La natura giuridica delle restrizioni alle facoltà inerenti al godimento della proprietà esclusiva ed il regolamento di condominio
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Davide Ianni
La recente sentenza n. 15222 emessa il 30 maggio 2023 dalla seconda sezione della Corte di Cassazione offre un´interessante occasione per affrontare nuovamente il tema, sempre attuale ma già noto, concernente la possibilità o meno di prevedere limitazioni o restrizioni al diritto di proprietà delle singole unità immobiliari in ambito condominiale. Nello specifico, dopo aver ripercorso le peculiarità di un tale sistema di comunione, il presente contributo analizzerà i nuovi approdi ermeneutici espressi dai giudici di Legittimità, al fine di individuare il perimetro entro cui si possano prevedere tali compressoni ai diritti dei singoli condòmini-proprietari, distinguendo tra la stipulazione di un accordo di natura meramente obbligatoria e la costituzione di veri e propri diritti reali.
27/09/2023
Andrea Greco|agreco@grecolex.com Davide Ianni|dott.davideianni@gmail.com La recente sentenza n. 15222 emessa il 30 maggio 2023 dalla seconda sezione della Corte di Cassazione offre un´interessante occasione per affrontare nuovamente il tema, sempre attuale ma già noto, concernente la possibilità o meno di prevedere limitazioni o restrizioni al diritto di proprietà delle singole unità immobiliari in ambito condominiale. Nello specifico, dopo aver ripercorso le peculiarità di un tale sistema di comunione, il presente contributo analizzerà i nuovi approdi ermeneutici espressi dai giudici di Legittimità, al fine di individuare il perimetro entro cui si possano prevedere tali compressoni ai diritti dei singoli condòmini-proprietari, distinguendo tra la stipulazione di un accordo di natura meramente obbligatoria e la costituzione di veri e propri diritti reali. The recent ruling No. 15222 issued on May 30, 2023 by the second section of the Supreme Court offers an interesting opportunity to once again address the ever-present but already weel-known issue concerning the possibility or otherwise of providing for limitations to the right of ownership of individual real estate units in condominiums. Specifically, after tracing the peculiarities of such a communal system, this contribution will analyze the new hermeneutical approaches expressed by the judes of Legitimacy, in order to identify the perimeter within such compressions to the rights of individual condominium-owners can be provided for, distinguishing between the different forms of condominium regulations.
Sommario: 1. Il condominio: natura giuridica e disciplina; 2. Limiti al diritto di proprietà: differenze tra regolamento condominiale assembleare e regolamento condominiale negoziale; 3. I vincoli e le restrizioni alle facoltà inerenti al godimento della proprietà esclusiva: il diritto di servitù; 4. Il caso sottoposto al vaglio della Suprema Corte di Cassazione: la sentenza n. 15222 del 30 maggio 2023; 5. Conclusioni.
1. Il condominio: natura giuridica e disciplina
Il panorama giuridico in cui si dipana l’intera vicenda in commento concerne la realtà condominiale. Pertanto, prima di procedere all’analisi della pronuncia in commento, è opportuno chiarire la natura giuridica e la disciplina dell’istituto del condominio.
La dottrina classica[1] fornisce una definizione di condominio da cui se ne desume il suo stesso collocamento nell’ordinamento giuridico, affermando come esso si concretizzi in uno specifico tipo di comunione degli edifici composti da più unità immobiliari in proprietà esclusiva[2]. Come anticipato, tale definizione contiene intrinsecamente al suo interno e fornisce un chiaro indizio della natura giuridica del condominio. Esso infatti viene definito come una peculiare species di comunione. Il condominio pertanto si condensa in quella peculiare fattispecie in cui in un medesimo fabbricato coesistono una pluralità di unità immobiliari di proprietà esclusiva di singoli condòmini e, al contempo, vi sia la presenza di parti comuni strutturalmente e funzionalmente connesse al complesso delle prime[3].
Il carattere di “comunione” sta pertanto nella compresenza, da un lato, di una pluralità di singole unità abitative e, dall’altro, dalla presenza di parti comune connesse alle prime. Nello specifico, nel condominio sopravvive una comunione pro indiviso per quanto concerne le cose comuni ed una comunione pro diviso relativamente alle singole proprietà abitative.
La riconduzione dell’istituto del condominio al genus della comunione è inoltre confermata anche dal dato letterale della legge, laddove l’art. 1139 rinvia alle disposizioni sulla comunione in generale, adottando invece norma specifiche in alcune ipotesi.
Il richiamo dell’art 1139 c.c. alle norme della comunione comporta dunque l’applicazione di tutte quelle norme previste nel capo I del citato titolo VII del Codice civile (artt. 1110 e ss. c.c.) in quanto compatibili con la disciplina legale del condominio. Nello specifico, il legislatore prevede infatti un’ulteriore regolamentazione in tema di condominio, prescrivendo: l’obbligatorietà del regolamento nei grandi condomini (almeno 10 condòmini); la regolamentazione dettagliata delle modalità di costituzione, funzionamento e attribuzioni dell’assemblea; l’obbligatorietà di un amministratore per condomini di particolare grandezza (almeno 8 condòmini).
