Pubbl. Gio, 16 Nov 2023
La proposizione di un ricorso per Cassazione manifestamente infondato può giustificare la condanna alla responsabilità aggravata
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Luca Ventura
La presente nota a sentenza affronta le tematiche richiamate dall´ordinanza n. 28448 del 12/10/2023 della Corte di Cassazione. Con tale pronuncia i giudici di legittimità ritornano sulla vexata questio della natura (sanzionatoria ovvero risarcitoria) della condanna ex art. 96, comma 3, c.p.c. La pronuncia si inserisce nel filone giurisprudenziale che accede alla prima delle due tesi e, pertanto, in presenza di un ricorso manifestamente inammissibile condanna il soccombente al pagamento di una somma equitativamente determinata.
Sommario: 1. Il caso; 2. La responsabilità processuale aggravata; 3. Il problematico inquadramento dell'art. 96, comma 3, c.p.c.; 4. La posizione della giurisprudenza. Elemento soggettivo e abuso del processo; 5. Conclusioni.
1. Il caso
L’ordinanza in commento conclude una vicenda originata da una determina dirigenziale con la quale la Regione Umbria aveva disposto la decadenza e la revoca di un contributo precedentemente accordato a B.A.
Quest’ultimo aveva ottenuto il contributo in questione al fine di eseguire opere su un immobile di sua proprietà, che intendeva destinare ad attività agrituristica. Durante l’esecuzione dei lavori, che B.A. aveva affidato ad Adria Service di A.A. & C. S.n.c., la Guardia di Finanza, dopo una verifica, aveva scoperto che la società incaricata era una “cartiera”, che aveva emesso fatture per operazioni inesistenti.
La Regione Umbria, basandosi sul verbale di accertamento redatto dalla Guardia di Finanza, aveva dunque disposto la revoca del contributo precedentemente concesso. Notiziato della determina, B.A. si rivolgeva al locale Tribunale chiedendo la disapplicazione del provvedimento di revoca.
La domanda avanzata da B.A. veniva respinta dal giudice di prime cure, il quale argomentava che il verbale di accertamento della Guardia di Finanza, essendo dotato di una intrinseca attendibilità (oltreché della fede privilegiata di cui all’art. 2700 c.c.), poteva essere inficiato solo da una prova contraria, che B.A. non aveva fornito. A seguito di gravame, la Corte territoriale confermava in toto la decisione del Tribunale.
B.A. proponeva pertanto ricorso per cassazione, contenente sette motivi, avverso la sentenza della Corte d’Appello. Con la decisione in commento la Suprema Corte ha giudicato inammissibile il ricorso proposto poiché tutti e sette i motivi di doglianza contenevano censure di pieno merito, come tali sottratte al sindacato di legittimità. Tenuto conto della manifesta inammissibilità del ricorso, la Cassazione ha condannato il ricorrente (oltre che al pagamento delle spese processuali) al pagamento, in favore della resistente, di una somma equitativamente determinata, in applicazione della regola di cui all’art. 96, comma 3, c.p.c.
La Corte di cassazione, pertanto, ha reso la decisione dando applicazione al seguente principio di diritto: «In tema di responsabilità aggravata ex art. 96, comma 3, c.p.c., costituisce indice di mala fede o colpa grave – e, quindi, di abuso del diritto di impugnazione – la proposizione di un ricorso per cassazione con la coscienza dell’infondatezza della domanda o dell’eccezione, ovvero senza avere adoperato la normale diligenza per acquisire la coscienza dell’infondatezza della propria posizione, non compiendo alcuno sforzo interpretativo, deduttivo ed argomentativo per mettere in discussione, con criteri e metodo di scientificità, il diritto vivente o la giurisprudenza consolidata, sia pure solo con riferimento alla fattispecie concreta».
2. La responsabilità processuale aggravata
L’ordinanza n. 28448 del 2023 della Corte di cassazione offre lo spunto per svolgere alcune considerazioni intorno al comma 3 dell’art. 96 c.p.c., una norma che, sin dalla sua introduzione nel 2009, ha raccolto l’interesse degli interpreti, tanto in dottrina quanto in giurisprudenza, avendo il legislatore optato per una formulazione piuttosto vaga della norma.
Per inquadrare in maniera efficace le principali problematiche sottese alla disposizione in esame può essere utile ripercorrere i tratti essenziali dell’evoluzione che, tanto sul piano normativo quanto su quello esegetico, ha riguardato l’art. 96 c.p.c.
