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Pubbl. Mer, 5 Lug 2023

La responsabilità civile del magistrato alla luce della recente pronuncia della Corte costituzionale

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Emanuele Pasquale Scigliano
Dottorando di ricercaUniversità degli Studi di Catanzaro Magna Græcia



La responsabilità civile del magistrato si fonda sulla ricerca di un equilibrio tra distinte esigenze. È questo il punto di partenza del presente contributo il quale mira ad analizzare l’evoluzione storica e costituzionale in materia, fino ad arrivare alla recente pronuncia della Corte Costituzionale circa l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, co. 1 della L. 13 aprile 1988, n. 117 e della L. 27 febbraio 2015, n. 18. Altro fattore centrale e punto nevralgico del presente scritto è da riscontrarsi nella labile linea di confine tra illecito del magistrato e responsabilità dello Stato, tutto ciò sarà possibile inquadrando preliminarmente il concetto di illecito civile e responsabilità extracontrattuale.


ENG

The civil liability of the magistrate in the light of the recent ruling by the Constitutional Court

The civil liability of the magistrate is based on the search for a balance between distinct needs. This is the starting point of this contribution which aims to analyze the historical and constitutional evolution on the subject, up to the recent ruling of the Constitutional Court regarding the constitutional illegitimacy of art. 2, co. 1 of Law 13 April 1988, n. 117 and of Law 27 February 2015, n. 18. Another central factor and focal point of this paper is to be found in the blurred line between the tort of the magistrate and the responsibility of the State, all of which will be possible by first framing the concept of tort and non-contractual liability.

Sommario: 1. L’illecito civile e la responsabilità extracontrattuale 2. La responsabilità civile del magistrato: evoluzione storica; 2.1. La disciplina normativa: L. L. 13 aprile 1988, n. 117 e L. 27 febbraio 2015, n. 18; 3. Illecito del magistrato e responsabilità dello Stato; 4. La pronuncia n. 205 del 15/09/2022 della Corte Costituzionale; 5. Conclusioni

1.L’illecito civile e la responsabilità extracontrattuale

Quando si parla di responsabilità civile del magistrato occorre, necessariamente, inquadrare il contesto di riferimento. Infatti, prima di addentrarci in quella che è stata l’evoluzione storico – normativa in materia, risulta opportuno, al fine di comprendere meglio ciò che si dirà nel prosieguo, inquadrare gli istituti giuridici in cui si colloca tale responsabilità.

La responsabilità civile nasce dalla necessità dell’ordinamento di tutelare l’integrità della persona, il suo onore, la proprietà sulle cose che le appartengono. L’interesse tutelato, pertanto, non si soddisfa mediante una prestazione altrui – come nel caso del credito – bensì sulla possibilità di continuare a godere di un determinato bene. I soggetti hanno il dovere di astenersi dal ledere tali situazioni, in violazione di tale dovere si configura un fatto illecito con conseguente pregiudizio dell’interesse protetto e necessario risarcimento da parte del danneggiante del danno causato. È in questi termini che può essere spiegato il dettato dell’art. 2043 c.c. – rubricato “risarcimento per fatto illecito” – il quale dispone che «qualunque fatto doloso o colposo[1], che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno”. Pertanto, la legge indica espressamente quando un determinato fatto è illecito, ossia quando lede l’altrui integrità o l’altrui reputazione o, ancora, l’altrui diritto di proprietà o altra situazione soggettiva tutelata dalla legge[2]. Tuttavia, la legge non definisce cosa debba intendersi con l’espressione “danno ingiusto” né quali siano i criteri per stabilire se un determinato danno sia ingiusto o meno. Ciò che è certo è che, per aversi un danno ingiusto[3] non basta una qualsiasi lesione degli interessi altrui ma è necessario identificare le lesioni che costituiscono danno ingiusto, ossia gli atti che, cagionando lesione, producono atti illeciti mediante una condotta antigiuridica[4].

Dal fatto illecito, dunque, nasce un’obbligazione che si sostanzia nel risarcimento del danno in cui il creditore è il danneggiato mentre il debitore è autore del fatto illecito, ex art. 1173 c.c.[5].

Pertanto, la responsabilità che consegue alla violazione del precetto del neminem leadere[6] prende il nome di responsabilità aquiliana o extracontrattuale da atto e/o fatto illecito e, più recentemente, di responsabilità civile. 

Con il termine responsabilità civile si descrive l’effetto legale dell’illecito trascurando, al contempo, il comportamento del danneggiante. In altre parole, sta a significare l’esigenza di far prevalere la funzione riparatoria dell’istituto su quella sanzionatoria del comportamento antigiuridico del danneggiante.

La responsabilità civile del magistrato, alla luce di quanto esposto, si inserisce nell’alveo della responsabilità extracontrattuale[7]. Questa, come è noto, non prevede che vi sia alcun rapporto obbligatorio tra le parti bensì nasce dal fatto illecito compiuto dal danneggiante nei confronti del danneggiato[8]. In regime di responsabilità extracontrattuale, l’onere della prova è in capo al danneggiato, il quale, al fine di ottenere il risarcimento del danno, deve provare tutti gli elementi costitutivi del fatto illecito, compresi la colpa o l’eventuale dolo del danneggiato, la perdita subita ed il nesso causale tra la condotta dell’autore dell’illecito ed il danno patito[9]. Inoltre, particolare in materia è il termine prescrizionale, in quanto, ex art. 2947 c.c., il diritto al risarcimento del danno da illecito extracontrattuale si prescrive nel termine breve di cinque anni[10], decorrenti dal giorno in cui il fatto si è verificato, ulteriormente ridotto a due anni per i danni da circolazione di veicoli.

In sintesi, la responsabilità extracontrattuale implica che: siano risarcibili tutti i danni subiti dal danneggiato, ai sensi dell’art. 2056 c.c.; l’onere della prova sia in capo al danneggiato; la mora da ritardo operi ex re; il termine prescrizionale, ai sensi dell’art. 2947 c.c., sia pari a cinque anni; ai fini dell’impugnazione vi sia in capo al soggetto la capacità di intendere e di volere.

Operati questi brevi cenni sugli istituiti generali in cui si inserisce la responsabilità civile del magistrato, è possibile procedere con la disamina oggetto del presente contributo.

2.La responsabilità civile del magistrato: evoluzione storica e normativa 

Tradizionalmente, la responsabilità del magistrato è collocata in due distinti modelli di riferimento: la responsabilità professionale e la responsabilità disciplinare.

La responsabilità professionale cui ci si riferisce non è quella in senso “moderno”, collegata al contratto di prestazione d’opera professionale, ex art. 2236 c.c., bensì al modello sviluppatosi nell’età comunale[11], volto ad ottenere il risarcimento del danno provocato dall’esercizio dell’attività giurisdizionale. Pertanto, secondo tale modello, il giudice aveva un rapporto con il Comune fondato su un contratto, al termine del quale veniva sottoposto al cd. “syndacatus” da parte dell’opinione pubblica[12]. Il giudice, dunque, era soggetto ad una responsabilità illimitata[13] che, nonostante spesso portasse ad eccessi reazionari, costituì un efficace strumento per realizzare il diritto del cittadino “al buon giudice”[14]

Successivamente, con le trasformazioni storiche avvenute nel XVI secolo[15], muta il modello di riferimento e si assiste al passaggio dal modello basato sulla responsabilità professionale a quello basato sulla responsabilità disciplinare. Mediante il modello fondato sulla responsabilità disciplinare, i soggetti con facoltà di “syndacatus” dovevano passare al vaglio del principato, il quale era influenzato da interessi politici e dalle pressioni dei gruppi di potere[16]. Le modificazioni storico-culturali, dunque, comportano una sorta di irresponsabilità esterna del giudice – irresponsabilità verso la parte - , generata dalla necessità di garantire l’indipendenza della funzione giudiziaria dagli altri poteri[17]

Con la Rivoluzione Francese e l’avvento del Codice Napoleonico viene codificata l’azione di responsabilità definita “prise à partie”, secondo la quale si poteva agire civilmente contro il giudice in soli tre casi: dolo, frode e concussione; denegata giustizia; altre ipotesi previste dalla legge[18]. Tale sistema è stato, poi, percepito dal Regno di Sardegna e dal Regno d’Italia, in cui, in realtà, non vi era una totale irresponsabilità del giudice nei casi di colpa ma lo stesso rispondeva civilmente nei soli casi previsti dalla legge[19]

Nell’era del Fascismo, poi, l’irresponsabilità del giudice si fondava sul principio “res judicata facit ius”, ossia quel principio per cui qualunque decisione del giudice diviene definitiva se non impugnata e, dunque, costituisce diritto. Tale principio è stato recepito, successivamente, dal codice di procedura civile del 1942, il quale all’art. 55 disponeva che «il giudice è civilmente responsabile soltanto: 1) nell’esercizio delle sue funzioni è imputabile di dolo, frode o concussione; 2) quando senza giustificato motivo rifiuta, omette o ritarda di provvedere sulle domande o istanze delle parti e in generale di compiere un atto del suo ministero»[20].

Questo, dunque, è il quadro generale fino al 1942, quadro che, con l’emanazione della Carta Costituzionale, viene arricchito dall’art. 28 Cost. che testualmente, dispone «i funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti. In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici[21]». Con l’avvento della Costituzione, dunque, si profila il binomio responsabilità civile del magistrato/ responsabilità dello Stato. In particolare, l’attività del magistrato era riconducibile al più ampio genus del rapporto di lavoro subordinato, infatti, secondo l’opinione prevalente, l’art. 28 Cost. consentiva al legislatore di stabilire un regime di responsabilità dei pubblici dipendenti differenziato da quello applicabile  alla generalità dei consociati[22].