Chiarito tale prodromico aspetto, il legislatore disciplina il condominio all’interno del codice civile. Tuttavia, la disciplina del condominio è poi evoluta nel corso degli anni e l’incremento di tale fattispecie ha portato all’adozione di una specifica disciplina di settore, specialmente dopo l’entrata in vigore della L. n. 220/2012, la quale si estende anche al c.d. supercondominio[4]. È infine interessante ricordare l’approdo a cui si è addivenuti circa la modalità di costituzione del condominio.
Dopo diversi contrarsi sia in dottrina che in giurisprudenza, oggi si ritiene pacifico che il condominio venga ad esistenza in maniera pienamente automatica, semplicemente con la costituzione di una pluralità di proprietà (anche solo due: c.d. condominio minimo) sullo stesso edificio. Venuto ad esistenza il condominio, si applicherà la relativa disciplina speciale ulteriore, oltre alle norme in tema di comunione con esse compatibili.
2. Limiti al diritto di proprietà: differenze tra regolamento condominiale assembleare e regolamento condominiale negoziale[5]
Il disfavore del Legislatore verso la comunione – inchiavardato nel brocardo latino communio est mater rixarum - è dimostrato dalla previsione di diverse prescrizioni, come ad esempio la facoltà di riconoscere ai condividenti di sciogliere lo stato di condivisione in ogni momento. Tuttavia, nel caso del condominio, lo stato di comunione è intrinseco alla sua stessa natura.
Pertanto, laddove c’è un condominio, ci dovrà essere necessariamente una comunione: i due elementi sono tra loro indissolubili. In tal senso, la legge ha predisposto nel corso degli anni alcuni strumenti volti a rendere la condivisione degli spazi quanto più serena possibile e disciplinando la convivenza tra la pluralità di diritti in maniera più pacifica possibile. Il mezzo con cui il legislatore ha deciso di perseguire tale fine è il regolamento di condominio, disciplinato dall’art. 1138 del codice civile. In primo luogo, l’obbligatorietà del regolamento è prescritta dalla legge solo laddove i condòmini siano superiori a dieci (sicuramente maggiore è il numero di persone, più alta sarà la probabilità che sorgano contrasti sulla gestione dei beni comuni).
Quanto all’oggetto, esso regolamenta l'uso delle cose comuni e la ripartizione delle spese, secondo i diritti e gli obblighi spettanti a ciascun condomino, nonché le norme per la tutela del decoro dell'edificio e quelle relative all'amministrazione. Ai fini della disamina in oggetto, fondamentale è il disposto dell’ultimo comma dell’art. 1138 c.c., il quale statuisce che le norme del regolamento non possono in alcun modo menomare i diritti di ciascun condomino, quali risultano dagli atti di acquisto e dalle convenzioni, e in nessun caso possono derogare alle disposizioni degli articoli 1118, secondo comma, 1119, 1120, 1129, 1131, 1132, 1136 e 1137 del codice civile. tale ultimo punto è cruciale poiché evidenzia un peculiare atteggiamento del legislatore nel regolamentare la convivenza tra più proprietà in un unico edificio.
Tale statuizione ha portato dunque ad una distinzione tra due forme di regolamento: il regolamento c.d. improprio o negoziale ed il regolamento c.d. proprio o assembleare. Quest’ultimo è il classico regolamento condominiale, disciplinato dal citato art. 1138 c.c. ed approvato dall’assemblea di condominio. Mediante tale strumento, i condòmini possono decidere di predisporre una disciplina delle parti comuni o altre fattispecie che riguardino la gestione del condominio, senza menomare i diritti di ciascuno singolo condòmino sulle singole proprietà abitative.
Le norme poste dal regolamento assembleare, nei limiti di quanto predisposto dall’art. 1138 c.c., determinano il sorgere di obbligazioni propter rem, connotata dal carattere ambulatorio del vincolo. In tal modo, il trasferimento del bene determinerà il sorgere in capo al nuovo titolare di una obbligazione avente il medesimo contenuto di quella esistente in capo all’alienante. Si badi bene, in tal caso non si è in presenza di una successione nel rapporto obbligatorio poiché in capo al nuovo acquirente sorge una nuova obbligazione, seppur di identico contenuto di quella precedente. Laddove le norme del regolamento assembleare eccedano i limiti di contenuto previsto all’art. 1138 c.c., allora non si avrà più un semplice regolamento bensì si sfocerà in una diversa fattispecie, la quale potrà consistere in una convenzione specifica che potrà far sorgere la costituzione di un diritto reale oppure una mera obbligazione personale.
