "qui ultimus decesserit", an pars unius defuncti ad alterum pertineret. Paulus respondit testatricem videri in eo fideicommisso, de quo quaeritur, duos gradus substitutionis fecisse, unum ut is, qui ex duobus prior morietur, alteri restitueret, alterum ut novissimus his restitueret, quos nominatim postea enumeravit. TRADUZIONE (SCHIPANI S.): Seia legò un fondo ai suoi liberti e dispose un fedecommesso a loro carico così: «Mi rimetto alla vostra affidabilità, Vero e Sapido, affinché non vendiate quel fondo; e chi di voi sarà morto per ultimo, lo dia, quando morirà, al mio liberto Sinforo ed a Successore e a Berillo, i quali ho manomesso più oltre o a chi fra loro in quel tempo sarà ancora in vita». Poiché nella prima parte del testamento, nella quale prelegò il fondo non aveva dato loro dei sostituiti, pongo la questione se, avendo però aggiunto nella seconda parte le parole «chi sarà morto per ultimo», la parte di quello defunto apparterrà all'altro. Paolo diede il responso che la testatrice si considerava aver fatto, nel fedecommesso di cui si tratta, due gradi di sostituzione: il primo, affinché quello dei due che muoia per primo dia all'altro; il secondo, affinché quello che sia morto per ultimo dia a coloro che enumerò poi nominativamente.
D. 40. 5. 26 (Ulp. 5 fideicomm.): Cum vero is qui rogatus est non alienum servum manumittere mortalitatis necessitate vel bonorum publicatione ad alium servum perduxit, magis opinor constitutionibus esse locum, ne deterior condicio fideicommissae libertatis fiat. Nam et cum quidam rogatus esset, cum moreretur, servum manumittere isque decessisset libertate servo non data, perinde eum habendum constitutum est atque si ad libertatem ab eo perductus esset: potest enim eo testamento dare libertatem utique directam. Sic fit, ut, quotiens quis libertatem accepit fideicommissariam, si ab alio quam qui erat rogatus manumittatur, auxilium constitutionum habeat perindeque habeatur atque si ab eo manumissus fuisset, quoniam fideicommissis libertatibus favor exhibetur nec intercidere solet destinata fideicommissa libertas: qui enim ea donatus est, in possessionem libertatis interim esse videtur. TRADUZIONE (SCOTTI F.): Ma quando colui che fu incaricato per fedecommesso di manomettere un servo altrui, in vista della morte o per confisca di beni, dovette necessariamente far passare quel servo in potere di altri, io credo che debbano trovare applicazione le costituzioni in cui non si ostacoli la causa della libertà fedecommissaria. Infatti, anche quando chi fosse stato incaricato per fedecommesso di manomettere al tempo della sua morte un servo, e morisse senz’avergli dato la libertà, quest’ultimo, secondo il regime di tali costituzioni, è considerato come se fosse stato fatto libero; giacché egli può dargli la libertà diretta per testamento. Quindi avviene che ogni qualvolta la libertà fedecommissaria viene data ad un servo manomesso da altre persone, anziché da quella incaricata per fedecommesso di manometterlo, queste costituzioni vengono in suo soccorso e si considera come se fosse stato manomesso da colui che era stato incaricato, in virtù del favor libertatis. E di regola la libertà fedecommissaria non si estingue perché colui al quale fu data si considera nel frattempo essere in possesso.
In particolare, nel fedecommesso di libertà, parafrasando Pomponio, si può evidenziare che tali clausole riferite all’evento morte davano luogo a disposizioni tendenti più a negare che a concedere, la libertà agli schiavi. Infatti, il giurista, riportando anche un parere di Salvio Giuliano, afferma che se la libertà è sottoposta a condizioni impossibili da adempiere prima del momento della morte del destinatario, l’animus della disposizione è negativo e la libertà che ne è oggetto è conferita inutilmente. A ben vedere, è la stessa disposizione a considerarsi invalida, né troverà applicazione la cautio Muciana[53].
D. 40. 4. 61 (Pomp. 11 ep.): Scio quosdam efficere volentes, ne servi sui umquam ad libertatem perveniant, hactenus scribere solitos: ‘Stichus cum moreretur, liber esto’. Sed et Iulianus ait libertatem, quae in ultimum vitae tempus conferatur, nullius momenti esse, cum testator impediendae magis quam dandae libertatis gratia ita scripsisse intellegitur. Et ideo etiam si ita sit scriptum: ‘Stichus si in Capitolium non ascenderit, liber esto’, nullius momenti hoc esse, si apparet in ultimum vitae tempus conferri libertatem testatorem voluisse, nec Mucianae cautioni locum esse. TRADUZIONE (SCOTTI F.): So che alcune persone, volendo impedire che i loro servi possano mai ottenere la libertà, di solito la dispongono in questi termini: “Stico sia libero quando morrà”. Ma anche Giuliano dice che la libertà conferita per l’ultimo momento della vita non è di alcun vigore, perché si considera che il testatore abbia così disposto per impedire più che per concedere la libertà. Quindi, anche se la disposizione fosse così concepita: “Stico sia libero, se non salirà il Campidoglio” sarà invalida qualora apparisse che il testatore abbia inteso di conferire la libertà per l’ultimo momento della vita e non avrà luogo la cauzione muciana.
Il secondo tipo di fedecommesso, invece, è quello il cui termine si intende realizzato dopo la morte dell’erede, normalmente espresso con le parole post mortem heredis (dopo la morte dell’erede) o post mortem tuam (dopo la tua morte); anche in questo caso, non è infrequente l’impiego di locuzioni equivalenti così come risulta dalla lettura di due quaestiones di Papininano scelte dai compilatori giustinianei.
D. 31. 70. 3 (Pap. 20 quaest.): Cum autem rogatus, quidquid ex hereditate supererit, post mortem suam restituere de pretio rerum venditarum alias comparat, deminuisse quae vendidit non videtur. TRADUZIONE (SCHIPANI S.): Quando poi uno, richiesto di dare, dopo la sua morte, quanto sarà rimasto dell'eredità , con il prezzo delle cose vendute ne comperi altre, non si considera che le cose che vendette abbiano diminuito l'eredità.
D. 22. 1. 3. 2 (Pap. 20 quaest.): Nonnumquam evenit, ut, quamquam fructus hereditatis aut pecuniae usura nominatim relicta non sit, nihilo minus debeatur. ut puta si quis rogetur post mortem suam quidquid ex bonis supererit Titio restituere: ut enim ea quae fide bona deminuta sunt in causa fideicommissi non deprehenduntur, si pro modo ceterorum quoque bonorum deminuantur, ita quod ex fructibus supererit iure voluntatis restitui oportebit. TRADUZIONE (SCHIPANI S.): Può accadere che i frutti di una eredità o gli interessi di una somma siano dovuti anche se non espressamente lasciati. Avverrebbe, per esempio, se uno fosse stato incaricato di restituire dopo la sua morte a Tizio tutto ciò che gli resterà dell’eredità. Invero, siccome le cose consumate secondo buona fede non entrano nella restituzione di un fedecommesso, se sono consumate in proporzione anche degli altri beni di chi era gravato; così ciò che resterà dei frutti percepiti dovrà essere restituito secondo la volontà del testatore.
Nonostante entrambe le clausole presuppongano il decesso dell’erede ai fini dell’attuazione della preghiera, naturalmente ad opera del suo successore, dal punto di vista teorico i due fedecommessi davano conseguenze differenti. Infatti, dal momento che il termine cum heres morietur scadeva nell’istante precedente alla morte dell’erede, l’erede era ancora in vita e di conseguenza l’obbligo della restituzione dei beni, del bene o della concessione della libertà sorgeva proprio in capo a quest’ultimo. Invece, il termine post mortem heredis scadeva quando ormai l’erede era deceduto, facendo sorgere l’obbligo direttamente in capo al suo successore[54]. Da tale differenza teorica, così come è evidente nel libro primo di Ulpiano dedicato al fedecommesso, discende una prima conseguenza pratica: infatti, al fedecommesso si potevano apporre entrambe le clausole, vel cum morietur vel post heredis, perché la preghiera poteva indirizzarsi direttamente ab herede heredis.
D. 30. 93 (Ulp. 1 fideicomm.): Quod fideicommissum hactenus, quatenus impubes decedat, valebit: ceterum si pubes factus decesserit, evanescit fideicommissum. TRADUZIONE (SCHIPANI S.): Questo fedecommesso avrà valore solo se il figlio muoia impubere; altrimenti, se sia deceduto una volta divenuto pubere, il fedecommesso diventa inutile.
D. 32. 5. 1 (Ulp. 1 fideicomm.): Si quis non ab herede vel legatario, sed ab heredis vel legatarii herede fideicommissum reliquerit, hoc valere benignum est. TRADUZIONE (SCHIPANI S.): Se uno abbia lasciato un fedecommesso non a carico dell'erede o del legatario, ma dell'erede dell'erede o dell'erede del legatario, è conforme a una interpretazione benevola che esso sia valido.
Invece, lo stesso non può dirsi per il legato, in quanto l’apposizione della clausola post mortem lo avrebbe reso inutile per gli stessi motivi per cui in Gaio si legge dell’inutilitas (ovvero, secondo il linguaggio contemporaneo, della nullità) della sponsio da eseguire dopo la morte del futuro creditore o del promittente: il giurista sabiniano afferma che è parso inelegans, da tradursi come incoerente[55], “la precostituzione di un diritto o di un obbligo degli eredi, cioè di soggetti estranei al rapporto da costituire e, per di più, non ancora determinabili”[56].
Gai Inst. 3. 100.: Denique inutilis est talis stipulatio, si quis ita dari stipuletur: POST MORTEM MEAM DARI SPONDES? uel ita: POST MORTEM TVAM DARI SPONDES? ualet autem, si quis ita dari stipuletur: CVM MORIAR, DARI SPONDES? uel ita: CVM MORIERIS, DARI SPONDES? id est, ut in nouissimum uitae tempus stipulatoris aut promissoris obligatio conferatur: nam inelegans esse uisum est ab heredis persona incipere obligationem. rursum ita stipulari non possumus: PRIDIE QVAM MORIAR, aut PRIDIE QVAM MORIERIS, DARI SPONDES? quia non potest aliter intellegi 'pridie quam aliquis morietur', quam si mors secuta sit; rursus morte secuta in praeteritum reducitur stipulatio et quodam modo talis est: HEREDI MEO, DARI SPONDES? quae sane inutilis est. TRADUZIONE (BELTRANI S.): Infine, è inutile la stipulazione in questo modo fatta: ‘prometti che si darà dopo la mia morte?’. Oppure così: ‘prometti che si darà dopo la tua morte?’. Invece, vale se si stipula in questo modo: ‘prometti di dare quando morrò’. Oppure così: ‘quando morrai, prometti di dare?’, cosicché l’obbligazione si trasferisce all’ultimo momento della vita dello stipulatore o del promissore, perché è parso incoerente che l’obbligazione cominciasse dalla persona dell’erede. Inoltre, non possiamo stipulare così: ‘il giorno prima che morrò o il giorno prima che morrai, prometti di dare?’ perché non può intendersi altrimenti il giorno prima della morte se non a seguito della morte. Quindi, l’obbligazione si riduce ad un tempo passato ed in un certo modo è simile alla seguente: ‘prometti che si darà al mio erede?’ che come stipulazione è inutile.
La diversità nel dies fideicommissi cedens, cioè nel giorno in cui sorgeva il diritto del fedecommesso, è descritta massimamente in un responsum di Paolo, dove si legge di un erede che era stato pregato di restituire l’eredità dopo la sua morte, fatta eccezione per i frutti percepiti in vita. La questione di diritto era la seguente: dovevano restituirsi per fedecommesso anche i figli delle schiave venuti al mondo quando l’erede era ancora vivo? Paolo specifica che i nati ante diem fideicommissi cedentem non andavano restituiti perché la disposizione fedecommissaria ancora non aveva acquistato efficacia, evidenziando che l’insorgenza del diritto al fedecommesso non coincideva con la morte del de cuius, bensì veniva spostato alla scadenza del termine.
D. 22. 1. 14. 1 (Paul. 14 resp.): Heres rogatus erat post mortem suam sine reditu hereditatem restituere: quaesitum est, an partus ancillarum etiam vivo herede nati restituendi essent propter verba testamenti, quibus de reditu solo deducendo testator sensit. Paulus respondit ante diem fideicommissi cedentem partus ancillarum editos fideicommisso non contineri. Neratius libro primo ita refert eum, qui similiter rogatus esset, ut mulierem restitueret, partum eius restituere cogendum non esse, nisi tunc editus esset, cum in fideicommisso restituendo moram fecisset. neque interesse existimo, an ancilla specialiter an hereditas in fideicommisso sit.TRADUZIONE (SCHIPANI S.): Ad un erede era stato chiesto di dare dopo la sua morte l'eredità senza il reddito di questa. Fu posto il quesito, se la prole delle serve, anche se nata essendo vivo l'erede, dovesse essere data a motivo delle parole del testamento, con le quali il testatore intese dedurre solo il reddito. Paolo diede il responso che la prole delle serve venuta alla luce prima della scadenza del termine dal quale fosse diventato efficace il fedecommesso non era inclusa in esso. Nerazio riferisce nel libro primo che colui al quale similmente fosse stato chiesto di dare la serva, non è tenuto a consegnare la prole, a meno che non fosse venuta alla luce quando vi era stata mora nell'adempimento del fedecommesso. Non ritengo che abbia importanza se nel fedecommesso sia inclusa la serva in particolare o l'intera eredità.
Quindi, si assiste ad una deviazione rispetto alle regulae iuris in tema di disposizioni soggette a termine: infatti, di regola, il dies non rinviava l’insorgenza di diritti ed obblighi, ma soltanto la loro esigibilità. La peculiarità di questa disciplina, secondo il Brunetti, si deve al fatto che il termine della morte era un dies certus an, incertus quando[57]. Di contro, il Ferrini ha sostenuto che ogni volta che si assiste ad uno slittamento del dies cedens, questo sarebbe da considerarsi un caso eccezionale determinato dalla specificità del caso concreto, piuttosto che una disciplina generale dell’istituto[58].
Le fonti custodiscono la memoria di ulteriori tipi di fedecommesso ascrivibili alla categoria in esame, tutti accomunati dall’essere sospensivamente condizionati alla morte dell’erede caratterizzata da un quid pluris, solitamente rappresentato dal verificarsi del decesso prima del raggiungimento dell’età pubere. La ratio della condizione è da ricercare nell’impossibilità per gli impuberi di fare testamento: in questo modo, il de cuius pregando il proprio erede di restituire ad altri i beni ricevuti si intra pubertatem decessit (se fosse morto nella pubertà o entro i quattordici anni, il cui uso è frequente nei passi di Papiniano riportati nel Digesto) impediva che, al verificarsi della condizione, i suoi beni fossero devoluti secondo le regole della successione legittima[59]. Al di fuori di questa ipotesi, ben poteva accadere che il de cuius pregava alla restituzione si intra viginti quinque annos aetatis decederet (se fosse morto entro i venticinque anni, testimoniata in un frammento del Codex Iustiniani) o meno frequentemente, si antequam res suas administrare posset decessisset (se fosse morto prima di potere amministrare i suoi beni, come si legge in Paolo), clausola che assume sostanzialmente lo stesso significato. Addirittura, talvolta si pregava per l’eventualità in cui il decesso fosse avvenuto entro un’età maggiore, evidentemente avvertita al tempo come la mezza età: si intra annum trigesumum moreretur (entro il trentesimo anno, il cui uso si attesta ancora in Papiniano).
D. 31. 1. 69. 2 (Pap. 19 quaest.): Mater filio impubere herede instituto tutorem eidem adscripsit eiusque fidei commisit, ut, si filius suus intra quattuordecim annos decessisset, restitueret hereditatem Sempronio. non ideo minus fideicommissum recte datum intellegi debet, quia tutorem dare mater non potuit. nam et si pater non iure facto testamento tutoris fidei commiserit, aeque praestabitur, quemadmodum si iure testamentum factum fuisset: sufficit enim, ut ab impubere datum fideicommissum videatur, ab eo dari, quem is qui dabat tutorem dederat vel etiam tutorem fore arbitrabatur. idem in curatore impuberis vel minoris annis debet probari. nec interest, tutor recte datus vivo patre moriatur vel aliquo privilegio excusetur vel tutor esse non possit propter aetatem, cui tutor fuerat datus: quibus certe casibus fideicommissum non intercidit, quod a pupillo datum videtur. hac denique ratione placuit a tutore, qui nihil accepit, fideicommissum pupillo relinqui non posse, quoniam quod ab eo relinquitur extero, non ipsius proprio, sed pupilli iure debeatur. TRADUZIONE (SCHIPANI S.): Una madre, dopo avere istituito erede il figlio impubere, assegnò allo stesso un tutore e dispose a suo carico il fedecommesso che, se suo figlio fosse morto entro i quattordici anni, desse l'eredità a Sempronio. Non si deve intendere che sia stato dato in modo meno che corretto un fedecommesso, per il fatto che la madre non avrebbe potuto dare il tutore. Anche se il padre, fatto testamento in modo non conforme al diritto, avrà, infatti, disposto un fedecommesso a carico del tutore, questo sarà ugualmente dovuto, come se il testamento fosse stato fatto secondo diritto: infatti, affinché il fedecommesso si consideri dato a carico dell'impubere, è sufficiente che sia dato a carico di colui il quale era dato come tutore o che colui che dava il fedecommesso riteneva che sarebbe diventato tutore. Lo stesso si deve approvare circa il curatore dell'impubere o del minore di anni. Né interessa se il tutore dato correttamente muoia, essendo ancora vivo il padre, o sia giustificato per qualche privilegio, o che per l'età non possa essere tutore di colui al quale era stato dato; in questi casi, certamente non viene meno il fedecommesso che si considera dato a carico del pupillo. Infine, parve bene non potersi lasciare un fedecommesso al pupillo a carico del tutore che non ricevette nulla, per questa ragione, che quanto si lascia a suo carico in favore di un estraneo è dovuto non in relazione al diritto che si riferisce a lui, ma a quello che si riferisce al pupillo.
C. 3. 28. 12: Si pater puellae, cuius vos curatores esse dicitis, filio ex semisse, ipsa autem ex triente et uxore ex reliquo sextante scriptis heredibus, fidei filiorum commisit, ut, si quis eorum intra viginti quinque annos aetatis decederet, superstitibus portionem suam restitueret, praeterea uxori, ut id, quod ex causa hereditatis ad eam pervenisset, filiis post mortem suam restitueret, fideicommisit, calumniosam inofficiosi actionem adversus iustum iudicium testatoris instituere non debetis, cum ex huiusmodi fideicommissaria restitutione tam matris quam fratris eius portio ad eam poterat pervenire. TRADUZIONE (DESANTI L.): Se il padre della ragazza di cui dite di essere curatori, dopo aver istituito eredi, lasciando a suo figlio la metà dei beni immobiliari, a sua figlia un terzo e a sua moglie la rimanente parte, rimette alla fides dei suoi figli che, qualora uno di loro dovesse morire entro il venticinquesimo anno, la sua porzione sia divisa tra i sopravvissuti, pregando anche la moglie di dare loro qualsiasi parte dei beni di cui potrebbe divenire proprietaria. Voi non agirete per calunnia contro il desiderio del testatore per dichiarare invalida la volontà, al fine di restituire in virtù della fides la parte della madre oltre che la parte del fratello, che finirà parimenti nella tua curatela.
D. 35. 1. 113 (Paul. imp. sent. in cogn. prol. ex lib. sex 2): Cum filius rogatus fuisset a patre, si, antequam res suas administrare posset, decessisset, hereditatem Titio restituere, et egressus viginti annos decessisset, rescriptum est fideicommissum deberi. TRADUZIONE (SCOTTI F.): Un padre ha pregato suo figlio di rimettere la sua eredità a Tizio se fosse morto prima di poter amministrare i propri affari. Il figlio in questione è morto subito dopo il suo ventesimo anno di età e il principe ha deciso che il fedecommesso fosse dovuto a Tizio.
D. 35. 1. 102 (Pap. 9 resp.): Cum avus filium ac nepotem ex altero filio heredes instituisset, a nepote petit, ut, si intra annum trigesimum moreretur, hereditatem patruo suo restitueret: nepos liberis relictis intra aetatem supra scriptam vita decessit. Fideicommissi condicionem coniectura pietatis respondi defecisse, quod minus scriptum, quam dictum fuerat, inveniretur. TRADUZIONE (SCOTTI F.): Un nonno nominò suo figlio e un nipote avuto da un altro figlio suoi eredi e chiese a suo nipote che, qualora fosse morto prima di raggiungere il suo trentesimo anno, di restituire la sua parte di eredità a suo zio. Il nipote morì entro l’età indicata, lasciando dei superstiti. Ho ritenuto che, a causa dell'affetto paterno, la condizione della fides non fosse soddisfatta, perché si dovrebbe considerare che era stato prescritto meno del previsto.
Per quanto riguarda, infine, il regime giuridico dei fedecommessi condizionati con tali clausole, è importante sottolineare che in un responso di Papiniano contenuto nel Digesto si equiparano ai fedecommessi sottoposti a termine post mortem heredis. In particolare, in questi casi il diritto al fedecommesso, e il relativo obbligo di prestarlo, sarebbero sorti soltanto a decesso avvenuto e non a carico dell’erede, quanto del suo successore[60].
D. 28. 6. 41. 3 (Pap. 6 resp.): Quod si heredem filium pater rogaverit, si impubes diem suum obierit, Titio hereditatem suam restituere, legitimum heredem filii salva Falcidia cogendum patris hereditatem ut ab impubere fideicommisso post mortem eius dato restituire placuit, nec aliud servandum, cum substitutionis condicio puberem aetatem verbis precariis egreditur. quae ita locum habebunt, si patris testamentum iure valuit: alioquin si non valuit, ea scriptura, quam testamentum esse voluit, codicillos non faciet, nisi hoc expressum est. nec fideicommisso propriae facultates filii tenebuntur, et ideo, si pater filium exheredaverit et ei nihil reliquerit, nullum fideicommissum erit: alioquin, si legata vel fideicommissa filius acceperit, intra modum eorum fideicommissum hereditatis a filio datum citra Falcidiae rationem debebitur. TRADUZIONE (SCHIPANI S.): Se invece il padre abbia richiesto all’erede impubere, se fosse morto impubere, di dare la sua eredità a Tizio, parve bene che l'erede legittimo del figlio, fatta salva la Falcidia, dovesse essere costretto a dare l'eredità del padre, come se fosse un fedecommesso da adempiere a carico dell'impubere dopo la sua morte; né si deve osservare un diverso diritto quando la condizione della sostituzione con parole di preghiera oltrepassa il tempo della pubertà. Tutto ciò avrà luogo, se il testamento del padre fu giuridicamente valido; altrimenti, se non fu valido, quello scritto, che egli voleva fosse un testamento, non avrà valore di codicilli, a meno che ciò non sia stato espressamente previsto. Né saranno obbligati dal fedecommesso i beni personali del figlio, e perciò, se il padre abbia diseredato il figlio, senza avergli lasciato nulla, non vi sarà alcun fedecommesso; viceversa, se il figlio abbia ricevuto legati o fedecommessi, il fedecommesso di eredità gravante sul figlio stesso sarà dovuto nei limiti di questi, a parte il calcolo della Falcidia.