La responsabilità civile dei magistrati, per peculiarità delle funzioni loro attribuite, è, pertanto, fin dalle origini dello Stato unitario sottoposta ad un regime giuridico differenziato, che la limita in modo di garantire l’autonomia e l’indipendenza della giurisdizione[23].

Il sistema descritto, sicché, era incardinato sugli artt. 55, 56 e 74 del c.p.c.: con il primo, si indicavano i limiti sostanziali della responsabilità del giudice; con il secondo, si aggiungevano privilegi processuali, prevedendosi che la domanda per la dichiarazione di responsabilità del magistrato non potesse essere proposta senza l’autorizzazione del Ministero della Giustizia[24]; con il terzo si limitava la responsabilità dei magistrati sia dal punto di vista processuale[25], sia dal punto di vista sostanziale mancando la previsione dei comportamenti omissivi[26].

Sulla base di tale dettato normativo, i magistrati potevano essere chiamati a rispondere degli errori commessi nell’esercizio delle funzioni giudiziarie solo quando avessero agito con dolo, ma mai quando avessero agito con colpa, sia pure grave, escludendo così l’applicazione della disciplina generale in tema di responsabilità aquiliana[27]. La dottrina prevalente, poi, sosteneva la superfluità del richiamo alle ipotesi specifiche della frode e della concussione, accogliendo un concetto di dolo in senso ampio[28]

Alla luce di tale excursus storico, necessario per comprendere l’evoluzione normativa in materia, è possibile affermare che fino agli anni 70, l’istituto della responsabilità civile del giudice  è considerata una ipotesi di scuola, in quanto del tutto trascurata e senza alcun rilievo in giurisprudenza[29].

Il quadro appena esplicato, dunque, ha trovato applicazione fino alla metà degli anni 70, anni in cui il tema della responsabilità civile del magistrato assume rilevanza centrale in ogni dibattito, ritenendosi fondamentale nello scioglimento dei nodi della problematica politico-costituzionale dell’epoca. La rilevanza delle responsabilità civile del magistrato, invero, andava ad incidere sul ruolo della magistratura nonché sulla separazione dei poteri dello Stato. 

Nel decennio successivo si assiste, a livello occidentale e non solo italiano, ad un vero e proprio conflitto tra la classe politica e la magistratura[30], in quanto – nel caso dell’Italia – si assiste al rifiuto del ruolo del “giudice-funzionario” nonché del formalismo giuridico come metro interpretativo e applicativo[31], rivendicando la magistratura una funzione dinamica e creatrice di valori[32].

Lo scontro ideologico tra classe politica e magistratura si fondava su diverse posizioni, da un lato, vi era la classe politica che, al fine di contrastare l’eccessiva sovrapposizione della magistratura, voleva estendere la responsabilità civile del giudice alle ipotesi di colpa grave; dall’altro, vi era la magistratura, la quale sosteneva che una tale estensione avrebbe comportato un eccessivo condizionamento che mal si conciliava con l’indipendenza del giudice[33]

In questo contesto si inserì la proposta di referendum abrogativo degli artt. 55, 56, 74 del codice di procedura civile da parte del partito radicale, PSI e PLI[34] .

A seguito del referendum, si giunse all’approvazione della Legge 13 aprile 1988, n. 117, cd. “Legge Vassalli”[35].

2.1. La disciplina normativa: L. 13 aprile 1988, n. 117 e L. 27 febbraio 2015, n. 18

La cd. “Legge Vassalli”, inserita nel contesto frastagliato delineato poc’anzi, reca “risarcimento dei danni cagionati dall’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati”. 

Questa all’art. 2 dispone che «la responsabilità civile del magistrato scaturisce da ogni comportamento, atto o provvedimento giudiziario posto in essere nell’esercizio delle sue funzioni con dolo o colpa grave o nelle ipotesi in cui vi sia diniego della giustizia». 

Per quanto attiene il dolo, in generale, con riferimento alla magistratura, si caratterizza sempre nell’omessa attività istruttoria, nella finzione di sbagliare, di interpretare male le leggi, le prove, i fatti, nel ricorso costante ad affermazioni generiche e di comodo, nella omessa motivazione. Il dolo richiesto, dunque, deve coincidere con la consapevolezza da parte del giudice di porre in essere un comportamento contrario ai doveri d’ufficio che non sempre implica la commissione di un reato[36]

Con riferimento, poi, alla nozione di colpa grave presente nella L. 13 aprile 1988, n. 117, questa risulta circoscritta ad ipotesi tipiche tassativamente enunciate e non consiste in un difetto di diligenza imputabile al magistrato, ma si risolveva in fattispecie a stampo psicologico ed in particolari errori fattuali[37]. Il legislatore, sul punto, ha, inoltre, previsto un’ulteriore garanzia per il giudice disponendo che «nell’esercizio delle funzioni giudiziarie non può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto e quella di valutazione del fatto e delle prove[38]».

Il terzo criterio di imputazione della responsabilità civile del magistrato è, puntualmente, definito dall’art. 3 della legge in commento[39] e si sostanzia nell’ipotesi di diniego di giustizia, ipotesi che si differenzia dal dolo e dalla colpa grave per l’inversione dell’onere della prova[40]. Il diniego di giustizia contrassegna situazioni gravi in cui ad una parte viene clamorosamente negato il diritto a qualcosa di importante che le spetta, con sottrazione ad essa di ciò che spiritualmente le appartiene, nonché l’affievolimento della speranza di ottenere in futuro giustizia, con conseguente totale perdita di fiducia delle istituzioni[41] . Ovverosia, nella sua manifestazione classica, il diniego di giustizia consiste nella non attribuzione del bene giustizia a chi vi abbia diritto[42].

L’introduzione della legge in esame creò immediatamente un ulteriore dibattito sulla scena del tempo, in quanto la nuova normativa non rispecchiava la domanda posta nel referendum abrogativo, passandosi dalla responsabilità del giudice alla responsabilità dello stato-giudice[43]. In altre parole, mentre con l’art. 56 c.p.c. vi era la possibilità di citare in giudizio direttamente il giudice (da solo o insieme all’amministrazione della giustizia), con la nuova legge il cittadino può rivolgersi soltanto allo Stato che, a sua volta, può rivalersi nei confronti del magistrato. La ratio dell’esclusione della responsabilità diretta mira ad evitare che la parte possa trarre in giudizio il proprio giudice con pretese risarcitorie, provocando le condizioni per l’astensione e/o la ricusazione, al fine di liberarsi del giudice “scomodo”. 

La nuova legge passa, dunque, al vaglio della Corte Costituzionale, la quale già nel 1968, aveva sottolineato che «l’entità e i moduli delle forme di responsabilità sono demandati al legislatore ordinario[44]». Successivamente, nella sentenza resa sull’ammissibilità del referendum abrogativo, aveva statuito che «l’autonomia e l’indipendenza garantiti dalla Costituzione a ciascun giudice suggeriscono, se non addirittura impongono, condizioni e limiti alla responsabilità del magistrato che, pur senza vanificare la tutela dei diritti soggettivi, garantiscono nel contempo l’autonomia, l’indipendenza e quindi l’imparzialità dei giudici[45]». 

Alla luce di tali affermazioni della Corte, il Parlamento del tempo ritenne la L. 13 aprile 1988, n. 117 compatibile con il dettato costituzionale di cui all’art. 28, in quanto la responsabilità diretta dello Stato non esclude la responsabilità dei magistrati colpevoli, nei confronti dei quali lo Stato ha un obbligo di rivalsa sia pure parziale. 

Tuttavia, come anticipato, i risultati prodotti dalla Legge Vassalli non corrispondevano agli obiettivi originari posti alla base del referendum e, pertanto, sono stati presentanti nel tempo svariati progetti di legge volti ad introdurre modifiche sia sotto il profilo sostanziale che sotto quello procedurale[46], al fine di contemperare l’esigenza di una reale applicabilità della responsabilità civile dei magistrati con la necessità di non compromettere l’autonomia e l’indipendenza[47]. Sul punto, si è inserita la Corte di Giustizia dell’Unione Europea[48], che, nel pronunciarsi sulla mancata rispondenza della Legge con le norme del diritto comunitario[49], ha avviato una procedura di infrazione nei confronti dell’Italia, conclusasi con una pronuncia di condanna per violazione degli obblighi di adeguamento del proprio ordinamento al principio di responsabilità degli Stati Membri[50]

Alla luce di tale procedura[51], l’Italia modifica in maniera sostanziale la L. 13 aprile 1988, n. 117 mediante l’emanazione della L. 27 febbraio 2015, n. 18 – recante “«Disciplina della responsabilità civile dei magistrati” - che ha ampliato i confini del rimedio risarcitorio contro lo Stato per i danni arrecati alle parti per comportamenti, atti o provvedimenti del giudice che non siano rimediabili attraverso il sistema delle impugnazioni e dei controlli, ossia delle sentenze e degli altri provvedimenti giurisdizionali[52], oltre a riformulare la nozione di “colpa grave” in capo al giudice. Gli aspetti più controversi dell’intervento riformatore -  che aveva quale obiettivo di apportare nuova linfa al dibattito, aprendo nuovi orizzonti per l’applicazione pratica dell’istituto - hanno riguardato la riformulazione della fattispecie di colpa grave del magistrato (che dà luogo alla responsabilità risarcitoria dello Stato) e l’abolizione del preventivo procedimento di ammissibilità dell’azione, ex art. 5 della L. 13 aprile 1988, n. 117 (abrogato)[53]

Il legislatore, dunque, ha provveduto a ridisegnare la fattispecie di colpa grave – sulla scorta delle indicazioni emerse dalla giurisprudenza[54] - novellando il comma 3 e aggiungendo un comma 3 bis all’art. 2 della Legge Vassalli, al fine di regolamentare le violazioni di legge, disponendo che occorre tener conto del grado di chiarezza e precisione delle norme violate, della gravità dell’inosservanza e, nel caso di violazione di legge sovrannazionale, di mancata osservanza del rinvio pregiudiziale[55] di cui all’art. 267 TFUE. È stata soppressa la cd. “negligenza inescusabile”, stabilendo che i comportamenti dei magistrati rientranti nelle ipotesi di colpa grave sono tali ope legis e si configurano nella violazione manifesta della legge[56] nonché del diritto dell’Unione Europea. In altre parole, l’errore di tipo revocatorio assume rilevanza anche quando non sia imputabile a negligenza inescusabile, prevedendosi la rilevanza, al contempo, del travisamento[57] del fatto o delle prove[58].

