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Pubbl. Mer, 23 Ago 2023
Sottoposto a PEER REVIEW

Il rapporto tra colpevolezza e prevenzione con particolare riguardo alla categoria del dolo eventuale

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Vito Mormando
Professore OrdinarioUniversità degli Studi di Bari



L’attuale ordinamento penale non può non abbracciare la necessità di una lettura della politica criminale come insostituibile guida del sistema penale, inteso nella sua più elementare accezione tecnico-giuridica di insieme di norme punitive. Nondimeno, il rischio della tirannia della politica (criminale) sui principi e, con essi, sulle garanzie è tangibile, fino alle derive del populismo penale. Tale rischio investe anche la ricostruzione del dolo eventuale, allorquando esigenze preventive possono condurre a degradare i suoi meccanismi di accertamento in mere presunzione, così vanificando la sua autonomia rispetto alla colpa con previsione ma soprattutto collidendo con il principio costituzionale di colpevolezza.


ENG

The Relationship between Guilt and Prevention with Particular Concerning the Category of Eventual Fraud

The current penal system cannot fail to embrace the need to interpret criminal policy as an irreplaceable guide for the penal system, understood in its most basic technical-juridical meaning as a set of punitive rules. Nonetheless, the risk of the tyranny of (criminal) politics over principles and, with them, over guarantees is tangible, up to the drifts of penal populism. This risk also affects the reconstruction of eventual fraud, when preventive needs can lead to degrading its assessment mechanisms into mere presumption, thus nullifying its autonomy with respect to the foreseeable fault but above all colliding with the constitutional principle of guilt.

Sommario: 1. La dialettica tra sistema penale e politica criminale; 2. La colpevolezza quale limite all’afflittività della retribuzione; 3. Il dolo eventuale tra colpevolezza e politica criminale; 4. La struttura inferenziale del dolo eventuale; 5. Conclusioni. Lo slittamento dei meccanismi di accertamento del dolo eventuale in meccanismi presuntivi in ragione delle esigenze della prevenzione.

1. La dialettica tra sistema penale e politica criminale

La complessità del rapporto che unisce colpevolezza e prevenzione in diritto penale, deriva, anzitutto, dal fatto che la colpevolezza è una categoria interna al sistema, mentre il concetto di "prevenzione" no.

La colpevolezza – quale elemento strutturale del reato – rende personale l’addebito dell’illecito, nonché viene in rilievo sia come presupposto sia come criterio di commisurazione della pena, ricevendo legittimazione finanche costituzionale dall’art. 27 Cost.[1]. Il concetto di “prevenzione”, invece, alludendo alla sterilizzazione di comportamenti socialmente indesiderati in generale, incarna un fine, cui il sistema fisiologicamente tende.

Parlare di “colpevolezza e prevenzione” significa, allora, anzitutto, studiare l’interazione che passa fra il dato teorico-positivo del sistema penale e le istanze teleologiche che ad esso assegna la politica criminale.

Occorre in limine precisare che l’interazione fra sistema penale e politica criminale può essere ricostruita in termini di opposizione o di integrazione.

La prima lettura è più risalente e si basa sull’idea che politica criminale e sistema penale rappresentino due mondi distinti, fra loro non comunicanti. Mentre il sistema penale sarebbe un sistema chiuso di regole giuridiche, logico e coerente al suo interno, finalizzato ad assicurarne un’applicazione il più possibile certa ed uniforme nella molteplicità dei casi concreti; la politica criminale sarebbe invece il luogo del dibattito su come assicurare livelli minimi di convivenza nella società. In tale prospettiva, il sistema penale si opporrebbe alle incursioni emotive e illiberali della politica criminale a garanzia del singolo reo, evitando una sua strumentalizzazione per fini di politica generale. 

Sono invece contributi dottrinari più recenti a leggere, soprattutto grazie alle osservazioni di Roxin[2], l’interazione fra sistema penale e politica criminale in termini di integrazione. Sistema penale e politica criminale non solo non sono due mondi distinti, ma fra di essi sussiste anzi un rapporto di comunicazione ‘strutturale’. Il sistema penale è infatti un mezzo di politica criminale e dunque non fa che formalizzare valutazioni politico-criminali in termini giuridici.

Sono fin troppo noti i pregi e difetti dell’una e dell’altra lettura.

La prima rimanda immediatamente ai fulgori della Scuola Positiva, e al suo più celebre esponente, Arturo Rocco, che – nel dittico di due saggi[3] – additava il metodo tecnico-giuridico come lo strumento in grado di emancipare, definitivamente, il diritto penale dalle tensioni e dalle suggestioni che, dall’esterno dell’ordinamento, premevano per piegarlo a fini e scopi contingentemente politici. L’orizzonte era quello tracciato da Hans Kelsen[4]: un ordinamento giuridico – così costruito – che attestava il compimento del lungo percorso iniziato con l’Illuminismo e l’abbandono di una concezione teologico-sacrale in particolare dello strumento penale[5]. Senonché l’idea di un ordinamento auto-poietico, la cui legittimazione sia del tutto avulsa dal sottostante e magmatico universo politico risulta impraticabile; diritto e politica sono intimamente connessi, perché ogniqualvolta il diritto è posto dinanzi ad una scelta tra alternative tecnicamente praticabili, la soluzione non può che essere politica, intesa come ponderazione di interessi contrapposti.