La giurisprudenza[6] infatti ritiene che l’art. 1138, ultimo comma, c.c. si applica al solo regolamento approvato a maggioranza dall’assemblea condominiale e non anche a quello adottato all’unanimità con i consensi uti singuli dei condòmini, che invece hanno valore contrattuale. Inoltre si ritiene che il regolamento condominiale assembleare non vada trascritto laddove siano rispettati i limiti di competenza in merito al suo contenuto. Tuttavia, riconoscendo agli stessi natura di obbligazioni propter rem, sorgeranno anche in capo ai successivi aventi causa, stante la loro già citata natura ambulatoria. Pertanto, il regolamento assembleare ha natura meramente normativa poiché si limita a regolare l’uso delle parti comuni, lasciando estranee al suo ambito applicativo l’incidenza sui diritti dei singoli condòmini in relazione alle loro proprietà private. Diversamente, il regolamento contrattuale o improprio eccede di per sé il campo di applicazione dell’art. 1138 c.c., disciplinando anche la sfera privata del diritto di proprietà dei singoli condòmini. Mediante l’adozione di tale strumento, i singoli condòmini decidono di regolamentare, oltre che le parti comune e la relativa gestione, anche elementi che si pongono al di là di tale ambito.
Nello specifico, i condòmini possono prevedere la creazione di veri e propri vincoli, aventi carattere reale, sia sulle parti comuni sia sulle singole unità abitative dei singoli. Normalmente in materia condominiale si parla sempre di “regolamento” per sottolineare il suo carattere “normativo” ed escludendo invece il carattere “dispositivo-costitutivo” che gli è estraneo.
Tuttavia, nell’ipotesi del regolamento c.d. negoziale, dal momento che si costituiscono diritti reali sui beni immobili, comuni o privati, si dovrebbe parlare più propriamente di veri e propri negozi o contratti costitutivi di diritti reali. Non vi è più l’organo assembleare che dà vita al regolamento bensì l’incontro delle singole volontà dei condòmini che dovrà condensarsi all’interno di un negozio formale, come accade normalmente tra privati. È infatti improprio parlare di consenso unanime inteso come consenso espresso da un organo collegiale poiché in tali fattispecie, trattandosi di veri e propri negozi, sarà necessaria l’espressione di volontà uti singuli di tutti i condòmini. Tali negozi andranno pertanto trascritti nei registri immobiliari, concretizzandosi nella costituzione di diritti reali opponibili a terzi.
A riguardo, giova menzionare alcuni precedenti della Suprema Corte di Cassazione, la quale afferma infatti che le norme del regolamento condominiale che incidono sulla utilizzabilità e la destinazione delle parti dell’edificio di proprietà esclusiva, distinguendosi dalle norme regolamentari, che possono essere approvate dalla maggioranza dell’assemblea dei condomini, hanno carattere convenzionale e, se predisposte dall’originario proprietario dello stabile, debbono essere, pertanto, accettate dai condòmini nei rispettivi atti di acquisto o con atti separati; se deliberate, invece dall’assemblea, debbono essere approvate all’unanimità, dovendo, in mancanza, considerarsi nulle, perché eccedenti i limiti dei poteri dell'assemblea[7].
3.I vincoli e le restrizioni alle facoltà inerenti al godimento della proprietà esclusiva: il diritto di servitù
Alla luce di quanto esposto in precedenza, concentrando l’analisi sul contenuto delle disposizioni inserite all’interno del regolamento condominiale c.d. negoziale o contrattuale (c.d. improprio), è sorto un dibattito in seno alla la giurisprudenza[8] su come qualificare i vincoli gravanti sulle singole proprietà costituenti il condominio. Generalmente si parla di “vincoli di destinazione d’uso[9]”. In particolare, i condòmini possono infatti prevedere dei vincoli che, eccedendo la mera gestione delle parti comuni, sfociano invece in una vera e propria costituzione di diritti reali di servitù.
È stato infatti sostenuto[10] che tali forme di regolamenti debbano aver un contenuto peculiare: proprio in quanto istitutivi di diritti di servitù reciproca, la clausola convenzionale non può avere oggetto generico o indeterminato nell’oggetto, poiché altrimenti si verrebbe a creare una servitù di non facere o di non usare priva di qualsiasi specificità, di guisa che il condomino, o i condomini, che fossero — in ipotesi — tenuti ad osservarla si troverebbero di fatto privati di qualsiasi diritto di godimento di tutte o alcune delle parti comuni dell'edificio in condominio, senza che a tale loro sacrificio corrisponda alcuna concreta utilitas del fondo dominante. Si è pertanto compreso come il regolamento di condominio contrattuale incida direttamente sui diritti soggettivi di ciascun condòmino, ponendo restrizioni al godimento delle singole unità abitative in proprietà esclusiva o all’utilizzo delle parti comuni[11]. La caratteristica principale di tali norme negoziali è tuttavia nel loro carattere intrinsecamente reale. In particolare, le disposizioni del regolamento condominiale improprio, una volta trascritto, vincolano tutti i successivi acquirenti dell’unità abitativa, a prescindere dalla menzione o meno dei relativi vincoli nei titoli di acquisto.