Accanto al novellato comma 3 si inserisce la modifica del comma 2, relativo alla cd. “clausola di salvaguardia”, riprendendo il principio per cui non può esservi responsabilità del magistrato nello svolgimento dell’attività di interpretazione, fatti salvi i casi di dolo. Invero, la lettera della norma induce a ritenere che la colpa grave possa manifestarsi anche nell’ambito dell’attività interpretativa, in linea con la clausola di salvaguardia. 

Come emerge, dunque, vi è un sostanziale ampliamento della responsabilità per colpa grave, potendosi affermare che ciò rappresenti un chiaro condizionamento del giudice inducendolo ad una giurisprudenza cd. “difensiva” ispirata al conformismo giudiziario[59]. D’altro canto, non sembra che tale estensione possa compromettere l’imparzialità e l’indipendenza del giudizio, occorrendo, semplicemente e anche in caso di disaccordo con precedenti pronunce, seguire un iter logico, quale essenza del “giudicare”. 

Operando una sintesi di ciò che è stato prospettato fino a questo momento, si può affermare che il legislatore, dopo un lungo periodo di tempo in cui la materia è stata regolata dalle norme del codice di procedura civile che risalivano al periodo precedente l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana e che per la loro formulazione non potevano ritenersi pienamente in sintonia con il dettato costituzionale, ha approvato una legge sulla responsabilità civile dei magistrati — la  L. 13 aprile 1988, n. 117 — che ha ampliato la sfera della responsabilità, armonizzandola con l’art. 28 Cost., con alcune cautele tendenti a tutelare la funzione giurisdizionale. Tuttavia, pochissimi sono i casi in cui i magistrati sono stati dichiarati responsabili in sede civile e si può affermare che, dopo la L. 13 aprile 1988, n. 117, la situazione è rimasta sostanzialmente inalterata. Il legislatore sembra avere avvertito questo ‘disagio’ intervenendo con la L. 27 febbraio 2015, n. 18, con l’intento di rendere effettiva la disciplina che regola la responsabilità civile dello Stato e dei magistrati.

3.Illecito del magistrato e responsabilità dello Stato              

Come accennato nei precedenti paragrafi, la responsabilità civile, legata ad un illecito, del magistrato ha subito una radicale evoluzione, passandosi dalla responsabilità diretta del giudice – regolata dal codice di rito dagli artt. 55, 56 e 74, poi, abrogati con il cd. “Referendum Tortora”[60] – alla responsabilità dello Stato – giudice, disciplinata dalla L. 13 aprile 1988, n. 117 . La normativa del 1988, dunque, prevede la sola responsabilità dello Stato nei confronti del cittadino[61]mentre rimane, come ipotesi residuale, la responsabilità diretta del giudice, prevista nei soli casi in cui il giudice abbia commesso, nell’esercizio delle sue funzioni, un reato[62]

Dal punto di vista processuale, pertanto, la responsabilità da illecito grava sullo Stato che a sua volta, al verificarsi di determinate condizioni, può rivalersi sul giudice. In particolare, l’art. 4 della legge in esame prevede la possibilità di esperire azione di risarcimento nei confronti del Presidente del Consiglio dei Ministri solo quando siano stati esperiti tutti i mezzi di impugnazione ordinari e decorsi 3 anni dalla data in cui è stato cagionato il fatto e se non si è ancora concluso il grado del procedimento in cui il fatto stesso si è verificato. Lo Stato, poi, a norma dell’art. 7 può – entro un anno dal risarcimento avvenuto sulla base del titolo giudiziale e/o stragiudiziale – esercitare azione di rivalsa nei confronti del giudice[63]. La scelta operata dal legislatore mira a bilanciare contrapposte esigenze – nascenti dalla particolare posizione che ha nell’ordinamento il magistrato – ossia responsabilità ed indipendenza. In altre parole, ogni affermazione di responsabilità del magistrato deve confrontarsi con il significato della garanzia della sua indipendenza[64]. Così, se pur si dice chiaramente che non sarebbe possibile una esclusione totale della responsabilità civile, perché essa condurrebbe alla violazione dell'art. 28 Cost., ed anche dell'art. 3 Cost., in rapporto alla posizione degli altri pubblici impiegati, si è attenti a sottolineare, tuttavia, che la natura dei provvedimenti giudiziali, la stessa posizione di autonomia e di indipendenza dei magistrati possono suggerire condizioni e limiti alla loro responsabilità condizioni e limiti sui quali si esercita 1'ampia discrezionalità del legislatore ordinario[65].

Ancora, se indipendenza non può equivalere a immunità, ovvero se «gli artt. 101, 102, 104 e 108 Cost. non valgono ad assicurare al giudice uno status di assoluta irresponsabilità pur quando si tratti di esercizio delle sue funzioni, riconducibile alla più rigorosa e stretta nozione di giurisdizione[66]», il legislatore ordinario è però autorizzato a prevedere meccanismi di tutela dell'indipendenza del giudice nella stessa normativa che ne afferma la responsabilità.

Perciò, se la Legge 117 prevede che la domanda di risarcimento dei danni subiti - proponibile direttamente solo nei confronti dello Stato[67]- sia soggetta a un controllo preliminare di ammissibilità, di tale meccanismo[68] la Corte riconosce il fondamentale rilievo costituzionale. Si tratta, essa afferma, di un importante filtro della domanda giudiziale diretta a far valere la responsabilità civile del giudice, «perché un controllo preliminare della non manifesta infondatezza della domanda, portando ad escludere azioni temerarie e intimidatorie, garantisce la protezione dei valori di indipendenza e di autonomia della funzione giurisdizionale, sanciti negli artt. da 101 a 113 Cost., nel più ampio quadro di quelle condizioni e limiti alla responsabilità dei magistrati che la peculiarità delle funzioni giudiziarie e la natura dei relativi provvedimenti suggeriscono».

Ancora, la stessa scelta fondamentale della legge in esame - di proteggere la responsabilità del magistrato “dietro” a quella dello Stato, impedendo alla parte del processo di agire direttamente nei confronti del magistrato - si giustifica fondamentalmente, per la Corte, ai fini di proteggere l'indipendenza e la serenità nell'esercizio della funzione, che potrebbe altrimenti essere “turbata” dalla “minaccia” di un’azione di responsabilità[69]

Riassuntivamente, il modello di responsabilità civile - una responsabilità sostanzialmente indiretta e mediata dallo Stato - delineato dalla L. 13 aprile 1988, n. 117, a prescindere dalla sua effettiva applicazione, è forse coerente solo con ciò che il giudice è dal punto di vista burocratico, cioè con l'esistenza di un suo rapporto organico con lo Stato e con il suo essere funzionario statale assunto per concorso[70]. Ma quella separatezza e quella barriera tra giudice e parti non sono coerenti con una concezione realistica di ciò che fa nella realtà il giudice, quale operatore professionale del diritto accanto ad altri operatori professionali, nell'ambito di una società, e di un mercato di utenti, che al giudice si rivolgono alla ricerca di un servizio[71].

La stessa Corte Costituzionale[72] ha instaurato un nesso stretto tra professionalità e responsabilità, giustificando la norma di cui all'art. 7, comma 3, della L. 13 aprile 1988, n. 117 la quale limita alle sole ipotesi di dolo e a specifiche ipotesi di colpa grave la responsabilità civile dei cittadini estranei alla magistratura[73] che concorrono a formare o formano organi giudiziari collegiali. Da ciò si potrebbe appunto desumere, invece, che per professionalità eminenti, per le quali si abbiano forme d'ingresso “laterali” in magistratura, anche ulteriori a quelle previste nei commi 2 e 3 dell'art. 106 Cost. e comunque coerenti con il principio da tali disposizioni desumibile, la responsabilità non solo non potrebbe subire limitazioni, ma - qui è appunto l'aggiunta - in carenza di rapporto organico potrebbe al contrario “aumentare”, anche verso forme di responsabilità realmente diretta. Dopo di che, sarebbe naturalmente da riconoscere l'incongruente coesistenza di un modello di giudice “professionale” direttamente responsabile verso le parti del processo e di un modello di giudice “funzionario”, riparato dietro la responsabilità dello Stato ma, se si arrivasse a sviluppi di questo tipo, forse vi sarebbe un effetto di trascinamento del primo modello nei confronti del secondo[74].