La seconda lettura presta il fianco ad una pericolosa deriva, oggigiorno ancora più evidente: il ribaltamento dei reciproci pesi tra diritto e politica, con una politica talmente soverchiante da imporre scelte addirittura tecnicamente impraticabili. È lo spettro, che si aggira nell’ordinamento, del populismo penale[6].

Ad onta di questo spettro, nondimeno questa seconda impostazione si rivela, opportunamente temperata, come quella più proficua.

A ragionare in termini “classici”, infatti, non si capisce da dove il sistema deriva la logica che lo ispira, e si è dunque costretti a rinviare a principi ordinatori trascendenti. Religiosi, etici o morali, essi comunque non si sposano con l’immagine di un diritto penale costituzionalmente orientato e, pertanto, in prima battuta, sociale e laico.

Assumiamo quindi che la politica criminale persegua, in generale, lo scopo della prevenzione di condotte socialmente disvolute e a tal fine si serva dello strumento del diritto penale. Il concetto di “prevenzione”, pur provenendo dall’esterno, ha rilevanza centrale all’interno del sistema e ne influenza la struttura. Ogni sua categoria va cioè interpretata come contributo al fine preventivo connaturato complessivamente al sistema. Limitando il discorso, per il momento, alle prime due categorie, in una sistematica intesa in senso teleologico, la tipicità concorre alla prevenzione di comportamenti socialmente indesiderati, perché formula con determinatezza il precetto da rispettare; l’antigiuridicità, perché si pone quale punto di raccordo con l’ordinamento complessivo e quindi quale terreno di soluzione dei conflitti sociali in senso ampio.

Il sistema penale è particolarmente indicato come mezzo di prevenzione di condotte socialmente disvolute, perché è un sistema ‘orientato alla conseguenza’ e ha come conseguenza la pena, ovverosia la più afflittiva fra le reazioni legittimamente adottabili dall’ordinamento giuridico. Come si è soliti affermare quasi tralatiziamente, la pena è un “male legalizzato”. Ma proprio perché invasivo della libertà personale e degradante, il ricorso alla pena dev’essere giustificato.

I problemi di legittimazione concernono sia l’an che il quantum della pena e, in entrambi i casi, non trovano soluzione nelle dinamiche logiche interne al sistema, ma nel dibattito politico-criminale sui fini da assegnare al sistema ed, in particolare, alla pena.

2. La colpevolezza quale limite all’afflittività della retribuzione

Il fine della pena è dunque la prevenzione del comportamento deviante, in genere. 

In realtà, il discorso è molto più dettagliato e si differenzia a seconda del destinatario della strategia di contenimento della devianza e della fase della strategia che viene in rilievo.

Sotto il primo profilo, le strategie di prevenzione dei comportamenti socialmente disvoluti attraverso la pena si differenziano a seconda che abbiano come destinatario l’intera collettività o il singolo reo, ispirandosi, in un caso, a fini di prevenzione generale del fenomeno criminoso su scala sociale (generalprevenzione); nell’altro caso, invece, a fini di prevenzione della recidiva individuale (specialprevenzione).

Sia su scala generale che su scala individuale, la strategia preventiva si basa sulla possibilità di sfruttare la sanzione penale per motivare il proprio destinatario a tenere il comportamento conforme al diritto.

Il che può avvenire in negativo, sfruttando l’effetto deterrente connaturato all’inflizione della sanzione, o in positivo, sfruttandone, per contro, la valenza pedagogico-educativa.

Quanto al secondo profilo, a seconda che ci si trovi nella fase della minaccia, della commisurazione o dell’esecuzione della pena[7], la sanzione tende fisiologicamente ad assumere una dimensione prevalente, anche se non esclusiva. Le diverse letture monotòne che dei fini della pena si sono succedute in dottrina sono da mettere in relazione proprio con un eccesso di considerazione per l’una, l’altra o l’altra fase ancora del ‘processo di punizione’.

Nella fase della minaccia, facendo parte di un precetto legislativo rivolto alla collettività, la sanzione tende a muoversi lungo una dimensione generalpreventiva. Nella fase della commisurazione,invece, la sanzione serve a tradurre e a ‘retribuire’ in termini afflittivi il disvalore sociale connesso al fatto concreto del reo, che dunque funge da limite per la quantificazione della reazione del sistema (retribuzione). Nella fase dell’esecuzione, infine, essa interviene sul reo per evitare che questi si ripeta in futuro e dunque in un’ottica specialpreventiva.