Laddove invece il citato regolamento non venga trascritto, i vincoli in esso contenuti saranno opponibili ai terzi solo e nei limiti in cui essi siano stati menzionati (ed accettati) negli atti di acquisto o se vi sia un rinvio espresso al regolamento tale da formare parte integrante dell’atto stesso. Diversamente, gli eredi subentreranno direttamente ed automaticamente nella stessa posizione giuridica del proprio dante causa, a nulla rilevando la previsione di ulteriori statuizioni. Tornando a quanto espresso precedentemente, chiarito che i vincoli sulle singole abitazioni costituenti il condominio possono essere contenute esclusivamente nell’ambito di un negozio giuridico vero e proprio (il regolamento contrattuale o improprio), ci si è interrogati sulla natura giuridica da riconoscere ai suddetti vincoli di destinazione. Nello specifico, essi possono consistere in pesi o limitazioni a favore di specifiche unità immobiliari e gravanti su altre unità immobiliari, al fine di perseguire un vantaggio collettivo condominiale. In passato, specialmente prima dell’intervento delle Sezioni Unite[12], si è lungamente dibattuto sulla possibilità di destinare alcuni beni comuni ad uso esclusivo di alcune unità immobiliari.
Tuttavia, com’è stato già evidenziato, la Cassazione - in forza del principio del numerus clausus e di tipicità dei diritti reali – esclude la natura “reale” di tali statuizioni, convertendole invece in un mero vincolo obbligatorio[13]. Sulla base di quanto finora affermato, la natura giuridica dei vincoli gravanti sulle singole unità immobiliari del condominio è oggetto di animato dibattito in giurisprudenza. Nello specifico, vi è una parte della giurisprudenza[14] che riconduce tali restrizioni alla fattispecie degli oneri reali. Tale figura giuridica, oramai desueta, si condensa in una prestazione a carattere periodico dovuta da un soggetto per il solo ed unico fatto che si trova nel godimento di un bene, avente carattere reale. Tale ricostruzione tuttavia viene fortemente criticata ed oggi risulta pressocché minoritaria poiché gli oneri reali, atteggiandosi come diritti reali, rientrano a pieno nel principio di tipicità e pertanto è indispensabile che essi siano espressamente previsti dalla legge, non potendo l’autonomia privata creare nuove figure di diritti reali[15].
Pertanto, altra parte della giurisprudenza[16] riconduce tale figura nell’alveo delle obbligazioni propter rem. Come si è fatto notare in precedenza, tale fattispecie giuridica si dimostra invece dotata di una valenza meramente obbligatoria. Anche in questo ultimo caso, tuttavia, gli ultimi approdi della giurisprudenza[17] hanno portato a ritenere che anche le obbligazioni propter rem, oltre che dalla accessorietà e dalla ambulatorietà dal lato soggettivo passivo, sono caratterizzate, al pari dei diritti reali, dal requisito della tipicità, con la conseguenza che non possono essere liberamente costituite dall’autonomia privata ma sono ammissibili soltanto quando una norma giuridica consente che in relazione ad un determinato diritto reale e in considerazione di esigenze permanenti di collaborazione e di tutela di interessi generali il soggetto si obblighi ad una prestazione accessoria, che può consistere anche in un facere. Per tali ragioni, anche esse devono ritenersi escluse dall’ambito di intervento dell’autonomia privata e quindi dello stesso regolamento contrattuale. Il dibattito, ancora non definitivamente sopito, è giunto fino alla recente sentenza in commento, giungendo all’adozione di una soluzione che era in parte già stata propugnata dalla dottrina maggioritaria[18] e che era già stato espresso dalla giurisprudenza di Legittimità[19] da diverso tempo.
4. Il caso sottoposto al vaglio della Suprema Corte di Cassazione: la sentenza n. 15222 del 30 maggio 2023
Dopo aver analizzato il sostrato giuridico in cui si dipana la vicenda giuridica in commento, è adesso opportuno ripercorrere le tappe del processo ermeneutico che ha portato alla statuizione della Cassazione oggetto del presente contributo. La fattispecie processuale sorge dall’adozione di una delibera condominiale con cui si era prevista l’aggiunta, all’art. 9 del relativo regolamento condominiale (assembleare), di un ulteriore divieto consistente nell’impedire di adibire le singole unità immobiliari ad “asilo nido, ludoteca e centro per famiglie e bambini” nonché a non destinare gli appartamenti e gli altri enti dello stabile a uso diverso da quello figurante nel rogito di acquisto, aggiungendo “è vietato destinare gli alloggi a uso sanitario, gabinetti di cura, ambulatorio per malattie infettive e contagiose, scuole di musica, di canto, di ballo e pensioni”.