Tutti i dubbi discendenti dall’interpretazione e mancata applicazione della norme[75] appena esplicate hanno portato, tra gli altri motivi già analizzati in precedenza, all’emanazione della L. 27 febbraio 2015, n. 18 che ha modificato l’impostazione della responsabilità dello Stato – giudice. 

La L. 27 febbraio 2015, n. 18 incide sulla materia della responsabilità civile del giudice ma non inverte il sistema normativo precedente, rimanendo ferma la cd. “responsabilità indiretta”, in base alla quale la responsabilità civile del magistrato è imputabile allo Stato. Tuttavia, la Riforma del 2015, sul tema, rende obbligatoria l’azione di rivalsa dello Stato nei confronti del giudice ed apporta ulteriori modifiche, infatti, viene meno il filtro previsto dalla Legge.

In particolare, la nuova formulazione prevede che l’azione di rivalsa debba essere esercitata entro due anni dal pagamento del risarcimento del danno, sulla base di una senza di condanna, avvenuta nei casi di violazione manifesta della legge dell’ordinamento, violazione manifesta della legge dell’Unione Europea, travisamento del fatto o delle prove determinati da dolo o colpa grave e diniego di giustizia[76]. Ulteriore modifica in tema di azione di rivalsa concerne l’entità della stessa che aumenta passando da un terzo alla metà dello stipendio netto annuo del giudice, si specifica che tale limite non viene applicato nei casi di condotta dolosa del giudice[77]

Come emerge, viene meno la negligenza inescusabile quale presupposto dell’accertamento della responsabilità dello Stato ma rimane ferma quale presupposto per l’azione di rivalsa. Tale novità è da cogliere, in linea di principio, con favore, nella misura in cui conduce alla separazione tra le due dimensioni della responsabilità e, pertanto, favorisce il bilanciamento tra i molteplici interessi in gioco.

Sul piano più strettamente processuale la principale innovazione è rappresentata dall’abrogazione dell’art. 5 della legge n. 117, con conseguente soppressione del cd. filtro di ammissibilità. Si tratta della novità senz’altro più incisiva, se non altro perché la stessa, a differenza di quelle finora richiamate, non si presta ad essere “interpretata” dalla prassi giurisprudenziale.

Lo scopo del filtro, com’è noto, era quello di limitare il rischio di un’incontrollata proliferazione di cause, magari intentate in modo sistematico dalle parti soccombenti nei giudizi, così tutelando sia il buon andamento della macchina della giustizia sia la serenità del magistrato, in questo modo posto al riparo da possibili azioni pretestuose o addirittura ritorsive, e con essa l’indipendenza nell’esercizio della funzione giudiziaria. A voler fare una comparazione con la Riforma operata mediante il d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149[78] è possibile affermare che una tale previsione, nell’ottica di deflazione del contenzioso e di efficienza del processo, probabilmente non sarebbe venuta meno. 

Tuttavia, lo scopo dichiarato del filtro non ha svolto, nella prassi, la funzione per il quale era stato disciplinato, traducendosi in un meccanismo di deterrenza volto ad incardinare azioni pretestuose[79]. Da qui nasce la necessità di soppressione dello stesso, una scelta dettata dalla semplicità legata alla abrogazione, in quanto una sua modifica avrebbe comportato, probabilemte, una sfida più ardua per il legislatore. 

La novella, pertanto, si traduce nel venir meno dei controlli preliminari all’ammissibilità della domanda di risarcimento. In altre parole, il Tribunale distrettuale non ha più il potere di verificare i presupposti e la fondatezza della domanda[80]. Per effetto dell’abrogazione viene cancellata la deliberazione preliminare di ammissibilità – consistente in un controllo dei presupposti, nel rispetto dei termini e della valutazione della fondatezza – dell’azione di risarcimento verso lo Stato. 

4. La pronuncia n. 205 del 15 settembre 2022 della Corte Costituzionale

Al fine di poter operare un’analisi approfondita circa la recentissima pronuncia della Corte Costituzionale, occorre, necessariamente, soffermarsi, in via preliminare, sull’art. 2 comma 1 della L. 13 aprile 1988, n. 117 e sulla novella apportata nel 2015, specificità appositamente non sollevata sino a questo momento. 

Il perimetro tracciato dal legislatore del 1988 risultava ispirato ad una duplice scelta, da un lato, veniva garantito il risarcimento dei danni patrimoniali, biologici e non patrimoniali da reato; dall’altro, la protezione risarcitoria di tali danni veniva garantita nella sola ipotesi di privazione della libertà personale[81]. Successivamente, si assiste ad una evoluzione dell’art. 2056 c.c.[82] – cui la legge in commento faceva espresso rinvio – rendendo ancora più evidente il contrasto tra la scelta operata e una piena tutela risarcitoria di tutti i diritti inviolabili della persona. Contestualmente è operata una modifica alla legge del 1988 – mediante la novella del 2015 – con cui vengono soppresse le parole “che derivino da privazione della libertà personale” all’art. 2 comma 1[83]

Nel contesto appena delineato si inserisce la pronuncia n. 205 del 15 settembre 2022 della Corte Costituzionale che dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 2 comma 1 della L. 13 aprile 1988, n. 117, nel testo antecedente alla modifica apportata dalla L. 27 febbraio 2015, n. 18, nella parte in cui non prevede il risarcimento dei danni non patrimoniali da lesione dei diritti inviolabili della persona anche diversi dalla libertà personale. 

La vicenda prende le mosse dall’ordinanza n. 217 del reg. ord. 2021, mediante la quale la terza sezione della Corte di Cassazione solleva la questione di legittimità – poi accertata dalla Corte Costituzionale – succitata[84]

Il giudice rimettente, nello specifico, afferma di doversi pronunciare sulla richiesta di risarcimento dei danni non patrimoniali avanzata da un giudice[85], conseguente al suo erroneo coinvolgimento – da parte della Procura della Repubblica di Catanzaro – in un procedimento penale in cui si ipotizzava il concorso esterno dello stesso nel reato di associazione a delinquere a stampo mafioso[86]

Al ricorrente, in primo grado e in appello, viene negato il risarcimento del danno non patrimoniale, pertanto, propone ricorso in Cassazione affermando che «la L. n. 18 del 2015 non avrebbe carattere innovativo, avendo invece operato “una corretta lettura dei valori già presenti nell'ordinamento interno e sovranazionale [...] eliminando ex tunc l'incompatibilità del sistema con il diritto dell'Unione Europea”. Inoltre, la Corte d'appello, nel ritenere operante la precedente disciplina, si sarebbe posta “in irriducibile contrasto [...] con il diritto europeo” e avrebbe travisato il principio di irretroattività della legge civile, la cui applicabilità troverebbe un limite nei “rapporti non esauriti”, qualora il fatto - come nel caso di specie – “resti identico nella sua disciplina”». Al contempo, viene denunciata la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2059 c.c., 2,3,32,117 Cost. e 2,3 della L. 13 aprile 1988, n. 117, con riferimento all’art. 360 co. 1, nn. 3 e 4 c.p.c. . Nonostante la novella apportata alla Legge nel 2015, i fatti in causa si sono verificati nella vigenza del precedente testo normativo e, pertanto, applicabile la norma costituzionalmente illegittima, in applicazione del principio per cui il sorgere del diritto al risarcimento del danno dipende “dal momento in cui si verificano i fatti lesivi ed i danni conseguenti”. Il problema si pone anche in relazione al fatto che la novella del 2015 non ha previsto un regime transitorio con la precedente legge (che valga a derogare alla regola generale prevista dall’art. 11 delle preleggi) richiedendosi – per il principio di irretroattività – una previsione espressa. 

Per risolvere la questione, la Corte Costituzionale, nelle considerazioni di diritto, opera un excursus storico circa la normativa susseguitasi in materia[87] ed afferma la fondatezza della questione limitatamente alla norma prevista nel testo del 1988 e non anche a quella prevista dalla riformulazione del 2015[88]. Nello specifico, l’art. 2 della L. 13 aprile 1988, n. 117 disegnava i tratti della fattispecie illecita e il perimetro dei danni irrisarcibili e, in sostanza, l’illecito da esercizio della funzione giudiziaria presentava caratteri di specialità posti a presidio dell’indipendenza e dell’autonomia della funzione giudiziaria, prevedendosi – a chiusura del quadro – la possibilità di rivolgere l’azione in via diretta unicamente contro lo Stato. Pertanto, il perimetro tracciato dal legislatore, risultava ispirato ad una duplice scelta: era garantito il risarcimento dei danni suscettibili di essere liquidati, in quel momento storico, sulla base delle norme generali[89] nonché ammessa la piena protezione risarcitoria, estesa a tali danni, nella sola ipotesi di privazione della libertà personale (privazione che nel caso di specie non si è verificata). Nel rigore normativo era tutelato il diritto inviolabile di cui all’art. 13 Cost. e non anche tutti gli altri diritti inviolabili, risultando un palese contrasto con l’art. 3 Cost. . La Corte afferma che, nonostante la specificità della materia, «la selezione di un solo diritto inviolabile della persona da proteggere con il risarcimento dei danni non patrimoniali […] non è giustificata dalla specificità dell’illecito civile da esercizio della funzione giudiziaria»[90]. Pertanto, afferma l’illegittimità costituzionale dell’art. 2 L. 13 aprile 1988, n. 117 nella parte in cui non prevede il risarcimento dei danni non patrimoniali da lesione di diritti inviolabili della persona anche diversi dalla libertà personale e, di converso, ritiene non fondata la questione circa la presunta incostituzionalità della nuova formulazione del 2015, stante l’ampliamento operato dalla riforma nonché la declaratoria di parziale incostituzionalità della precedente formulazione.