Generalprevenzione e specialprevenzione spingono fisiologicamente la pena in direzioni opposte. La prevenzione generale – nell’accezione tradizionale di prevenzione generale negativa – tende a portare i limiti edittali a livelli terroristici e ad infliggere, in concreto, pene esemplari. La prevenzione speciale – nell’accezione più comune di prevenzione speciale positiva – tende, al contrario, a fare del tutto a meno dei limiti edittali in sede di comminatoria e ad abbassare, in fase di esecuzione, il tasso di afflittività della pena a livelli tali, da risultare compatibili con un’effettiva risocializzazione del reo.

Il processo di punizione non può tuttavia contraddirsi in modo schizofrenico: le valutazioni di prevenzione generale e speciale devono contemperarsi e non vanificarsi a vicenda. Ed è quindi fortemente dubbio che la pena, in fase di comminatoria, si ispiri alla sola prevenzione generale e, in fase di esecuzione, alla sola prevenzione speciale: limiti edittali terroristici, ad esempio, non consentirebbero poi di adattare il tasso di afflittività della pena alle concrete esigenze di risocializzazione del reo.

I due volti del pensiero preventivo vanno dunque reciprocamente integrati in ogni fase del processo di punizione. Che la pena abbia, nel nostro ordinamento, natura polidimensionale è, del resto, confermato dall’interpretazione più accreditata dell’art. 27, co. 3 Cost., il quale non concluderebbe il dibattito sui fini della pena a favore della sola prevenzione speciale, delegittimando in ogni caso considerazioni generalpreventive, ma sancirebbe ‘soltanto’ il dovere del sistema di mettere il reo, nella fase di commisurazione ed esecuzione della pena, in condizione di scegliere per il reinserimento sociale[8].

Il baricentro dell’operazione d’integrazione è rappresentato dalla pena che più s’avvicina ad un calco, in termini afflittivi, del disvalore del singolo fatto, e cioè dalla pena retributiva. 

Come già s’è accennato, la pena tende a manifestare la propria vocazione retributiva in sede di commisurazione della pena, quando cioè si tratta di soppesare la gravità del reato e di determinarne il corrispettivo in termini sanzionatori.

Il concetto di “retribuzione” possiede, in realtà, una rilevanza che travalica i limiti della fase di commisurazione, perché esprime una costante strutturale interna all’idea stessa di “pena”[9]. Anche in un diritto penale primitivo, la pena serve infatti a retribuire e compensare il male rappresentato dal fatto criminoso. 

Ciò che è peculiare della retribuzione penale è che essa è un mezzo di compensazione reale e simbolico al tempo stesso. È reale, perché effettivamente al male del reato si risponde con l’inflizione del male della pena; ma è al contempo simbolico, perché fra reato e sanzione esiste un rapporto di commensurabilità solo assiologica. La pena non è un istituto assimilabile al risarcimento del danno e non ha come scopo quello di ripristinare materialmente lo status quo ante rispetto al reato. Più che compensare in senso stretto il male rappresentato dal crimine, la pena persegue l’obiettivo di incidere sul ‘meccanismo di produzione’ del male, in modo che meno male venga commesso in futuro. In questo senso, la pena ha struttura intrinsecamente retributiva in nome di finalità preventive.

Ma la prevenzione che viene in rilievo a livello di retribuzione, non è né generale né speciale, perché appartiene all’ ‘essenza penale’ stessa della sanzione e, in un certo senso, le precede entrambe. In prospettiva retributiva, alla sanzione non interessa motivare nessuno a tenere il comportamento conforme al diritto, né la collettività dei consociati, né il singolo reo; ad essa interessa soltanto interrompere tout court il ‘ciclo’ di perpetuazione dell’offesa, ben rappresentato, per esempio, dai meccanismi di vendetta privata. Per raggiungere tale obiettivo, il crimine viene ripagato con l’inflizione legalizzata di una sofferenza, che ne eguagli, con la propria afflittività, il disvalore. Ed è proprio l’idea di pareggiamento a costituire, assieme all’idea di prevenzione, il fulcro del concetto di retribuzione. 

Se, allora, la struttura interna della pena è retributiva e l’idea di retribuzione implica che l’afflittività della pena sia esattamente pari al disvalore del crimine, quest’ultimo rappresenta il limiteche la sanzione non può legittimamente oltrepassare.