Tale norma, nei suoi primi due commi, presenti sin dall’entrata in vigore del codice di rito, regolamenta due ipotesi di responsabilità aggravata da “lite temeraria”. Il primo comma, in particolare, prevede l’obbligo, per il soccombente che abbia avanzato o respinto una domanda con malafede o colpa grave, di risarcire all’altra parte il danno arrecatole. Il secondo comma, invece, stabilisce che sia tenuto al risarcimento del danno cagionato all’altra parte chi intraprende «senza la normale prudenza» talune specifiche azioni giudiziali (azioni cautelari, trascrizione della domanda, iscrizione d’ipoteca, processo esecutivo) a tutela di un diritto di cui, successivamente, venga accertata l’inesistenza.
Secondo il costante orientamento giurisprudenziale e dottrinale, le due ipotesi di responsabilità aggravata ora delineate sono riconducibili al contesto della responsabilità aquiliana, in un rapporto di specialità rispetto alla regola generale di cui all’art. 2043 c.c[1].
La collocazione sistematica nell’ambito della responsabilità extracontrattuale importa che il giudice possa condannare il soccombente a risarcire l’altra parte soltanto se venga accertata l’illiceità della condotta, la sussistenza di un danno per la controparte e il nesso di causa tra la condotta e il pregiudizio. Inoltre, trattandosi di una condanna con finalità risarcitoria, la pronuncia ai sensi del primo o del secondo comma dell’art. 96 c.p.c. presuppone necessariamente un’apposita domanda proveniente dalla controparte danneggiata.
Con riferimento al profilo dell’illiceità della condotta, occorre precisare che l’art. 96 sanziona l’esercizio di un diritto costituzionalmente garantito, quale quello di agire e di resistere in giudizio (art. 24 Cost.), soltanto nella misura in cui l’esercizio del diritto sia viziato da malafede o colpa grave (art. 96, comma 1) ovvero anche da colpa lieve (art. 96, comma 2, ove la condanna è legata al difetto di «normale prudenza»).
I primi due commi dell’art. 96 c.p.c. hanno avuto un’applicazione relativamente limitata, anche in ragione del gravoso onere probatorio posto a carico di chi lamenti di aver subito un danno in conseguenza dell’altrui (pretestuosa) azione giudiziale. Come ricordato, è onere del danneggiato fornire la prova dell’elemento soggettivo altrui, della sussistenza di un danno e della riconducibilità di quest’ultimo alla condotta quantomeno colpevole della controparte[2].
L’istituto della responsabilità aggravata è tornato al centro del dibattito agli albori di questo millennio, quando il legislatore ha inteso valorizzare la chiave deterrente di questo strumento, al fine di scoraggiare la proposizione di azioni giudiziali meramente pretestuose e/o dilatorie, le quali producono effetti pregiudizievoli, in termini di accumulo di ritardi, sull’amministrazione della giustizia.
In quest’ottica, nel 2006 è stato introdotto un comma aggiuntivo nell’art. 385 c.p.c., con il quale, solo per il giudizio di cassazione, veniva attribuito alla Suprema Corte il potere di condannare il soccombente che avesse agito o resistito con malafede o colpa grave al pagamento, in favore della controparte, di una somma equitativamente determinata. La portata dirompente della novella, rispetto al sistema più sopra delineato, era quantomeno duplice. In primo luogo, la condanna poteva seguire ad un’iniziativa anche officiosa del giudice, non essendo rimessa all’iniziativa esclusiva della parte vincitrice. In secondo luogo, il soccombente poteva essere condannato a prescindere dalla causazione di un danno alla controparte: in altri termini, la condanna era la conseguenza della sola condotta caratterizzata da un abuso (malafede o colpa grave) nell’impiego dello strumento processuale[3].
Il tema oggetto di indagine è stato inciso in maniera significativa dalla legge 18 giugno del 2009, n. 69. Con tale riforma il legislatore ha, da un lato, abrogato lo strumento introdotto nel 2006 per il giudizio di cassazione e, dall’altro lato, ha inserito nel terzo comma dell’art. 96 c.p.c. un istituto molto vicino a quello che era stato pensato per il solo giudizio di legittimità, allo scopo di renderlo applicabile in ogni grado processuale.