La sentenza d'appello ha quindi sostenuto che l'art. 9 del regolamento deve intendersi volto a vietare, costituendo “un vincolo di natura reale”, non solo il mutamento della destinazione d’uso degli alloggi rispetto a quanto configurato nei singoli rogiti di acquisto, ma anche l’esercizio di una serie di specifiche attività.
Sul punto, la Cassazione, dopo aver chiarito profili di natura processuale, la legittimazione all’azione e dopo aver circostanziato l’ambito del petitum, afferma come la Corte d'appello di Milano ha deciso le relative questioni di diritto non uniformandosi all’orientamento consolidato di questa Corte, senza fornire elementi che possano indurre a modificare tale orientamento. In particolare, i giudici del gravame hanno quindi sostenuto che l’art. 9 del regolamento deve intendersi volto a vietare, costituendo “un vincolo di natura reale”, non solo il mutamento della destinazione d'uso degli alloggi rispetto a quanto configurato nei singoli rogiti di acquisto, ma anche l’esercizio di una serie di specifiche attività.
La Corte d’appello pertanto ritiene che l’attività di asilo nido privato incorrerebbe in entrambi i divieti regolamentari, avendo essa determinato: a) sia un mutamento della destinazione d’uso, ai sensi della legislazione della Regione Lombardia, sia pure in relazione a “sottocategorie del medesimo raggruppamento”, ovvero da direzionale a produttiva; b) sia l’adibizione ad una delle attività specificamente vietate dal regolamento “essendo l'asilo una scuola ove si pratica notoriamente anche musica e canto oltre ad altre attività didattiche che, per l'affollamento dell'utenza, comportano quelle condizioni di rumorosità che la norma regolamentare ha inteso dl tutto inequivocamente vietare”.
A questo punto, i giudici di Legittimità, aderendo all’orientamento prevalente in giurisprudenza[20], sostengono che le restrizioni alle facoltà inerenti al godimento della proprietà esclusiva contenute nel regolamento di condominio, volte a vietare lo svolgimento di determinate attività all’interno delle unità immobiliari esclusive (nel caso di specie, si tratta del divieto di “destinare gli appartamenti e gli altri enti dello stabile a uso diverso da quello figurante nel rogito di acquisto”, ovvero di “destinare gli alloggi a uso sanitario, gabinetti di cura, ambulatorio per malattie infettive e contagiose, scuole di musica, di canto, di ballo e pensioni”), costituiscono servitù reciproche e devono perciò essere approvate mediante espressione di una volontà contrattuale, e quindi con il consenso di tutti i condomini, mentre la loro opponibilità ai terzi acquirenti, che non vi abbiano espressamente e consapevolmente aderito, rimane subordinata all’adempimento dell’onere di trascrizione del relativo peso.
I giudici di piazza Cavour pertanto aderiscono pienamente all’orientamento giurisprudenziale, anticipato già da parte della dottrina, secondo cui i vincoli imposti su singole unità immobiliari facenti parte di un condominio debbano rientrare nel genus del diritto reale di servitù, in particolare si atteggiano a servitù reciproche. Infatti, la legge con il brocardo latino nemini res sua servit espone uno dei principi fondamentali in tema di servitù prediale: affinché possa sorgere tale diritto, non è possibile che i due beni oggetto di servitù appartengano allo stesso proprietario poiché ciò renderebbe del tutto ultroneo e superfluo la previsione di un simile strumento. Tuttavia, in accordo con quanto da tempo stabilito dalla giurisprudenza di legittimità[21], tale principio non opera in caso di comproprietà, ossia non opera laddove la servitù sia posta a carico o a favore di un bene di proprietà esclusiva ed a carico o a favore di un bene in comproprietà del quale è contitolare anche il proprietario esclusivo dell’altro bene.
È inoltre pacificamente riconosciuta[22] la possibilità di costituire servitù reciproche, ossia poste simultaneamente a favore e a carico di due o più beni, a reciproco vantaggio di entrambi. In tali ipotesi ogni bene acquisirà contemporaneamente la qualitas di fondo servente e di fondo dominante.
Anche in tema di condominio pertanto tali servitù vengono ammesse, nei limiti sopra esposti. Si ritiene infatti non violato il principio di unilateralità delle servitù poiché in tali fattispecie non vi è un’unica servitù che opera di entrambi i lati (servente e dominante) bensì vi sono una pluralità di servitù unilaterali che operano in direzioni opposte tra i medesimi beni gravati.
La ricostruzione operata dalla Cassazione nella sentenza in commento si adatta perfettamente ai precedenti orientamenti giurisprudenziali, giungendo a ritenere come tali restrizioni di godimento delle proprietà esclusive si atteggino a vere e proprie servitù reciproche. Nell’affermare ciò, come già richiamato precedentemente, i giudici precisano che il regolamento condominiale può comunque prevedere limitazioni ai poteri ed alle facoltà spettanti ai condòmini sulle unità immobiliari di loro esclusiva proprietà ma solo in quanto le medesime limitazioni siano enunciate nel regolamento in modo chiaro ed esplicito, dovendosi desumere inequivocamente dall’atto scritto, ai fini della costituzione convenzionale delle reciproche servitù, la volontà delle parti di costituire un vantaggio a favore di un fondo mediante l’imposizione di un peso o di una limitazione su un altro fondo appartenente a diverso proprietario.