6. (segue) La clausola si sine liberis decesserit
Senza dubbio, tra i fedecommessi di natura condizionale, le testimonianze maggiori si riferiscono alla clausola si sine liberi decesserit (se sarà morto senza figli). Va subito detto che, con il passare del tempo, a tale clausola furono assimilate anche altre condizioni: qualora fosse morto senza testamento (si intestatus decesserit) o senza nozze (si sine nuptiis decesserit)[61]. In particolare, Ulpiano riferisce di un rescritto di Antonino Pio, in virtù del quale la clausola si alieno herede decesserit (se sarà morto lasciando erede un estraneo) viene equiparata alla condizione si sine liberis decesserit:
D. 36. 1. 18. 8 (Ulp. 3 fideicomm.): Si quis ita fideicommissum reliquerit: "fidei tuae, fili, committo, ut, si alieno herede moriaris, restituas Seio hereditatem", videri eum de liberis sensisse divus Pius rescripsit: et ideo, cum quidam sine liberis decederet, avunculum ab intestato bonorum possessorem habens, extitisse condicionem fideicommissi rescripsit. TRADUZIONE (DESANTI L.): Un tale lasciò un fedecommesso in questi termini: “commetto alla tua fede, figlio mio, di restituire l’eredità a Seio, se morrai lasciando erede un estraneo. Il divo Pio rescrisse che avesse voluto parlare dei figli: quindi la condizione del fedecommesso venne adempiuta e suo zio materno diventò possessore dei suoi beni ab intestato.
L’equiparazione fu possibile grazie al comun denominatore rappresentato dalla ratio: il de cuius, qualora il suo erede o legatario fosse morto senza discendenti o senza eredi testamentari o senza una famiglia legittima, preferiva disporre la restituzione dei suoi beni a favore del fedecommissario. Se fosse morto senza figli, il patrimonio del de cuius sarebbe spettato ad altri parenti; invece, se fosse morto senza testamento, il patrimonio sarebbe stato diviso ab intestato; infine, se fosse morto senza nozze, e quindi privo di figli o di coniugi da istituire eredi, sarebbe spettato a persone terze. Dato che il realizzarsi di tutte queste clausole poteva essere accertato soltanto dopo la morte dell’erede o legatario, i fedecommessi condizionati in questo modo producevano gli stessi effetti di un termine post mortem.
A ben vedere, costituendo queste tutte condizioni sostanzialmente equivalenti, normalmente in un’unica disposizione non se ne sarebbe dovuta porre più d’una. Eppure, in un responso di Cervidio Scevola si leggono due casi complessi: nel quarto paragrafo, si rinviene la condizione composta si sine liberis intra annum trigensimum moreretur (se fosse morto senza figli entro i trent’anni), nel quinto paragrafo, analogamente, si intra vicensimum annum sine liberis morieris (se fosse morto senza figli entro i vent’anni).
D. 36. 1. 80 (Scaev. 21 dig.): 4. Pater puerum et puellam heredes instituit eosque invicem substituit et, si neuter heres esset, eis plures substituit substitutosque invicem substituit his verbis: "substitutos heredes invicem substituo": eorundem filiorum fidei commisit, ut, qui eorum vita superasset et sine liberis intra annum trigensimum moreretur, hereditatem his, quos heredes substituerat, restituat. Filius vita sororem superavit et intra trigensimum annum sine liberis decessit. […] 5. Maevia filium heredem instituit ex quincunce, Titiam filiam ex quadrante, Septicium filium ex triente, cuius fidei commisit in haec verba: ‘Te rogo, fili Septici, si intra vicensimum annum sine liberis morieris, quidquid ex hereditate mea ad te pervenerit, hoc fratribus tuis restituas’. […] TRADUZIONE (DESANTI L.): Un padre istituì eredi un figlio ed una figlia e sostituì l’uno all’altro reciprocamente e, nel caso in cui né l’uno né l’altro diventasse erede, ad essi sostituì varie persone, sostituendo anche queste a vicenda con tali parole: ‘Sostituisco a vicenda gli eredi sostituiti’ ed incaricò alla fede dei figli che chi sopravvivesse agli altri e morisse senza figli prima di giungere al trentesimo anno di età di restituire l’eredità agli eredi sostituiti. Il figlio sopravvisse alla sorella e morì senza prole prima di giungere all’età di trent’anni […]. Mevia istituì erede suo figlio per cinque once, sua figlia Tizia per un quarto e Setticio altro figlio per un terzo, incaricandolo di un fedecommesso in questi termini: ‘ti prego, figlio Setticio, se morrai senza prole prima di compiere i vent’anni, di restituire ai tuoi fratelli tutto ciò che conseguirai dalla mia eredità’.
Non doveva trattarsi di casi isolati: piuttosto, si può concludere che i privati, in virtù dell’autonomia loro concessa, potevano liberamente combinare le clausole, subordinando la restituzione fedecommissaria al verificarsi di più d’un evento, almeno fino a quando fu loro possibile esercitare la negozialità in questi termini[62].
Già i giuristi classici si impegnarono nel definire in maniera precisa chi fossero i liberi contemplati nella clausola.
Innanzitutto, il Digesto custodisce la preziosa testimonianza di Callistrato che, nel titolo “De verborum significatione”, afferma che nella denominazione di liberi rientrano oltre ai figli, anche nipoti, pronipoti ed ulteriori discendenti in linea retta. Tale affermazione è confortata dal richiamo all’autorità delle XII Tavole che includono nepotes et pronepotes ceterique qui ex his descendunt[63].
D. 50. 16. 220 (Call. 2 quaest.): pr. ‘Liberorum’ appellatione nepotes et pronepotes ceterique qui ex his descendunt continentur: hos enim omnes suorum appellatione lex duodecim tabularum comprehendit. Totiens enim leges necessariam ducunt cognationem singulorum nominibus uti (veluti filii, nepotes, pronepotis ceterorumve qui ex his descendunt), quotiens non omnibus, qui post eos sunt, praestitum voluerint, sed solis his succurrent, quos nominatim enumerent. At ubi non personis certis, non quibusdam gradibus praestatur, sed omnibus, qui ex eodem genere orti sunt, liberorum comprehenduntur. TRADUZIONE (DESANTI L.): Con il termine ‘liberi’, nipoti e pronipoti, e tutti i loro discendenti sono compresi, poiché la legge delle XII Tavole li include tutti sotto il termine ‘eredi propri’. Quando le leggi ritengono necessario usare nomi separati per parenti diversi, ad esempio figli, nipoti, pronipoti e loro discendenti, non significano che ciò si estenderà a tutti coloro che verranno dopo di loro. Ma quando determinate persone o gradi non sono specificati, ma vengono menzionati solo quelli che discendono dallo stesso ceppo, vengono inclusi nel termine ‘liberi’.
Invece, circa i figli naturali, se per Papiniano la loro esistenza era sufficiente ad escludere il verificarsi della condizione, Ulpiano ritenne necessaria una quaestio voluntatis, dovendo indagare se nell’uso dell’appellativo, il de cuius intendesse ricomprenderli o meno. L’indagine cui fa riferimento Ulpiano sembra configurarsi come una vera e propria istruttoria perché prescrive un accertamento caso per caso della volontà del disponente[64] cioè della dignità dei suoi verba.
D. 36. 1. 18. 4 (Ulp. 3 fideicomm.): Si quis rogatus fuerit, ut, si sine liberis decesserit, restituat hereditatem, Papinianus libro octavo responsorum scribit etiam naturalem filium efficere, ut deficiat condicio: et in libertino eodem colliberto hoc scribit. Mihi autem, quod ad naturales liberos attinet, voluntatis quaestio videbitur esse, de qualibus liberis testator senserit: sed hoc ex dignitate et ex voluntate et ex condicione eius qui fideicommisit accipiendum erit. TRADUZIONE (DESANTI L.): Se qualcuno fu incaricato di restituire l’eredità, se morrà senza figli: Papiniano nel libro ottavo dei responsi scrive che anche il figlio naturale fa mancare la condizione e così, decise rispetto ad un figlio colliberto del padre. A me poi sembra che, in quanto ai figli naturali, la questione sia conoscere quali figli il testatore abbia inteso parlare; il che si rileva dalla dignità, dalla volontà e dalla condizione di colui che dispose per fedecommesso .
In Ulpiano, ancora, è tramandato che i figli di colui che era stato condannato alla deportatio[65], si consideravano tra i liberi solo se concepiti prima della deportazione. Per esprimere efficacemente il principio, il frammento ulpianeo si chiude con la parificazione dei liberi concepiti dopo la deportazione alla prole di un soggetto diverso dal disponente, tanto che i suoi beni si sarebbero dovuti vindicare al fisco.
D. 36. 1. 18. 5 (Ulp. 3 fideicomm.): Ex facto tractatum memini: rogaverat quaedam mulier filium suum, ut, si sine liberis decessisset, restitueret hereditatem fratri suo: is postea deportatus in insula liberos susceperat: quaerebatur igitur, an fideicommissi condicio defecisset. Nos igitur hoc dicemus conceptos quidem ante deportationem, licet postea edantur, efficere, ut condicio deficiat, post deportationem vero susceptos quasi ab alio non prodesse, maxime cum etiam bona cum sua quodammodo causa fisco sint vindicanda. TRADUZIONE (DESANTI L.): Mi ricordo la seguente questione ad un accadimento. Una donna aveva pregato suo figlio, nel caso morisse senza figli, di restituire l’eredità a suo fratello. Questo figlio era stato deportato e durante l’isolamento gli erano nati dei figli. Si domandava se la condizione del fedecommesso fosse mancata. Noi, pertanto, diremo che i figli concepiti prima della deportazione, anche se nascano dopo, fanno mancare la condizione; invece quelli concepiti dopo la deportazione non sono contati, come se fossero prole di un’altra persona, soprattutto perché dal fisco si devono anche vindicare i beni, per così dire, con ogni loro causa.
Sempre in un frammento del Digesto, stavolta tratto dalle Istituzioni di Marcello, è specificato che non era necessario indagare se i discendenti sopravvissuti alla morte del de cuius fossero stati istituiti eredi. A riguardo, lo Schipani nel tradurre il verbo quaerere mostra efficacemente come, accertata la sola esistenza di tali liberi, non fosse necessaria alcuna altra attività di ricerca sul tenore concreto della disposizione per escludere l’operatività della clausola.
D. 30. 1. 114. 13 (Marc. 8 inst.): Cum erit rogatus, si sine liberis decesserit, per fideicommissum restituere, condicio defecisse videbitur, si patri supervixerint liberi, nec quaeritur, an heredes exstiterint. TRADUZIONE (SCHIPANI S.): Quando all'erede sia richiesto, se morirà senza discendenti, di dare in base al fedecommesso ; la condizione si considererà non avverata, se al padre sopravvivono dei discendenti, e non si indaga se siano divenuti eredi.
Di cruciale importanza ai fini della clausola si sine liberis decesserit, risulta essere una decisione di Papiniano contenuta nel Digesto: la fattispecie riguardava un avo che aveva onerato il nipote di un fedecommesso a favore dello zio paterno, nel caso in cui fosse morto prima dei trent’anni; il nipote morì effettivamente prima di quell’età, ma lasciando dei figli. Visto che il disponente non aveva previsto nulla nei confronti degli eventuali figli del nipote, il giurista severiano considerò la condizione non realizzata e il fedecommesso non dovuto. In questo senso, la pietas nei confronti dei suoi stessi discendenti si traduce nella presunzione che non volesse privarli dei propri beni, posponendoli al fedecommissario. Pertanto, Papiniano concluse che l’avo, nel disporre la clausola si intra annum trigesimum moreretur avesse inteso dire di più di quanto aveva scritto, cioè che ad affiancare la condizione espressa vi fosse l’ulteriore condizione, stavolta tacita, che il nipote fosse deceduto senza lasciare discendenti (proprio questa condizione era venuta meno).
Questa soluzione offerta da Papiniano è stata oggetto di considerazioni diverse: innanzitutto, c’è chi ha sostenuto che le parole coniectura pietatis siano frutto di un’interpolazione[66]. Invece, sull’esistenza di una condizione tacita che sottende quella esplicita, si è osservato che si tratta di una ellissi, cioè dell’omissione, all'interno di una frase, di uno o più termini che sia possibile sottintendere: “i giureconsulti classici si riferivano alla figura retorica di origine greca dell’ellissi con il principio plus nuncupatum minus scriptum”[67].
D. 35. 1. 102 (Pap. 9 resp.): Cum avus filium ac nepotem ex altero filio heredes instituisset, a nepote petit, ut, si intra annum trigesimum moreretur, hereditatem patruo suo restitueret: nepos liberis relictis intra aetatem supra scriptam vita decessit. Fideicommissi condicionem coniectura pietatis respondi defecisse, quod minus scriptum, quam dictum fuerat, inveniretur. TRADUZIONE (DESANTI L.): L’avo, dopo avere istituito eredi un figlio e un nipote nato da un altro figlio, chiese al nipote che, se fosse morto entro il trentesimo anno di età, restituisse l’eredità a suo zio: il nipote morì entro l’età sopra scritta lasciando dei discendenti. Ho risposto che la condizione del fedecommesso non si era verificata in base ad una congettura fondata sulla pietà: perché si era trovato scritto meno di quanto era stato detto.
La regola papinianea viene generalizzata da Giustiniano, stabilendo che la condizione si sine liberis decesserit, anche se non espressa, doveva considerarsi tacitamente apposta tutte le volte in cui il de cuius avesse gravato un figlio o altro discendente del fedecommesso di restituire i beni dopo la morte. Infatti, in un provvedimento del 529 rivolto al prefetto del pretorio Demostene, l’Imperatore ripropone il principio di D. 35. 1. 102, alterandone la portata: infatti, se per Papiniano la voluntas testatoris doveva prevalere sul tenore letterale dei verba, adesso la preferenza accordata ai propri discendenti si deve affermare in linea di principio[68].
C. 6. 42. 30: Imp. Iustinianus A. Demostheni pp. Cum acutissimi ingenii vir et merito ante alios excellens papinianus in suis statuit responsis, si quis filium suum heredem instituit et restitutionis post mortem oneri subegit, non aliter hoc videri disposuisse, nisi cum filius eius sine subole vitam reliquerit: nos huiusmodi sensum merito mirati plenissimum ei donamus eventum, ut, si quis haec disposuerit, non tantum filium heredem instituens , sed etiam filiam, vel ab initio nepotem vel neptem, pronepotem vel proneptem vel aliam deinceps posteritatem, et eam restitutionis post obitum gravamini subiugaverit, non aliter hoc sensisse videatur, nisi hi qui restitutione onerati s unt sine filiis vel filiabus vel nepotibus vel pronepotibus fuerint defuncti, ne videatur testator alienas successiones propriis anteponere. Recitata seprimo in novo consistorio palatii Iustiniani. D. III k. Nov. Decio vc. Cons (a. 529). TRADUZIONE (DESANTI L.): Poiché Papiniano, uomo di acutissimo ingegno ed eccellente sopra ogni altro a buon diritto, ha stabilito nei suoi responsi che, se qualcuno istituì erede il proprio figlio e lo sottopose all’onere della restituzione dopo la morte, si intendesse avere disposto ciò solamente per il caso in cui suo figlio fosse deceduto senza prole: noi, ammirando con ragione una simile decisione, le attribuiamo una portata maggiormente piena, di modo che, se qualcuno abbia disposto questo, non solo istituendo erede il figlio, ma anche la figlia, ovvero da principio il nipote o la nipote, il pronipote o la pronipote ovvero gli altri successivi posteri, e li abbia sottoposti al peso della restituzione dopo la morte, si consideri che abbia inteso disporre ciò solamente per il caso in cui gli onerati della restituzione siano defunti senza figli o figlie, o nipoti o pronipoti, perché il testatore non risulti anteporre le successioni a favore di estranei alle successioni a favore dei propri familiari.
7. Il fedecommesso de residuo: la bona fides e l’arbitrium boni viri
Alle figure sin qui analizzate, si aggiunge il fedecommesso con cui il de cuius pregava alla restituzione di quod ex hereditate superfuisset (quanto residuasse dall’eredità). Tale figura assumerà la denominazione di fedecommesso de residuo soltanto in epoca successiva[69].
Innanzitutto, per quanto riguarda le questioni di sistema, considerato che il fiduciario avrebbe dovuto restituire l’eccedenza dell’eredità, potrebbe delinearsi la sua natura di fedecommesso a titolo particolare. Tale natura, seguendo l’insegnamento del Talamanca, connota senza dubbio l’istituto nella sua moderna configurazione[70]. Invece, la Desanti evidenzia che non doveva essere così nella prospettiva dei Romani: in questo senso, risulta fondamentale un frammento di Ulpiano tramandato nel Digesto, dove il giurista compie un parallelo tra il fedecommesso universale e il fedecommesso de residuo[71].
D. 36. 1. 23. 4 (Ulp. 5 disp.): Cum proponeretur quidam filiam suam heredem instituisse et rogasse eam, ut, si sine liberis decessisset, hereditatem Titio restitueret, eaque dotem marito dedisse certae quantitatis, mox decedens sine liberis heredem instituisse maritum suum, et quaereretur, an dos detrahi possit, dixi non posse dici in eversionem fideicommissi factum, quod et mulieris pudicitiae et patris voto congruebat. Quare dicendum est dotem decedere, ac si quod superfuisset rogata esset restituere. […] TRADUZIONE (DESANTI L.): Fu esposto il caso di un padre che istituì erede sua figlia e la incaricò di restituire a Tizio l’eredità nel caso in cui morisse senza prole e che ella, avendo dato in dote al marito una certa somma, morì senza figli ed istituì erede il marito. Si domandava se la dote si potesse detrarre dall’eredità. Ho risposto che questo non poteva ritenersi fatto allo scopo di vanificare il fedecommesso, perché era consono sia alla pudicizia della donna e sia al desiderio del padre. Pertanto, si deve dire che la dote si deduce, come se fosse stata pregata di restituire ciò che fosse avanzato.
Passando in rassegna le fonti, si rincontrano divergenze nelle formule utilizzate per la costituzione di un simile fedecommesso, osservando l’impiego sia di pronomi (quid o quidquid) sia di tempi verbali diversi (superfuisset, superfuerit, supererit).
In questi casi, le espressioni si considerano pacificamente equivalenti: basti pensare che lo stesso provvedimento di Marco Aurelio, in due frammenti del Digesto, l’uno di Papiniano l’altro di Ulpiano, è tramandato con pronomi e tempi diversi, confermando l’interscambiabilità degli stessi.
D. 36. 1. 56 (Pap. 19 quaest.): Titius rogatus est, quod ex hereditate superfuisset, Maevio restituere. Quod medio tempore alienatum vel deminutum est, ita quandoque peti non poterit, si non interveniendi fideicommissi gratia tale aliquid factum probetur: verbis enim fideicommissi bonam fidem inesse constat. Divus autem Marcus cum de fideicommissaria hereditate cognosceret, his verbis: "quidquid ex hereditate mea superfuerit, rogo restituas" et viri boni arbitrium inesse credidit: iudicavit enim erogationes, quae ex hereditate factae dicebantur, non ad solam fideicommissi deminutionem pertinere, sed pro rata patrimonii, quod heres proprium habuit, distribui oportere. Quod mihi videtur non tantum aequitatis ratione, verum exemplo quoque motus fecisse. Cum enim de conferendis bonis fratribus ab emancipato filio quaereretur, praecipuum autem, quod in castris fuerat adquisitum militi, relinqui placeret, consultus imperator sumptus, quos miles fecerat, non ex eo tantummodo patrimonio, quod munus collationis pati debuit, sed pro rata etiam castrensis pecuniae decedere oportere constituit. Propter huiusmodi tractatus Maevius fideicommissi nomine cautionem exigere debet: quod eo pertinet, non ut ex stipulatione petatur, quod ex fideicommisso peti non poterit, sed ut habeat fideiussores eius quantitatis, quam ex fideicommisso petere potuit.TRADUZIONE (SCHIPANI S.): Tizio è stato pregato di restituire a Mevio ciò che fosse rimasto dell’eredità. Quel che è stato alienato o diminuito nel frattempo, non potrà essere richiesto, prima o poi, se non si provi che ciò è stato fatto allo scopo di appropriarsi del fedecommesso: è infatti generalmente condiviso che nelle parole del fedecommesso sia insita la buona fede. Inoltre, il divino Marco Aurelio, prendendo in esame una eredità fedecommissaria lasciata con queste parole: ‘prego che tu restituisca tutto ciò che sia rimasto della mia eredità’, ritenne che vi fosse insito anche un arbitrium boni viri: giudicò, infatti, che le spese che si dicevano sostenute a carico dell’eredità, non dovevano comportare la sola diminuzione del fedecommesso, ma dovevano essere ripartite, in proporzione al patrimonio che l’erede possedeva come proprio. Così credo che egli decidesse non soltanto secondo equità, ma seguendo ancora l’esempio. Pertanto, trattandosi della collazione dei beni che doveva fare un figlio emancipato coi suoi fratelli, ed essendo stato deciso che si doveva lasciare al figlio militare la parte di quei beni perché acquistati alla guerra; l’imperatore decise che le spese fatte dal soldato dovessero essere detratte non solo da quella porzione di patrimonio che dovette essere posta in collazione, ma anche dal peculio castrense in proporzione del suo valore. Per tutte queste cose, Mevio deve esigere la cauzione a tiolo di fedecommesso, non per domandare in forza della stipulazione ciò che per fedecommesso non potrebbe, ma perché abbia fideiussori per quella somma che può domandare per fedecommesso.
D. 5. 3. 25. 16 (Ulp. 15 ad ed.): Quod autem quis ex hereditate erogavit, utrum totum decedat an vero pro rata patrimonio eius? ut puta penum hereditarium ebibit: utrum totum hereditati expensum feratur an aliquid et patrimonio eius? ut in id factus locupletior videatur, quod solebat ipse erogare ante delatam hereditatem: ut si quid lautius contemplatione hereditatis impendit, in hoc non videatur factus locupletior, in statutis vero suis sumptibus videatur factus locupletior: utique enim etsi non tam laute erogasset, aliquid tamen ad victum cottidianum erogasset. nam et divus Marcus in causa Pythodori, qui rogatus erat quod sibi superfuisset ex hereditate reddere, decrevit ea, quae alienata erant non minuendi fideicommissi causa, si nec pretium in corpus patrimonii Pythodori redisset, et ex proprio Pythodori patrimonio et ex hereditate decedere, non tantum ex hereditate. et nunc igitur statuti sumptus utrum ex hereditate decedent exemplo rescripti divi Marci an ex solo patrimonio, videndum erit: et verius est, ut ex suo patrimonio decedant ea quae et si non heres fuisset erogasset. TRADUZIONE (SCHIPANI S.): Quanto, poi, uno ha speso dall'eredità, forse che viene meno da questa interamente oppure per una quota dal suo patrimonio ? Per esempio, supponiamo che egli abbia bevuto le riserve di vino dell'eredità; quanto consumato sarà tutto imputato all'eredità oppure una parte anche a carico del suo patrimonio ? Così è da ritenere che egli si sia arricchito di ciò che personalmente soleva spendere prima che gli fosse deferita l'eredità; di modo che, se ha speso di più in riferimento all'eredità, per questo di più non si è arricchito, ma certo si è arricchito per quanto attiene alle spese consuete; in ogni caso, infatti, ammesso pure che non avrebbe speso così largamente, tuttavia qualcosa avrebbe speso per il vitto quotidiano. Infatti, anche il divo Marco nella causa di Pitodoro, al quale era stato chiesto di dare quanto fosse restato dell'eredità, decretò che le cose che erano state alienate non diminuire il fedecommesso, se il prezzo non fosse rientrato nell'insieme del patrimonio di Pitodoro, dovessero diminuire sia il patrimonio personale di Pitodoro sia l'eredità, non l'eredità soltanto. E ora, dunque, bisognerà vedere se, sull'esempio del rescritto del divo Marco , le spese consuete devono essere imputate all'eredità o al solo patrimonio: ed è più vero che siano imputate al suo patrimonio solo quelle spese che avrebbe fatto anche se non fosse stato erede.