Il terzo comma dell’art. 96, infatti, assegna al giudice (di ogni grado) il potere di condannare «anche d’ufficio» la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata.
3. Il problematico inquadramento dell’art. 96, comma 3, c.p.c.
Il comma 3 dell’art. 96 c.p.c. è formulato in maniera particolarmente vaga e, per tale ragione, ha sollevato non poche problematiche interpretative: la norma si limita a disporre che «In ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’articolo 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata».
La dottrina e la giurisprudenza si sono subito interrogate sulla funzione della fattispecie in esame, al fine di stabilire se anche tale condanna, ugualmente a quelle previste dai primi due commi dell’art. 96, sia riconducibile al modello aquiliano con finalità riparatoria.
Un consistente filone dottrinale e giurisprudenziale ha da subito ritenuto che quella contemplata dall’art. 96, comma 3, c.p.c. sia una sanzione civile vera e propria, come tale estranea al modello della responsabilità civile di cui all’art. 2043 c.c[4].
La tesi della natura sanzionatoria della condanna ex art. 96, comma 3, c.p.c. è sostenuta sulla scorta di tre argomenti principali.
In primo luogo, viene messo in luce il fatto che tale disposizione è priva di qualsivoglia riferimento al danno subito dall’altra parte[5]. Secondo quest’orientamento, non avendo il legislatore subordinato la condanna alla sussistenza di un pregiudizio per l’altra parte, si dovrebbe inferire che la finalità della fattispecie non è quella di ristorare un danno, bensì quella di sanzionare il comportamento processuale del soccombente.
In secondo luogo, viene evidenziato che la disposizione è introdotta dalla locuzione «in ogni caso», la quale sembrerebbe voler separare la disciplina del comma 3 da quella prevista dai primi due commi dell’art. 96 c.p.c.
Da ultimo, viene valorizzata la genesi del comma 3 dell’art. 96 c.p.c., che sarebbe stato introdotto allo scopo di generalizzare un rimedio già previsto per il giudizio di cassazione, e rispetto al quale si era affermata la tesi della natura sanzionatorio-deterrente[6].
Chi accede a tale ricostruzione ritiene che la fattispecie abbia una funzione sanzionatoria, per il passato, e una funzione deterrente, per il futuro, in quanto, in definitiva, mira a punire il comportamento di chi, abusando dello strumento processuale e delle prerogative riconosciute dall’art. 24 Cost., provoca una distorsione del giusto processo di cui all’art. 111 Cost. La sanzione, pertanto, sarebbe prevista anzitutto a salvaguardia dell’interesse pubblicistico alla ragionevole durata del processo e al buon andamento dell’amministrazione della giustizia, dal momento che l’abuso del processo incide tanto sulla durata del singolo processo quanto, a catena, sulla durata di tutti gli altri[7]. Se questa è l’impostazione prevalente specialmente in giurisprudenza, non mancano tuttavia opinioni dottrinali maggiormente eterogenee, che ravvisano la situazione giuridica tutelata ora nell’interesse del privato a non subire turbative processuali, ora nell’obbligo di lealtà e di probità di cui all’art. 88 c.p.c[8].
La tesi della natura sanzionatoria e dunque pubblicistica della condanna ex art. 96, comma 3, c.p.c. non sarebbe smentita, secondo i suoi sostenitori, dal fatto che la somma equitativamente stabilita dal giudice venga assegnata alla parte vittoriosa, anziché allo Stato. La ragione di quest’ultima scelta, infatti, sarebbe giustificata dal fatto che, rispetto all’erario, il soggetto privato può meglio assicurare, normalmente, l’effettiva riscossione della somma liquidata, così accrescendo la portata deterrente del meccanismo sanzionatorio[9].
Come rilevato da parte della dottrina, la liquidazione della somma in favore della parte vincitrice è, tuttavia, un elemento che conferisce alla condanna ex art. 96, comma 3, c.p.c. una qualche funzione composita. Detta condanna, infatti, abbraccia per un verso il modello sanzionatorio, nella misura in cui può essere disposta d’ufficio dal giudice prescindendo dall’accertamento del danno sofferto dal vincitore; per altro verso, si avvicina ad un modello quantomeno indennitario, allorché individua la parte privata vincitrice come beneficiaria della condanna[10].