Non quindi sufficiente un semplice regolamento assembleare bensì è opportuno che i singoli proprietari delle unità immobiliari condominiali esprimano chiaramente la volontà di costituire un vero e proprio diritto reale di servitù. Il contenuto di tale diritto si concreta pertanto nel corrispondente dovere di ciascun condòmino di astenersi dalle attività vietate, quale che sia, in concreto, l’entità della compressione o della riduzione delle condizioni di vantaggio derivanti - come qualitas fundi, cioè con carattere di realità - ai reciproci fondi dominanti, e perciò indipendentemente dalla misura dell’interesse del titolare del condominio o degli altri condomini a far cessare impedimenti e turbative. In tal senso, la Cassazione ripercorre l’indirizzo giurisprudenziale[23] già attestato in precedenza secondo cui non è dunque idoneo il richiamo operato non mediante elencazione delle attività vietate bensì con un generico riferimento ai pregiudizi che si ha intenzione di evitare, da verificare di volta in volta in concreto, sulla base della idoneità della destinazione, semmai altresì saltuaria o sporadica, a produrre gli inconvenienti che si vollero invece scongiurare. I giudici inoltre richiamano l’orientamento risalente[24] che sostiene come il diritto di servitù sia un “diritto reale speciale”, il quale seppur ricompreso nell’ambito di applicazione del principio di tassatività – diretta promanazione del numerus clausus dei diritti reali – esso può avere un contenuto variegato ed intrinsecamente atipico.
La servitù deve rispondere a requisiti imposti dalla legge al fine di rispettare la tipicità richiesta ma poi esso si snoda in diversi e nuovi contenuti. A fronte di tale apertura, tuttavia, è necessario bilanciare tale autonomia (ossia la possibilità di costituire servitù prediali in base ai propri interessi ed esigenze nei limiti imposti dalla legge) con la salvaguardia dei connotati del diritto di proprietà. Il diritto del proprietario non potrà infatti risultare di fatto svuotato, tale da comportare l’esistenza di un diritto “vuoto”. Le prerogative del titolare del diritto di proprietà del bene servente non potranno essere ristrette e limitate fino al punto di svuotarne qualunque consistenza.
Per tali ragioni, la Cassazione precisa come la costituzione della servitù, concretandosi in un rapporto di assoggettamento tra due fondi, importa una restrizione delle facoltà di godimento del fondo servente ma tale restrizione, seppur commisurata al contenuto ed al tipo della servitù, non può risolversi nella totale elisione delle facoltà di disposizione del fondo servente, precludendo al titolare dello stesso ogni possibile mutamento di destinazione[25].
In tal senso potranno essere liberamente previsti degli accordi aventi rilevanza meramente obbligatoria, i quali – tuttavia – si pongono all’esterno dell’alveo del diritto reale di servitù[26]. Alla luce del percorso ermeneutico enunciato, la Cassazione adotta la seguente massima: “Il contenuto e la portata dei divieti e dei limiti regolamentari di destinazione alle facoltà di godimento dei condomini sulle unità immobiliari in proprietà esclusiva, coerentemente con la loro natura di servitù reciproche, devono essere chiaramente espressi nel regolamento, non potendosi ritenere esplicitati nel caso in cui ci si limiti ad un generico riferimento a pregiudizi che si ha intenzione di evitare”.
5. Conclusioni
L’approdo ermeneutico a cui giunge la Cassazione riporta al centro il dibattito sul rapporto tra diritto di proprietà esclusiva e condominio. In particolare, l’insegnamento che si deve trarre dalla pronuncia in commento si annida in un contesto da tempo ampiamente dibattuto sia in dottrina che in giurisprudenza. I numerosi precedenti richiamati sono infatti la testimonianza di come un simile argomento sia stato scandagliato a fondo nel corso degli anni.
Nello specifico, il tema concernente la liceità delle restrizioni al diritto di proprietà di singole unità immobiliari in condominio si risolve in una problematica molto diffusa nella prassi quotidiana e coinvolge una pluralità di elementi. In primo luogo, sorge l’interrogativo del mezzo da utilizzare al fine di prevedere una simile fattispecie.
L’indirizzo oramai pacifico ed indiscusso porta a ritenere che la costituzione di vincoli a carico della proprietà, costituenti vere e proprie servitù, debbano essere necessariamente costituite mediante un vero e proprio accordo negoziale avente ad substantiam la forma scritta. È infatti indefettibile il requisito dell’incontro delle volontà dei singoli titolari del diritto di proprietà delle unità immobiliari condominiali, non essendo invece sufficiente una mera delibera condominiale.