 5. Conclusioni

Alla luce di quanto dedotto fino a questo momento è possibile trarre alcune conclusioni. 

La disciplina che regolamenta la responsabilità civile del magistrato è stata oggetto di molteplici riforme nel corso del tempo, si è passati da una normativa contenuta nel codice di rito ad una normativa contenuta in una lex specialis, la L. 13 aprile 1988, n. 117 prima e la L. 27 febbraio 2015, n. 18, poi. Come visto, l’esperienza applicativa della L. 13 aprile 1988, n. 117 non è stata positiva, anche in considerazione del fatto che sono state disattese le aspettative create mediante il referendum abrogativo concernente gli artt. 55, 56 e 74 c.p.c. . È pur vero che il legislatore nella materia esaminata non  ha ampio margine di movimento, dovendo bilanciare contrapposte esigenze: il principio di responsabilità del magistrato a tutela del cittadino ed il principio di indipendenza del giudice , quale caratteristica fondante della sua funzione. 

Importante, ai fini del bilanciamento, è l’inquadramento corretto del ruolo del giudice, soprattutto in una società complessa ed in continua evoluzione come la nostra. Il giudice, infatti, non può essere considerato come un semplice dipendete dello Stato né tanto meno come un soggetto meramente interpretatore del diritto ma, di converso, come un organismo indipendente e creativo del diritto che gli consenta di esercitare il ruolo di interprete attivo della volontà legislativa.

L’inquadramento della sua figura in questi termini, da un lato, ha consentito l’aumento del potere del giudice, dall’altro, ha determinato un incremento delle sue responsabilità e, pertanto, la necessità per l’ordinamento di apprestare adeguate forme di tutela nei confronti dei cittadini. A ciò si aggiunge la necessità di non tradurre la responsabilità del giudice in una limitazione dell’indipendenza del potere giudiziario.

Ulteriore problematica era rappresentata dal preventivo giudizio di ammissibilità nonché dalla aleatoria concezione di “colpa grave” ascrivibile al giudice. Tali questioni, anche a seguito dei giudizi attivati nei confronti dell’Italia dalla Corte Edu, sono state successivamente risolte con le modifiche operate dalla L. 27 febbraio 2015, n. 18. Con quest’ultima, da una parte si tenta di dare risposta alle sollecitazioni della giurisprudenza comunitaria, anche per mettersi al riparo, da ulteriori, future condanne; dall’altra, partendo da un implicito giudizio di inidoneità della normativa precedente, ci si pone il problema di rendere maggiormente efficace la disciplina della responsabilità per fatto del magistrato e di conseguenza più effettiva la tutela dei singoli dinanzi agli errori dei giudici.

Sul punto, il Consiglio Superiore della Magistratura, ha segnalato, nel parere reso al Ministro ai sensi dell’art. 10 della legge n. 195 del 1958 del 29 ottobre del 2014, i gravi rischi connessi ad un sistema di responsabilità civile che consenta, in qualche maniera, di sindacare il merito delle decisioni assunte dal singolo magistrato. Questo perché ogni provvedimento è inevitabilmente opinabile dal punto di vista della soggettiva ricostruzione e interpretazione di fatti storici controversi e quindi nell’applicazione di norme giuridiche astratte al fatto concreto. Inoltre, l’eliminazione del filtro di ammissibilità della domanda (che era stato ritenuto indispensabile dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 468/90) consente una illimitata possibilità delle parti, che dissentano dalle decisioni assunte, di agire per ottenere il risarcimento dei danni sofferti.

In conclusione è possibile affermare che, nonostante le modifiche operate nel 2015, la materia regolante la responsabilità civile dei magistrati è, ancora oggi, permeata da alcuni dubbi intrepretativi ma soprattutto applicativi. Infatti, nonostante la previsione del sistema di tutela che mira a proteggere i cittadini e a risarcirli nei casi di responsabilità, dal 2010 al 2021 su 544 cause di responsabilità promosse nei confronti dello Stato, solamente 8 sono state accolte e hanno portato ad una condanna dello stesso. Tali dubbi non sono stati risolti, anzi minimamente menzionati, nella recente Riforma della giustizia operata dal d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149


Note e riferimenti bibliografici

[1] «L’art. 2043 del c.c. indica, tra i presupposti della responsabilità extracontrattuale, il dolo o, quanto meno, la colpa dell’autore del fatto illecito. Per dolo si intende l’intenzionalità della condotta, nella consapevolezza che la stessa può determinare l’evento dannoso». Ai fini della configurazione del dolo è sufficiente quello eventuale. «Per colpa si intende il difetto della diligenza, della prudenza, della perizia richieste, ovvero l’inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline: cioè, la non rispondenza della condotta tenuta dall’agente allo standard di adeguatezza imposto dall’ordinamento»; A. TORRENTE, P. SCHLESINGER, Manuale di diritto privato, XXII ed., a cura di F. ANELLI, C. GRANEILI, Giuffrè Editore, 2015, 918-920.

[2] A. TORRENTE, P. SCHLESINGER, op. cit., 907 ss.

[3] «Nei primi anni di applicazione del vigente codice civile, diffusa era la tesi che qualificava come ingiusto solo il danno arrecato contra ius (in violazione, cioè, di un diritto soggettivo del danneggiato) e non iure (non, cioè, nell’esercizio di un diritto che compete al danneggiante). Contra ius si è, per lungo tempo, reputata solo la lesione diritti assoluti: che impongono a tutti i consociati un generale obbligo di astenersi dal turbante esercizio da parte del titolare (cd. efficacia erga omnes dei diritti assoluti). Conseguentemente, risarcibile si è ritenuta unicamente la lesione di diritti della persona ovvero la lesione di diritti reali. Contra ius si è sempre reputata anche la lesione di diritti inerenti lo status della persona. Si è conseguentemente affermata la risarcibilità della perdita, a seguito dell’uccisione dell’obbligato, del diritto al mantenimento spettante al coniuge ed ai figli, così come la perdita del diritto agli alimenti spettanti ai terzi». Per ulteriori approfondimenti si veda A. TORRENTE, P. SCHLESINGER, op. cit., 909 ss.

[4] A. TORRENTE, P. SCHLESINGER, op. cit., 908.

[5] P. PERLINGERI, Manuale di diritto civile, V ed., Napoli, 2002, 613.

[6] Espressione con la quale si indica l’insieme dei doveri che incombono su ciascuno in relazione alle altrui situazioni giuridicamente tutelate.

[7] C. RENDINA, I volti della responsabilità “contrattuale”, in Contratto e impresa, 2023, fasc. 1, 238 – 276.

[8] L’ordinamento riconosce anche ipotesi di responsabilità extracontrattuale c.d. “oggettiva”, che prescindono dal requisito della colpevolezza. In tali casi il danneggiante risponde, quindi, del danno cagionato come conseguenza immediata e diretta della propria condotta. Tra i principali casi di responsabilità oggettiva possiamo ricordare la responsabilità per danni cagionati da cose in custodia (art. 2051 Codice Civile), per danni cagionati da animali (art. 2052 Codice Civile) e dei genitori, dei tutori, dei precettori e dei maestri d’arte per i danni cagionati dai minori (art. 2048 Codice Civile).

[9] P. FRANCESCHETTI, Responsabilità extracontrattuale (responsabilità civile), Milano, 2020.

[10] S. TROIANO, La decorrenza della prescrizione nella responsabilità extracontrattuale, in Ephemerides iuris canonici, 2022, fasc. 1, 19 – 61.

[11] Con “età comunale” si indica il periodo storico del Medioevo, contraddistinto dal governo locale dei comuni, ossia una struttura politica posta a tutela degli interessi degli abitanti di una città; A. VISCARDI, G. BARNI, L’Italia nell’età comunale, UTET, 1980.

[12] M. VALLERANI, Procedura e giustizia nelle città italiane del basso medioevo (XII-XIV secolo)1in Pratiques sociales et politiques judiciares, Collection de l’ecole francais de Rome, a cura di J. CHIFFOLEAU, G. GAUVARD, A. ZORZI, 2007.

[13] A tal proposito si sottolinea che la responsabilità del giudice era riconducibile sia ad un danno patrimoniale sia fisico. Emblematico è il caso di Bartolo da Sassoferrato che, a seguito di un errore giudiziario nel 1339, fu costretto ad abbandonare Todi per fuggire da una folla disposto ad ucciderlo per fargli pagare il proprio errore; P. MARI, Il libro di Bartolo. Aspetti della vita quotidiana nelle opere «bartoliane», Fondazione Cisam, 2021.

[14] A. GIULIANI, N. PICARDI, La responsabilità del giudice, Milano, 1987, 33.

[15] Il secolo definito storicamente “Rinascimento” in Italia, della riforma protestante in Europa, della successiva Controriforma, delle guerre di religione e del tentativo di conciliazioni tra le varie confessioni religiose con il Concilio di Trento.

[16] Inoltre, il modello era fondato su una serie di aspetti burocratici che evidenziavano la subordinazione dei giudici al potere esecutivo, come la facoltà di rimozione dei giudici; L. LONGHI, Studio sulla responsabilità disciplinare dei magistrati, Napoli, 2017.

[17] A. GIULIANI, N. PICARDI, op. cit., 78.

[18] Art. 50 del Code civil des français o Code Napoléon, emanato il 21 marzo del 1804.

[19] A. MENICONI, Politica e magistratura nella biografia di Carlo Lozzi, magistrato postunitario, in Le Carte e la Storia, 2/2011.