Il discorso è in realtà più complesso di quanto appare, perché non si basa esclusivamente su “fatti”, ma su dati assiologici, in sé relativi e mutevoli. Il nocciolo è costituito dal concetto di “disvalore del fatto”, che dovrebbe fungere da parametro ed argine per l’inflizione della sanzione. In un diritto penale “primitivo”, il disvalore del fatto ha dimensione esclusivamente oggettiva: ciò che è riprovevole, è la materiale produzione dell’evento e chi l’ha causato ne risponde per ciò solo. È proprio invece di un sistema penale “evoluto” correggere una percezione solo oggettiva del disvalore con valutazioni di ordine soggettivo. Il fatto è riprovevole se è “opera” dell’agente non solo su di un piano eziologico, ma anche su di un piano psicologico. Mentre, nel primo caso, la sanzione penale retribuisce il disvalore del fatto in sé; nel secondo caso, il termine (invalicabile) di paragone per la compensazione è rappresentato, invece, dalla colpevolezza per il fatto.

Che il nostro sistema appartenga, quantomeno nelle intenzioni del Costituente, al novero dei sistemi penali “evoluti”, è confermato dall’art. 27, co. 1 Cost.

Il principio di personalità della responsabilità penale è, infatti, nell’accezione più ampia, sinonimo del principio di responsabilità penale colpevole. La sanzione penale incontra allora un limite intrinseco: essa non può legittimamente superare la soglia segnata dalla retribuzione della colpevolezza – ovvero, se coordiniamo il principio di responsabilità penale colpevole col principio costituzionale di offensività, essa non può legittimamente superare la soglia segnata dalla colpevolezza per il fatto. Il discorso sui fini della pena risulta quindi ulteriormente semplificato: non solo la strategia di prevenzione del comportamento deviante, per muoversi coerentemente su i due piani della prevenzione generale e speciale, deve contenerne gli eccessi in un’ottica di integrazione reciproca lungo tutto il processo di punizione; ma deve costringere tale integrazione comunque al di sotto del limite della colpevolezza per il fatto.

3. Il dolo eventuale tra colpevolezza e politica criminale

In realtà, qualsiasi velleità di prevenzione dei reati – correlata com’è, in ultima istanza, all’inflizione della sanzione – non può che scontare un rapporto di dipendenza diretta dai meccanismi preposti al loro accertamento. La prevenzione di un certo tipo di illecito è subordinata cioè alla mira e alla praticabilità delle procedure messe a punto per verificare che, in concreto, ne siano integrati gli elementi costitutivi.

È proprio sotto tale profilo che, nell’emisfero doloso della responsabilità colpevole, risulta particolarmente problematica la figura del dolo eventuale.

Si tratta, com’è noto, di una forma di colpevolezza posta al confine tra la responsabilità dolosa e la responsabilità colposa e compresa, in particolare, fra il dolo intenzionale e la colpa con previsione.

Il dolo eventuale rappresenta un ganglio fondamentale di una politica criminale volta alla prevenzione dei reati.

Quando in concreto non si sia in presenza di un dolo pieno, è infatti il dolo eventuale a sancire o meno la rilevanza penale di fatti che non siano sussumibili sotto fattispecie espressamente punite anche a titolo di colpa; ed è sempre il dolo eventuale, laddove tale previsione sia invece presente, a determinare il quantum della risposta sanzionatoria, innalzandolo rispetto alla soglia prevista per la corrispondente ipotesi colposa.

Com’è noto, il dolo eventuale si distingue dal dolo intenzionale essenzialmente sotto il profilo volitivo: in quest’ultimo caso, l’agente assume come scopo della propria azione la realizzazione dell’evento tipico, prevedendolo come conseguenza certa o anche solo possibile – ad esempio, per inesperienza o per le circostanze oggettive al contorno – della propria condotta; nel primo caso, invece, l’agente non agisce per realizzare l’evento tipico, ma si limita ad accettarlo come semplice corollario eventuale del proprio comportamento[10].

Il ricorso al criterio dell’accettazione del rischio è infatti prevalente, in giurisprudenza e in dottrina, per illuminare la struttura del dolo eventuale e distinguerlo dalla colpa cosciente[11].

Diversi sono stati i criteri elaborati allo scopo, rivelatisi poi inadeguati.

Senza pretesa di completezza, si possono ricordare, ad esempio, i criteri desumibili dalla teoria finalistica dell’azione; i criteri intellettualistici della teoria della rappresentazione; i criteri emozionali, incentrati sull’atteggiamento interiore dell’agente.

I primi, facendo leva sul concetto finalistico di azione penalmente rilevante come attività finalisticamente rivolta alla realizzazione dell’evento tipico e imperniandosi sulla distinzione fra “finalità reale” e “finalità potenziale” (da intendersi, quest’ultima, come ‘dominabilità’ dell’evento previsto), non riescono concettualmente a distinguere il dolo eventuale dalla colpa cosciente, perché in entrambi la finalità, secondo una simile classificazione, è sempre del secondo tipo.