Tuttavia, è possibile che le espressioni si presentino in maniera più ambigua, parlando non del hereditatis o rerum familiarium residuum, ma del bonorum superfluum, come si legge in un frammento di Papiniano raccolto nel Digesto.
In questi casi, non si riscontra una posizione pacifica in dottrina: in contraddizione con certa letteratura spagnola[72], la romanistica italiana afferma unanimemente l’impossibilità di attribuire un valore diverso alle espressioni “ex bonis” ed “ex hereditate”[73]. Infatti, riferirsi ai bona in luogo dell’hereditas doveva essere “un orientamento tipico dei giuristi romani, i quali consideravano l’eredità dal punto di vista materiale, configurandola come insieme dei bona testatoris”[74].
D. 36. 1. 60. 8 (Pap. 9 resp.): Heres eius, qui bonorum superfluum post mortem suam restituere fuerat rogatus, pignori res hereditarias datas, si non in fraudem id factum sit, liberare non cogitur. TRADUZIONE (DESANTI L.): L’erede di colui che fu pregato di restituire dopo la sua morte l’eccedenza dell’eredità, non sarà obbligato a liberare le cose ereditarie che il defunto avesse dato in pegno senza frode.
Tornando al provvedimento di Marco Aurelio, tramandato in D. 36. 1. 56 e D. 5. 3. 25. 16, le testimonianze evidenziano come già i giuristi classici si fossero impegnati nel definire dei criteri entro cui era possibile consumare i beni ereditari e, quindi, a stabilire il quantum “obligationis” restitutionis.
Il primo criterio si fondava sulla bona fides che, se considerata in un rapporto di species ad genus in riferimento alla fides insita nel fedecommesso[75], si traduce nell’impossibilità di assumere comportamenti fraudolenti. Evidentemente, è questo il principio espresso in D. 36. 1. 60. 8, dove Papiniano considera la datio pignoris valida si non in fraudem id factum sit: il fiduciario ben poteva disporre dei beni ereditari, potendoli anche alienare[76], purché lo facesse per giusta causa. Quindi, con giusta causa non si intende né la ragione oggettiva che giustifica l’usucapio, né la iusta causa traditionis, cioè il motivo necessario affinché si trasferisca anche la proprietà della res tradita (ad esempio, causa solvendi, causa donationis). Ancora, non può intendersi nella dimensione giuslavoristica odierna che fa riferimento a qualsiasi causa che impedisca la prosecuzione, anche provvisoria, di un rapporto. Invece, si fa riferimento a qualsiasi operazione socioeconomica che si rilevi indispensabile per assicurare i bisogni di chi avesse ricevuto beni ereditari, senza pregiudicare dolosamente l’eventuale residuo che spettava al beneficiario del fedecommesso.
Il secondo criterio era l’arbitrium boni viri, una declinazione della bona fides, cioè la necessità di un giudizio fondato sull’equità e su parametri di carattere oggettivo: quelli del bonus vir, del galantuomo. In questo modo, Marco Aurelio stabilì che la gestione straordinaria dei beni ereditari, seppur in buona fede, non potesse riferirsi unicamente all’eredità commissaria, ma “andava imputata in misura proporzionale anche sui beni ereditari dell’onerato stesso”[77]. La portata dell’arbitrium boni viri nei fedecommessi assume un’eco più ampia perché ricomprende la questione sulla validità o meno delle obbligazioni indeterminate. L’Albertario ha escluso che il diritto classico abbia potuto ammettere in qualsiasi negozio giuridico la consistenza di obbligazioni del genere; tuttavia, nel dimostrare l’impossibilità di un’obbligazione rimessa all’arbitrio del debitore, non distingue tra l’obbligazione da legato e quella da fedecommesso, scrivendo: “dov’era qui il vinculum iuris che costringe il debitore secondo la classica definizione del rapporto obbligatorio?”[78]. Il Riccobono evidenzia che, appunto, il vincolo non c’era né ci doveva essere: il fedecommesso è un nuovo istituto nato al di fuori del campo del ius civile e solo in itinere assimila alcuni formalismi civilistici, nell’ambito di quel procedimento che inizia nel I d. C. e condurrà all’unificazione di tutti gli ordinamenti giuridici con Giustiniano[79]. Da questa unificazione generale, discende anche quella dei giudizi e delle forme di obbligazioni; ma, prima di allora, “bisogna tenere distinti i negozi solenni da quelli di buona fede”[80]. I primi davano luogo ad un iudicium strictum e non prevedevano la possibilità che l’obbligazione indeterminata in uno dei suoi elementi fosse rimessa alla volontà di una delle parti; i secondi, invece, davano origine ad un iudicium bonae fidei e ammisero che la determinazione di un elemento dell’obbligazione fosse rilasciata all’arbitrio di un galantuomo. A sostenere l’orientamento del Riccobono, è di notevole importanza una decisione di Pegaso riferita da Valente e contenuta nel Digesto: il parere pegasiano era nel senso di un fedecommesso inutiler datum a causa dell’indeterminatezza dell’obbligazione imposta all’erede, ma la disposizione subisce un correttivo pretorio che, tenendo conto della voluntas defuncti, compie l’integrazione necessaria per la sua realizzazione.
D. 32. 1. 12 (Val. 1 fideicomm.): ‘Stichus liber esto: et ut eum heres artificium doceat, unde se tueri possit, peto’. Pegasus inutile fideicommissum esse ait, quia genus artificii adiectum non esset: sed praetor aut arbiter ex voluntate defuncti et aetate et condicione et natura ingenioque eius, cui relictum erit, statuet, quod potissimum artificium heres docere eum sumptibus suis debeat. TRADUZIONE (SCHIPANI S.): 'Stico sia libero; e chiedo che l'erede gli insegni un mestiere, col quale possa provvedere a se stesso’. Pegaso afferma che il fedecommesso è inutile, perché non è stato aggiunto il tipo di mestiere; ma il pretore o l'arbitro, in base alla volontà del defunto ed all'età, alla condizione, all'indole e all'ingegno di colui, al quale sarà stato lasciato , deciderà quale sia il miglior mestiere che l'erede debba insegnargli a proprie spese.
8. (segue) Esegesi di Nov. Iust. 108
Nella prassi, entrambi i criteri dell’Imperatore filosofo si rivelarono insoddisfacenti, tanto che Giustiniano prendendo le mosse da un caso sottoposto alla sua attenzione, detta una nuova disciplina in materia nella Novella 108 emanata nel febbraio del 541 e rivolta a Basso, comes domesticorum facente funzioni di prefetto del pretorio al posto di Giovanni di Cappadocia, probabilmente ancora in viaggio nella diocesi d’Oriente.
L’incipit della prefazione ha l’enfasi tipica della legislazione giustinianea: si tratta di un’abitudine dell’imperatore fare dei casi processuali controversi l’occasio legis migliore per emanare una disciplina puntuale e rigorosa. Non viene precisato come la questione, che riguarda un testamento ambiguo presentato per l’interpretazione, sia arrivata all’imperatore: potrebbe trattarsi sia di una supplicatio di una consultazione del giudice sia di una preces di privati o anche di una notizia giunta aliunde a Giustiniano. La stessa enfasi si riscontra anche nel secondo paragrafo della prefazione: la nuova disciplina è necessaria per i giudici, affinché abbiano finalmente una cornice normativa entro cui causam discere, comprehendere et iudicare nei casi analoghi.
Nov. Iust. 108: Praefatio. Negotium audivimus pro testamento dubitato, quod etiam interpretari iustum existimavimus et lege comprehendere certissima, hoc quod nostrae consuetudinis est in negotiis motis ex legibus optimis accipere occasiones. TRADUZIONE (DEFALCO I.): Prefazione. Come abbiamo saputo di un caso in cui un ambiguo testamento era stato presentato per l'interpretazione, abbiamo ritenuto opportuno che la decisione della questione fosse oggetto di legge; poiché siamo abituati a fare di tali transazioni l'occasione per l'emanazione di una migliore legislazione.
Nov. Iust. 108: Praefatio. 2. Nos igitur sumentes ex hoc occasionem aestimavimus oportere et antiquam indefinitionem et deinceps discretionem hanc quidem definire hanc autem puram hominibus reponere, et propterea lege causam comprehendere, ut discant homines omnem legis ordinem, cum quo competit talia et discere et iudicare. […] TRADUZIONE (DEFALCO I): Pertanto, approfittando di questa occasione, abbiamo ritenuto necessario disporre della legislazione antica per risolvere la questione nel futuro, trattare l’argomento con chiarezza e renderlo oggetto di legge, affinché i giudici possano apprendere come ascoltare e dirimere controversie simili.
Continuando con la lettura della prefazione, nel primo paragrafo si legge la descrizione dettagliata della fattispecie da cui discende il provvedimento legislativo. Un pater istituisce eredi i suoi figli pregandoli che, qualora uno di essi muoia senza figli, i beni residui della propria quota di eredità, detratta la legittima, vadano trasferiti al fratello superstite o ai suoi discendenti. Con la morte del padre, i due fratelli, uno ancora senza figli, si trovano a discutere sul contenuto della disposizione testamentaria: in particolare, il figlio con discendenza, aspettandosi la restituzione dei beni paterni, fa divieto al fratello di goderne, temendone la consumazione. L’altro fratello si oppone intendendo la disposizione con l’obbligo di restituzione che ricorra si quid tempore mortis apud ipsum repertum sit (qualora residuasse qualcosa alla sua morte)[81]. Inoltre, va sottolineato che il de cuius aveva espressamente dispensato i figli dalla prestazione di un’apposita cautio o di altra garanzia in ordine al trasferimento; anche questo aspetto viene richiamato dal fratello senza discendenza nell’affermare il proprio diritto di godere dei beni ereditari sine prohibitione.
Nov. Iust. 108: 1. Filios enim quidam suos instituens heredes, deinde etiam alterutris eos filiis non extantibus substituere volens iussit, si contigerit aliquem eius filiorum et heredum futurum sine filiis humanam solvere vitam, post exceptionem horum quae ex lege debentur ei ex eis quae ab eo relinquebantur ei rebus reliquas omnes res et iura, quaecumque apud eum in tempore mortis invenirentur, venire et restitui ex his superstiti, aut eius filiis si ipse moreretur, omni cessante inter eos propter memoratam substitutionem cautione et fideiussione. In his eo moriente et uno quidem eius filiorum et heredum filios habente, alio vero manente sine filiis, prohibet eum qui sine filiis est is qui filios habet uti rebus utpote eas deterentem, at ille utens verbis testamenti, quia quicquid inveniretur in tempore mortis apud eum, hoc eum restituere iussit, secundum hoc vult schema licentiam habere uti rebus sicut voluerit, nulla prohibitione de earum gubernatione illata ei. TRADUZIONE (DESANTI L.): Un tale, al momento di nominare i suoi figli eredi, desiderando che i sopravvissuti venissero sostituiti con quelli che sarebbero morti prima, ordinò che se uno dei suoi figli, futuri eredi, fosse morto senza prole, tutto ciò che gli ha lasciato, eccetto quello a cui aveva diritto per legge, e tutti gli altri beni e diritti di cui era posseduto al momento della sua morte, sarebbero dovuti essere trasferiti al sopravvissuto tra loro o alla discendenza di detto sopravvissuto se quest'ultimo egli stesso dovesse morire, dispensandoli dal prestare cauzione o fare fideiussione, ai fini della sostituzione di tale proprietà. Morto il testatore, uno dei suoi figli ed eredi ha dei discendenti, mentre l’altro è rimasto senza: colui che ha discendenti proibisce a colui che ne è privo di usare i beni, come se li diminuisse; quest'ultimo, tuttavia, basandosi sulle parole della volontà, vale a dire: ‘Che avrebbe dovuto consegnare tutto ciò che era in suo possesso al momento della sua morte’, ha affermato di avere il diritto di utilizzare la proprietà in qualsiasi modo gli piacesse, senza essere impedito di farlo in alcun modo.
La disciplina giustinianea si discosta da entrambe le letture e stabilisce che l’erede può disporre liberamente fino ai tre quarti del patrimonio, con l’obbligo di riservare la quarta Falcidia[82] al fedecommissario. Tale quarta si intende indisponibile in via di principio, anche se alcune cause, espressamente individuate nel provvedimento, assumono portata esentiva del vincolo come la costituzione di una dote o di una donazione nuziale. Poiché il pagamento del riscatto dei prigionieri veniva considerato una diminuzione pietatis ratione poteva avvenire attingendo dalla quarta riservata all’erede[83].
Nov. Iust. 108: Caput 1. […] Non enim concedimus ei qui gravatus est etiam donationibus uti aliquibus, et forsan ex studio (quod Papinianus dicebat ‘intervertendi fideicommissi causa’), ut etiam quarta minuatur institutionis eius, sed hoc omnino relinquere fideicommissum, aliis omnibus in eius positis potestate, et licentiam habere eum his sicut voluerit uti, quemadmodum perfectis dominis competit. Si vero et ipsam quartam is qui gravatus est contingat, necessarium est perscrutari causam secundum quam hoc egit. Et si quidem aut dotem voluerit dare aut sponsaliciam largitatem, aliam non habens substantiam, oportet ei hoc permitti agere, secundum hoc videlicet quod nostra continetur iam lege, in quo ei omnino non negavimus talem diminutionem. Si vero et in captivorum redemptionem (hanc enim excipimus et dicamus deo causam), et hoc licentiam eum habere facere, et minuere etiam quartam pietatis ratione, quod omnium nobis pretiosius videtur. TRADUZIONE (DESANTI L.): Non permettiamo al fiduciario di fare donazioni, allo scopo (come diceva Papiniano) di ‘vanificare la causa fedecommissaria’, al fine di diminuire la quarta parte cui si fa riferimento, ma decretiamo che preserverà per il sostituto fedecommissario; che tutto il resto gli apparterrà e che sarà libero di usarlo come il vero proprietario, in qualunque modo desideri. Tuttavia, se l’erede incaricato per fedecommesso dovesse acquisire il quarto che dovrebbe riservare, andrebbe accertato il motivo per cui lo ha fatto e se non ha altre proprietà per costituire una dote o fare una donazione nuziale, gli sarà permesso di farlo, come indicato nella legge precedente, con la quale non abbiamo assolutamente vietato a un fiduciario di fare una diminuzione di questo. Avrà anche l'autorità di diminuire il quarto riservato per la redenzione dei prigionieri (in questo caso facciamo un’eccezione e la tributiamo a Dio), poiché mossi dalla pietas che consideriamo la più preziosa tra tutte le cose.
L’eccezione all’indisponibilità più importante di tutte resta quella di ritenere legittimo attingere dalla quarta quando il discendente non avesse i mezzi per affrontare delle spese a lui necessarie. Innanzitutto, l’esenzione è espressamente prevista dal testatore, disponendo che si restituisse quod relinquatur[84]; poi, che si trattasse di spese compiute in un effettivo stato di necessità, risulta confermato da quanto stabilito in riferimento alle spese ingiustificate, dovendo essere specificamente reintegrate[85]. Circa la ratio della deroga all’intangibilità della quarta, più che ricercarla nella dimensione della buona fede, cara a Marco Aurelio, o nella cristiana humanitas che aveva fertilizzato il diritto per il tramite dell’attività pretoria, si può rinvenirla nella principale caratteristica del diritto romano, un diritto edificato sulle concrete esigenze del singolo, “caratterizzato dalla massima considerazione delle persone, tanto da potersi dire creato in funzione di loro”[86].
Nov. Iust. 108: Caput 2. Si vero contigerit neque ipsum habere ex aliquibus causis unde faciat expensas, ex tali restitutione etiam has facere damus ei licentiam: hoc quod et testator permisit, quod relinqueretur omnino hoc volens ad restitutionem trabi, et quasi aliquis dicat ex hoc quod remaneret ei restitutionem fieri. Si autem nulla talis subiacet occasio, necessitatem habere omnino quartam partem propriae institutionis servare et tali restitutioni donare. Si tamen aliquid expenderit habens unde supplementum faciat, ex illo suppleri quartam, et per nullam causam hanc minui. […] TRADUZIONE (DESANTI L.): Se, tuttavia, il fiduciario non dovesse avere abbastanza per coprire le sue spese, può, a tale scopo, utilizzare la proprietà per essere consegnato sotto la fiducia, e gli concediamo il permesso di farlo (poiché questa era l'intenzione del testatore) desiderando che il resto venisse trasferito, proprio come se il testatore avesse espressamente dichiarato che la consegna della proprietà rimanente doveva essere effettuata dopo il pagamento delle spese. Ma se il fiduciario non ha motivo di invadere il quarto della proprietà che è obbligato a trasferire, sarà costretto a preservare tutto e consegnarlo al sostituto.
9. Il fedecommesso lasciato alla familia
L’ultima figura da analizzare nell’ambito dei fedecommessi che imponevano la restituzione dopo la morte è il fedecommesso di famiglia: un fedecommesso a titolo particolare che aveva ad oggetto un bene immobile, solitamente un fondo o una casa, il cui beneficiario era la familia complessivamente considerata. Proprio perché il beneficiario era il complesso familiare, fino a quando non si fosse estinto, i suoi componenti conservavano il “diritto” al fedecommesso: diventati titolari del bene, sarebbero rimasti gravati dallo stesso “obbligo” di restituzione[87].
Considerato che il fedecommesso di famiglia impediva l’alienazione dei beni al di fuori del consorzio familiare (spesso accompagnando la preghiera con un esplicito divieto), la ratio che sottintende è una generica salvaguardia del consorzio familiare stesso.
Al fine di indagare il diritto ereditario romano quali soggetti considerasse membri della famiglia, bisogna compiere innanzitutto una ricerca etimologica: il termine “familia” è collegato immediatamente all’osco “famulus” con cui si indicava il servitore o, più propriamente, il famulo. Infatti, nella società domestica delle popolazioni italiche, i famuli comprendevano anche i figli e tutti gli altri membri della domus, uniti e non da legami di sangue.
In origine, ad avere diritto alla successione nei riguardi del pater sono solo i discendenti maschi nella sua potestà e la uxor in manu che, nelle gerarchie familiari, è equiparata ai filii familiarum: infatti, la legge delle XII Tavole stabilisce che questi soggetti succedono laddove il padre sia defunto senza testamento, in parti uguali[88].
XII Tab. 5. 4: Si intestato moritur, cui suus heres nec escit, adgnatus proximus familiam habeto. TRADUZIONE (DESANTI L.):Se un tale muore senza aver lasciato testamento e non si rinvenga un erede ‘suo’, il complesso ereditario vada al parente più prossimo.
I nepotes ex filio, purché maschi, subentravano quando il padre fosse loro premorto: queste regole si mantennero sostanzialmente immutate fino all’epoca classica, dove la famiglia, da un punto di vista successorio, si identificava con la sola linea maschile e cioè agnati e liberti. Invece, con Giustiniano il termine finì col comprendere tutti i parenti, anche in linea femminile, nonché il genero, la nuora e i coniugi di figli premorti.
Il fedecommesso di famiglia maggiormente diffuso era quello “diretto”, la cui preghiera consisteva nella volontà di non far uscire il bene immobile dal nomen familiae così come testimoniato da Papiniano; ma Cervidio Scevola tramanda anche uno “indiretto” con il de cuius che pone un divieto di alienazione per i fondi che dovevano essere conservati per i figli et ceteris cognatis.
D. 31. 77. 11 (Pap. 8 resp): ‘Fidei heredum meorum committo, ne fundum Tusculanum alienent et ne de familia nominis mei exeat’. […] TRADUZIONE (SCHIPANI S.):‘Rimetto alla fede dei miei eredi che non alienino il fondo Tuscolano e che esso non esca dal nome della mia famiglia’.
D. 31. 88. 15 (Scaev. 19 dig.): Pater filium heredem praedia alienare seu pignori ponere prohibuerat, sed conservari liberis ex iustis nuptiis et ceteris cognatis fideicommiserat. […] TRADUZIONE (SCHIPANI S.): Il padre aveva proibito al figlio istituito erede di alienare i fondi o di darli in pegno, avendolo pregato per fedecommesso di conservarli per i figli nati da matrimonio legittimo e per tutti gli altri parenti.
La distinzione tra disposizione diretta e indiretta rileva particolarmente per individuare il beneficiario del fedecommesso. Infatti, nel caso di un fedecommesso di famiglia indiretto è evidente che per garantire al massimo il rispetto della voluntas testatoris, il fiduciario avrebbe dovuto seguire l’ordine di scrittura ed eleggere così il fedecommissario. Viceversa, se il fedecommesso diretto menzionava la familia nel suo complesso, il fiduciario avrebbe avuto un margine di discrezionalità più ampia nell’eleggere la persona del fedecommissario: questa facultas eligendi è perfettamente in linea con lo spirito originario del fedecommesso, dove il trasferimento dei beni non era soggetto al vincolo giuridico, ma al discernimento dell’onerato. Quindi, nonostante in astratto vi fossero più parenti idonei a ricevere il fedecommesso, era sufficiente che il fiduciario ne scegliesse uno qualsiasi tra questi, perdendo gli altri il diritto ad esigerlo.
D. 31. 67. 2 (Pap. 19 quaest.): Itaque si, cum forte tres ex familia essent eius, qui fideicommissum reliquit, eodem vel dispari gradu, satis erit uni reliquisse: nam postquam paritum est voluntati, ceteri condicione deficiunt. TRADUZIONE (SCHIPANI S.):Pertanto, se per caso vi fossero tre persone della famiglia di colui che lasciò il fedecommesso, dello stesso grado o di grado diverso, sarà sufficiente che venga lasciato ad uno solo: infatti, una volta che si sia adempiuto alla volontà del disponente, tutti gli altri perdono il diritto ad esigerlo.
Se l’onerato avesse contravvenuto alla disposizione, alienando il bene o lasciandolo a membri non appartenenti al nomen familiae, tutti i potenziali beneficiari della famiglia del de cuius avrebbero potuto esigere il fedecommesso al momento della morte dell’onerato. In questo caso, ai fini della legittimazione ad agire, si ritenne rilevante il grado di parentela: Papiniano afferma proprio che di fronte a tutti i membri della famiglia che avevano diritto al fedecommesso, bisognava dare precedenza al proximus. Il parente di grado più vicino avrebbe dovuto poi garantire ai parenti di grado più lontano che il bene sarebbe rimasto in famiglia[89].
10. La familiae mancipatio: un caso di fedecommesso “primitivo”?
Gli studiosi di diritto romano si sono recentemente chiesti[90] se l’origine del fedecommesso possa essere rintracciata già nell’età arcaica, riprendendo così l’orientamento di Filippo Milone che, sul finire del XIX secolo, parlava della familiae mancipatio come un caso di fedecommesso “primitivo”[91].
Volendo esporre il ragionamento del Milone secondo il metodo baconiano, la pars destruens è l’opinione maggioritaria che distingue nettamente la familiae mancipatio dal fideicommissum[92], individuando la vocazione mortis causa della prima in un momento successivo all’età arcaica, quando questa particolare mancipazione assume la forma testamentaria vera e propria[93]. La pars costruens, invece, è individuata nel funzionamento delle disposizioni mortis causa al tempo del diritto quiritario, affidato, proprio come avviene nel fedecommesso, al ruolo della componente fiduciaria[94].
Seguendo questa strada, la familiae mancipatio può definirsi un espediente dell’età arcaica nato per consentire ai cittadini che non potevano (o non trovavano conveniente) avvalersi delle forme consuete di testare, di disporre delle proprie sostanze. Com’è noto, i Romani conoscevano soltanto due forme di testamento, il testamentum calatis comitiis ed in procinctu[95], la cui ratio era individuare un successore nell’intero patrimonio del de cuius affinché subentrasse non solo nella posizione economica, ma anche in quella politica del pater all’interno del gruppo di appartenenza[96].