Tale statuizione appare non molto chiara all’interno del testo adottato dalla Cassazione poiché essa si limita ad affermare che “il regolamento di condominio può stabilire dei limiti all'utilizzo delle proprietà private. Questi limiti, che sono delle servitù prediali che la proprietà sopporta in favore del condominio, per essere validi ed efficaci devono essere espressi in modo preciso e non possono essere ricavati in via interpretativa dal giudice”. Il riferimento sic et simpliciter al regolamento condominiale appare non aderente all’orientamento dominante e oramai attestato in giurisprudenza.
La Cassazione, tuttavia, dà certamente per scontato tale orientamento, uniformandosi ad esso. In particolare, così come è stato chiarito in precedenza, la costituzione di diritti di servitù reciproca deve essere contenuta in un negozio ossia, nel caso del condominio, in un regolamento c.d. contrattuale o improprio. Tale sintesi è inoltre corroborata da un ulteriore e semplice dato normativo. Una volta ricondotti i vincoli suddetti nell’alveo dell’istituto della servitù, ad essi si applicheranno le regole previste dal codice civile a tale fattispecie legale.
Non a caso, l’art. 1031 c.c. – in tema di costituzione delle servitù prediali – afferma che esse possano essere costituite “coattivamente o volontariamente. Possono anche essere costituite per usucapione o per destinazione del padre di famiglia”. Il caso oggetto di scrutinio da parte della Cassazione prevede certamente un’ipotesi di servitù volontaria. Sul punto, si ritiene pacifico ed indiscusso come la locuzione “volontariamente” vada intesa in senso restrittivo, comportando dunque che la costituzione della servitù debba essere predisposta esclusivamente mediante la stipulazione di un negozio giuridico ossia mediante di dichiarazione di volontà dei titolari dei diritti di proprietà sulle singole unità immobiliari (nel caso di specie, del condominio). Inoltre, il richiamato principio di tipicità e tassatività dei diritti reali comporta che tali vincoli, seppur atipici nel contenuto, debbano rispettare i canoni imposti dalla legge in materia di servitù prediali. Il diritto di proprietà pertanto non potrà risultare di fatto svuotato dalla previsione di tali vincoli.
La chiara distinzione che deve tuttavia prevalere consiste sempre nella costituzione di un diritto reale (es. servitù) o nella previsione di un mero obbligo di natura personale (es. obbligo di non ascoltare musica alta nelle ore pomeridiane). Solo per la prima varranno le regole esposte finora, mentre la seconda resterà una convenzione tra due o più persone che potrà essere opponibile solo a chi l’ha espressamente accettata. La vita condominiale dunque potrà essere gestita dai condòmini sia mediante il classico regolamento condominiale-assembleare sia mediante la previsione di espresse pattuizioni negoziali che esulino dalla mera disciplina delle parti comuni o delle spese. In tale frastagliato panorama di norme, è interessante notare come, stante la stringete attualità della materia, anche il Consiglio Nazionale del Notariato[27] abbia predisposto una guida volta a garantire adeguata informazione sulle vicende giuridiche principale in materia di proprietà condominiale.
Per concludere, qualora in ambito condominiale si vogliano prevedere delle pattuizioni entro i limiti di cui all’art. 1138 c.c. sarà sufficiente adottare con le maggioranze richieste una semplice modifica al classico regolamento (c.d. assembleare o proprio) di condominio. Laddove invece i condòmini vogliano prevedere delle limitazioni o restrizioni al diritto di proprietà esclusiva delle singole unità immobiliari (riconosciute pacificamente come servitù reciproche), allora essi dovranno condensare le loro volontà all’interno di un vero e proprio negozio giuridico (c.d. regolamento negoziale o improprio) all’unanimità (o meglio, tutti uti singuli). Affinché tali limitazioni siano opponibili a terzi è infine necessario che il relativo atto venga trascritto, applicandosi la disciplina in materia di costituzione, modifica o estinzione di diritti reali.