[20] L’articolo in commento, inserito nell’ordinamento con il R.D. n. 1443 del 28 ottobre 1940, è stato abrogato dal D.P.R. n. 287 del 09 dicembre 1987, a seguito di referendum popolare; in www.brocardi.it.

[21] Tale secondo inciso era ritenuto dalla dottrina e dalla giurisprudenza dell’epoca come configurazione di una responsabilità dello Stato come primaria e diretta e non sussidiaria a quella dell’agente, infatti, il soggetto danneggiato si troverebbe ad avere la possibilità di chiedere ristoro sia al dipendente che allo Stato, solidalmente o alternativamente, senza alcun obbligo di escutere il dipendete prima di agire contro la P.A. . In particolare, per gli atti commessi dai magistrati si riteneva in generale che lo Stato fosse direttamente responsabile degli atti pregiudizievoli imputabili ai magistrati nell’esercizio delle funzioni; la responsabilità dello Stato, però, esisteva nei limiti in cui esisteva quella personale del singolo giudice; S. TOSI, Giudicare il giudice, Milano, 1982, 14 ss. .

[22] A. PIZZORUSSO, L’organizzazione della giustizia in Italia, Torino, 1982, 32. La giurisprudenza costituzionale dell’epoca, poi, riteneva ammissibile all’interno del regime già differenziato di responsabilità ulteriori differenziazioni e deroghe per diverse categorie di impiegati civili, secondo i bisogni e le particolari situazioni; G. ZAGREBELSKY, La responsabilità del magistrato nell’attuale ordinamento. Prospettive di riforma, in Giur. Cost., 1982, 789.

[23] Ciò emergeva dal dettato dell’art. 783 c.p.c. del 1865. 

[24] La dottrina dell’epoca riteneva l’autorizzazione del Ministero un filtro assolutamente necessario per la protezione di chi si trovava funzionalmente esposto e non poteva e/o doveva diventare bersaglio di quanti ritenessero di aver subito un pregiudizio per le ragioni più diverse; V. VIGORITI, La responsabilità del giudice, in Enc. giur. Treccani, Roma, 5.

[25] Riferendosi, nello specifico, alla responsabilità di intervento nel processo civile. In realtà questa potrebbe apparire come una limitazione apparente e non reale, ove, anziché interpretare restrittivamente l’espressione, attribuendole significato di intervento tecnico in causa [V. VIGORITI, op. cit., 106 ss], la si fosse interpretata in via estensiva, come partecipazione al processo anche in via d’azione; L. SCOTTI, La responsabilità civile dei magistrati, Milano, 1988, 42.

[26] G. VOLPE, Diritti, doveri e responsabilità dei magistrati, in L’ordinamento giudiziario, a cura di A. PIZZORUSSO, Bologna, 1974, 444-445.

[27] G. B. PETTI, Illecito giudiziario e responsabilità civile dei giudici, Roma, 1988, 265.

[28] Il dolo era concepito genericamente come violazione cosciente di un obbligo di ufficio, nel cui ambito si facevano rientrare sia la frode, intesa come raggiro in contrasto con la legge, sia la concussione; L. SCOTTI L. SCOTTI, La responsabilità dei magistrati. Commento teorico pratico alla legge 13 aprile 1988, n. 117, Milano, 1988, 164.

[29] N. PICARDI, R. VACCARELLA, La responsabilità civile dello stato giudice, Padova, 1990, 10.

[30] A. GIULIANI, N. PICARDI, op. cit., 190.

[31] N. BOBBIO, Quale giustizia, quale legge, quale giudice, in Quale Giustizia, 1971, 268.

[32] M.A. CATTANEO, Considerazioni sul significato dell’espressione “i giudici creano il diritto”, in Riv. int. Filosofia del diritto, 1996, 250.

[33] A. GIULIANI, N. PICARDI, op. cit., 6-205.

[34] Il referendum abrogativo di cui si discute si è svolto il 7 e l’8 novembre del 1987 ed aveva ad oggetto cinque differenti quesiti: responsabilità civile dei magistrati, commissione inquirente, localizzazione delle centrali nucleari, contributi enti locali, divieto di partecipazione all’Enel a impianti nucleari all’estero. Gli articolo 55, 56 e 74 c.p.c. vennero abrogati con il voto favorevole di 20.770.334 persone, corrispondenti all’80,21% dei votanti; A. RE, I Referendum del 1987, Torino, 2022.

[35] La Legge Vassalli prende il nome dall’allora guardasigilli ed è stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale n. 88 del 15 aprile 1988.

[36] G. ALPA, La responsabilità civile, Milano, 2001, 312.

[37] G. GIANNINI, La responsabilità da illecito civile. Assicuratore, magistrato, produttore, professionista, Milano, 1996, 317. L’introduzione del principio della responsabilità per colpa grave del magistrato ha trovato nella dottrina numerosi contrasti per la presunta incompatibilità di tale responsabilità sia con l’esercizio del potere sovrano della funzione giurisdizionale che con lo status di indipendenza della magistratura. Ogni dubbio al riguardo fu successivamente fugato dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 298/1993 che, escludendo l’illegittimità costituzionale della legge 13 aprile 1988, n. 117, nella parte in cui prevede e disciplina la responsabilità del giudice per colpa grave, sul presupposto che tale responsabilità comprometterebbe l’imparzialità della magistratura e determinerebbe l’attribuzione alle parti di uno strumento idoneo ad influenzare le decisioni, ha affermato che «la limitatezza e la tassatività delle fattispecie di cui è ipotizzabile una colpa grave del giudice […] e la specifica circostanziata delimitazione della responsabilità per diniego di giustizia non consentono di ritenere che essere siano idonee a turbare la serenità ed imparzialità del giudizio»; G.B. PETTI, op. cit., 255.

[38] Cd. clausola di salvaguardia. Mediante tale principio il legislatore ha voluto enfatizzare l’attività di interpretazione del diritto e di valutazione del fato e delle prove che non può originare responsabilità, qualunque sia il grado di erroneità che la contraddistingue, escludendo la possibilità del controllo del procedimento interpretativo del giudice; F. BIONDI, La responsabilità del magistrato. Saggio di diritto costituzionale, Milano, 2006, 197 ss.; F.P. LUISO, La responsabilità civile del magistrato secondo la legge 13 aprile 1988 n. 117, in La responsabilità dei magistrati, a cura di M. VOLPI, Napoli, 2008, 175 ss.

[39] «Costituisce diniego di giustizia il rifiuto, l’omissione o il ritardo del magistrato nel compimento di atti del suo ufficio quando, trascorso il termine di legge per il compimento dell’atto, la parte ha presentato istanza per ottenere il provvedimento e sono decorsi inutilmente, senza giustificato motivo, trenta giorni dalla data di deposito in cancelleria. Se il termine non è previsto, debbono in ogni caso decorrere inutilmente trenta giorni dalla data del deposito in cancelleria dell’istanza volta ad ottenere il provvedimento. Il termine di trenta giorni può essere prorogato, prima della sua scadenza, dal dirigente dell’ufficio con decreto motivato non oltre i tre mesi dalla data di deposito dell’istanza. Per la redazione di sentenze di particolare complessità, il dirigente dell’ufficio, con ulteriore decreto motivato adottato prima della scadenza, può aumentare fino ad altri tre mesi il termine di cui sopra. Quando l’omissione o il ritardo senza giustificato motivo concernono la libertà personale dell’imputato, il termine di cui al comma primo è ridotto a cinque giorni, improrogabili, a decorrere dal deposito dell’istanza o coincide con il giorno in cui si è verificata una situazione o è decorso un termine che rendano incompatibile la permanenza della misura restrittiva della libertà personale».

[40] Sarà lo Stato, convenuto in giudizio in persona del Presidente del Consiglio, a dover dimostrare che il diniego non è imputabile al Magistrato, adducendo il giustificato motivo e dimostrando, in tal modo, l’assenza di colpa; A. CORRADO, Magistrati: nella valutazione dell’operato, Milano, 2007, 124. Tale aspetto costituisce un filtro. Oltre a ciò vi è la previsione di un filtro cd. endoprocessuale «costituito dal giudizio di ammissibilità (art. 5): un «meccanismo di deterrenza a monte contro azioni temerarie, artificiose, fittizie, di mera turbativa»; A. PROTO PISANI, La nuova legge sulla responsabilità civile dei magistrati: il giudizio nei confronti dello Stato, in Foro.it, 1988, 420.

Il tribunale competente a pronunciarsi sull’azione risarcitoria contro lo Stato dichiara, infatti, inammissibile la domanda «quando non sono stati rispettati i termini o i presupposti indicati dagli articoli 2, 3 e 4 ovvero quando è manifestamente infondata».

[41] G. GIANNINI, op. cit., 226.

[42] Un esempio classico di diniego di giustizia è rappresentato dalla reiezione di una domanda dopo che il giudice non abbia consentito alla parte di provare i fatti posti da essa alla base di tale domanda. Benché il caso appaia scolastico, esso non è così infrequente come potrebbe apparire e il contrasto tra l’anelito di chi propone una domanda, di essere messo in grado di provarla, e lo sbarramento che il giudice, a volte per effetto di un insufficiente studio delle carte processuali, oppone a tale legittima esigenza, seguito poi dalla reiezione della domanda perché non provata, grida anch’esso vendetta.

[43] M. CAPPELLETTI, Giudici irresponsabili? Studio comparativo sulla responsabilità dei giudici, Milano, 1988, 46,74.

[44] Corte Cost., sentenza n. 21 del 13 febbraio 1969, in www.cortecostituzionale.it.