La tesi della natura sanzionatoria, sinora esaminata, è stata avversata da un opposto orientamento, che ha riscosso maggiori consensi in dottrina piuttosto che in giurisprudenza, il quale ha sostenuto la possibilità di ricondurre le figure di responsabilità regolate dall’art. 96 c.p.c. ad una matrice unitaria[11]. Gli studiosi che sostengono questo secondo orientamento ritengono che tutte le ipotesi di responsabilità previste dall’art. 96 c.p.c. debbano essere ricondotte al modello della responsabilità civile di cui all’art. 2043 c.c.
Secondo questi autori, la natura aquiliana della condanna ex comma 3 dell’art. 96 sarebbe una diretta conseguenza della sua collocazione sistematica da parte del legislatore del 2009, essendo stata inserita in un articolo che disciplina le ipotesi di responsabilità processuale aggravata. Per i sostenitori di quest’orientamento, la previsione in esame andrebbe quindi raccordata ai primi due commi dell’art. 96 c.p.c., e da ciò discende l’integrale richiamo ai requisiti stabiliti nelle disposizioni precedenti, vale a dire la colposità della condotta, la sussistenza di un danno e il nesso eziologico tra condotta e danno[12].
La funzione risarcitoria della condanna viene desunta, inoltre, dalla liquidazione della somma a favore della parte vincitrice[13].
Questa ricostruzione ridimensiona, dunque, la portata innovatrice del comma 3 dell’art. 96 c.p.c. dal momento che, recuperati – in virtù di un tacito rinvio – i requisiti del danno e dell’elemento soggettivo, l’innovazione si esaurisce in un ampliamento delle occasioni di pronuncia della condanna, per effetto dell’iniziativa officiosa del giudice e della liquidazione equitativa[14].
4. La posizione della giurisprudenza. Elemento soggettivo e abuso del processo
Se in dottrina si contendono il campo due tesi opposte, ossia quella della funzione sanzionatoria e quella della funzione risarcitoria, in giurisprudenza sembra esservi una maggiore convergenza sulla teoria della finalità sanzionatoria, specialmente in seguito ad un intervento con cui la Corte costituzionale ha rigettato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 96, comma 3, c.p.c. in relazione agli artt. 3, 24 e 111 Cost[15]. In detta pronuncia, la Consulta ha giudicato non fondata la questione di legittimità costituzionale del comma 3 dell’art. 96 nella parte in cui prevede che il pagamento della somma debba essere effettuato a favore della parte vincitrice, anziché dell’erario. La Corte costituzionale, in particolare, ha rigettato la questione argomentando che la responsabilità prevista nel terzo comma dell’art. 96 non riveste natura risarcitoria del danno cagionato all’altra parte, bensì presenta natura sanzionatoria, poiché mira a colpire quelle condotte abusive del diritto di azione e di difesa, che adoperano lo strumento processuale per scopi dilatori, aggravando la mole del contenzioso[16].
Anche la Corte di cassazione, con recenti interventi, si è espressa a favore della tesi sanzionatoria, valorizzando argomenti letterali quali la mancata menzione del danno e dell’elemento soggettivo, nonché sottolineando la derivazione dell’art. 96, comma 3 dall’abrogato art. 385, comma 4, c.p.c., cui veniva riconosciuta finalità sanzionatoria[17].
Ad ogni modo, come rilevato da quasi tutti i commentatori, il punto maggiormente dolente nella formulazione dell’art. 96, comma 3, c.p.c. attiene all’elemento soggettivo della fattispecie. Anche volendo accedere alla tesi sanzionatoria, è immediato rilevare che mentre l’abrogato art. 385, comma 4, c.p.c. faceva esplicito riferimento alla “colpa grave”, l’art. 96, comma 3 non contiene alcun riferimento all’elemento soggettivo.
Nonostante tale mancanza, la dottrina e la giurisprudenza hanno da sempre ritenuto che la condanna ai sensi del comma 3 presupponga la sussistenza della malafede o della colpa grave del soccombente, alla luce del rilievo secondo cui agire in giudizio azionando una pretesa che si rivela infondata non è una condotta di per sé rimproverabile. La condanna al pagamento di una somma equitativamente determinata postula, pertanto, un quid pluris rispetto alla mera soccombenza[18].