Tuttavia, le due forme arcaiche di testare tramontarono presto a causa sia della macchinosità delle loro formule sia delle limitazioni della loro struttura che comportavano l’impossibilità di testare per i plebei e le donne, categorie escluse sia dai comizi che dall’esercito[97]: è in questo momento che subentra loro la mancipatio adattata a fini successori[98].
Il Milone ne descrive il funzionamento: colui al quale si faceva la mancipazione, il familiae emptor, altro non era che un compratore per atto tra vivi: quindi non poteva essere erede, ma soltanto heredis locum optinere, senza che i voleri che il mancipante gli commissionava da eseguirsi dopo la sua morte gli si potevano imporre con efficacia giuridica perché l’esecuzione della volontà del disponente era rimessa unicamente alla sua discrezione ed al suo senso di lealtà[99].
In definitiva, è la centralità della fides che serviva a lasciare presso il mancipante e fino alla sua morte, l’uso ed il godimento del patrimonio mancipato, a consentire all’autore napoletano di affermare la natura fedecommissaria dell’antica familiae mancipatio.
A ben vedere, il ruolo dell’elemento fiduciario emerge chiaramente nel manuale di Gaio, precisamente in Gai Inst. 2. 102, l’unica fonte che tramanda la memoria dell’antica disposizione mortis causa, dove si legge che da quest’ultima non potevano derivare diritti a favore dei terzi che il mancipio dans intendeva beneficiare perché l’attuazione di tali volontà era rimessa unicamente alla lealtà dell’amico da lui scelto e reso mancipio accipiens.
Gai Inst. 2. 102: Accessit deinde tertium genus testamenti, quod per aes et libram agitur. Qui neque calatis comitiis neque in procinctu testamentum fecerat, is si subita morte urguebatur, amico familiam suam, id est patrimonium suum, mancipio dabat, eumque rogabat quid cuique post mortem suam dari vellet. Quod testamentum dicitur per aes et libram, scilicet quia per mancipationem peragitur. TRADUZIONE (VIGNALI G.): Si aggiunse poi un terzo genere di testamento, che si fa per rame e bilancia. Colui che non aveva fatto testamento né a comizi convocati né in procinto, se fosse stato premuto dal timore di morte improvvisa, avrebbe dato in mancipio ad un amico la sua famiglia, cioè il suo patrimonio, e lo pregava di quel che a ciascuno voleva fosse dato dopo la sua morte. Questo testamento è detto per rame e bilancia, ovviamente perché si compie con una mancipazione.
Dall’esegesi del frammento si può osservare che, nonostante sia impiegato il verbo rogare prima e mandare poi, bisogna attribuire lo stesso significato alle due voci, non potendosi parlare in età arcaica dell’esistenza di una obligatio ex fideicommisso[100].
Questo modo di disporre mortis causa rappresenta “la massima espressione dei concetti paleogiuridici delle antiche popolazioni greco-italiche fondati sull’onore dovuto alla memoria dei defunti e sulla forza morale dell’obbligo derivante dalla fides”[101].
11. Il fedecommesso nelle fonti repubblicane: le testimonianze di Cicerone e Valerio Massimo
Le prime fonti che menzionano esplicitamente il fideicommissum testimoniano che, nell’ultimo scorcio della Roma repubblicana, dopo la trasformazione dell’originale familiae mancipatio nel testamentum per aes et libram, l’istituto era già largamente praticato, pur non essendo accompagnato da una sanzione giuridica vera e propria.
Stando a quanto sostengono le fonti, il fedecommesso nacque soprattutto per far giungere beni ereditari a coloro che non potevano beneficiarne in quanto difettosi di testamentifactio passiva[102]. Ma se questo fu il motivo storico dell’istituto, è innegabile che il fedecommesso, ponendosi al di fuori del formalismo giuridico dell’antico diritto testamentario, permetteva di evitarne l’eccessivo rigore[103], “risultando anche uno strumento idoneo a realizzare quello che oggi si indicano come negozi in frode alla legge”[104].
Il caso dei peregrini, una delle categorie difettanti di testamentifactio passiva, viene presentato da Gaio come possibile origine del fedecommesso a titolo particolare.
Gai Inst. 2. 285: Ut ecce peregrini poterant fideicommissa capere, et fere haec fuit origo fideicommissorum. Sed postea id prohibitum est; et nunc ex oratione divi Hadriani senatusconsultum factum est, ut eo fideicommissa fisco vindicarentur. TRADUZIONE (VIGNALI G.): Come, per esempio, gli stranieri potevano ricevere per fedecommessi. E questa fu quasi l’origine dei fidecommessi. Ma dopo ciò fu proibito ed ora, a proposizione di Adriano fu fatto un senatoconsulto affinché tali fedecommessi fossero aggiudicati al fisco.
Dalle fonti ciceroniane, invece, apprendiamo che il fedecommesso universale nasce per provvedere ai proscritti secondo la lex Cornelia dell’82 a. C.[105] o alle donne che la lex Voconia del 169 a. C.[106] escludeva dai soggetti abilitati all’heredis institutio.
La prima vicenda si legge in un frammento del De finibus bonorum et malorum, dove un giovane Cicerone racconta il caso di Publio Sestilio Rufo che fu istituito erede nel testamento del facoltoso Quinto Fadio Gallo. A ben vedere, si trattava di una designazione fiduciaria in quanto il de cuius aveva pregato in vita Sestilio di far pervenire, in un secondo momento, tutti i suoi averi alla figlia Fadia, incapace di ricevere per testamento. Sestilio dapprima negò di essere stato pregato alla restituzione, dopodiché, richiamandosi alla sua autorità di magistrato, sostenne che non avrebbe mai osato violare la legge Voconia sulla quale aveva prestato giuramento. La questione venne sottoposta ad un consesso di amplissimi viri[107] che decise di attribuire a Fadia non più di metà dell’asse ereditario, secondo quanto poteva ricevere per legge; ma Sestilio disattese la sententia, mantenendo per sé l’intera eredità. Il commento di Cicerone sul comportamento di Sestilio è asprissimo perché nulla, non un singolo cespite dell’eredità gli sarebbe spettato se si fosse comportato da uomo probo. Tuttavia, il rammarico più grande dell’oratore è che Sestilio poteva comportarsi così impune, non trasgredendo le leggi, anzi proprio in virtù della lex Voconia. Quindi, si apprende che non sussistevano ancora rimedi adeguati al tradimento della fides e che il vincolo su cui si fondavano le richieste del testatore all’erede, orali ed informali, era puramente sociale, metagiuridico.
Cic. de fin. bon. et mal. 2. 17. 55: […] nemini me adesse P. Sextilio Rufo, cum is rem ad amicos ita deferret, se esse heredem Q. Fadio Gallo, cuius in testamento scriptum esset se ab eo rogatum ut omnis hereditas ad filiam perveniret. Id Sextilius factum negabat. Poterat autem inpune; quis enim redargueret? Nemo nostrum credebat, erat veri similius hunc mentiri, cuius interesset, quam illum, qui id se rogasse scripsisset, quod debuisset rogare. Addebat etiam se in legem Voconiam iuratum contra eam facere non audere, nisi aliter amicis videretur. Aderamus nos quidem adolescentes, sed multi amplissimi viri, quorum nemo censuit plus Fadiae dandum, quam posset ad eam lege Voconia pervenire. Tenuit permagnam Sextilius hereditatem, unde, si secutus esset eorum sententiam, qui honesta et recta emolumentis omnibus et commodis anteponerent, nummum nullum attigisset. Num igitur eum postea censes anxio animo aut sollicito fuisse? Nihili minus, contraque illa hereditate dives ob eamque rem laetus. Magni enim aestimabat pecuniam non modo non contra leges, sed etiam legibus partam. Quae quidem vel cum periculo est quaerenda vobis; est enim effectrix multarum et magnarum voluptatum. TRADUZIONE (SELEM A.): Mi ricordo che ero presente quando Publio Sestilio Rufo esponeva il suo caso agli amici nel seguente modo: egli era l’erede di Quinto Fadio Gallo e questi aveva scritto nel testamento di averlo pregato di far pervenire tutta l’eredità alla figlia. Sestilio negava tale fatto. E lo poteva impunemente; chi lo avrebbe contraddetto? Nessuno di noi ci credeva: era più verosimile che mentisse chi ne aveva interesse anziché quello che aveva scritto di avergli rivolto la preghiera da cui non poteva esimersi. Egli aggiungeva anche di aver prestato giuramento sulla legge Voconia e quindi non osava trasgredirla, a meno che gli amici la pensassero diversamente. Erano presente, oltre noi giovani, numerosi personaggi autorevoli: nessuno ritenne che si dovesse dare a Fadia più della quota fissata dalla legge Voconia. Sestilio si tenne un’eredità molto considerevole, di cui non gli sarebbe spettato un soldo se avesse seguito l’opinione di coloro che antepongono l’onestà e la rettitudine a tutti i guadagni e a tutti i vantaggi. Credi forse che in seguito abbia sentito nel suo animo inquietudine e preoccupazione? Neppur per sogno; anzi, era ricco per quell’eredità, e perciò felice. Egli, infatti, stimava molto il danaro che si era procurato, non solo senza violare le leggi, ma anzi proprio in virtù delle leggi. Eppure, voi dovete cercarlo, anche a costo di rischi; giacché il danaro produce molti grandi piaceri.
Sempre nel dialogo ciceroniano sul sommo bene e il sommo male, è tramandata una seconda vicenda che riguarda Sesto Peduceo che era stato pregato dal cavaliere di Norcia Gaio Plozio di consegnare l’intera eredità alla moglie: in questo caso, l’heres fiduciarius diede seguito alla preghiera, “anche se si trattava di una semplice richiesta verbale”[108], trasferendo l’eredità alla vedova che neanche era a conoscenza delle richieste informali di cui era beneficiaria. Cicerone osserva che Gaio Plozio ha anteposto la rettitudine all’interesse economico, secondo una vis naturae che, nell’uomo probo, diventa un vero e proprio officium anche in mancanza di alcun obbligo giuridico. In questo caso, le richieste del de cuius non sono state frustrate dalla mancata collaborazione dell’istituito: d’altra parte, nel comune sentire dei Romani, almeno fino al principato, rivestivano ancora un certo peso le coniunctiones, cioè le relazioni personali che derivavano dall’intreccio tra officium, amicitia, beneficium[109].
Cic. de fin. bon. et mal. 2. 17. 58: […] si te amicus tuus moriens rogaverit, ut hereditatem reddas suae filiae, nec usquam id scripserit, ut scripsit Fadius, nec cuiquam dixerit, quid facies? Tu quidem reddes; ipse Epicurus fortasse redderet, ut Sextus Peducaeus, Sex. F., is qui hunc nostrum reliquit effigiem et humanitatis et probitatis suae filium, cum doctus, tum omnium vir optimus et iustissimus, cum sciret nemo eum rogatum a Caio Plotio, equite Romano splendido, Nursino, ultro ad mulierem venit eique nihil opinanti viri mandatum euit hereditatemque reddidit. Sed ego ex te quaero quoniam idem tu certe fecisses, nonne intellegas eo maiorem vim esse naturae, quod ipsi vos, qui omnia ad vestrum commodum et, ut ipsi dicitis, ad voluptatem referatis, tamen ea faciatis, e quibus appareat non voluptatem vos, sed officium sequi, plusque rectam naturam quam rationem prevam valere. TRADUZIONE (SELEM A.): Se un tuo amico morendo ti pregherà di consegnare l’eredità a sua figlia, senza scriverlo da nessuna parte, come fece Fadio, senza dirlo a nessuno, tu che farai? Tu certamente gliela consegnerai; forse gliela consegnerebbe lo stesso Epicuro, come fece Sesto Peduceo, quello che ci ha lasciato nel figlio, un mio caro amico, l’immagine della sua fine educazione e della sua probità: egli era non solo una persona colta, ma il migliore e il più giusto tra tutti, e benché nessuno sapesse che Gaio Plozio, illustre cavaliere romano di Norcia, lo aveva pregato, si presentò spontaneamente alla moglie, e a lei che non era al corrente di nulla espose l’incarico avuto dal marito e consegnò l’eredità. Ma io ti chiedo, dato che tu avresti certamente fatto lo stesso, se non ti rendi conto che la forza della natura è tanto maggiore perché voi stessi, che tutto riferite all’interesse e, secondo la vostra stessa espressione, al piacere, compite tuttavia certi atti da cui risulta che seguite non il piacere, ma il dovere, e che un’indole retta ha più valore di una dottrina perversa.
Ancora Cicerone, stavolta nelle Verrine, racconta la vicenda di Publio Trebonio che voleva istituire erede suo fratello Aulo Trebonio, proscritto dalla legge Cornelia e pertanto privo di testamentifactio passiva. Publio Trebonio pregò chi aveva istituito erede di giurare che ognuno di loro avrebbe trasferito al fratello minore Aulo almeno metà della propria quota di eredità. Il liberto di Publio Trebonio fu l’unico tra gli istituiti a prestare il giuramento, mentre gli altri eredi andarono si recarono da Verre, informando il pretore dell’illiceità del giuramento, in quanto eludeva la legge Cornelia. In questo modo, vennero autorizzati a non giurare ed ammessi alla bonorum possessio contra tabulas, mentre decise di rifiutare la bonorum possessio secundum tabulas al liberto[110]. A riguardo, Cicerone condivide la decisione di Verre in quanto era iniquum trasferire beni ereditari ad un proscritto, anche se bisognoso, posto l’espresso divieto di legge; tuttavia, considera anche la condotta del liberto che aveva prestato il giuramento al patrono convinto che in mancanza avrebbe compiuto un’azione scellerata. La mancata concessione del possesso del patrimonio ereditario da parte di Verre al liberto si fonderebbe sulla duplice intenzione del pretore di evitare che costui aiutasse il patrono proscritto, oltre che di punire il liberto per aver seguito la volontà del testatore. È a questo punto che l’Arpinate muove la sua critica all’operato di Verre: il magistrato avrebbe dovuto concedere la bonorum possessio secundum tabulas al liberto, non per assecondarne l’intento fraudolento, quanto per non vanificare le ultime volontà di Publio Trebonio. Il trasferimento a favore del proscritto, poi, sarebbe stato caducato in un secondo momento per gli effetti della legge Cornelia mediante la confisca di quanto trasferito.
Cic. Verr. 2. 1. 47. 123: Superbia vero quae fuerit quis ignorat? Quem ad modum iste tenuissimum quemque contempserit, despexerit, liberum esse numquam duxderit? P. Trebonius viros bonos et honestos compluris fecit heredes; in iis fecit suum libertum. Is A. Trebonium fratrem habuerat proscriptum. Ei cum cautum vellet, scripsit ut heredes iurarent se curaturos ut ex sua cuiusque parte ne minus dimidium ad A. Trebonium illum proscriptum perveniret. Libertus iurati; ceteri heredes adeunt ad Verre, docent non oportere se id iurare facturos esse quod contra legem Corneliam esset, quae proscriptum iuvari vetaret; impetrant ut ne iurent; dat his possessionem. Id ego non reprehendo; etenim erat iniquum homini proscripto egenti de fraternis bonis quicquam dari. Libertus, nisi ex testamento patroni iurasset, scelus se facturum arbitrabatur; […] TRADUZIONE (FIOCCHI L.): Quanto poi sia stata la sua superbia, a chi è nascosto? Come egli sempre abbia disprezzato gli uomini più poveri, come li abbia ritenuti una cosa vile, e mai considerati come uomini liberi? Publio Trebonio fece suoi eredi molti uomini onorati e dabbene? E tra questi fece il suo liberto. Era Aulo Trebonio, suo fratello, nel numero dei proscritti: per cui, volendo egli provveder cautamente per il fratello, scrisse che gli eredi dovessero giurare che avrebbero fatto in modo che la metà della parte di ciascuno, e non meno, pervenisse a suo fratello proscritto. Giura il liberto: gli altri eredi vanno da Verre, dicendo che non dovevano giurare di far quel che era contro la legge Cornelia, la quale vieta che si possa venire in soccorso di qualcuno che sia proscritto; ottengono di non giurare ed egli dà a loro l’eredità. Su questo, non ho niente da dire: infatti, era ingiusto dare ad un proscritto, bisognoso, parte dei beni del fratello; e tuttavia, quel liberto, se non avesse giurato secondo il testamento del padrone, pareva di commettere un crimine.
Come per il manuale di Gaio, anche la Parafrasi greca delle Istituzioni individua l’origine del fedecommesso nella necessità di supplire al difetto di capacità testamentaria passiva dei peregrini.
Teoph. Graeca paraphr. 2. 23. 1: Origo autem fideicommissorum haec fere fuit. Saepius contigebat civem romanum mori, qui cognatos peregrinos haberet, quibus neque hereditates neque legata relinquere licebat, cum alius essent civitatis. Instituebat ergo civem romanum quendam sibi benevolum etc. TRADUZIONE (DEFALCO I.): Però l’origine dei fedecommessi riguardò anche queste cose. Sempre più spesso, secondo il costume, al cittadino romano che aveva congiunti stranieri, non era consentito lasciare alcuna eredità né legati, perché di un’altra cittadinanza. Quindi si istitutiva qualcosa che fosse conveniente anche per lo stesso cittadino romano.
Pertanto, si può ammettere che i primi incapaci a dare occasione all’istituto furono i peregrini, poi le donne escluse dalla successione ad opera della lex Voconia del 169 a. C. e poi i proscritti in base alla lex Cornelia dell’82 a. C. Allo stesso modo, i latini Iunian, privi della testamentifactio passiva ai sensi della lex Iunia del 19 d. C. e di lì in poi gli altri incapaci, man mano che nuove incapacità vennero introdotte da nuove disposizioni.
Gai Inst. 2. 274: Item mulier, quae ab eo qui centum milia aeris census est per legem Voconiam heres institui non potest, tamen fideicommisso relictam sibi hereditatem capere potest. TRADUZIONE (VIGNALI G.): Così la donna, che in forza della legge Voconia non può essere istituita erede da chi fu censito per un valore di centomila assi, può però acquistare l’eredità a lei lasciata per fedecommesso.
Gai Inst. 2. 275: Latini quoque, qui hereditates legataque directo iure lege Iunia capere prohibentur, ex fideicommisso capere possunt. TRADUZIONE (VIGNALI G.): I latini, cui è proibito dalla legge Giunia ricevere direttamente eredità o legati, possono, nondimeno, ricevere per fedecommesso.
Un altro testo di assoluta rilevanza per quanto riguarda il periodo antecedente ad Augusto è il frammento in cui Valerio Massimo racconta la vicenda di Quinto Pompeio e di sua madre che si rifiutava di restituire i beni ereditari che possedeva a Bauli e che avrebbe dovuto restituire per fedecommesso. Così, Quinto Pompeio si rivolse a Celio Rufo che ne assunse la difesa e portò la causa a termine con successo[111]. È la dottrina francese ad essersi occupata più attentamente del frammento in questione: secondo il De Bérier, testimonia che il fedecommesso divenne “un fenomeno sociale prima di diventare una istituzione giuridica”[112]. Il Genzmer aggiunge anche che nella fase in cui il fedecommesso non aveva veste giuridica, “un piccolo effetto giuridico si produceva ugualmente”[113] in quanto, se l’erede avesse trasferito il bene oggetto di fedecommesso al beneficiario ed in seguito, ripensandoci, avesse proceduto con la condictio indebiti, avrebbe senz’altro perso la causa poiché “l’erede era gravato di un dovere, che sebbene non sanzionato, giustificava il trasferimento”[114].
Val. Max. 4. 2. 7: Caeli vero Rufi ut vita inquinata, ita misericordia, quam Q. Pompeio praestitit, probanda. Cui a se publica quaestione prostrato, cum mater Cornelia fidei commissa praedia non redderet, atque iste auxilium suum litteris inplorasset, pertinacissime absenti adfuit: recitavit etiam eius epistolam in iudicio ultimae necessitatis indicem, qua impiam Corneliae avaritiam subvertit. Factum propter eximiam humanitatem ne sub Caelio quidem auctore repudiandum. TRADUZIONE (DEFALCO I.): La vita di Celio Rufo, come fu macchiata da gravi colpe, così merita elogi per la devozione dimostrata nei confronti di Quinto Pompeo. Dopo averlo mal ridotto in un pubblico processo, scongiurato da Pompeo con una lettera di prestargli aiuto nella lite che aveva in corso con sua madre, costei non gli voleva restituire i beni che si era presi per fedecommesso, ne assunse tuttavia col massimo zelo la difesa, malgrado Pompeo fosse assente: ne lesse in giudizio, come prova dell’estremo bisogno, persino la lettera. E con questa fece condannare l’empia avarizia di Cornelia. Anche se di Celio Rufo, una simile azione, per l’eccezionale saggio di generosità che costituisce, va tutt’altro che condannata.
Si è già detto che il fedecommesso originario fosse privo di efficacia giuridica, “dando origine ad un nullum iuris vinculum”[115] e che, dal nome stesso, la sua efficacia metagiuridica dipese dalla fides[116]. Tuttavia, che in origine l’obbligo derivante dal fideicommissum fosse sociale e non giuridico, era naturale, ma che durasse così a lungo, fino ai tempi di Augusto, resta ancora oggi una questione irrisolta[117].
12. Il riconoscimento giuridico del fedecommesso
“Avvertendosi nell’età augustea il bisogno di una tutela più energica”[118], il fedecommesso si spoglia finalmente della sua veste metagiuridica, fondata sul vincolo morale derivante dalla fides, e riceve per volontà di Augusto una formale copertura giuridica.
Le Istituzioni giustinianee menzionano l’opera di Augusto in tema di fedecommesso innanzitutto in Inst. 2. 23. 1, il cui contenuto è divisibile in tre parti cronologicamente ordinate. La prima, segnalata da primis temporibus, coincide con la fase in cui i fedecommessi erano tutti infirma: l’aggettivo indica la condizione di precarietà cui erano soggetti i fedecommessi, conseguenza della mancanza di una sanzione giuridica nel caso in cui venissero disattesi[119]. La seconda parte è introdotta dall’avverbio postea: considerata la disonestà degli eredi di cui Cicerone ha trasmesso la memoria, Augusto, per primo, ordinò ai consoli di interporre la sua autorità istituendo una nuova iurisdictio ed ordinando loro di esserne destinatari. La necessità del vinculum iuris introdotto da Augusto nasce in considerazione della insignis perfidia, cioè dal fatto che la fides ha ceduto il passo alla perfidia che, in quanto evidente, ha finito con il rendere necessaria la decisione imperiale[120]. Infine, la terza parte descrive l’istituzione del praetor fideicommissarius: da Augusto in poi, la tutela giuridica del fedecommesso non fu considerata più un evento straordinario, ma iustum, in considerazione delle effettive necessità della società. Chiunque poteva ricorrervi in quanto le disposizioni fedecommissarie erano divenute “popolari”. Secondo il Giuffrè, il racconto tratto dalle Istituzioni imperiali rappresenta una testimonianza eloquente della mentalità in cui operava la giurisprudenza a Roma, almeno durante l’età aurea del diritto romano[121].