Inutili si sono peraltro rivelati anche i criteri intellettualistici, che pretendono di fondare la distinzione sulla differenza che passerebbe tra la previsione della possibilità di verificazione dell’evento in concreto (caso in cui si sarebbe in presenza di un dolo eventuale) e la previsione di tale possibilità in astratto (ipotesi in cui si dovrebbe invece riconoscere una colpa cosciente). Sono criteri che, evidentemente, non tengono conto del fatto che il dolo non si riduce alla sola componente intellettiva, ma è anche volontà; e che anche la colpa cosciente richiede la previsione della possibile verificazione dell’evento tipico in concreto, dovendo altrimenti riconoscersi una colpa in capo a tutti coloro che si impegnino in attività notoriamente pericolose, come, ad esempio, la circolazione stradale.

Stessa sorte per gli ultimi criteri considerati, secondo i quali la distinzione si giocherebbe sul diverso atteggiamento interiore dell’agente che, se in dolo eventuale, sarebbe colpevole, in sostanza, di aver aderito intimamente all’evento (con un atteggiamento di approvazione, consenso o indifferenza rispetto ad esso), mentre, se in colpa cosciente, andrebbe rimproverato soltanto per aver sperato nella sua non verificazione[12]. Anche tralasciando l’evidente estraneità di parametri siffatti rispetto ad un diritto penale a base oggettiva e ad una concezione del dolo come coefficiente d’imputazione scevro (e si veda il disposto dell’art. 90 c.p.) di ogni coloritura di carattere emotivo, sembra difficile immaginarne una concreta praticabilità in sede di applicazione.

Secondo la lettura prevalente, un soggetto è in dolo eventuale, dunque, quando, pur avendo previsto l’evento tipico come possibile effetto collaterale, non desiste dalla linea d’azione prescelta. Dev’essersi rappresentato cioè, al momento di agire, la positiva possibilità della sua verificazione; oppure deve aver accettato di rimanere con la convinzione o anche solo col dubbio che esso si sarebbe verificato; oppure dev’essersi risolto a tenere la condotta quali che ne fossero gli esiti e quindi anche a costo di causare l’evento.

I problemi relativi all’accertamento del dolo eventuale sono in realtà i problemi tipici dell’accertamento di “fatti” che non appartengono ad una dimensione stricto sensu fenomenica. Il che accade, in genere, per tutti i coefficienti di partecipazione soggettiva al reato.

4. La struttura inferenziale del dolo eventuale

Anche se il parametro di colpevolezza è, per eccellenza, reale e dotato di una ben precisa essenza naturalistica – ed è, in questo senso, un fatto –, il dolo sfugge infatti ad una verifica sensoriale. Se quindi il principio generale della colpevolezza per il fatto impedisce di presumerlo ex lege in presenza di determinate condizioni, occorre nondimeno rilevare come, in ciò distinguendosi dagli altri elementi del tipo, il dolo non possa che essere oggetto di un accertamento indiretto e di tipo inferenziale, a costo, altrimenti, di gravare il giudizio d’imputazione di una vera e propria probatio diabolica.

Il ragionamento inferenziale non è che una specie particolare di argomentazione logica, costituita da almeno tre elementi: una piattaforma fattuale, nota e dotata di prova diretta; un fatto ignoto, privo di prova diretta, ma suscettibile di essere desunto sulla scorta della prima; e un principio di inferenza, ossia una ragione di ordine sostanziale che giustifichi il passaggio dal primo al secondo elemento.

La prima difficoltà dipende dal fatto che i contorni della piattaforma oggetto di prova diretta, non possono, in sede di accertamento del dolo – i.e. del fatto, in ipotesi, ignoto –, essere positivizzati a priori dalla singola norma incriminatrice. Vi confluiscono, infatti, tutte le circostanze esteriori che in qualche misura possono rispecchiare l’atteggiamento psichico dell’agente e che, nella varietà dei casi concreti, sono suscettibili di assumere le più diverse fisionomie.

La conseguenza è che non è possibile formalizzare neppure il principio sostanziale che dovrebbe fungere da guida della singola inferenza. Saranno infatti comuni regole di esperienza, individuate di volta in volta sulla scorta dei tratti della base fattuale di partenza, a consentire di desumere dall’esistenza di quelle determinate circostanze, in un’estensione analogica al caso di specie dell’id quod plerumque accidit, la rappresentazione e la volizione dell’agente. In tale contesto, va riconosciuta poi notevole importanza anche alla valutazione dei fatti di segno contrario, alla valutazione delle condizioni cioè che lascino supporre che il caso di specie rappresenti una deviazione rispetto a quanto normalmente accade[13].

Ciò che è peculiare nel processo di accertamento del dolo eventuale, è il tasso di equivocità della piattaforma fattuale dotata di prova diretta.

Oggetto di accertamento è qui, anzitutto, la non intenzionalità dell’evento tipico. Elemento che si può desumere dall’accertata finalizzazione, in concreto, della condotta ad un evento diverso, ma che avvicina, in sostanza, l’inferenza in esame al contiguo procedimento di verifica della colpa.

L’accertamento concerne, in secondo luogo, la previsione dell’evento come conseguenza della condotta – requisito che ancora una volta possiamo ritrovare, con gli stessi tratti, nel giudizio relativo alla colpa cosciente.