Questo quid pluris può essere rintracciato nel concetto, frutto di un’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale, di abuso del processo (una species del più ampio abuso del diritto)[19]. Con tale nozione si suole fare riferimento all’impropria utilizzazione degli strumenti processuali, ossia al loro impiego per il perseguimento di finalità distorte rispetto a quelle avute di mira dall’ordinamento, da determinarsi anche sulla scorta dei valori costituzionali espressi dall’art. 2 (dovere di solidarietà) e 111 (giusto processo) in bilanciamento con l’art. 24 (garanzia del diritto di azione e di difesa)[20].
Gli interpreti hanno offerto due ricostruzioni della nozione di abuso del processo, l’una di stampo soggettivo, l’altra di stampo oggettivo. L’abuso del processo in senso soggettivo guarda all’intenzione del soggetto che ha posto in essere gli atti abusivi. Ai fini dell’accertamento dell’abuso del processo, pertanto, occorrerà valutare se il soggetto abbia rispettato i canoni di correttezza e di buona fede. L’abuso del processo in senso oggettivo, diversamente, ha riguardo non all’atteggiamento psicologico dell’agente, bensì agli effetti del suo comportamento abusivo, nel senso che ricorre abuso quando l’atto processuale compiuto abbia prodotto un effetto distorsivo sul corretto funzionamento del processo[21].
La giurisprudenza sembra aver adottato la concezione oggettiva dell’abuso del processo: nell’ambito del giudizio di legittimità, ad esempio, la Suprema Corte ravvisa un abuso del processo nella manifesta infondatezza del ricorso proposto, affermando che ciò costituisce di per sé un indizio della colpa della parte, rilevante anche ai sensi dell’art. 96 c.p.c.[22]. Come affermato da autorevole dottrina, tale concezione oggettiva dell’abuso del processo non implica la possibilità di rintracciare un abuso in assenza di un atteggiamento colpevole della parte. La concezione oggettiva, invece, sta a significare che «l’abuso del processo… include in sé per definizione la colpa della parte», nel senso che la condotta oggettivamente e manifestamente pretestuosa della parte può senz’altro essere ascritta alla colpa dell’agente, esonerando il giudice dalla necessità di compiere un’indagine sulla sussistenza dell’elemento psicologico[23].
Come già anticipato, benché il terzo comma dell’art. 96 c.p.c. non faccia menzione dell’elemento soggettivo del soccombente, dottrina e giurisprudenza affermano costantemente che la condanna non possa essere pronunciata se non ricorra la colpa grave o la malafede. Il quadro giurisprudenziale in materia di abuso del processo è particolarmente calzante rispetto alla previsione del terzo comma dell’art. 96 c.p.c., che omette ogni riferimento all’elemento soggettivo. Ai fini della condanna il giudice non sarà tenuto ad indagare l’atteggiamento psicologico del soccombente, e potrà irrogare la sanzione sulla base dell’accertamento della manifesta infondatezza della domanda, della difesa o dell’eccezione posto che, nella maggior parte dei casi, ciò sottintende la colpevolezza dell’agente. Naturalmente, ben potrà il giudice non dare applicazione alla sanzione allorché accerti, nel caso di specie, che la condotta della parte, pur sfociata in un’azione, difesa o impugnazione del tutto infondata, sia incolpevole[24].
5. Conclusioni
Con l’ordinanza n. 28448 del 2023 la Corte di cassazione, a fronte di un ricorso contenente sette motivi manifestamente inammissibili perché relativi a censure di merito, ha condannato il ricorrente al pagamento, in favore della resistente, di una somma pari all’importo delle spese legali, in applicazione dell’art. 96, comma 3, c.p.c.
La pronuncia in commento ha recepito i principi affermati a più riprese dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità, che hanno sostenuto la tesi della natura sanzionatoria dell’art. 96, comma 3, c.p.c., nel senso che la condanna è da ricollegare al comportamento abusivo del soccombente e non alla causazione di un danno alla controparte.
La Corte di cassazione, con la pronuncia in commento, nel condannare il soccombente non ha effettuato un’indagine apposita sull’elemento psicologico, bensì ha basato tale decisione sull’accertamento della manifesta inammissibilità del ricorso, ritenendo che ciò costituisca indice della colpa grave del ricorrente. Del resto, come discusso, l’art. 96, comma 3 non richiede la sussistenza dell’elemento soggettivo e la giurisprudenza, richiamando l’elaborazione dell’abuso del processo (in senso oggettivo), afferma che la manifesta inammissibilità o infondatezza della pretesa è, di per sé, indice di colpa grave o di malafede della parte.