Inst. 2. 23. 1: Sciendum itaque est, omnia fideicommissa primis temporibus infirma esse quia nemo invitus cogebatur praestare id de quo rogatus erat: quibus enim non poterant hereditates vel legata relinquere, si relinquebant, fidei committebant eorum qui capere ex testamento poterant: et ideo fideicommissa appellata sunt, quia nullo vinculo iuris, sed tantum pudore eorum qui rogabantur, continebantur. postea primus divus Augustus semel iterumque gratia personarum motus, vel quia per ipsius salutem rogatus quis diceretur, aut ob insignem quorundam perfidiam iussit consulibus auctoritatem suam interponere. quod, quia iustum videbatur et populare erat, paulatim conversum est in adsiduam iurisdictionem: tantusque favor eorum factus est, ut paulatim etiam praetor proprius crearetur, qui fideicommissis ius diceret, quem fideicommissarium appellabant. TRADUZIONE (DEFALCO I.): Bisogna dunque sapere che nei primi tempi tutti i fedecommessi erano invalidi, in quanto nessuno era costretto a dare contro la propria volontà ciò di cui veniva pregato: invero, chi lasciava eredità o legati a coloro ai quali non si potevano lasciare, li affidava a quelli che dal testamento potevano prendere; e, perciò, furono detti fedecommessi, poiché non si basavano su alcun vincolo giuridico, ma soltanto sul sentimento di onore di quelli che venivano pregati. In seguito, il divino Augusto, per primo, una o due volte, indotto dalla considerazione delle persone, o perché uno lo si diceva pregato per la sua salute o per la insigne malafede di alcuni, ordinò ai consoli di interporre la loro autorità. E siccome questo sembrava giusto ed era popolare, a poco a poco si convertì in giurisdizione sistematica; e il favore in proposito divenne così grande che via via fu creato, per la giurisdizione in tema di fedecommessi, anche un pretore speciale che chiamavano fedecommissario.
La storia dei fedecommessi continua in Inst. 2. 25: grazie ad Augusto si realizzò il riconoscimento giuridico del fedecommesso e dei codicilli, a seguito del caso di un certo Lucio Lentulo che, trovandosi in Africa in punto di morte, chiese al principe di dare attuazione alle sue ultime volontà contenute in alcuni codicilli confermati nel testamento. L’episodio, verificatosi presumibilmente intorno al 15 a. C., fu l’occasione per Augusto di convocare il suo consilium di giureconsulti “al fine di ripristinare l’antica fides romana e conoscere il valore giuridico di quei codicilli”[122]. Dopo aver dato esecuzione alla preghiera, tra i giuristi fu ascoltato Trebazio Testa che prospettò la grande opportunità dell’istituto del codicillo, in quanto era difficile trovare testimoni cittadini romani in provincia. Allora, l’Imperatore si convinse di dare copertura giuridica ai fedecommessi, dapprima in singoli casi, in seguito in via generale, affidando la giurisdizione in materia ai consoli. In seguito, avendoli utilizzati anche Labeone, non si dubitò più che l’usus codicillorum si fosse convertito in ius.
Il Guarino resta disorientato dal comportamento dell’Imperatore che prima dà esecuzione al fedecommesso e soltanto dopo convoca il consilium per chiederne la validità dal momento che era stato disposto con codicillo[123]. Sembra più plausibile che lo scopo della convocazione sia quello individuato dal Biondi: non verificare la validità del fedecommesso, tra l’altro già adempiuto, ma interrogare gli autorevoli consiglieri “sull’opportunità di fornire tutela imperiale ad un nuovo istituto e che questo non fosse contrario alla ratio iuris”[124].
Inst. 2. 25: Ante Augusti tempora constat ius codicillorum non fuisse, sed primus Lucius Lentulus, ex cuius persona etiam fideicommissa coeperunt, codicillos introduxit. Nam cum decederet in Africa scripsit codicillos testamento confirmatos, quibus ab Augusto petiit per fideicommissum ut faceret aliquid: et cum divus Augustus voluntatem eius implesset, cuius deinceps reliqui auctoritatem secuti, fideicommissa praestabant, et filia Lentuli legata quae iure non debebat solvit. Dicitur Augustus convocasse prudentes, inter quos Trebatium quoque, cuius tunc auctoritas maxima erat, et quaesisse, an possit hoc recipi nec absonans a iuris ratione codicillorum usus esset: et Trebatium suasisse Augusto, quod diceret, utilissimum et necessarium hoc civibus esse propter magnas et longas peregrinationes, quae apud veteres fuissent, ubi, si quis testamentum facere non posset, tamen codicillos posset. Post quae tempora cum et Labeo codicillos fecisset, iam nemini dubium erat quin codicilli iure optimo admitterentur. TRADUZIONE (DEFALCO I.): È risaputo che prima dei tempi di Augusto i codicilli non fossero praticati, poiché Lucio Lentulo, autore anche dei fedecommessi, li introdusse per primo. Infatti, essendo sul punto di morte in Africa, scrisse dei codicilli confermati col testamento, nei quali chiese ad Augusto di fare qualcosa per lui a titolo di fedecommesso. Ed avendo il Divo Augusto eseguita la sua volontà, altre persone sulla scorta della sua autorità adempivano ai fedecommessi e anche la figlia di Lentulo eseguì dei legati non dovuti a rigor di legge. Inoltre, si dice che Augusto convocò un consiglio di giuristi, tra i quali anche Trebazio la cui autorità era allora grandissima, e che li avesse interrogati sul se l’uso dei codicilli potesse adottarsi e se non fosse dissonante con i principi generali del diritto: Trebazio persuase Augusto sulla loro ammissione, sottolineando quanto fosse conveniente e perfino necessaria la loro pratica per i cittadini a causa della lunghezza dei viaggi che erano frequenti presso gli antichi e nei quali taluno non poteva fare testamento, ma poteva fare dei codicilli. Dopo quel tempo, poiché anche Labeone utilizzò dei codicilli, nessuno più dubitò che i codicilli fossero a somma ragione ammessi nel diritto.
Vista la benevola disposizione di Augusto verso i fedecommessi, gli interessati ricorrevano al sovrano tramite delle speciali supplicationes che, di volta in volta, venivano sottoposte ai consoli con l’incarico di provvedervi. I consoli, per effetto della delegazione imperiale, esplicavano la giurisdizione secondo una procedura extra ordinem che, fondandosi nell’auctoritas di Augusto, non seguiva le regole della cognizione ordinaria e la normale divisione fra ius e iudicium[125]. In seguito, non fu più necessaria la supplicatio al principe, ma fu sufficiente una persecutio al magistrato per ottenere che la volontà del disponente venisse rispettata. Augusto poté compiere questa operazione in virtù dei poteri che era riuscito ad accentrare nel corso del suo principato ed in particolare grazie alla tribunicia potestas e all’imperium supremo: con la prima, poteva accogliere qualsiasi ricorso in via straordinaria, con il secondo poteva soccorrere con aiuti e mezzi straordinari.
13. I mutamenti successivi ad Augusto: i senatoconsulta Trebellianum e Pegasianum e quelli in tema di libertas fideicommissaria.
La protezione concessa da Augusto in favore dei fedecommessi ed i provvedimenti presi al fine di rendere responsabili i soggetti investiti della preghiera, avevano incontrato il favore e l’entusiasmo del popolo. Per questa ragione, sotto i successivi imperatori, la delegazione ai consoli non viene fatta più caso per caso, ma in modo generico e permanente[126].
Le Istituzioni giustinianee, in un frammento tratto dall’Enchiridion di Pomponio, raccontano che l’imperatore Claudio affida la giurisdizione fedecommissaria a due praetores fideicommissarii che poi Tito riduce ad uno.
D. 1. 2. 2. 32 (Pomp. l. sing. Ench): […] Post deinde divus Claudius duos praetores adiecit qui de fideicommisso ius dicerent, ex quibus unum divus Titus detraxit. TRADUZIONE (SCHIPANI S.): Poi il divo Claudio aggiunse due pretori che esercitassero la giurisdizione in tema di fedecommessi, e da costoro il divo Tito ne tolse uno.
Tuttavia, i pretori o il pretore che vennero aggiunti affiancarono e non sostituirono i consoli che continuarono ad esercitare la propria iuris dictio in materia e sembra che la cognizione dei consoli si esercitava per gli affari più rilevanti, mentre delle questioni di più lieve entità si occupavano i pretori a tal scopo istituiti[127].
Il Pernice osserva che è solo con la creazione di una magistratura permanente e a tale materia designata che il dovere morale derivante dalla fides si trasforma in obbligo giuridico[128].
Entrato il fedecommesso nel sistema giuridico, la giurisprudenza iniziò ad occuparsene e a formulare delle dottrine corrispondenti all’indole e al carattere del nuovo istituto, vale a dire, utilizzando le parole di Gaio, al fine di trattarlo come longe latior causa fideicommissorum[129].
Si è già visto che nel fedecommesso si realizzava una situazione fiduciaria particolarmente evidente nel fedecommesso universale perché si richiedeva necessariamente un erede istituito alla cui lealtà affidare la restituzione dell’eredità ad altri[130]. In seguito alla tutela giurisdizionale, chi riceveva l’eredità si trovava nella posizione di acquirente fiduciario, in quanto l’eredità era venduta pro forma con annesse le stipulationes emptae et venditae hereditatis. In questo modo, il fedecommissario aveva il diritto di riscuotere i crediti ed il dovere di rispondere dei debiti. Quindi, per le cose corporali l’erede effettuava una finta vendita nummo uno; per i debiti e i crediti, invece, venivano concluse apposite stipulazioni[131].
I senatoconsulti emanati nei principati successivi ad Augusto cercarono di ovviare ai molti inconvenienti che si erano presentati nella pratica, dopo che alla funzione legislativa delle assemblee popolari si era andata affiancando, fino a soppiantarla del tutto, la partecipazione più diretta del senato nell’attività di produzione di diritto privato[132].
Con il senatusconsultum Trebellianum, emanato sotto Nerone probabilmente nel 55 d. C., si dispose che crediti e debiti passassero al fedecommissario senza necessità di stipulazioni. Il fiduciario restava comunque erede, anche se in un frammento del Digesto attribuito ad Ulpiano si paventa, a partire dalla restituzione dell’eredità al fedecommissario, la possibilità di una particolare exceptio restituitae hereditatis.
D. 36. 1. 1. 2 (Ulp. 3 fideicomm.): “Cum esset aequissimum in omnibus fideicommissariis hereditatibus, si qua de his bonis iudicia penderent, ex his eos subire, in quos ius fructusque transferretur, potius quam cuique periculosum esse fidem suam: placet, ut actiones, quae in heredem heredibusque dari solent, eas neque in eos neque his dari, qui fidei suae commissum sic, uti rogati essent, restituissent, sed his et in eos, quibus ex testamento fideicommissum restitutum fuisset, quo magis in reliquum confirmentur supremae defunctorum voluntates”. TRADUZIONE (DEFALCO I.): Essendo perfettamente giusto che, con riferimento a tutti i fedecommessi che coinvolgono proprietà in cui qualcosa deve essere pagato, si dovrebbe fare ricorso a coloro cui vengono trasferiti i diritti ed i profitti della proprietà, piuttosto che gli eredi dovrebbero sostenere qualsiasi rischio a causa della fiducia adempiuta, si decreta che non saranno consentite le azioni normalmente concesse a favore e contro gli eredi qualora questi abbiano trasferito la proprietà per fedecommesso, così come era stato loro incaricato di fare; ma che in questi casi le azioni saranno concesse a favore e contro coloro ai quali la proprietà è stata trasferita per fedecommesso contenuto nel testamento, in modo che le ultime volontà delle persone decedute possano essere eseguite più completamente.
Invece, il fedecommissario che a seguito della restitutio non diveniva erede, ma era soltanto loco heredis, si vedeva attribuito la fidecommissaria hereditatis petitio, un’actio in rem che permetteva la rivendicazione dell’intera eredità[133].
Tuttavia, residuava un inconveniente di fondo: considerato il vantaggio scarso o molto spesso nullo che poteva derivargli dall’intera operazione, l’erede fiduciario era più incline a provocare la caduta del lascito. È a tal proposito che il senatusconsultum Pegasianum, emanato sotto Vespasiano probabilmente del 72 d. C., per incoraggiare gli eredi ad accettare l’eredità, dispose la quota di un quarto dell’ammontare del fedecommesso a favore dell’erede, la quarta Pegasiana, ad imitazione del quadrans introdotto della lex Falcidia in materia di legati[134].
Tuttavia, l’emanazione di questo secondo iussum patrum complicò nuovamente le cose perché il provvedimento non considerava il fedecommissario loco heredis ma loco legatarii: perciò, quando l’erede tratteneva per sé il quarto, rientravano in scena le stipulationes partis et pro parte tra erede e fedecommissario. Soltanto nel caso in cui il fiduciario, volendo dare piena esecuzione alla volontà del de cuius, intendeva restituire tutto quanto, si ritornava al regime delle cautele dell’eredità compravenduta prima del Trebelliano.
Poteva darsi il caso che, nonostante l’erede avesse la facoltà di trattenere la quarta Pegasiana, non considerava l’operazione di accettazione e trasferimento conveniente e dichiarava l’eredità sospetta: in questi casi, il fedecommissario poteva ottenere dal pretore[135] l’emanazione di un decreto volto a costringere l’erede ad adire e a restituire l’intero asse ereditario.
Infine, il senatoconsulto Pegasiano stabilì a danno degli incapaci a succedere ai sensi della lex Iulia et Papia, l’incapacitas di ricevere per fedecommesso[136].
A completare il quadro dei senatoconsulti relativi al fedecommesso, figurano quelli emanati favore libertatis.
Innanzitutto, il senatoconsulto Rubrianum del 103 d. C. sancisce che per quanto riguarda i servi ereditari, in assenza ingiustificata dell’onerato dal giudizio, il pretore pronunci la libertà dello schiavo che diventa libertus Orcinus.
Poco dopo, il senatoconsulto Dasumianum stabilì che si procedesse allo stesso modo anche nel caso di absentia ex iusta causa, ma in questo caso il servo diventava liberto dell’onerato. Entrambi i provvedimenti si applicavano anche ai cittadini delle province.
Infine, nel 127 d. C. il senatoconsulto Iuncianum sancì che in assenza dell’onerato, giustificata o meno, anche lo schiavo appartenente all’onerato venisse pronunciato libero.
14. Il fedecommesso dalle costituzioni imperiali fino al diritto giustinianeo
Nella storia del principato, a mano a mano che si procede verso forme politico-costituzionali in cui la volontà imperiale assume sempre più rilevanza, si assiste ad una graduale affermazione del diritto che proviene dal princeps e dalla sua cancelleria: ai senatoconsulti, col tempo, si sostituiscono come fonti legislative le costituzioni imperiali. Come si è visto, le constitutiones principum favorirono sempre di più l’assimilazione del fedecommesso all’istituzione di erede e al legato, da una parte semplificando gli antichi istituti civilistici, dall’altra estendendo alcune loro formalità anche ai fedecommessi[137].
Va osservato che anche la riforma della procedura contribuì all’assimilazione dei fedecommessi alle altre disposizioni mortis causa perché, quando con i successori di Diocleziano la cognitio extra ordinem divenne la procedura ordinaria, cessò ogni difformità procedurale e con essa ogni necessità di magistratura speciale. Tuttavia, nonostante il graduale ravvicinamento tra gli istituti diretti e precativi, residuarono una serie di differenze.
Innanzitutto, con riguardo al profilo soggettivo dell’istituto, a differenza del legato, tra le persone che potevano essere onerate col fedecommesso figuravano anche gli eredi ab intestato ed i legatari. Inoltre, una seconda differenza con il legato, si rintraccia dal punto di vista sostanziale, considerato che frutti e interessi si producevano nel fedecommesso, ma non nel legato, dove la repetitio indebiti era proibita[138]. Infine, dal punto di vista formale, mentre il legato presupponeva necessariamente un’istituzione di erede e un testamento, il fedecommesso poteva essere compiuto anche prima dell’istituzione di erede ed anche in un codicillo non confermato.
Giustiniano, dal canto suo, “premessi i due topoi che gli sono cari, l’autorità di Emilio Papiniano e il proprio amore per la in legibus simplicitas”[139], realizza la parificazione vera e propria tra legati e fedecommessi emanando quattro costituzioni in materia[140]: con la prima del 529 d. C. soppresse la quadruplice forma di legati e diede ad essi e ai fedecommessi la stessa efficacia; con la seconda del 531 d. C. parificò i fedecommessi ai legati; nello stesso anno, con la terza diede efficacia a qualunque dichiarazione implicante legato e fedecommesso fatta dal defunto all’erede; con la quarta, infine, dichiara di abrogare il senatoconsulto Pegasiano e di mantenere in vigore il Trebelliano, pur trasferendo in quest’ultimo statuto una disciplina sincretistica riferibile ad entrambi i provvedimenti classici.
Il quarto ed ultimo intervento è tramandato nelle Istituzioni imperiali che, dopo aver dato conto della situazione precedente (riprendendo il manuale gaiano) descrivono la natura della riforma di Giustiniano: del senatoconsulto Trebelliano conserva l’estensione al fedecommissario delle azioni pro e contro l’erede (bandendo definitivamente ogni stipulazione); del Pegasiano, invece, mantiene sia la possibilità per l’onerato di trattenere la quarta, sia la possibilità per il beneficiario di ottenere dal pretore il decreto di compulsio che provoca la restituzione dell’intero asse ereditario nel caso in cui l’onerato non trasferisse spontaneamente il lascito fedecommissario.
Inst. 2. 23. 7: Sed quia stipulationes ex senatus consulto Pegasiano descendentes et ipsi antiquitati displicuerunt et quibusdam casibus captiosas eas homo excelsi ingenii Papinianus appellat et nobis in legibus magis simplicitas quam difficultas placet, ideo omnibus nobis suggestis tam similitudinibus quam differentiis utriusque senatus consulti, placuit exploso senatus consulto Pegasiano, quod postea supervenit, omnem auctoritatem Trebelliano senatus consulto praestare, ut ex eo fideicommissariae hereditates restituantur, sive habeat heres ex voluntate testatoris quartam sive plus sive minus sive penitus nihil, ut tunc, quando vel nihil vel minus quarta apud eum remaneat, liceat ei vel quartam vel quod deest, ex nostra auctoritate retinere vel repetere solutum, quasi ex Trebelliano senatus consulto pro rata portione actionibus tam in heredem quam in fideicommissarium competentibus, si vero totam hereditatem sponte restituerit, omnes hereditariae actiones fideicommissario et adversus eum competunt; sed etiam id quod praecipuum Pegasiani senatus consulti fuerat, ut, quando recusabat heres scriptus sibi datam hereditatem adire, necessitas ei imponeretur totam hereditatem volenti fideicommissario restituere, et omnes ad eum et contra eum transirent actiones, et hoc transposuimus ad senatus consultum Trebellianum, ut ex hoc solo et necessitas heredi imponatur, si ipso nolente adire fideicommissarius desiderat restitui sibi hereditatem, nullo nec damno nec commodo apud heredem manente. 8. Nihil autem interest, utrum aliquis ex asse heres institutus aut totam hereditatem aut pro parte restituere regatur, an ex parte heres institutus aut totam partem aut partis partem restituere rogatur: nam et hoc casu eadem observari praecepimus, quae in totius hereditatis restitutione diximus. TRADUZIONE (DEFALCO I.): Ma dato che le stipulazioni derivanti dal senato consulto Pegasiano dispiacquero agli antichi stessi, ed in alcuni casi un uomo d’eccelso ingegno quale Papiniano le dice capziose, e a noi in fatto di norme piace più la semplicità della complicazione, ecco che, essendo state a noi sottoposte le somiglianze e differenze tutte dell’uno e dell’altro senatoconsulto, abbiamo ritenuto opportuno, respingendo il senatoconsulto Pegasiano che sopravvenne, dar tutta l’autorità al senatoconsulto Trebelliano, così che le eredità fedecommissarie si restituiscano in base ad esso sia che per volontà del testatore l’erede abbia la quarta o di più, o di meno, o niente del tutto, permodochè, quando non gli rimanga niente o meno della quarta, gli sia lecito d’autorità nostra trattenere la quarta o quello che manca o ripeterlo se pagato, spettando le azioni pro quota tanto contro l’erede quanto contro il fedecommissario come per il senatoconsulto Trebelliano. Se viceversa abbia volontariamente restituito l’intera eredità, tutte le azioni ereditarie spettano al fedecommissario e contro di lui. Ma anche quello che era stato proprio del senatoconsulto Pegasiano, per cui, quando l’erede scritto rifiutava di adire l’eredità a lui data, gli si faceva obbligo di restituire tutta l’eredità al fedecommissario che lo chiedesse, al quale e contro il quale passavano tutte le azioni: anch’esso lo riportiamo al senatoconsulto Trebelliano, talché in base a questo soltanto sorga l’obbligo per l’erede, se, non volendo lui adire, il fedecommissario desidera che gli si restituisca l’eredità, nessun danno o vantaggio rimanendo all’erede. 8. Non fa alcuna differenza se un istituito erede nell’intero asse è pregato di restituire tutta l’eredità o parte, oppure un istituito erede in una parte è pregato di restituire tutta quella parte o parte della parte: anche in questo caso, infatti, prescriviamo che si osservino le stesse regole che enunciammo a proposito della restituzione dell’intera eredità.
Infine, bisogna precisare che se la fusione tra legati e fedecommessi può considerarsi col diritto giustinianeo un fatto compiuto, lo stesso non può dirsi per istituzione di erede e fedecommesso universale, soprattutto perché “i fedecommessi rappresentarono un grado di tolleranza avanzatissimo nelle disposizioni di ultima volontà”[141].
[1] Nel diritto giustinianeo, il fedecommesso poteva essere disposto oralmente e addirittura nutu, con un semplice cenno del capo. Naturalmente, com’era libera la forma della disposizione del fedecommesso lo era anche la revoca che poteva essere espressa o tacita. LOVATO A., PULIATTI S., SOLIDORO MARUOTTI L., Diritto privato romano (2017) p. 735.
[2] ARANGIO-RUIZ V., Istituzioni di diritto romano (1984) p. 576. Per quanto riguarda i codicilli, sempre plurale in latino, sono un istituto ben diverso dal testamentum, di natura consuetudinaria e molto diffuso in età classica. Si tratta di atti scritti, privi di particolari requisiti formali, che potevano contenere qualsiasi disposizione mortis causa, tranne la designazione dell’erede. Tra i codicilli distinguiamo quelli testamentari, se destinati ad essere efficaci in una successio ex testamento (all’interno dei quali vi erano, poi, quelli confirmati e non confirmati a seconda se ad essi si fosse fatto riferimento o meno nel testamento); e quelli ab intestato, se destinati ad operare in una successio ab intestato. GUARINO A., Diritto privato romano (2001) pp. 440-442. Quindi, non tutte le disposizioni mortis causa venivano impartite col testamento, ma anche a mezzo dei codicilli, talvolta fatti anche verbalmente. Non erano formulate nel testamento in quanto non sempre era possibile o comunque semplice fare o aggiornare un testamento; quando ci si trovava in viaggio, ad esempio, anche chi sapeva redigere un testamento, poteva incontrare difficoltà poiché la forma testamentaria era quella del testamentum per aes et libram. GIUFFRÈ V., Il diritto dei privati nell'esperienza romana. I principali gangli (2006) p. 265. Infine, sull’etimologia di queste tavolette cerate destinate ad appunti e note, la romanistica si è a lungo interrogata partendo da Isid. orig. 5. 24. 14. L’interpretazione tradizionale del Biondi suggerisce che la parola deriverebbe da un tale Codicellus che per primo hoc scripturae genus instituit. BIONDI B., Successione testamentaria e donazioni (1955) p. 615. Il Guarino, dal canto suo, pur ricordando la tendenza del vescovo di Siviglia nella ricerca di ‘etimologie a buon prezzo’, ritiene che nel passo in questione non sia fatta l’etimologia di codicillum perché il significato del termine è di per sé evidente; piuttosto, accenna in maniera confusa alla storia dei codicilli così come tratteggiata in Inst. 2. 25. GUARINO A., Pagine di diritto romano (1994) pp. 135-136.