L’accertamento riguarda, infine, l’accettazione dell’evento tipico. Si tratta di un ‘fatto’ che è possibile desumere soltanto dalla presenza di circostanze ritenute generalmente sintomatiche: lo è, ad esempio, la circostanza che l’agente abbia previsto come certo o estremamente probabile l’evento, ossia che l’abbia previsto come conseguenza necessaria o assolutamente verosimile della propria condotta; lo è, poi, la circostanza dell’aver o meno adottato misure volte ad evitare l’evento; lo è, infine, la presenza o meno di indizi indicativi della presenza di un rischio cosiddetto “schermato”, ossia dominabile dall’agente sulla base delle sue particolari caratteristiche personali[14].

Come si vede, due elementi su tre consentono di sovrapporre, da un punto di vista strutturale, l’inferenza relativa al dolo eventuale a quella, limitrofa per disvalore, della colpa con previsione. 

Sembrerebbe il terzo l’elemento scriminante.

Sembrerebbe cioè rimessa all’individuazione delle circostanze sintomatiche dell’accettazione dell’evento da parte dell’agente la determinazione del tracciato di frontiera fra i due emisferi della responsabilità colpevole, fra il dolo e la colpa[15].

Il che tuttavia non rassicura sull’uniformità e la standardizzazione della distinzione. 

È chiaro infatti che leggere una certa circostanza come sintomatica di un coefficiente di partecipazione soggettiva piuttosto che di un altro – operazione che dipende, alla fine, dalla sensibilità e dal fiuto di chi vi procede – più che in un accertamento sembra risolversi in una interpretazione.

Interpretazione quest’ultima, il cui criterio ispiratore, lungi dall’essere predeterminato per via autentica – s’è visto infatti come i parametri rilevanti in sede di accertamento sfuggano a qualsiasi tipizzazione –, non può che essere lasciato alla mercé delle valutazioni proprie, in senso lato, dei processi di criminalizzazione secondaria.

Sono appunto esigenze politico-criminali di prevenzione dei reati – melius di determinati reati – a suggerire una lettura della piattaforma fattuale piuttosto che un’altra.

Come grandezza politico-criminale, la prevenzione è instabile e mutevole nel tempo. Il che significa che la categoria della colpevolezza e, nella specie, i confini fra dolo eventuale e colpa cosciente non sono definiti, una volta per tutte, nei contenuti in relazione ad esigenze preventive date, ma sono interessati dall’evoluzione e dalle contraddizioni del contingente dibattito politico-criminale.

5. Conclusioni

Lo slittamento dei meccanismi di accertamento del dolo eventuale in meccanismi presuntivi in ragione delle esigenze della prevenzione.

Il compito preventivo che la politica criminale assegna al sistema, non ha poi a che vedere con la prevenzione della devianza in generale, ma si specifica in relazione alla singola tipologia di reati. Tenuto quindi conto dell’interazione esistente fra finalità politico-criminali di ordine preventivo e sistema, i presupposti della reazione penale, e quindi i contenuti di colpevolezza, dolo eventuale e colpa cosciente, tenderanno a specificarsi, nella sostanza, a seconda della fenomenologia criminosa considerata.

In prospettiva diacronica, si può supporre che il dibattito politico-criminale modifichi gli equilibri e le istanze preventive corrispondenti ad un certo momento storico, ad esempio, verso l’alto. 

Non si tratta, in realtà, di supposizioni del tutto teoriche. 

Come sottolineano fette consistenti della dottrina più recente, il sistema sociale tende, infatti, attualmente ad accrescere in progressione i ‘carichi preventivi’ del sistema penale e a considerarlo, anzi, in evidente contraddizione col principio di frammentarietà, quale mezzo di una politica di prevenzione a tappeto.

Attualmente, la richiesta politico-criminale di una prevenzione più ampia ed efficace ha base collettiva e deriva, da una parte, da bisogni collettivi di prevenzione in senso stretto, che perseguono complessivamente l’obiettivo della “sicurezza” per il futuro; dall’altra, da bisogni collettivi di stabilizzazione di fronte al fenomeno criminoso, che, in una prospettiva rivolta al passato ed in nome di un ideale lato sensu di giustizia, mirano a riaffermare la tenuta del sistema in generale.

Per esemplificare, i bisogni del primo tipo concernono, in modo paradigmatico, la categoria degli illeciti colposi commessi nell’esercizio di attività pericolose, ma irrinunciabili nel contesto sociale attuale; i bisogni del secondo tipo, invece, emergono esemplarmente con riferimento alla categoria della criminalità di origine pubblica, costituita cioè dai reati riconducibili ad un abuso di poteri pubblici.

Le richieste di una prevenzione più ampia non possono che ripercuotersi su tutte le categorie del reato e, quindi, anche sulla categoria della colpevolezza e sulle sue partizioni interne.