[45] Corte Cost., sentenza n. 29 del 16 gennaio 1987, in giurcost.org.

[46] Tra i vari progetti di modifica si ricorda la proposta di riforma costituzionale della giustizia avanzata dal governo Berlusconi mediante il disegno di legge costituzionale A.C. 4275, volto ad una riforma complessiva del titolo IV della parte II della Costituzione, prevedendo l’introduzione di una nuova sezione e di un nuovo articolo relativo alla responsabilità dei magistrati. L’art. che voleva essere introdotto con tale proposta era l’art. 113 bis , rubricato “Responsabilità dei magistrati”, il quale prevedeva che i magistrati fossero direttamente responsabili degli atti compiuti in violazione dei diritti al pari degli altri soggetti e dipendenti dello Stato. La novella, dunque, prevedeva una forma di responsabilità diretta dei magistrati per gli atti compiuti in violazione dei diritti. Il progetto mirava all’introduzione di una vera e propria figura autonoma di responsabilità: la responsabilità professionale del magistrato. Tuttavia, il disegno di legge del Governo si è interrotto in sede referente davanti alle Commissioni I e II della Camera dei deputati. Successivamente, vengono proposte ulteriori riforme, a titolo esemplificativo, si ricordano la C. 1956 Brigandi, C. 252, Bernardini, C. 1429 Lussana, C. 2089 Mantini, C. 3285 Versace, C. 3300 Laboccetta, C. 3592, Santelli. L’iter di tali proposte si è interrotto in sede referente. Da ultimo si ricorda, infine, il cd. “emendamento Pini” al disegno di legge comunitaria 2011, tuttavia, nemmeno in questo caso l’iter si è concluso fermandosi al Senato (A.S. 3129); in La responsabilità civile dei magistrati, in Temi dell’attività parlamentare, in Camera.it.

[47] Le modifiche proposte riguardavano due aspetti fondamentali: quello sostanziale e quello processuale. Con il primo, si mirava a sostituire il meccanismo dell’azione diretta contro lo Stato e della successiva azione di rivalsa dello Stato contro il magistrato eliminando il filtro del giudizio di ammissibilità [G. NEGRI, Giudici alla sbarra per gli errori, in Il Sole 24 ore, 2010]; con il secondo, si mirava ad estendere la responsabilità per colpa, prevedendosi, addirittura, una responsabilità per colpa lieve [Proposta di I. MAIOLO, A.C. XIII Leg.. D.d.l. e Rel. Doc., n. 1996]. Accanto a queste proposte, ve ne sono state altre volte a cancellare i limiti al risarcimento previsti dalla legge [Proposta di VERSACE, A.C. XVI Leg.. D.d.l. e Rel. Doc., n. 1492]

[48] I dubbi sulla L. 117/1988 possono essere sintetizzati nel ritenuto eccessivo favore con il quale è stata disciplinata la materia, soggetta a valutazioni pregiudiziali di ammissibilità estranee alla disciplina cui soggiace qualunque altro dipendete pubblico, nonché nell’estrema limitazione del novero delle ipotesi di responsabilità, dalle quali risultava esclusa in radice l’attività di interpretazione. Questi dubbi hanno, da subito, trovato sostegno nella giurisprudenza della Corte di Giustizia, la quale, seppur formata in relazione a violazioni di diritto comunitario, fornisce già nel 2003, una chiave di lettura certamente molto utile, anche in relazione all’attività giurisdizionale che si concretizzi nell’applicazione del solo diritto interno. La normativa interna è stata espressamente scrutinata dalla Corte di Giustizia con le sentenze del 30 settembre 2003, resa nella causa C-224/01/Kobler e del 13 giugno 2006, resa nella causa C173/03, Traghetti del Mediterraneo. La specifica questione sulla quale si è espressa la Corte afferiva la circostanza se il diritto comunitario ostasse ad una normativa nazionale che esclude ogni responsabilità dello Stato italiano per i danni causati ai singoli a seguito di una violazione del diritto comunitario commessa da un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado, allorquando tale violazione risulti da una interpretazione delle norme di diritto o da una valutazione dei fatti e delle prove ad opera di tale organo giurisdizionale, e che, dall’altro lato, limiti, peraltro, tale responsabilità ai soli casi di dolo e della colpa grave del giudice. Quanto all’irresponsabilità dell’attività “interpretativa” la Corte ha espressamente affermato che «non si può escludere che una violazione manifesta del diritto comunitario vigente venga compromessa, appunto, nell’esercizio di una tale attività interpretativa, se, per esempio, il giudice dà ad una norma di diritto sostanziale o procedurale comunitario una portata manifestamente erronea, in particolare alla luce della pertinente giurisprudenza della Corte in tale materia, o se interpreta il diritto nazionale in modo da condurre, in pratica, alla violazione del diritto comunitario vigente […]»; punti 35- 36 della sentenza della Corte di Giustizia C173/03, Traghetti del Mediterraneo, inwww.curia.europa.eu.

[49] La Corte ha più volte sottolineato l’incompatibilità  con particolare riferimento al punto in cui si esclude la responsabilità del magistrato nei casi di interpretazione di norme di diritto o della valutazione di fatti e prove e all’imposizione di requisiti poco rigorosi (nelle ipotesi di responsabilità ammesse) nei confronti della violazione palese del diritto vigente.

[50] Corte giust. UE 24 novembre 2011, C-379/10, Commissione c. Italia, in Giur. Cost., 2011, 4717.

[51] S. BOCCAGNA, La parabola della responsabilità civile dei magistrati dal c.p.c. del 1940 alla l. n. 18 del 2015 in Le Nuove leggi civili commentate, fasc. 5, 2018, 1194 – 1208.

[52] G. FERRI, La responsabilità civile dei magistrati dopo la legge n. 18 del 2015 in Nomos, fasc. 3,  2018. Si pensi, ad esempio, all’ipotesi di provvedimenti d’urgenza la cui negazione o la cui attuazione abbia determinato effetti irreversibili, non più integralmente rimediabili con la pronuncia di merito, o comunque danni che, a causa dell’insolvenza delle parti, non sono stati in concreto risarciti; R. MARTINO, op. cit., 1.

[53] R. MARTINO, Colpa grave del magistrato, responsabilità dello Stato e limiti del sindacato sul provvedimento giurisdizionale, in Giust. civ. riv. trim., n. 3-2016, 1.

[54] La giurisprudenza della Cassazione civile ha affermato che «In tema di risarcimento del danno per responsabilità civile del magistrato, l'ipotesi di colpa grave di cui all'art. 2, comma 3, l. n. 117/88 sussiste quando il comportamento del magistrato si concretizza in una violazione grossolana e macroscopica della norma ovvero in una lettura di essa contrastante con ogni criterio logico, che comporta l’adozione di scelte aberranti nella ricostruzione della volontà del legislatore, la manipolazione assolutamente arbitraria del testo normativo e lo sconfinamento dell’interpretazione nel diritto libero» (cfr. Sez. III, sentenza n. 7272 del 18 marzo 2008, in www.dejure.it.). Per quanto riguarda il concetto di negligenza inescusabile, la Suprema Corte ha sostenuto che questo esige un "quid pluris" rispetto alla colpa grave delineata dall'art. 2236 cod. civ., nel senso che si esige che la colpa stessa si presenti come "non spiegabile", e cioè priva di agganci con le particolarità della vicenda, che potrebbero rendere comprensibile, anche se non giustificato, l'errore del magistrato (cfr. Sez. I, sent. n. 6950 del 26 luglio 1994 e Sez. III, Sent. n. 15227 del 5 luglio 2007, in www.dejure.it.).

[55] M. BONA, Cassazione civile ed obbligo di rinvio pregiudiziale alla cgue: violazione, responsabilità statali, rimedi processuali - i parte in Responsabilità civile e previdenza, 2021, fasc. 5, 1744 – 1766.

[56] Sul punto si rileva che la violazione manifesta della legge riguarderebbe la disposizione, non la norma, e corrisponderebbe all’inosservanza del significato linguistico della prima, tanto che si potrebbe parlare di travisamento linguistico. Per approfondimenti si v. R. MARTINO, Giurisprudenza "creativa" e responsabilità civile del giudice per violazione manifesta della legge, in giustiziacivile.com, fasc. 3, 2019. 

[57] La nozione del travisamento dei fatti è definita con una locuzione unitaria, che include sia l’alterazione del fatto che quella della prova e cioè tutti i possibili errori in cui il giudice può incorrere nell’attività di ricostruzione dei fatti in causa sulla base dell’attività di valutazione delle risultanze istruttorie, sempre che, ovviamente, tali errori si traducano in un vero e proprio “travisamento” del fatto.

[58] F. AULETTA, G. VERDE, La nuova responsabilità del giudice e l’attuale sistema delle impugnazioni, in Corr. giur., 2015, 898. 

[59] V.M. CAFERRA, Il processo al processo. La responsabilità dei magistrati, Bari, 2015, 125. In particolare, è stato sottolineato il pericolo di azioni di responsabilità proposte al solo scopo di presentare istanza di ricusazione nei confronti del magistrato coinvolto nell’azione civile, al fine di liberarsene in quanto “scomodo” e/o “sgradito”; G. SANTACROCE, Responsabilità civile dei magistrati, Editoriale, in Giustiziacivile.com, 2015, 3. 

[60] R. GENAH, V. VECELLIO, Storia di un referendum. Dai casi Tobagi e Tortora al voto popolare: la stampa, gli intellettuali, i partiti, Milano, 1987. 