[3] L’Arangio-Ruiz, in riferimento al soggetto destinatario della preghiera, parla sempre in termini di ‘onorato’, mai di ‘onerato’, compiendo così una duplice operazione: da una parte, distinguere nettamente la rogatio fedecommissaria dall’onere; dall’altra, sottolineando il ruolo chiave che la fides gioca nel tipo di rapporto, ‘onorando’ il fiduciario con tale volontà oppure, rimarcandone l’attitudine all’onorabilità dello stesso. ARANGIO-RUIZ V., Istituzioni cit. p. 573.
[4] L’istituto già nel nomen iuris rimanda ad un tempo in cui la sua esecuzione era rimessa alla fides dell’onorato, contro il quale non era data al beneficiario un’azione giuridica. GIUFFRÈ V., Il diritto dei privati cit. p. 265. In particolare, il Giuffrè pone l’accento sulla libertà, in termini di arbitrio, lasciata al fiduciario: infatti, se il de cuius avesse voluto lasciare uno o più cespiti in termini di comando, avrebbe fatto uso del legato.
[5] Nonostante in dottrina si sia sostenuta la possibile derivazione del fedecommesso dalla fiducia, Probo, grammatico del I d. C., li distingue nettamente in Prob. 5. 14: fraudare creditores vel fiduciae causa vel fideicommissum (frodare i creditori o il fiduciario o il fedecommesso).BERTOLDI F., L’heres fiduciarius in una prospettiva storico-comparatistica (2015) p. 167.
[6] Pertanto, si è supposto che il legatum partitionis fosse stato introdotto per aggirare la lex Voconia. Tuttavia, tale legato, che già in età classica aveva scarsa utilizzazione data la possibilità di avvalersi, con risultati equivalenti, del fedecommesso universale, conobbe ancor meno fortuna nella legislazione giustinianea, restando assorbito proprio nella sostituzione fedecommissaria. LOVATO A., PULIATTI S., SOLIDORO MARUOTTI L., Diritto cit. p. 723.
[7] Per le cose corporali, l’erede gliene effettuava una finta vendita (nummo uno); invece, per i debiti e i crediti, erano concluse apposite stipulazioni (stipulationes emptae et venditae hereditatis): l’erede si faceva promettere dal fedecommissario di essere indennizzato per tutto ciò che avrebbe pagato in relazione all’eredità, mentre il fedecommesso si faceva promettere dall’erede la restituzione di tutti i crediti riscossi. ARANGIO-RUIZ, Istituzioni cit. p. 575.
[8] L’effettività dell’obbligo del fiduciario nel fedecommesso di libertà dipendeva, come qualsiasi altro obbligo, dalla circostanza che qualcuno potesse proporre l’azione a riguardo: a questo fine, si riconobbe allo schiavo, in via eccezionale, la capacità di agire in proprio nel relativo processo. TALAMANCA M., Istituzioni di diritto romano (1990) p. 755.
[9] Infatti, il pretore utilizzava gli abituali mezzi di coazione diretta, multae e pignoris capiones, ma laddove tali mezzi non potevano esercitarsi efficacemente, l’acquisto della libertà fu collegato direttamente alla pronuncia del pretore, introducendo in questo modo un’azione costitutiva. TALAMANCA M., Istituzioni cit. p. 756.
[10] In ordine cronologico si susseguirono i senatoconsulta Rubrianum, Dasumianum e Iuncianum.
[11] TALAMANCA M., Istituzioni cit. p. 756.
[12] Il contenuto essenziale del testamentum civilistico fu la heredis institutio, vale a dire la chiara ed inequivoca designazione del chiamato, o dei due o più chiamati dal testatore alla successione (ad esempio, L. Titius heres esto). Ad essa doveva accompagnarsi, ex ius civile, l’espressa exheredatio degli heredes sui che il testatore voleva escludere dalla successione. Tanto l’institutio quanto l’exheredatio reclamavano l’uso di verba sollemnia, di locuzioni solenni tradizionali: solo in periodo postclassico, con Costantino, fu ammesso che la volontà di istituire e di diseredare potesse risultare attraverso l’uso di qualunque espressione. GUARINO A., Diritto cit. p. 434.
[13] A mancare era proprio una forma imperativa diretta, directis verbis, cui i giuristi contrapponevano le disposizioni non directis verbis o verbis prectivis o, appunto, fideicommissi verbis. DESANTI L., La sostituzione fedecommissaria. Per un corso di Esegesi delle fonti del diritto romano (1999) p. 8.
[14] GIUFFRÈ V., Il diritto dei privati cit. p. 270.
[15] Così il Riccobono nell’affrontare il problema dell’influsso esercitato dal fedecommesso nel sistema del ius civile, soffermandosi sul valore della voluntas nel diritto testamentario. In particolare, nel diritto bizantino, sarà proprio il valore dell’elemento volitivo nel fedecommesso a consentire la sua sovrapposizione al legato. RICCOBONO S., Legati e fedecommessi, Verba e voluntas (1926) pp. 348-374.
[16] TALAMANCA M., Istituzioni cit. p. 750.
[17] Anche se, la disposizione, con la concessione della una missio in rem, potrebbe acquistare carattere reale, avvicinandosi più al legatum per vindicationem. Tuttavia, la concessione di tale strumento di tutela rimane piuttosto incerta, in quanto se ne ha notizia indirettamente per tramite di provvedimenti giustinianei che ne hanno sancito l’abolizione. Pertanto, a causa della scarsità di fonti pervenute, si può supporre che la missio con effetti reali riguardasse singoli beni, attribuendo un possesso ad usucapionem. IMPALLOMENI G., L’efficacia del fedecommesso pecuniario nei confronti dei terzi. La in rem missio (1967) pp. 1 ss.
[18] Nonostante la categoria dell’obligatio fosse propria del ius civile, i prudentes hanno mostrato di applicarla anche al fedecommesso, istituto di ius extraordinarium, configurando una vera e proprio obligatio ex fideicommisso. GROSSO G., I legati nel diritto romano. Parte generale (1962) p. 392.
[19] Il dies cedens era il giorno della riserva del diritto, mentre il dies veniens era giorno dell’esigibilità del diritto. Il dies cedens fu spostato dalla lex Iulia et Papia al momento dell’apertura del testamento, mentre il diritto giustinianeo ripristinò l’antica regola dell’apertura della successio e quindi della morte del de cuius. GUARINO A., Diritto cit. p. 476.
[20] Alcune clausole potevano determinare lo spostamento del dies cedens, come ad esempio la condizione sospensiva che comportava la coincidenza del dies cedens con il verificarsi della condizione stessa. Per quanto riguarda il fedecommesso sottoposto a termine, sembra che i Romani distinsero tra dies certus e dies incertus: il primo rimandava ad un avvenimento sicuro, una data, non rinviando l’insorgenza del diritto, ma solamente la sua esigibilità; il secondo rimandava ad un evento parzialmente incerto, o nel se o nel quando, mai incerto totalmente. DESANTI L., La sostituzione cit. p. 9.
[21] Solo con Augusto fu stabilito che, in caso di inadempimento particolarmente riprovevole, il sostituito potesse rivolgersi extra ordinem ad uno speciale pretore (praetor fideicommissarius); tale rimedio fu poi esteso da Claudio ad ogni tipo di fedecommesso..
[22] La terminologia si rifa’ alla prima generazione di studi romanistici, secondo cui, in maniera esplicita il fedecommissario è un creditore, non un proprietario. VOCI P., Diritto ereditario romano (1963) pp. 232-233
[23] Seguendo l’insegnamento del Pugliese, la distinzione tra actiones in rem e actiones in personam, presente anche in Gai Inst. 4. 1 (Quot genera actionum sint, verius videtur, duo esse: in rem, et in personam. […]. TRADUZIONE (VIGNALI G.): Quanti generi di azioni vi siano, sembra più vero, essere due: reale, in rem, e personale, in personam. […]), si riferisce unicamente alle actiones civiles, anche se in periodo classico era applicata anche alle azioni onorarie. Tale distinzione ricalca l’antica differenziazione tra legis actio sacramenti in rem e in personam: pertanto, l’actio in rem è l’azione reale, mentre le actiones in personam, o condictiones, sono le azioni personali, volte alla difesa di un diritto relativo. GUARINO A., Diritto cit. pp. 187-189. Con riguardo all’actio ex testamento, si tratta dell’azione personale esperibile dal beneficiario di un legatum per damnationem nei confronti dell’erede, resosi inadempiente all’obbligo di dare, nascente dalla disposizione testamentaria. A ben vedere, tale actio presentava le stesse caratteristiche formali dell’actio certae creditae pecuniae (che spettava, invece, al mutuante) differenziandosi con riferimento all’intentio. GUARINO A., Diritto cit. pp. 957-959.
[24] Anche se, almeno nelle ipotesi in cui si presenta un concorso tra azione civile ed azione extra ordinem, l’idea della petitio fideicommissi appare come residuale, da esperirsi solo nei casi in cui risulti processualmente sconveniente fare valere il rapporto derivante directe dall’obbligazione oggetto del fedecommesso. SPINA A., Ricerche sulla successione testamentaria nei Responsa di Cervidio Scevola (2012) p. 253. Per quanto riguarda, invece, la condanna in ipsam rem, si tratta di una delle caratteristiche-innovazioni delle cognizioni straordinarie, le quali prevedevano che la sentenza di condanna non dovesse essere più espressa necessariamente in una somma di danaro, potendo contenere, ove possibile, l’ordine di effettuare la medesima prestazione oggetto della pretesa attorea. GUARINO A., Diritto cit. p. 256.
[25] Le cautiones preaetoriae erano promesse, in forma di stipulatio (e perciò dette anche stipulationes praetoriae) imposte dal pretore ad un soggetto, su richiesta dell’interessato, sotto l’intimidazione di una denegatio actionis, di una missio in possessionem o di altro provvedimento lui sfavorevole. Il destinatario del provvedimento era dunque tenuto, “in forza della minaccia del pretore”, ad obbligarsi al pagamento di una somma pecuniaria alla controparte in funzione di garanzia rispetto al verificarsi di un fatto. Si trattava essenzialmente di mezzi complementari delle procedure formulari che si distinguono, più propriamente: in primis, repromissiones (promesse semplici), se era richiesta la sola promessa del destinatario del comando pretorio; in secundis, satisdationes (promesse con garanzia di terzi), se il pretore esigeva che la promissio fosse accompagnata da garanzie personali o reali di terze persone. GUARINO A., Diritto cit. p. 239.
[26] È evidente che sia l’una che l’altra cautio assumevano particolare importanza quando l’efficacia del legato o del fedecommesso non fosse immediata, ma differita nel tempo (ad esempio, perché sottoposti a una condizione sospensiva). DESANTI L., La sostituzione cit. p. 12. Tuttavia, anche se probabilmente siano nate con questa ratio, tali cautiones si estesero a legati e fedecommessi aliunde, considerando che il semplice decorso del tempo poteva determinare un pregiudizio fino al giorno del processo. ARCARIA F., «Missio in possessionem» e «cognitio» fedecommissaria (1986) p. 245. Inoltre, bisogna compiere un distinguo tra le tre missiones in possessionem principali elencate da Ulpiano: in primis, la rei servandae causa tornava a vantaggio dei creditori a scopo di custodia e conservazione dei beni (ad esempio, nel caso di esecuzione patrimoniale); in secundis, la legatorum servandorum causa tutelava i legatari allorché il lascito era sottoposto a condizione sospensiva o a termine e mirava ad evitare che i beni ereditari venissero dispersi prima dell’avverarsi della condizione o dello spirare del termine. In seguito, in regime straordinario di cognizione, tale rimedio fu esteso anche agli onorati di fedecommesso (appunto, la fideicommissorum servandorum causa); infine, la ventris nomine salvaguardava le aspettative successorie del nascituro sui beni del padre quando alla sua morte la uxor si trovasse incinta. LAMBERTINI R., Testi e percorsi di diritto romano e tradizione romanistica (2010) pp. 122-123.
[27] In questo senso, BERGER A., Encyclopedic dictionary of Roman law. Vol. 43 (1953) p. 584. Tuttavia, in seguito si è sostenuto che non è chiaro se questa missio in possessionem sia stata applicata prima ai legati e poi estesa ai fedecommessi o ancora, sia per gli uni che per gli altri. Ad ogni modo, divenne comune ad entrambi gli istituti. ARCARIA F., Missio in possessionem cit. p. 257.
[28] Probabilmente, al legatario o al fedecommissario era consentito anche percepire i frutti dei beni in questione, al fine di soddisfare la propria pretesa. DE ROBERTIS F. M., Di una pretesa innovazione di Caracalla (1938), p. 99.
[29] Questo metodo ha imposto che, nel corso del tempo, si procedeva alla trattazione delle varie disposizioni mortis causa in parallelo, distinguendo tra ‘dirette’ e ‘fedecommissarie’. DESANTI L., La sostituzione cit. p. 25.
[30] La manumissio testamento è una manomissione mortis causa, una delle tre forme principali e originarie disciplinate dal sistema del ius civile. La forma con cui si realizzava era imperativa, in quanto il testatore la disponeva in modo diretto, con disposizioni come: ‘Stichus liber esto’. Considerato che lo schiavo liberato restava legato da vincoli di soggezione verso il patronus che lo ha manomesso, ne consegue che tale forma di manomissione era la più vantaggiosa per lo schiavo che diviene liberto senza patrono (orcinus), in quanto il suo patrono ormai è defunto (in orco). SANFILIPPO C., Istituzioni cit. p. 89.
[31] Il principio del frammento è stato ritenuto frutto di interpolazione giustinianea, ciononostante è plausibile che fosse un orientamento già emerso nel periodo classico. A riguardo, pur conservando i due istituti la propria autonomia concettuale, si è osservato che questa evoluzione è frutto del susseguirsi di una serie di senatoconsulti (Rubriano, Dasumiano, Articuleiano, Vitrasiano, Iunciano), all’esito della quale non risultò più necessaria la collaborazione del fiduciario, acquistando la disposizione fedecommissaria di libertà un’efficacia sostanzialmente diretta. IMPALLOMENI G., Prospettive in tema di fedecommesso (1967) pp. 298 ss.
[32] Tradizionalmente, e in particolare grazie alle testimonianze di Gaio e Cicerone, si individua la ragione sociale del fedecommesso nella necessità di trasferire beni ereditari a coloro che non potevano beneficiarne in quanto difettosi di testamentifactio passiva.
[33] Gaio intende che il fedecommissario non agiva dinanzi al tribunale ordinario del praetor urbanus, bensì, tolta l’iniziale ‘esclusiva’ dei consoli, dinanzi ad uno speciale praetor fideicommissarius. Il fedecommissario, anche quando la cognizione della sua pretesa sarà affidata (anche) al detto praetor, non agiva con le formulae, ma evidentemente in modo al di fuori dell’ordo iudiciorum privatorum. GIUFFRÈ V., Il diritto dei privati cit. p. 266.
[34] All’esito di un processo cominciato nel I d. C. e culminato nella seconda metà del II d. C., il bilinguismo a Roma, ovvero l’uso della lingua greca di fianco alla lingua ufficiale dell’impero, il latino, si rese necessario affinché i provinciali potessero comprendere le norme e le procedure romane a cui erano ormai soggetti. Già dal I d. C. si faceva uso del greco nella burocrazia romana, tanto che nella provincia greca si consentì di poter accedere alle posizioni di potere senza conoscere il latino. Inoltre, con Adriano lo scrinium ab epistulis della cancelleria imperiale fu diviso in due sezioni: ab episulis latinis e ab epistulis graecis. In questo senso, la lingua greca può essere considerata uno ‘strumento di integrazione in una società multiculturale e globalizzata quale era diventata quella romana a partire dal II d. C.’. SCARCELLA A. S., Il bilinguismo nei fedecommessi (2012) pp. 621-622.
[35] Il bilinguismo normativo fu più facile da accettare per la mentalità nazionalistica ed imperiale romana perché vi era necessità di un’interpretazione comune delle norme, tanto che, come osserva il Dell’Oro, gli uffici imperiali preferivano rispondere direttamente in lingua greca ‘nel timore diffuso che l’eventuale traduzione locale del latino portasse valutazioni erronee’. Invece, non fu così semplice da accettare l’uso di lingue diverse dal latino nell’esplicarsi dell’agere negoziale, almeno per quanto riguarda i negozi del ius civile. DELL'ORO A., Le costituzioni in greco nei frammenti dei Digesta (1972) p. 754.
[36] L’attitudine del fedecommesso al perseguimento di risultati che altrimenti sarebbero irrealizzabili, cioè a mezzo delle disposizioni mortis causa del ius civile (vuoi per il loro formalismo, vuoi per la rigidità della loro causa) è stata efficacemente indicata come ‘particolare duttilità’ del fedecommesso. DESANTI L., La sostituzione cit. p. 16.
[37] Considerato che la piena capacità di agire apparteneva ai cittadini sui iuris di sesso maschile, di fatto che avessero compiuto i venticinque anni di età, per determinate categorie di soggetti sui iuris ritenuti incapaci di agire, era prevista una particolare forma di assistenza, svolta da un tutor e perciò denominata tutela. Tale istituto tendeva, innanzitutto a salvaguardare gli interessi del gruppo familiare, attribuendo nella pratica al tutor una vis ac potestas sul sottoposto a tutela: infatti, il Pastori parla di tale relazione in termini di ‘rapporto assoluto parafamiliare’. In età classica si distinsero due figure di tutela: la tutela impuberum e la tutela mulierum. Affinché la nomina del tutore fosse valida, occorreva che questi fosse scelto tra gli ascendenti dell’incapace e che, quest’ultimo si trovasse a sua volta sotto la sua potestà: pertanto, la designazione di persone come la madre, o le donne in genere, risultava impossibile (anche altre categorie di soggetti erano incapaci a rivestire l’ufficio di tutore: gli schiavi, i peregrini e i latini Iuniani). Tuttavia, va osservato che la madre, a partire da una costituzione imperiale del 390 d. C., è legittimata ad assumere la tutela dei figli a seguito della morte del pater, promettendo di non impegnarsi in seconde nozze. PASTORI F., Gli istituti romanistici come storia e vita del diritto (1992) pp. 248-250.
[38] La successione mortis causa, anche se regolata da norme di ius honorarium o extraordinarium, poteva avvenire soltanto fra cives Romani: la falla apertasi nel I d. C. con la possibilità di beneficiare per fedecommesso i peregrini era stata ormai da tempo chiusa dal senatusconsultum promosso da Adriano. TALAMANCA M., Bullettino dell’Istituto di diritto romano “Vittorio Scialoja”. Terza serie (2001) p. 559.
[39] Nell’analisi di Pothier, in Italia tradotta e commentata dal Lanzellotti e pubblicata a Napoli nella prima metà dell’800, si specifica che tanto il legato quanto il fedecommesso non può essere fatto in favore di coloro che, o per essi stessi, o per mezzo altrui, non sono soggetti di ius civile. Pertanto, oltre al prigioniero, non possono farsene ad una persona incerta, disponendo: ‘Voglio che si diano mille pezzi di oro a chi mariterà sua figlia a mio figlio’; di conseguenza, niente si poteva lasciare ai postumi, se non a quelli che nascendo fossero stati sotto la potestà del testatore. Nel diritto giustinianeo il divieto è abrogato perché l’imperatore volle consentire il legato anche a persone incerte e ai postumi estranei. MOREAY DE MONTALIN J. L., Analisi delle Pandette di Pothier, ossia il dizionario ragionato delle dottrine contenute nel corpo del diritto romano. Tradotto in italiano e copiosamente accresciuto negli articoli principali da Angelo Lanzellotti (1829) p. 484.
[40] Si è dedicato un commento particolare a questo tipo di legato nella comparazione del Codice albertino con il diritto romano. In particolare, nella sezione intitolata ‘Delle successioni testamentarie’, si afferma che l’inutilità del legato a titolo di pena derivava dalla causa: non di liberalità, quanto di punizione. Tuttavia, nonostante l’istituto sia proprio di un’epoca in cui l’autotutela aveva de facto ceduto il passo alla tutela giurisdizionale, il diritto giustinianeo lo dichiara valido a patto che la condizione che doveva adempiersi dall’erede fosse possibile ed onesta. Aa. Vv., Manuale forense ossia confronto fra il Codice albertino, il diritto romano e la legislazione anteriore con rapporto ed illustrazioni dei corrispondenti articoli del Codice civile francese ed austriaco (1842) p. 415.
[41] Si tratta di una tendenza inversa rispetto a quella affermatasi nel corso del principato, dove è stata soprattutto la disciplina dei fedecommessi ad avvicinarsi a quella dei legati, della istituzione di erede o della manomissione testamentaria. DESANTI L., La sostituzione cit. p. 28.
[42] Teodosio II estese questa disposizione a tutte le specie di codicilli e in seguito prescrisse per i testamenti, e quindi anche per i codicilli, il numero di sette testimoni; quest'ultima norma fu, per quanto riguarda i codicilli, abolita da Giustiniano, il quale aggiunse che i codicilli mancanti delle formalità prescritte dessero facoltà all'onorato di deferire giuramento all'istituito gravato di fedecommesso. BONFANTE P., Istituzioni di diritto romano (1987) pp. 614 ss. In questo modo, il significato proprio del codicillo si snatura, fino ad assumere l’accezione contemporanea. Nell’attuale ordinamento giuridico italiano, come già accadeva nel Codice Pisanelli, non è possibile operare alcuna distinzione tra testamento e codicillo, ‘dovendosi considerare ogni disposizione di ultima volontà sempre come testamento’ (Cass., 20/10/1981, n. 5480) e non ammettendosi una forma meno solenne di disposizione di ultima volontà, come nell’esperienza giuridica romana erano i codicilli.
[43] DESANTI L., La sostituzione cit. p. 32.
[44] Il commonwealth bizantino è caratterizzato dall’assolutismo di Giustiniano che si è tradotto anche ed essenzialmente nella riepilogazione ufficiale d’imperio dei iura populi Romani: ecco perché con riferimento alla compilazione giustinianea si può parlare, non anacronisticamente, di legislazione statale o positiva in senso moderno. Infatti, si tratta di un’esperienza giuridica di ‘dispotismo orientale’, in cui le opinioni personali della libera iuris scientia dei veteres dell’età repubblicana vengono costantemente epurate nel quadro unitario voluto dall’imperatore. In altre parole, l’intero mondo giuridico venne ricondotto all’imperatore che impersonava lo stato ed era considerato ‘viva vox iuris’. GIUFFRÈ V., Le obbligazioni tra volontaria assunzione e imposizione ex lege (2018) pp. 7; 66.
[45] Inst. 2.20-2.22. in materia di legati, Inst. 2. 23-2. 25 in materia di fedecommessi. Infatti, anche se è dichiarato, all’interno delle Istituzioni stesse, che soltanto per ragione di sistema esse continuavano a trattare distintamente dei legati e dei fedecommessi, per consentire ai giovani studenti di comprendere meglio la loro equiparazione, si continua a presupporre che legati e fedecommessi, assoggettati ad un regime unico, conservassero ancora una natura differente e specifica. GROSSO G., I legati cit. p. 234.
[46] Inoltre, durante gli anni del basso impero, la distinzione tra hereditas propriamente detta ed eredità fedecommissaria si era andato sempre più affievolendo: tendenza rafforzata proprio da Giustiniano nel ridefinire la disciplina del fedecommesso universale.DESANTI L., La sostituzione cit. p. 33.