Da quest’ultimo punto di vista, va rilevato come le tecniche che mirano ad aumentare l’efficacia preventiva della reazione penale passando per la colpevolezza, siano sostanzialmente due: si può mantenere la sanzione comunque sotto la copertura sostanziale della colpevolezza per il fatto ed avvicinarla semmai in progressione alla soglia della retribuzione, in modo da farle acquisire una maggiore efficacia deterrente; oppure –  alternativa dotata di efficacia preventiva maggiore – si può trasformare la copertura della colpevolezza per il fatto in una copertura solo formale.

Proprio quest’ultimo sembra essere quanto accade, secondo frange sempre più consistenti della dottrina, nelle ipotesi più recenti di applicazione del sistema a ridosso della frontiera fra dolo e colpa, rectius fra dolo eventuale e colpa cosciente.

La prassi giurisprudenziale tende infatti, in alcuni casi, a dilatare l’area coperta dal dolo eventuale, presumendolo in re ipsa sulla base della semplice pericolosità oggettiva della condotta; in altri casi, invece, attribuisce quasi tralatiziamente la qualifica di “colposo” a reati commessi nell’ambito di determinate attività (come, ad esempio, gli incidenti stradali o gli infortuni sul luogo di lavoro per inosservanza delle norme antinfortunistiche), senza impegnarsi in alcuna verifica, volta ad accertare se, in concreto, si fosse in presenza di un dolo eventuale e non di una colpa con o senza previsione.

In simili ipotesi, la sanzione mantiene una legittimità di facciata, perché non supera lo sbarramento rappresentato dalla pena retributiva, ma la funzione della colpevolezza come ‘limite’ alla reazione penale viene di fatto svuotata dall’interno.

Lo strumento di una simile operazione è rappresentato dalla trasformazione dei meccanismi di accertamento dei coefficienti psicologici reali della categoria in meccanismi di presunzione. Ciò che decide dell’atteggiamento doloso o colposo del soggetto non è più tanto il dato naturalistico, quanto l’urgenza dei bisogni collettivi di prevenzione rispetto alla situazione tipica in cui egli agisce e alla classe di eventi in cui essa tipicamente si svolge. 

Tanto maggiore l’urgenza, tanto più forte la tendenza ad affermare, a parità di base naturalistica, il dolo e non la colpa e a risolvere i casi dubbi, forti dell’equivocità connaturata alla piattaforma fattuale del giudizio, a favore della forma eventuale di dolo piuttosto che della forma aggravata di colpa.

La rilevanza pratica della trasformazione in senso presuntivo dei meccanismi di accertamento deriva, com’è noto e come già s’è accennato, dal fatto che, sempre limitandosi alle forme di responsabilità colpevole, affermare che un soggetto abbia agito con dolo o con colpa si riflette sia sulla rilevanza penale del fatto (art. 42, co. 2 c.p.) sia sull’entità della pena (art.133, co. 1, n. 3 c.p.) e dunque ha immediati risvolti preventivi. 

Nella versione a maggiore efficacia preventiva, il giudizio di imputazione penale perde dunquel’apporto garantistico storicamente desumibile dalla categoria della colpevolezza come ‘limite’, pertrasformarsi invece in un meccanismo di ‘nuova’ retribuzione a base collettiva.


Note e riferimenti bibliografici

[1] G. MARINUCCI-E. DOLCINI- G.L. GATTA, Manuale di Diritto penale, Milano, 2023.

[2] C. ROXIN, Kriminalpolitik und Strafrechtssystem, Berlin, 1970.

[3] A. ROCCO, L’oggetto del reato e della tutela giuridica penale, Milano, 1913; Id., Il problema e il metodo nella scienza del diritto penale, Milano, 1910.

[4] H. KELSEN, Reine Rechtslehere, Wien, 1934-1960.

[5] S. MOCCIA, Carpzov e Grozio. Dalla concezione teocratica alla concezione laica del diritto penale, Napoli, 1988.

[6] Ex multis, M. DONINI, Populismo penale e ruolo del giurista, in Sistema penale, 2020, 1-22.

[7] C. ROXIN, Sinn und Grenzen staatlicher Strafe, Berlin, 1966.

[8] E. DOLCINI, La commisurazione della pena, Padova, 1979.

[9] L. EUSEBI, La “nuova” retribuzione, in Marinucci-Dolcini (a cura di), Diritto penale in trasformazione, Milano, 1985

[10] Così Cass. pen., Sez. I, 30 marzo 2023, n. 23543: “Il dolo diretto omicidiario non postula che l’evento morte venga previsto e voluto dal soggetto attivo, quale unica e sicura conseguenza della condotta, essendo sufficiente, al contrario, che tale evento sia previsto e voluto come conseguenza altamente probabile, nell’ambito di una dinamica offensiva che comprenda anche - in termini cumulativi e alternativi – l’evento delle lesioni”.