[1] C.M. BIANCA, La proprietà, in Diritto civile, 6, Milano, 2017, pag. 358 e ss.; M. BASILE, Condominio negli edifici: I) Diritto civile, in Enc. Giur. Treccani, VIII, 1988; L. SALIS, Il condominio di edifici, Torino, 1959, pag. 30 e ss.;
[2] Tale definizione viene ripresa anche da altri autori, tra cui: T. CAMPANILE, F. CRIVELLARI, L. GENGHINI, I diritti reali, in Manuali notarili a cura di Lodovico Genghini, Milano, 2020, pag. 607 e ss.; S.CERVELLI, I diritti reali, in Collana notarile Guido Capozzi, Milano, 2019, pag. 329 e ss.;
[3] A. TORRENTE, P. SCHLESINGER, Manuale di diritto privato, Milano, 2014, 320-321;
[4] Disciplinato all’art 1117 bis, il “supercondominio” viene definito come il complesso di più condomini che hanno in comune delle parti destinate al loro servizio ed in tutti i casi in cui più edifici o più condominii di unità immobiliari o di edifici abbiano parti comuni ai sensi dell’art. 1117 c.c.;
[5] C.M. BIANCA, La proprietà, in Diritto civile, 6, Milano, 2017, pag. 362 e ss.; F. GIRINO, Il condominio negli edifici, in Tratt. Dir. Priv., diretto da P. Rescigno, vol. 8, Torino, 1982, pag. 394 e ss.; S.CERVELLI, I diritti reali, in Collana notarile Guido Capozzi, Milano, 2019, pag. 335 e ss.; D. IANNI, Le Sezioni Unite sulla natura del diritto d’uso esclusivo condominiale, in Riv. Cammino Diritto, ISSN 2421-7123 Fasc. 02/2021;
[6] Cass. civ., sez. II., n. 1195 del 1987;
[7] Cass. civ., 12 maggio 1994 n. 4632; Cass. civ., 9 luglio 1994 n. 6501;
[8] Cass. civ., sez. II, 27 luglio 2021, n. 21478; Cass. civ., 7 gennaio 1992 n. 49;
[9] M. CEOLIN, Destinazione e vincoli di destinazione nel diritto privato, Padova, 2010, pag. 105 e ss.;
[10] Tra le altre, la più recente: Cass. civ., sez. II, 27 luglio 2021, n. 21478;
[11] Cass. civ., 14 novembre 1991 n. 12173;
[12] Cass. civ., SS.UU., 17 dicembre 2020 n. 28972;
[13] Sul punto, per una disamina più analitica della questione: D. IANNI, Le Sezioni Unite sulla natura del diritto d’uso esclusivo condominiale in Riv. Cammino Diritto, ISSN 2421-7123 Fasc. 02/2021;
[14] Cass. civ., sez. II, 21 maggio 1997 n. 4509; Cass. civ., sez. II, 26 ottobre 1974 n. 3168;
[15] Concetto ribadito da ultimo nella già citata sentenza delle Sezioni Unite n. 28972 del 2020;
[16] Cass. civ., sez. II, 25 marzo 2005 n. 6474; Cass. civ., sez. II, 5 settembre 2000 n. 11684;
[17] Apripista di questo filone interpretativo è certamente la Cass. civ., sez. II, 2 gennaio 1997 n. 8;
[18] C.M. BIANCA, La proprietà, in Diritto civile, 6, Milano, 2017, pag. 366 e ss.; L. SALIS, Il condominio di edifici, Torino, 1959, pag. 30 e ss.;
[19] Cass. civ., 7 gennaio 1992 n. 49; Cass. civ., sez. II, 25 ottobre 2001 n. 13164; Cass. civ., sez. II, 15 aprile 1999 n. 3749;
[20] cfr. Cass. civ., n. 23 del 2004; Cass. civ., n. 5626 del 2002; Cass. civ., n. 4693 del 2001; Cass. civ., n. 13164 del 2001; Cass. civ., n. 49 del 1992; Cass. civ., n. 21024 del 2016; Cass. civ., n. 6769 del 2018; Cass. civ., n. 3852 del 2020; Cass. civ., n. 24526 del 2022;
[21] Cass. civ., 17 luglio 1998 n. 6994;
[22] Cass. civ., 8 marzo 2006 n. 4920; Cass. civ., 25 ottobre 2001 n. 13164;
[23] Cass. civ., n. 38639 del 2021; Cass. civ., n. 33104 del 2021; Cass. civ., n. 24188 del 2021; Cass. civ., n. 21307 del 2016; Cass. civ., n. 23 del 2004;
[24] Cass. civ., n. 1056 del 1950; Cass. civ., n. 1343 del 1950; Cass. civ., n. 4530 del 1984;
[25] Già precedentemente: Cass. civ., n. 1037 del 1966;
[26] Cass. civ., SS.UU., n. 28972 del 2020; sul punto, per una più approfondita disamina sull’argomento: D. IANNI, Le Sezioni Unite sulla natura del diritto d’uso esclusivo condominiale, in Riv. Cammino Diritto, ISSN 2421-7123 Fasc. 02/2021;
[27] Guida “Vivere in Condominio - Casi e risposte pratiche”, realizzata dal Consiglio Nazionale del Notariato insieme ad Anaci (Associazione Nazionale Amministratori Condominiali e Immobiliari) e 14 Associazioni dei Consumatori (Adiconsum, Adoc, Adusbef, Altroconsumo, Assoutenti, Casa del Consumatore, Cittadinanzattiva, Confconsumatori, Federconsumatori, Lega Consumatori, Movimento Consumatori, Movimento Difesa del Cittadino, U.Di.Con, Unione Nazionale Consumatori), Roma, 19 aprile 2023;