[47] Infatti, le Istituzioni, rispetto alle singole fattispecie, si pongono come fine quello di semplificare il tessuto normativo, svecchiare gli istituti, chiarire e risolvere le questioni controverse. Questa tendenza rinnovatrice del diritto vigente è evidente nella disciplina della manomissione, dove i compilatori giustinianei, nell’ottica del favor libertatis, sanciscono il superamento dei divieti posti dal diritto classico in considerazione dell’età del testatore. MELLUSO M., La schiavitù nell'età giustinianea. Disciplina giuridica e rilevanza sociale (2000) pp. 78-86.
[48] La ratio di questo intervento mediano dei compilatori viene individuata nella circostanza che ormai alla fine del 533 si è conclusa una certa stagione della cancelleria giustinianea. ‘Probabilmente si è esaurita la spinta che aveva portato al riesame delle fonti classiche in una continua dialettica col tessuto normativo vigente’. BONINI R., Corso di diritto romano. Il diritto delle persone nelle Istituzioni di Giustiniano (1984) p. 42.
[49] Il De Francisci sottolinea anche altre differenze col testo della Parafrasi, come l’uso del presente nel parlare del diritto previgente o come il fatto che senza logica faccia precedere il legato al testamento con la nomina di eredi. Sulla base di questi rilievi, è possibile comprendere il commento del De Francisci al testo di Teofilo: ‘ha veramente l’aspetto di un discorso vivace, ma poco corretto, di un maestro al quale premeva soprattutto far sentire agli uditori l’importanza delle riforme attuate dal suo imperatore’, sottolineandone la mancanza di un metro oggettivo di insegnamento ed esposizione. DE FRANCISCI P., Saggi di critica alla Parafrasi greca delle Istituzioni di Giustiniano (1965) pp. 65 ss.
[50] DESANTI L., La sostituzione cit. p. 36.
[51] La Desanti compie la sua opzione teorica già nel titolo della monografia dedicata a questo tipo di fedecommessi: DESANTI L., Restitutionis post mortem onus. I fedecommessi da restituirsi dopo la morte dell'onerato (2003). Sostanzialmente, si allinea agli studi della romanistica francese novecentesca dove si legge del “fidèicommis restituable post mortem heredis” (fedecommesso restituibile dopo la morte dell’erede). DECLAREUIL J., Quelques notes sur certains types de fidéicommis (1907) p. 144.
[52] Tale orientamento, recepito anche negli artt. 692 ss. del c. c., è documentato già al tempo dei Glossatori: Irnerio, ad esempio, distingueva tra substitutio directa e non directa, o fideicommissaria, in riferimento alla sostituzione ereditaria propriamente detta e quella che si origina per fedecommesso. PADOVANI A., Studi storici sulla dottrina delle sostituzioni (1983) p. 531.
[53] Si tratta di una soluzione trovata all’impiego della condizione potestativa negativa nella clausola sospensiva, tipica delle disposizioni di liberalità, per evitare che nelle more del verificarsi di un evento non dipendente dalla volontà del beneficiario, né questi né i suoi eredi avrebbero potuto godere in vita del lascito. Quinto Mucio Scevola, da cui il nome dell’istituto, agli inizi del I a. C. prevedette che il lascito fosse immediatamente efficace purché il beneficiario promettesse solennemente, cioè con stipulatio, di restituire quanto ricevuto se avesse violato l’obbligo negativo impostogli come condizione del beneficio. Tale promessa fu chiamata cautio Muciana e, a distanza di secoli, ne era ancora vivo il ricordo, così come risulta chiaro dalle menzioni che ne vengono fatte nel Digesto, attribuite in particolar modo ad Ulpiano. LOVATO A., PULIATTI S., SOLIDORO MARUOTTI L., Diritto cit.p. 224.
[54] Più propriamente, la clausola cum morietur faceva sorgere diritti ed obblighi in novissimum vitae tempus, ossia in vita di colui che decedeva e direttamente in capo a lui; mentre l’obbligazione fedecommissaria post mortem sorgeva in capo al suo successore. DESANTI L., La sostituzione cit. p. 40.
[55] Il termine può tradursi con ‘inelegante, poco gradevole’, ma anche con ‘incoerente’. Se si preferisce il secondo significato, recuperando il concetto della coerenza alla luce del diritto esistente, la terminologia utilizzata da Gaio rimanda al concetto di absonans che si osserva proprio in merito alla vicenda originaria del fedecommesso, quando Augusto chiese alla commissione di giuristi, presieduta da Trebazio Testa, se il codicillo/fedecommesso potesse essere recepito nel sistema successorio romano, o meglio ‘se fosse dissonante rispetto al complessivo sistema giuridico’. GIUFFRÈ V., Le obbligazioni cit. pp. 28-34.
[56] Parimenti erano da considerarsi inutiles le sponsiones o le stipulationes istitutive di un credito in favore di una terza persona indicata dallo stipulator perché violavano indirettamente il presupposto che il negozio fosse inteso a regolare i rapporti tra le due parti e quelle soltanto. SCHIAVONE A., Storia del diritto romano (2000) p. 191.
[57] BRUNETTI G., Il dies incertus nelle disposizioni testamentarie. Contributo alla dottrina del dies e della conditio (1893) pp. 4 ss. Tale orientamento, ripreso dal Grosso, è diventato quello maggioritario, in quanto anche oggi la dottrina ritiene che un dies apposto alle disposizioni di ultima volontà si comporta a mo’ di condizione sospensiva piuttosto che produrre effetti tipici del termine. GROSSO G., I legati cit. pp. 428-438.
[58] È rimasto un orientamento minoritario perché considera che ai Romani non era nota la differenza in termini di efficacia tra un termine certo e un termine incerto nel quando, ma certo nel suo verificarsi. FERRINI C., Sul “dies incertus” nei legati (1930) pp. 333 ss.
[59] Si è obiettato che il de cuius, per scongiurare la successione legittima dell’impubere, poteva nominare un sostituto pupillare. Tuttavia, la Desanti ha evidenziato che tale sostituzione poteva essere disposta soltanto a condizioni ben precise: ad esempio, unicamente dal padre e non anche dalla madre; unicamente al figlio impubere in potestà e mai nei confronti dell’emancipato, figurarsi verso un estraneo. DESANTI L., La sostituzione cit. p. 50.
[60] In Papiniano è chiaro che il fedecommesso posto a carico del figlio si impubes diem suum obierit risultava cogente per il suo successore legittimo: la qual cosa, pone dei problemi di legittimità intorno a una simile disposizione; tale disposizione, infatti, risultava gravare su un impubere, cioè un soggetto incapace che probabilmente, non si riteneva opportuno vincolare neanche sul piano della fides. DESANTI L., La sostituzione cit. p. 52.
[61] Disposizioni analoghe si rinvengono anche in alcuni testamenti tramandati dai papiri. Nel testamento librale di Caio Giulio Diogene, ad esempio, si legge: ‘E se il soprascritto Giulio Diogene subisse qualcosa di mortale, non avendo generato figli, voglio che la sua parte vada a […]’. MIGLIARDI ZINGALE L., I testamenti romani nei papiri e nelle tavolette d'Egitto: silloge di documenti dal I al IV secolo d. C. (1988) pp. 30-39.
[62] Vale a dire prima del graduale imbrigliamento della scientia iuris che porterà all’imprimatur sulle sue costruzioni ed al primato della lex dell’imperator quale viva vox iuris (al tempo del Corpus iuris, ormai, è improponibile l’idea di una autonomia lasciata ai privati).
[63] La chiave di lettura per l’equiparazione che il giurista severiano compie tra liberi e sui heredes è la soggezione, di entrambe le categorie, alla potestas diretta del pater/de cuius. ZANETTI F., Osservazioni in margine a D. 50. 16. 220 (2008) pp. 2-3.
[64] Il tema sulla ricerca della voluntas decuncti è ricorrente in Ulpiano, o meglio, nella scientia iuris del IV d. C. Infatti, già in riferimento al profilo formale del fedecommesso, si è visto che nell’Epitome Ulpiani si poteva disporre per fedecommesso con qualsiasi espressione purché estrinsecasse la concreta volontà del testatore in tale direzione.
[65] La deportatio (o relegatio) in insulam era una delle pene previste dal diritto penale romano nell’ambito della cognitio extra ordinem. Si trattava del soggiorno coatto, temporaneo o perpetuo, in una località isolata che comportava, oltre alla perdita della cittadinanza romana, anche la confisca totale o parziale dei beni. La deportazione finì per sostituirsi all’antica interdictio aqua et igni, secondo un processo di assorbimento iniziato al tempo dei Severi e compiutosi poi nel diritto postclassico. BRASIELLO U., La repressione penale in diritto romano (1937) pp. 297 ss.
[66] Molto probabilmente queste parole sono state introdotte in un momento successivo per sintetizzare un discorso più articolato (in questa direzione, anche l’Albertario). Tuttavia, è plausibile che la sostanza sia da riferire comunque a Papiniano, la cui decisione altrimenti non avrebbe una giustificazione. TORRENT A., Fideicommissum familiae relictum (1975) p. 112.
[67] MAZZA T., Lezioni di dritto dettate alla scuola di applicazione di ponti e strade (1845) p. 88. Il Voci si occupa del principio plus nuncupatum minus scriptum in riferimento all’istituzione di erede. Quando nel periodo classico si diffuse la trasfusione delle dichiarazioni testamentari orali in un riferimento scritto, se le parole necessarie per la nomina di un erede non si rinvenivano nel documento, si presumeva che il testatore le avesse effettivamente pronunciate e che queste non fossero state trascritte. In questo senso, il principio si configura come una fictio iuris. VOCI P., Diritto cit. p. 905.
[68] La ratio del provvedimento risiederebbe non tanto nell’ossequio della volontà del testatore non espressa adeguatamente con i verba, quanto nella necessità di impedire che il de cuius potesse preferire degli estranei ai membri della propria famiglia. DESANTI L., La sostituzione cit. p. 59.
[69] La dottrina iberica afferma che il diritto romano ha conosciuto senz’altro la figura che aveva ad oggetto il residuum dell’eredità: tuttavia, conclude che la denominazione ‘de residuo’ è senz’altro da inquadrare nel diritto intermedio (più precisamente nell’ambito del ‘mos italicus’, cioè quel metodo di studio e di insegnamento della compilazione giustinianea nato in Italia contrapposto al ‘mos gallicus’), considerato che non si rinviene mai l’espressione nei testi giuridici classici e postclassici. CUENA BOY F., El fideicomiso de residuo en el derecho romano y en la tradición romanística hasta los códigos civiles (2004) pp. 60-63. Anche il Talamanca si allinea a questa conclusione della letteratura spagnola che prende atto di come i giuristi romani non avessero raggiunto una rigorosa configurazione concettuale di quest’istituto in epoca classica. Infatti, né nel periodo classico né in quello postclassico si è prestata attenzione sulla fisionomia dell’istituto, piuttosto i giureconsulti in materia riguardano tutti i limiti del quanto consumare e quanto restituire. TALAMANCA M., Bullettino cit. p. 645.
[70] Il fedecommesso de residuo è una disposizione avente ad oggetto i singoli beni residui e destinata ad avere un’efficacia ‘eventuale’, se effettivamente qualcosa dovesse rimanere o se l’erede non avrà alienato tutti i beni. Non si può assimilare alla figura della sostituzione fedecommissaria in quanto non si ravvisa né l’obbligo di conservazione né di restituzione tipici di tale ambito. TALAMANCA M., Successioni testamentarie. Della revocazione delle disposizioni testamentarie delle sostituzioni degli esecutori testamentari (1980) p. 330. Nell’attuale ordinamento, ne discende l’invalidità ex art. 692 comma 4 c. c. che proibisce di disporre divieti di alienazione a carico dell’erede (o del legatario), sia inter vivos che mortis causa. Talamanca M., Successioni testamentarie cit. p. 413.
[71] Un’altra considerazione a confortare tale soluzione riguarda la struttura del Digesto: infatti, i compilatori giustinianei hanno collocato i frammenti in tema di fedecommesso de residuo nel titolo dedicato alla disciplina del fedecommesso universale (il trentaseiesimo). DESANTIL., La sostituzione cit. pp. 68-69.
[72] Secondo cui la disposizione potesse avere ad oggetto non quanto fosse rimasto del patrimonio ereditario, bensì il residuo di singoli beni. MURILLO VILLAR A., El fideicomiso de residuo en derecho romano (1989) pp. 83 ss. A riguardo, stavolta in senso negativo, già il Talamanca: TALAMANCA M., Bullettino cit. p. 647.
[73] In questo senso, anche il superfluum bonorum si traduce come il residuo di un’eredità: inoltre, se si considera che nelle fonti il fedecommesso de residuo risulta puntualmente a carico del solo erede e mai di un legatario, risulta ancora più facile affermare che si dovesse riferire al residuo di una eredità. COPPOLA G., Osservazioni sul regime dei frutti nel fedecommesso de residuo (1982) pp. 191 ss.
[74] DESANTI L., La sostituzione cit. p. 68.
[75] In un momento storico non ben definito, che il Lombardi colloca tra il IV ed il III a. C., dal concetto di fides si sviluppa quello di bona fides. In nuce, si tratta di una sua specializzazione applicata essenzialmente al contesto di ius civile e, più propriamente, ai iudicia bonae fidei. LOMABARDI L., Dalla «fides» alla «bona fides» (1961) pp. 165 ss.
[76] Proprio perché l’erede non era libero di consumare i beni a suo piacimento, ma doveva sottostare ai parametri di buona fede, poteva essere costretto a prestare una cautio fideicommissorum servandorum causa, con lo scopo di ‘procurare dei garanti, dei fideiussori, rispetto alla quantità di beni che si sarebbe potuta esigere in virtù della disposizione. DESANTI L., La sostituzione cit. p. 74.
[77] DESANTI L., La sostituzione cit. p. 73.
[78] ALBERTARIO E., L'arbitrium boni viri del debitore: nella determinazione della prestazione (1924) p. 24.
[79] Questa estensione non deve attribuirsi esclusivamente all’opera dei compilatori bizantini, in quanto si svolse nel quadro di evoluzione del diritto romano. A conferma di questa coerenza di fondo, la stessa giurisprudenza classica aveva iniziato l’opera di fusione degli ordinamenti giuridici, procedendo ‘con un notevole grado di sistematica e ponderazione’. RICCOBONO S., L’arbitrium boni viri nei fedecommessi (1926) p. 347.
[80] RICCOBONO S., L’arbitrium cit. p. 313.
[81] In altre parole, il primo propendeva per un’interpretazione restrittiva dei verba testatoris, giudicando che il fratello avesse facoltà di detrarre la sola quota legittima e dovesse conservare tutto il resto per poi restituirglielo alla morte (a confermare questa chiave di lettura, un altro provvedimento giustinianeo, la Nov. Iust. 39). Il secondo, invece, intendeva che il fedecommesso fosse sottoposto ad una sorta di condizione sospensiva: il padre lo aveva lasciato del tutto libero di consumare i beni ereditari, pregandolo di restituirli solo nell’eventualità in cui qualcosa fosse rimasto. DESANTI L., Restitutionis cit. pp. 177 ss.
[82] Considerato che a Roma invalse la pratica di distribuire integralmente il patrimonio tra legati e fedecommessi, lasciando così l’erede un nudum nomen (giusto il nome e il carico dei sacra), furono emanate tre leggi de testamentis: la Furia, la Voconia e la Falcidia del 40 a. C. Quest’ultima fece cadere in desuetudine le altre due precedenti, disponendo che all’heres fosse riservato almeno un quarto dell’asse ereditario (quarta Falcidia): di conseguenza, i lasciti eccedenti erano da ridurre in proporzione, da falcidiare, espressione ancora oggi correntemente in uso. GUARINO A., Diritto cit. p. 475. Il senatoconsulto Pegasianum introdurrà, sulla scorta della legge Falcidia, la quarta Pegasiana in materia di fedecommesso.
[83] La tendenza delle corti dei princeps di offrire soluzioni di casi controversi su considerazioni umanitarie si riscontra già a partire dall’età antoniniana e severiana. In un primo momento, si richiamavano i concetti di clementia e caritas da un punto di vista laico, nell’ottica di ammodernamento del vetus ius strictum Romanorum; tale esigenza fece addirittura sì che il concetto di aequitas, termine polisemico che può astrattamente riferirsi alla giustizia, in questa fase storica si fonde proprio con l’humanitas e i valori cristiani di pietas, caritas, benignitas e si manifestava nella concessione di una particolare benevolenza soprattutto per due principali ‘categorie protette’: il senato e l’esercito (luoghi in cui si formava principalmente il consenso sociale). Quindi, l’humanitas, ‘agendo sempre come principio sotterraneo’, è massima nel pensiero cristiano che, al tempo di Giustiniano, era largamente penetrato nella dimensione giuridica. GIUFFRÈ V., Momenti della “iuris scientia”. Per la conoscenza del giurista moderno. Scritti emigrati (2015) pp. 738-740.
[84] A questo proposito, il Murillo Villar ha sostenuto che Giustiniano avesse autorizzato il fiduciario ad esaurire l’intero asse ereditario, senza dover restituire alcunché: in questo modo, si profilerebbero due fedecommessi de residuo, uno ‘de eo quod supererit’ e l’altro ‘si quod supererit’. MURILLO VILLAR A., El fideicomiso cit. pp. 81 ss. Tuttavia, tale opinione non è pacifica neanche nella letteratura spagnola, in quanto il Cuena Boy osserva che anche in età classica era possibile che l’intero patrimonio ereditario fosse consumato dall’erede, naturalmente se i criteri della bona fides e dell’arbitrium boni viri lo rendessero possibile. In questo senso, il fedecommesso de residuo è sempre condizionato ‘si quod supererit’. CUENA BOY F., Notas sobre el fideicomiso de residuo: clases y obligaciòn de conservar del fiduciario (1995) pp. 58 ss.
[85] Come ribadito in altre novellae, se le sostanze dell’erede non erano sufficienti, Giustiniano concesse al fedecommissario contro i compratori sia un’ipoteca legale, sia l’azione reale oltre a quella personale. DESANTI L., La sostituzione cit. p. 77.
[86] TAFARO S., Diritto e persona cit. p. 1. Il saggio di Sebastiano Tafaro si apre proprio con Inst. 1. 2. 12: Ac prius de personis videamus. Nam parum est ius nosse, si personae, quarum causa statutum est, ignorentur. Il passo lascia supporre che i redattori delle Istituzioni giustinianee abbiano riflettuto sul diritto romano e sul suo sviluppo, ponendosi in continuità sia con la tradizione gaiana sia con la ‘hominum causa’ di Ermogeniano, giungendo alla consapevolezza della centralità della persona affermatasi durante il percorso di formazione ed articolazione dell’esperienza giuridica romana.
[87] La configurazione in questi termini del vincolo sembra prospettarne il carattere perpetuo, ma così non doveva essere, almeno in epoca classica, dove si procedeva secondo un ordine preciso: persone indicate come membri della famiglia, persone che appartenevano al nomen familiae, discendenti di primo grado di tali persone. Fino a Giustiniano, non fu consentito estendere oltre la ricerca del beneficiario, potendo ricadere nel divieto di onorare le personae incertae. DESANTI L., La sostituzione cit. p. 86.
[88] I figli maschi subentravano senza particolari formalità nella titolarità dei beni ereditari per una sorta di cogestione dell’azienda familiare, cioè come se già in vita del pater fossero stati condomini del patrimonio familiare. Naturalmente, alla morte del pater familias, al fine di conservare lo stesso potere sociale e politico, i fratelli mantengono unito il patrimonio ereditato, per ripartirlo solo in un secondo momento, quando ciascuno di essi abbia raggiunto autonomamente un patrimonio tale da consentirgli l’iscrizione autonoma nella stessa classe di censo. In questo modo, ‘la struttura timocratica della società romana ha condizionato numerosi istituti, anche in ambito successorio’. LAMBERTI F., La famiglia romana e i suoi volti. Pagine scelte su diritto e persone in Roma antica (2014) pp. 40-41.
[89] Infatti, i parenti di grado ulteriore, sebbene non avessero richiesto la cautio in questione al parente più prossimo, avrebbero potuto esigere ugualmente il fedecommesso esperendo apposita petitio. DESANTI L., La sostituzione cit. p. 85.
[90] Negli ultimi anni, la questione è stata attenzionata sia in maniera diretta, sia in maniera incidentale, nella ricostruzione dell’origine del testamento librale. TERRANOVA F., Sulla natura ‘testamentaria’ della cosiddetta mancipatio familiae (2010) pp. 327-335; ARCES P., Sulla natura fedecommissaria del «gestum per aes et libram» utilizzato per disporre «mortis causa» (2011) pp. 18-22; TERRANOVA F., Ricerche sul testamentum per aes et libram. Ruolo del familiae emptor (2011) pp. 50-61; ARCES P., La matrice genetica comune nell’introduzione del testamento librale e del fedecommesso (2012) pp. 14-16; ARCES P., La rilevanza della componente fiduciaria nelle disposizioni mortis causa nel diritto romano arcaico e classico (2016) pp. 141-145.
[91] Il professore napoletano Filippo Milone, ricordato particolarmente per i suoi corsi di diritto romano e di diritto internazionale presso l’allora Regia Università di Napoli, apre la monografia ‘Il fedecommesso romano nel suo storico svolgimento’ (1896) affermando l’esistenza di una prima figura di fedecommesso nell’età arcaica del diritto romano. Tuttavia, lo stesso autore è consapevole che la sua ipotesi resterà una congettura agli occhi degli autorevoli scrittori del suo tempo, come può dirsi dell’Holder, del Cuq e del Muinrhead, perché non confortata da fonti storiche che adoperino esplicitamente tale linguaggio.
[92] In nessuna delle opere della prima generazione di studiosi del diritto romano si rintraccia un accostamento tra il fedecommesso e la familiae mancipatio, pur avendo ben chiaro che la mancipazione potesse prestarsi al diritto successorio grazie all’elemento determinante della fides. FADDAC., Dell’origine dei legati (1889) p. 194; FERRINI C., Teoria generale dei legati e dei fedecommessi secondo il diritto romano con particolare riguardo alla giurisprudenza (1889) pp. 8 ss.
[93] L’orientamento maggioritario vuole che il passaggio dalla familiae mancipatio al testamento librale si sarebbe verificato con l’introduzione della heredis institutio. Infatti, secondo la Pietrini, ‘l’elemento veramente nuovo del più recente tipo di testamentum librale, praticato ancora in età gaiana, è da ritrovare nell’istituzione di erede’. PIETRINIS., Deducto usu fructu. Una nuova ipotesi sull'origine dell'usufrutto. Una nuova ipotesi sull'origine dell'usufrutto (2008) p. 76.
[94] D’altra parte, il sistema successorio di un agglomerato cittadino in cui la cellula politica principale è la familia non poteva operare diversamente. Per famiglia romana intendiamo il complesso di uomini, animali, subumani e di cose sottoposto alla sovranità, manus o potestas, del paterfamilias. Tale autorità del pater, nella ricostruzione bonfantiana, non sarebbe altro che il residuo di un più definito potere sovrano del capo su un gruppo politico che si estendeva al territorio in cui era stanziato il gruppo familiare e tutti i membri di questo. TALAMANCA M., Lineamenti di storia del diritto romano (1989) p. 7.
[95] Il primo consisteva in un atto formale, compiuto oralmente davanti ai comizi curiati presieduti dal pontefice massimo che, a questo scopo, si riunivano due volte l’anno (24 marzo e 24 maggio), con cui il testatore affidava solennemente le sue ultime volontà alla memoria del popolo che, in assenza di atti scritti, fungeva da testimone. Il secondo, invece, nasceva per andare incontro alle esigenze dei militari e consisteva in una dichiarazione solenne e formale, resa davanti alla testimonianza dell’esercito schierato e ‘sul piede di guerra’, cioè in procinto della battaglia, con cui il soldato affidava le sue ultime disposizioni ai compagni d’arme. PULIATTI S., De cuius hereditate agitur. Il regime romano delle successioni (2016) pp. 84-86.