[11] Da ultimo, cfr. Cass. pen., Sez. VI, 18 ottobre 2022, n. 47152: “in tema di elemento soggettivo del reato, ricorre il dolo eventuale- e non la colpa cosciente - quando l’agente si sia rappresentato chiaramente la significativa possibilità di verificazione dell’evento concreto e ciò nonostante, dopo aver considerato il fine perseguito e l’eventuale prezzo da pagare, si sia determinato ad agire comunque, anche a costo di causare l’evento lesivo, aderendo ad esso per il caso in cui si verifichi”, nell’ambito di una giurisprudenza pressoché consolidata successivamente alla nota pronuncia Cass. pen., Sez. Un., 24 aprile 2014, n. 38343 (c.d. ThyssenKruypp).

[12] Traccia di una siffatta impostazione si legge, ad esempio, in Trib. Chieti, 19 marzo 2018: “il dolo eventuale in materia di falsità dichiarative richiede, oltre alla previsione dell’evento, l’accertamento di una presa di posizione volontaristica, di un atteggiamento psichico che indichi una qualche adesione all’evento per il caso che esso si verifichi quale conseguenza non voluta della propria condotta”.

[13] Stigmatizza la delicatezza dell’accertamento del coefficiente doloso come eventuale, anche allo scopo di differenziarlo dalla contigua colpa coscienete, Cass. pen., Sez. I, 1 febbraio 2011, n. 10411: “la delicata linea di confine tra il “dolo eventuale” e la “colpa cosciente” o “con previsione” e l’esigenza di non svuotare di significato la dimensione psicologica dell’imputazione soggettiva, connessa alla specificità del caso concreto, impongono al giudice di attribuire rilievo centrale al momento dell’accertamento e di effettuare con approccio critico un’acuta, penetrante indagine in ordine al fatto unitariamente inteso, alle sue probabilità di verificarsi, alla percezione soggettiva della probabilità, ai segni della percezione del rischio, ai dati obiettivi capaci di fornire una dimensione riconoscibile dei reali processi interiori e della loro proiezione finalistica. Si tratta di un’indagine di particolare complessità, dovendosi inferire atteggiamenti interni, processi psicologici, attraverso un procedimento di verifica dell' “id quod plerumque accidit” alla luce delle circostanze esteriori che normalmente costituiscono l’espressione o sono, comunque, collegate agli stati psichici”.

[14] Esemplificativa di un corretto accertamento dei requisiti fattuali-strutturali del dolo eventuale è Cass. pen., Sez. I, 22 giugno 2017, n. 14776: “in tema di colpa medica, si può ritenere sussistente il dolo eventuale solo se si raggiunge la certezza che il medico accetta non solo il rischio che il paziente possa perdere la vita nell’intervento realizzato per motivi egoistici, ma anche che si sia rappresentato il decesso come conseguenza della sua condotta e abbia deciso di entrare in sala operatoria a costo di causare la morte dell’ammalato pur di realizzare il suo fine. Ai fini dell'integrazione del dolo eventuale si esige, quindi, la puntuale e rigorosa ricorrenza, in relazione a ciascun evento mortale, dell’elemento volontaristico costituito non solo dalla rappresentazione del decesso del paziente, come conseguenza della condotta dell’agente priva di reale giustificazione medico chirurgica e animata da motivazioni egoistiche, e non tanto dalla mera accettazione del rischio di verificazione del relativo evento, quanto soprattutto dalla concreta adesione psichica all’accadimento dell’evento morte, mediante il positivo accertamento della determinazione volitiva dell’imputato di agire comunque, ciò nonostante e dopo aver valutato l’eventuale prezzo da pagare, anche a costo di causare la morte del paziente, pur di perseguire il fine primario della condotta”.

[15] Condivisibile è, dunque, Cass. pen., Sez. VI, 18 novembre 2019, n. 16765: “in tema di peculato commesso mediante indebito utilizzo del Fondo per il funzionamento dei gruppi consiliari regionali, ai fini del concorso doloso del capogruppo che autorizzi il rimborso di spese sostenute dal consigliere per finalità non istituzionali, è necessario l’accertamento della piena consapevolezza da parte del primo dell’uso illecito del danaro pubblico, che non può desumersi dall’assenza di adeguate verifiche della conformità tra giustificativi di spesa ed iniziative del gruppo, né dall’ampiezza dei rimborsi consentiti. (In motivazione, la Corte ha precisato che il mero dubbio, rimasto non risolto, sulla illiceità dei rimborsi autorizzati non è dimostrativo di dolo eventuale, perché compatibile con la negligenza, e dunque con l’imputazione del fatto al capogruppo a titolo di colpa cosciente)”.

Bibliografia

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G. MARINUCCI-E. DOLCINI- G.L. GATTA, Manuale di Diritto penale, Milano, 2023

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C. ROXIN, Sinn und Grenzen staatlicher Strafe, Berlin, 1966