Nonostante la disposizione in esame ometta ogni riferimento all’atteggiamento psicologico del soccombente, è comunque opportuno che il giudice, ai fini dell’irrogazione della sanzione, compia una puntuale valutazione del comportamento processuale tenuto dal soccombente, con riferimento ad un sistema di valori condiviso quali la correttezza, il diritto di difesa, la ragionevole durata del processo, la garanzia del contraddittorio…[25].
La responsabilità ex art. 96, comma 3, c.p.c., infatti, importa una limitazione dei diritti costituzionalmente garantiti dall’art. 24 (diritto di azione e diritto di difesa). Al tempo stesso, è uno strumento che salvaguardia interessi generali (il corretto ed efficiente funzionamento dell’amministrazione della giustizia) e che, dalla prospettiva del giudizio di cassazione, appare in linea con la finalità nomofilattica della Suprema Corte, dal momento che una limitazione del numero dei ricorsi garantisce una migliore esplicazione della funzione nomofilattica.
[1] C. CONSOLO, Spiegazioni di diritto processuale civile, I, Torino, 2019, p. 648 ss.
[2] N.C. SACCONI, La responsabilità aggravata ex art. 96, comma 3, c.p.c., tra risarcimento punitivo e sanzione di ordine pubblico, in Resp. civ. prev., 2020, 1, p. 589 ss.
[3] F. RUGGIERO, Art. 96, comma 3., cod. proc. civ.: il grande malinteso, in Nuova giur. civ. comm., 2022, 1, p. 57 ss.
[4] C. TRAPUZZANO, La figura ibrida della condanna anche d’ufficio per lite temeraria tra risarcimento punitivo e pena privata – I parte, in Resp. civ. prev., 2021, 1, p. 84 ss.
[5] C. TRAPUZZANO, op. cit., p. 89 ss.
[6] F. RUGGIERO, op. cit., p. 65.
[7] C. TRAPUZZANO, op. cit., p. 89 ss.
[8] Ibid.
[9] F. FRADEANI, La Suprema corte e l’art. 96, 3° comma, c.p.c., in Giur. it., 2022, 11, p. 2404 ss.
[10] C. TRAPUZZANO, op. cit., p. 107 ss.
[11] C. TRAPUZZANO, op. cit., p. 96 ss.
[12] C. TRAPUZZANO, op. cit., p. 96 ss; F. RUGGIERO, op. cit., p. 66.
[13] N.C. SACCONI, op. cit., p. 3.
[14] N.C. SACCONI, op. cit., p. 4.
[15] Corte cost., sentenza n. 152 del 2016.
[16] L. LOMBARDO, Abuso del processo e lite temeraria: la condanna ex art. 96, comma 3, c.p.c., in Giust. civ., 2018, 4, p. 893 ss. Con riferimento alla questione sollevata, la Corte ha risposto che la liquidazione della condanna a favore della parte vincitrice è giustificata dall’obiettivo di assicurare una maggiore effettività ed incisività del meccanismo sanzionatorio-deterrente, posto che la parte privata può provvedere alla riscossione della somma in tempi e con oneri inferiori rispetto a quelli che graverebbero sullo Stato.
[17] Cass. civ., sez. III, sentenza n. 26545 del 30 settembre 2021.
[18] C. TRAPUZZANO, op. cit., p. 98 ss.
[19] Sul legale tra art. 96, comma 3, c.p.c. e il concetto di abuso del processo, si veda in particolare L. LOMBARDO, op. cit., p. 893 ss.
[20] L. LOMBARDO, op. cit., p. 897 ss.
[21] L. LOMBARDO, op. cit., p. 917 ss.
[22] L. LOMBARDO, op. cit., p. 919. Si rammenti come la Cassazione, proprio con l’ordinanza in commento, ha ritenuto che «…costituisce indice di mala fede o colpa grave – e, quindi, di abuso del diritto di impugnazione – la proposizione di un ricorso per cassazione con la coscienza dell’infondatezza della domanda o dell’eccezione, ovvero senza avere adoperato la normale diligenza per acquisire la coscienza dell’infondatezza della propria posizione…».
[23] L. LOMBARDO, op. cit., p. 917 ss. In giurisprudenza, Cass. civ., n. 26545 del 2021, cit., §16.
[24] L. LOMBARDO, op. cit., p. 917 ss.
[25] F. FRADEANI, op. cit., p. 2406.