[96] Una simile esigenza nasce nell’ambito delle strutture gentilizie e rispondeva ‘alle logiche potestative su cui erano impostate la struttura della familia, l’appartenenza dell’ager ed i rapporti di dipendenza’. CURSI M. F., La mancipatio familiae: una forma di testamento? (2016) p. 194.
[97] Proprio in riferimento alla plebe, va osservato che la familiae mancipatio rispondeva in maniera molto più efficace dei testamenta alle esigenze di una categoria sociale la cui economia non era basata, come per i patrizi, sullo sfruttamento delle estensioni di terra, ma su forme di commercio e di produzione artigianale. La diversità nella fonte di reddito tra patrizi e plebei potrebbe essere stata alla base dell’invenzione di uno strumento diverso dal testamento, finalizzato a distribuire i beni del de cuius in modo più fluido, ammettendo sia lasciti a titolo particolare, sia beneficiari diversi da quelli che subentravano nei rapporti passivi del pater defunto e nella conservazione dei sacra miliari. CURSI M. F., La mancipatio cit. p. 195.
[98] Il tema degli impieghi innovativi della mancipatio è strettamente collegato al principio dell’apparentia iuris con cui si possono sintetizzare tutte quelle situazioni in cui, in presenza di circostanze univoche ed obbiettive, una data realtà giuridica, in verità inesistente, appare come esistente, determinando un’asimmetria tra fatto e diritto. Infatti, il Betti, nelle pagine dedicate ai negozi imaginarii, cita le diverse applicazioni della mancipatio di cui la giurisprudenza romana si servì per la formazione di nuovi tipi di negozio giuridico: in particolare, ricorda la familiae mancipatio come nucleo fondamentale del testamentum per aes et libram. BETTI E., Consapevole divergenza della determinazione causale nel negozio giuridico: simulazione e riproduzione dicis causa o fiduciae causa (1934) pp. 310-311. Al contrario, il Pernice ha sostenuto che il fedecommesso arcaico non doveva essere un adattamento fiduciario della mancipazione, quanto piuttosto un rapporto di mandatum. PERNICE A., Marcus Antistius Labeo: das römische Privatrecht im ersten Jahrhundert der Kaiserzeit, Vol. I (1873) p. 413.
[99] Inoltre, l’amicus, pur diventando immediatamente titolare di quanto trasferitogli, non poteva disporne già in vita del mancipante, senza integrare un’ipotesi di furto. PULIATTI S., De cuius cit. pp. 85.
[100] Soltanto a partire dal I d. C. e nell’ambito di quel procedimento di unificazione di tutti gli ordinamenti giuridici che culminerà con Giustiniano, si applica al fedecommesso, istituto di ius extraordinarium, la categoria dell’obligatio, propria invece del ius civile.
[101] MILONE F., Il fedecommesso cit. p. 9.
[102] In origine, si trattava della capacità di essere istituiti eredi, ma con il tempo divenne la capacità di essere contemplati in esso a qualsiasi titolo (ad esempio, legatario). Tale capacità doveva sussistere nei ‘tria momenta del testamento’: innanzitutto, nel momento in cui il testamento era redatto; poi, nel momento della morte del testatore; infine, nel momento dell’acquisizione successoria. Oltre agli schiavi del testatore (ma solo se contestualmente affrancati) e agli schiavi ed i filii di un diverso pater familias, a partire dal diritto classico si ritenne che potessero esser nominati eredi per testamento anche i postumi, cioè i soggetti non ancora venuti in vita. Infine, ancora in epoca postclassica, si riconobbe anche alle persone giuridiche la capacità di ricevere per testamento. SANFILIPPO C., Istituzioni di diritto romano (2002) pp. 367-368.
[103] Si ricordi che bastava un modo qualsiasi per ordinare un fedecommesso (Ulpiano indica indifferentemente l’uso dei verbi ‘volo, peto, fideicommitto, mitto, mando, volo’) e che la forma fu semplicissima, o meglio non ve ne occorreva alcuna.
[104] ARCES P., Studi sul disporre mortis causa. Dall'età decemvirale al diritto classico (2013) p. 203. Il paragone è ripreso dal manuale del Biondi: BIONDI B., Successione testamentaria e donazioni (1955) p. 286.
[105] Per confermare la validità del suo editto di proscrizione, visto che l'editto di un magistrato romano aveva valore soltanto per la durata della sua magistratura, negli ultimi giorni del dicembre dell’82 a. C., Silla fece approvare la lex Cornelia. La legge era corredata da due liste e colpiva tutti i nemici dello Stato, formalizzando le procedure della proscrizione. Nella prima lista comparivano sia i proscritti che i loro figli maschi, mentre nella seconda lista erano nominati tutti coloro che erano morti nel corso dei combattimenti della guerra civile. Inoltre, la lex Cornelia metteva esplicitamente al riparo dall'accusa di omicidio tutti coloro che avessero ucciso un proscritto, stabiliva la proibizione del lutto da parte delle famiglie dei proscritti uccisi, per evitare disordini impedendo cerimonie funebri che avrebbero avuto risonanza politica. Infine, stabiliva per il proscritto la damnatio memoriae, cioè la distruzione dei ritratti e delle statue del personaggio, anche privati, insieme alla cancellazione del suo nome da tutte le iscrizioni in cui compariva. CANFORA L., Studi di storia della storiografia romana (1993) pp. 223-225.
[106] La lex Voconia, approvata dai concilia plebis nel 169 a. C., dopo il celebre discorso ‘persuasivo’ di Marco Porcio Catone, sancisce l’incapacità della donna, non importa se figlia, perfino unica figlia del de cuius, di essere istituita erede nel testamento di un cittadino, titolare di un patrimonio di almeno centomila sesterzi, registrato nella prima classe della costituzione serviana. Essa dispone inoltre che ogni legatario non possa ricevere da un classico più di quanto ottengano l’erede o, insieme, i coeredi. Il plebiscito, spesso compreso tra le leges sumptuariae, va ricondotto ad un disegno politico di grande respiro: conservare ed accrescere la consistenza patrimoniale delle familiae che governano la città, scosse, al termine della seconda guerra punica, dall’emersione di nuovi gruppi in grado di sovvertire equilibri consolidati, utilizzando per impadronirsi del potere agili ed ingenti ricchezze, ottenute con l’esercizio dei traffici e del commercio. Accolti con molta ostilità e delusi quasi contestualmente alla loro emanazione, i divieti di Voconio vengono meno al tempo di Augusto per esplicita deroga parziale e, poco dopo, per generale abrogazione tacita. BALESTRI FUMAGALLI M., Riflessioni sulla “Lex Voconia” (2008) pp. 80 ss.
[107] Doveva trattarsi di un’antesignana del consilium principis affermatosi nel principato. GENZMER E., La genèse du fidéicommis comme institution juridique (1962) pp. 337-338.
[108] TREGGIARI F., Minister ultimae voluntatis: le premesse romane e l'età del diritto comune (2002) p. 36.
[109] Questi concetti sintetizzano un vero e proprio vinculum che, pur in assenza di strumenti giuridici coercitivi e processuali che costringono all’adempimento, è avvertito come un dovere, come se la mancanza di un’actio ad hoc fosse sopperita dalla presenza di fides e pudor quali stimoli interiori all’adempimento. ARCES P., Studi cit. p. 209.
[110] La successione civilistica rispecchiava la famiglia agnatizia, cioè una struttura in cui prevaleva il vincolo ‘civile’ di sottoposizione al capostipite, l’adgnatio. Senonché, a partire dal II a. C., la famiglia tendeva a frazionarsi a causa delle mutate esigenze politiche ed economiche: i filii venivano sempre più spesso emancipati, le mogli non erano quasi mai in manu e così via. In questo modo, non essendo adgnati, nulla sarebbe spettato loro ai sensi del ius civile che, seppur definito ‘iniquum’ da Gaio, non poteva essere disapplicato. Ed ecco quindi che i pretori, sollecitati dalle pressanti istanze sociali, spesso guidate proprio dai prudentes, elaborarono un altro sistema successorio: in particolare, potevano disporre la bonorum possessio. Si trattava di una missio in possessionem che consisteva nell’attribuzione, da parte del pretore, a colui che ne avesse fatto richiesta, adgnitio, e che avesse avuto le qualità stabilite nell’Editto, non solo del possesso dei singoli beni ereditari, ma addirittura del godimento di fatto della situazione di erede, indipendentemente dalla titolarità (alla stregua del ius civile). Originariamente, era sine re e non consentiva al bonorum possessor di resistere in giudizio alla hereditatis petìtio esperita da chi riusciva a dimostrare di essere erede secondo il ius civile; in epoca classica, invece, divenne cum re, caratterizzandosi per l’effetto opposto. In base ai motivi che davano luogo alla concessione della bonorum possessio, erano tre le possibili vocazioni: quella ‘contro la volontà testamentaria’, contra tabulas, cioè concessa dal pretore contro la volontà manifestata dal de cuius nel testamento; quella ‘in conformità alle tavole testamentarie’, secundum tabulas, cioè accordata in conformità alla volontà manifestata dal de cuius in un testamento non valido per il ius civile; quella ‘senza tavole testamentarie’, intestati o sine tabulis, cioè concessa in mancanza di testamento, a persona individuata a tal fine nell’Editto. GIUFFRÈ V., Il diritto dei privati nell'esperienza romana. I principali gangli (2006) pp. 195-202.
[111] Non sono note le argomentazioni con cui Celio Rufo riuscì ad ottenere un esito positivo nel processo. A riguardo, la Bertoldi non ha dubbi: al patrocinante fu sufficiente evidenziare l’importanza del vincolo della fides cui il fedecommesso dava luogo. BERTOLDI F., L’heres fiduciarius in una prospettiva storico-comparatistica (2015) p. 161.
[112] LONGCHAMPS DE BÈRIER F., Il fedecommesso universale nel diritto romano classico (1997) p. 34.
[113] GENZMER E., La genese cit. p. 333.
[114] BERTOLDI F., L’heres fiduciarius cit. p. 162. La solutio indebiti era generalmente una prestazione di dare, compiuta al fine di adempiere una obbligazione inesistente o invalida, anche se percepita come un rapporto da adempiere. Sia il diritto classico che quello giustinianeo non la considerarono nel caso in cui il pagamento dell’indebito, pur se fatto per errore, era diretto ad estinguere un’obligatio naturalis: in tal caso, l’accipiente aveva diritto alla soluti retentio: da essa derivava l’obbligazione dell’accipiente di restituire il datum o di ripristinare il factum a favore del solvente. Il pagamento dell’indebito non escludeva, sempre trattandosi del caso normale di un’obbligazione di dare in senso proprio, che si verificasse il trasferimento della proprietà della cosa data (somma di danaro o qualsivoglia altra cosa) dal solvente all’accipiente. Il solvente, dunque, non era più in grado, dopo la solutio indebiti, di esercitare la rei vindicatio, ma aveva soltanto un diritto alla restituzione si faceva valere mediante una actio in personam denominata, appunto, condictio indebiti, cioè l’azione per la restituzione dell’indebito. GUARINO A., Diritto privato romano (2001) pp. 967-971.
[115] MILONE F., Il fedecommesso cit. p. 16.
[116] Il diritto non soccorreva e, mancando qualsiasi sanzione giuridica e quindi qualsiasi coazione, tutto il funzionamento del fideicommissum era rimesso alla buona fede ed alla lealtà del beneficiario.
[117] Il Brückner ha provato a spiegare che, nell’ultimo secolo della Repubblica, il diritto pretorio aveva già riconosciuto alla fides la sua capacità di generare ed innovare il diritto: il riferimento è alla giurisdizione peregrina, dove il praetor peregrinus non imponeva un ius già esistente, ma con l’affermazione della supremazia dello Stato nell’ambito di una controversia tra Romani e stranieri, creava di volta in volta la regola di giudizio più adatta al caso espostogli. BRÜCKNER F. X., Zur Geschichte des Fideicommisses (1893) pp. 7-27. In questo modo, la iuris dictio si esplicava sulla valutazione concreta dei rapporti e sul rispetto della fides, cioè di quella correttezza negli affari che le parti avevano posto a base (e dovevano, quindi, continuare a presupporre) delle loro relazioni. Tuttavia, se la regola di giudizio da lui formulata non convenisse alle parti in causa, ciascuna di esse se ne sarebbe potuta sottrarre, essendo al di fuori del campo del ius, vincolante e coercitivo. LOMBARDI L., Dalla fides alla bona fides (1961) pp. 178-208.
[118] TRIFONE R., Il fedecommesso, storia dell’istituto in Italia (1914) p. 2.
[119] Si fondavano sul pudor, sulla considerazione che il destinatario della preghiera avesse nei confronti della richiesta e, soprattutto, del richiedente. FANIZZA L., Autorità e diritto: l’esempio di Augusto (2004) p. 33.
[120] Addirittura, dall’andamento del testo sembra che se Augusto non avesse preso questa decisione, anche il suo comportamento si sarebbe considerato perfido. FANIZZA L., Autorità cit. p. 34.
[121] All’esito di un percorso culminato con il diritto giustinianeo, invece, la giurisprudenza smette di essere interprete della communis opinio per applicare in maniera meccanica il precetto legislativo. Ma fino ad allora, i prudenti del diritto romano non sussumevano il fatto ad un precetto legislativo per desumerne se l’accadimento rientrasse o meno nella specifica previsione normativa. Piuttosto, valutavano alla stregua dell’opinione pubblica di cui erano interpreti se quell’azione da cui doveva scaturire l’obbligazione desiderasse davvero e fosse meritevole di una disciplina giuridica. Poi, si interrogavano circa l’opportunità della trasposizione delle conseguenze dall’atto sociale al giuridico. Infine, controllavano che la giuridicizzazione non fosse dissonante con il sistema del complessivo diritto vigente che essi avevano in mente. GIUFFRÈ V., Le obbligazioni tra volontaria assunzione e imposizione ex lege (2018) pp. 29-30.
[122] LONGCHAMPS DE BÈRIER F., Il fedecommesso cit. p. 41.
[123] GUARINO A., Pagine di diritto romano (1994) pp. 142-143. A riguardo, il Metro osserva che Augusto convoca il suo consiglio di giureconsulti al fine di chiedere lumi circa il comportamento della figlia di Lentulo che iure non debebat ha eseguito comunque i legati contenuti nei codicilli. FINO MICHELE A., Contributo allo studio e alla palingenesi dei libri De fideicommissis di Pomponio (2008) pp. 60-61.
[124] Circa il significato del sintagma ratio legis, il Biondi parla di ‘qualcosa di oggettivo, insito nel principio’. Biondi B., Successione cit. p. 613. Anche il Bretone adotta l’impostazione del Biondi quando scrive che l’Imperatore voleva verificare se l’uso dei codicilli non fosse absonans rispetto alla ratio iuris, cioè ‘la giustificazione intrinseca dell’istituto rispetto all’ordinamento’. BRETONE M., Tecniche ed ideologie dei giuristi romani (1985) p. 272.
[125] Nel secolo scorso, il Brückner sostenne che per i primi tempi la cognitio fideicommissum fu esercitata direttamente dal principe e che i consoli intervenissero solo per costringere con i mezzi coattivi a dare attuazione all’ordine del principe. Al contrario, il Milone osserva che una simile ricostruzione non è confortata dalle fonti. Inoltre, ogni procedura straordinaria si instaurava e si concludeva davanti ad una sola autorità: perciò, non appare verosimile che fossero impiegate due figure per le distinte fasi della cognizione né che i consoli, i supremi magistrati dell’impero dopo il principe, fossero scomodati per la sola fase esecutiva. MILONE F., Il fedecommesso cit. pp. 28-30.
[126] Il sentimento della fides, ritornato in auge grazie all’intervento di Augusto, conosce una nuova età dell’oro proprio con i fedecommessi: di qui, il bisogno di reprimere qualunque infedeltà, qualunque violazione della fides, apparve sempre più giusto e da doversi sempre e comunque raggiungere. MILONE F., Il fedecommesso cit. p. 31.
[127] Il Mommsen segnala che la competenza dell’una o dell’altra magistratura dipendeva dal valore economico del contenuto del fedecommesso. Inoltre, tale criterio non operava nelle province, dove gli affari in materia di fedecommesso furono demandati completamente ai governatori, secondo le regole generali dell’esercizio della giurisdizione. MOMMSEN T., Disegno del diritto pubblico romano (1943) p. 188.
[128] PERNICE A., Marcus Antistius Labeo: das römische Privatrecht im ersten Jahrhundert der Kaiserzeit, Vol. I (1873) p. 416. In tal senso, anche il Bruckner quando sostiene che l’ammissione del fedecommesso nel diritto privato romano si compì quando l’istituto venne sottoposto al potere coercitivo dello Stato e venne regolato con norme generali applicabili a tutti i casi. BRÜKNER F. X., Zur Geschichte cit. p. 46.
[129] I fedecommessi vennero accostati agli altri istituti del ius honorarium e del ius gentium e vennero considerati quanto più esenti possibile dalle formalità e dalle altre rigorose condizioni di validità delle istituzioni di erede e dei legati.
[130] In questo modo, il fedecommesso tendeva a perseguire il beneficio in maniera indiretta, in quanto faceva pervenire tutto o parte del patrimonio ereditario alle persone che il de cuius intendeva favorire e proprio per questo era necessaria la collaborazione del fiduciario che doveva prima accettare l’eredità e poi trasferirne il contenuto per rendere effettivo il fedecommesso.
[131] Per tale ragione, si suole dire che l’originaria disciplina del fedecommesso universale era modellata su quella del legatum partitionis ed il fedecommissario non acquistava con un unico atto di accettazione, ma veniva considerato alla stregua di un acquirente dell’eredità.
[132] Secondo il Milone, il valore legale dei fedecommessi venne ‘rafforzato e accresciuto dall’auctor iuris civilis del tempo che è il senato’: solo in questo momento, il fedecommesso può dichiararsi ufficialmente un istituto del ius civile. MILONE F., Il fedecommesso cit. p. 48.
[133] L’assimilazione all’erede comportava anche che sarebbero state accordate al e contro il fedecommissario le azioni che sarebbero spettate all’erede e contro l’erede. Naturalmente, non si trattava di azioni dirette, ma soltanto di actiones utiles: più propriamente, si trattava di actiones ficticiae adoperate in finzione di un requisito civilistico. GIODICE SABBATELLI V., La tutela giuridica dei fedecommessi fra Augusto e Vespasiano (1993) p. 168. Invece, per quanto riguarda le actiones utiles, tutte di origine pretoria, venivano utilizzate per uno scopo analogo, ma non del tutto identico, a quello originario, al fine di approntare tutela processuale per casi non previsti dal ius civile. SANFILIPPO C., Istituzioni cit. p. 306.
[134] La legge Falcidia del 40 a. C., approvata su iniziativa del tribuno della plebe Publio Falcidio, prevedeva che nessuno potesse disporre liberamente di più di tre quarti del suo patrimonio per legati, così che all'erede rimanesse disponibile almeno un quarto del patrimonio: questa quota fu chiamata quarta Falcidia. Se il de cuius avesse disposto in contrasto con la lex Falcidia, legando oltre la terza parte dell’asse ereditario, i legati avrebbero dovuto ridursi proporzionalmente, risultando ipso iure invalidi per l’eccedenza se il loro oggetto fosse stato divisibile: al contrario, l’erede aveva a disposizione l’exceptio doli contro il legatario che avesse chiesto l’adempimento integrale del legato senza provvedere al rimborso. Per tutta l’epoca classica, le disposizioni della legge Falcidia furono considerate inderogabili perché, garantendo l’effettività dell’istituzione di erede, miravano a tenere in piedi l’intero testamento. Quando però le disposizioni testamentarie iniziarono a rendersi indipendenti dalla heredis institutio, anche la funzione della quarta cominciò a decadere, pur costituendo la base del diverso istituto della portio debita, la legittima. LOVATO A. PULIATTI S. SOLIDORO MARUOTTI L., Diritto privato romano (2017) p. 735. Circa il calcolo del quadrans c'è da osservare che: per determinare se l'eredità è caricata eccessivamente dai legati e che si deve giungere alla deduzione del quarto, è da prendere in considerazione la dimensione del patrimonio, così com'è al momento della morte del defunto il quarto si deve calcolare dal patrimonio puro del testatore, cioè dopo deduzione dei debiti; l'erede deve considerare nel suo quarto quello che riceve come erede e non anche quello che riceve in eredità come legatario. MANNINO V., Il calcolo della quarta hereditatis e la volontà del testatore (1989) p. 79.
[135] Non è pacifico se si trattasse del fideicommissarius o urbanus. Secondo il Sabbatelli, almeno a Roma, la competenza doveva spettare alla seconda magistratura, occupandosene i governatori fuori dalle mura dell’Urbe. GIODICE SABBATELLI V., La tutela cit. pp. 184 ss.
[136] In questo modo svilendo la ratio originaria del fedecommesso, un istituto fluido nato proprio per ovviare alla mancanza di testamentifactio passiva. IMPALLOMENI G., Prospettive in tema di fedecommesso (1967) p. 290. La legislazione matrimoniale augustea si riassume essenzialmente nelle disposizioni della lex Iulia de maritandis ordinibus del 18 a. C. e della lex Papia poppaea del 9 d. C. (unitamente individuate come lex Iulia et Papia): lo scopo del primo imperatore era favorire e ridare dignità alle unioni nuziali nell’ottica di incremento demografico. Infatti, in base a tali leggi erano esclusi dalla possibilità di succedere ex testamento in quanto privi della capacitas i caelibes, le persone non coniugate ma in età matrimoniale e gli orbi, i coniugati senza prole. I primi erano totalmente incapaci di ricevere beni ereditari, i secondi, invece, non potevano ricevere oltre la metà di quanto era stato previsto dal testatore. LOVATO A. PULIATTI S., SOLIDORO MARUOTTI L., Diritto cit. pp. 628-629.
[137] Degli imperatori fino a Giustiniano, solo Costanzo si occupò dei fedecommessi; invece, Costantino e Teodosio II emanarono disposizioni che riguardavano i fedecommessi solo in via incidentale: il primo richiese che, come per i testamenti così per i codicilli intestati occorresse l’intervento di sette o di cinque testimoni; il secondo che tutti i codicilli, scritti e orali, dovessero farsi avanti a testimoni e con unità di contesto.
[138] Questa differenza sostanziale, tramandata anche in Gaio, è segnalata dal Trifone nell’elencazione delle caratteristiche del fedecommesso a ridosso della riforma giustinianea. AZARA A., EULA E., Novissimo digesto italiano (1987) p. 191.
[139] LAMBERTINI R., Radice normativa cit. (2000) p. 401.
[140] La fusione tra i due istituti avvenne in modo che le reciproche caratteristiche dei due istituti continuassero a comunicare tra loro, applicandosi nel caso concreto la disciplina che meglio riusciva ad attuare la volontà del defunto. Tuttavia, nella prassi prevalse il fedecommesso perché risultò ‘quasi più umano’. Secondo il Ferrini prima ed il Milone poi, i due istituti vennero parificati già per effetto della prima costituzione perché da quel momento in poi chi prima poteva essere onerato soltanto in un fedecommesso, adesso poteva esserlo anche in un legato. FERRINI C., Teoria generale cit. p. 41; MILONE F., Il fedecommesso cit. p. 60.
[141] RICCOBONO S., L’arbitrium boni viri nei fedecommessi (1926) p. 322. Tra i due istituti, infatti, residuarono notevoli differenze: innanzitutto, l’istituzione di erede doveva essere fatta necessariamente per testamento.