[61] Artt. 2 e 3 della L. 13 aprile 1988, n. 117, testo pubblicato in Gazzetta Ufficiale 15/04/1988 n. 88, in www.dejure.it.

[62] Prima del referendum abrogativo, la responsabilità diretta del giudice era prassi consolidata, dal 1988, invece, rimane quale ipotesi residuale, regolata dall’art. 13 della L. 13 aprile 1988, n. 117, testo pubblicato in Gazzetta Ufficiale 15/04/1988 n. 88, in www.dejure.it.

[63] A. PROTO PISANI, la nuova legge sulla responsabilità civile dei magistrati. il giudizio nei confronti dello Stato, in Il Foro italiano, 1988, fasc. 10, 409 – 428.

[64] P. GUARNIERI, L’indipendenza della magistratura, Milano, 1992, 124. 

[65] Corte Cost., sentenza n. 1 del 30 gennaio 1962, in www.dejure.it.

[66] Corte Cost., sentenza n. 385 del 05 novembre 1996, in www.dejure.it.

[67] E non del singolo magistrato, con scelta che è apparsa a molti in contrasto con gli esiti del referendum abrogativo del 1987.

[68] Corte Cost., sentenza n. 468 del 22 ottobre 1990, in www.dejure.it.

[69] V. MELE, La responsabilità disciplinare dei magistrati, Milano, 1987, 192. 

[70] G.M. MARSICO, Sulla natura proteiforme e cangiante della responsabilità dei pubblici dipendenti, 2023, in ildirittoamministrativo.it.

[71] N. ZANON, La responsabilità dei giudici, in Relazione Convegno AIC, 2004.

[72] Corte Cost., sentenza n. 18 del 18 gennaio 1989, in www.dejure.it.

[73] A norma dell’art. 102 della Costituzione. 

[74] A. CORRADO, Magistrati: nella valutazione dell’operato, Milano, 2007, 441.

[75] C.M. BARONE, La legge sulla responsabilità civile dei magistrati e la sua pressoché inesistente applicazione, in Foro it 2015, V, 291 ss. .

[76] La L. 27 febbraio 2015, n. 18 mediante l’art. 4 riscrive e sostituisce integralmente l’art. 7 della L. 13 aprile 1988, n. 117, in Gazzetta Ufficiale 4 marzo 2015 n. 52. Per approfondimenti si v. R. MARTINO, Giurisprudenza "creativa" e responsabilità civile del giudice per violazione manifesta della legge, in giustiziacivile.com, fasc. 3, 2019. 

[77] La L. 27 febbraio 2015, n. 18 mediante l’art. 5 sostituisce il comma 3 dell’art. 8 della L. 13 aprile 1988, n. 117. La stessa norma prevede che per i giudici popolari la responsabilità è limitata al dolo mentre in relazione ai cittadini estranei alla magistratura, inseriti negli organi giudiziari collegiali, rileva una responsabilità per dolo o negligenza inescusabile. Per approfondimenti si veda G. AMOROSO, Riforma della responsabilità civile dei magistrati e dubbi di legittimità costituzionale dell'eliminazione del filtro di ammissibilità dell'azione risarcitoria, in Questione Giust. 3/2015.

[78] Il d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149 meglio noto come Riforma Cartabia, in vigore dal 18 ottobre 2022, è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale, n. 243 del 17 ottobre 2022 – Suppl. Ord. n. 38, in www.normattiva.it.

[79] F. DAL CANTO, La legge n. 18/2015 sulla responsabilità civile dello Stato per fatto del magistrato: tra buone idee e soluzioni approssimative, 2015, in questionegiustizia.it.

[80] La riforma del 2015 mediante l’art. 3 abroga l’art. 5 della L. 13 aprile 1988, n. 117. Per approfondimenti sul tema si v. F. BIONDI, La riforma della responsabilità civile del magistrato: una responsabilità più dello Stato che dei magistrati, in Quad. cost. 2015, 409 ss.

[81] Mediante tale scelta era protetto il solo diritto inviolabile disciplinato dall’art. 13 della Costituzione, implicato a fronte di coercizioni fisiche, ovvero di forme di “privazione o restrizione”, aventi ad oggetto il corpo della persona, non astrattamente previste dalla legge o irrogate senza un regolare giudizio; G. MARINO, Responsabilità civile dei magistrati: anche senza privazione della libertà personale, il danno è risarcibile, in Diritto & Giustizia, fasc. 160, 2022, 7.

[82] L’evoluzione dell’art. 2056 c.c. è riferibile a cinque pronunce giurisprudenziali del 2003, nn. 8828, 8827, 7283, 7282 e 7281, tali pronunce hanno previsto che è consentito il risarcimento dei danni non patrimoniali nei casi di lesione dei diritti inviolabili della persona. Pertanto, si afferma l’estensione a tutti i diritti inviolabili e non solo a quelli restrittivi della libertà personale. Per tutte le pronunce si v. www.dejure.it.

[83] Sul punto si v. F. AULETTA, S. BOCCAGNA, N. RASCIO, La responsabilità civile dei magistrati. Commentario alle leggi 13 aprile 1988, n. 117 e 27 febbraio 2015, n. 18, Bologna, 2017. 

[84] Per quanto si dirà nel prosieguo in riferimento alla pronuncia della Corte Costituzionale, si v. Corte Cost. n. 205 del 15 settembre 2022, in www.dejure.it.

[85] «La Corte di cassazione riferisce che il ricorrente aveva promosso un'azione per il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali e che il Tribunale ordinario di Salerno aveva emesso inizialmente un decreto di inammissibilità del ricorso, poi riformato in sede di reclamo dalla Corte d'appello di Salerno, che aveva rimesso gli atti al primo giudice per la prosecuzione del giudizio. Il Tribunale aveva quindi accolto parzialmente la domanda del ricorrente, escludendo il risarcimento dei danni non patrimoniali, in assenza di condotte lesive della libertà personale dell'attore. Il ricorrente aveva, quindi, proposto appello, insistendo per la condanna al risarcimento dei danni non patrimoniali, mentre la Presidenza del Consiglio dei ministri aveva chiesto l'integrale rigetto della domanda risarcitoria, resistendo e proponendo appello incidentale. La Corte d'appello di Salerno - riporta ancora il giudice a quo - aveva rigettato entrambi i gravami e aveva confermato la sentenza impugnata; pertanto, P.A. B. aveva proposto ricorso per cassazione»; punto 2.2. della pronuncia della Corte Costituzionale. 

[86] L’accusa – che ha provocato vasto eco giornalistico – dopo due anni è stata rimessa alla Procura competente che, effettuato l’interrogatorio, aveva richiesto l’archiviazione. 

[87] Sul punto si rimanda ai precedenti paragrafi del presente scritto. Per completezza si riporta la sintesi effettuata dalla Corte nella prima parte del punto 6: «6.1.- L'art. 2 costituiva il fulcro della legge n,117 del 1988, che aveva introdotto - all'esito del referendum abrogativo del 1987 - una disciplina sulla responsabilità civile del magistrato profondamente riformata rispetto alle precedenti regole dettate dagli artt. 55. 56 e 74 del codice di procedura civile. A sua volta, la citata legge n.117 del 1988 (compreso l'art.2) è stata oggetto di significative modifiche apportate dalla legge n. 18 del 2015, in conseguenza degli sviluppi della giurisprudenza della Corte di giustizia dell'Unione europea (sentenze 13 giugno 2006, in causa C-173/03, Traghetti del Mediterraneo spa, e 30 settembre 2003, in causa C-224/01, Köbler). 6.2.- Nello specifico, l'art. 2 della legge n. 117 del 1988 disegnava i tratti della fattispecie illecita e il perimetro dei danni risarcibili. 6.2.1.- Sotto il primo profilo, l'art. 2 specificava l'elemento soggettivo dell'illecito, nonché le condotte, attive e omissive, idonee a rendere non iure l'esercizio della funzione giudiziaria, oltre che contra ius il danno cagionato, in quanto conseguente alla lesione di interessi giuridicamente rilevanti e meritevoli di tutela risarcitoria. Tali condotte venivano identificate sia nel diniego di giustizia, sia nei comportamenti, atti o provvedimenti posti in essere con dolo o colpa grave nell'esercizio delle funzioni giudiziarie (art. 2, comma 1). In particolare, relativamente all'illecito gravemente colposo, l'art. 2, comma 3, tipizzava le condotte non iure, individuandole: (a) nella grave violazione di legge, determinata da negligenza inescusabile; (b) nell'affermazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento; (c) nella negazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento; (d) nell'emissione di un provvedimento concernente la libertà della persona fuori dei casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione. Viceversa, erano attratte nella sfera della condotta iure «l'attività di interpretazione di norme di diritto», nonché «quella di valutazione del fatto e delle prove», in virtù della cosiddetta clausola di salvaguardia, di cui all'art. 2, comma 2. In sostanza, l'illecito da esercizio della funzione giudiziaria presentava - e presenta tuttora, pur con le significative modifiche introdotte nel 2015 - caratteri di specialità, posti a presidio dell'indipendenza e dell'autonomia della funzione giudiziaria (sentenze n. 49 del 2022, n. 164 del 2017, n. 468 del 1990 e n. 18 del 1989). A ciò si aggiungeva - sempre nel testo originario del 1988 - la previsione di una condizione di ammissibilità della domanda risarcitoria, regolata all'art. 5, che la successiva legge n. 18 del 2015 ha poi rimosso. Infine, il quadro della disciplina sulla responsabilità civile del magistrato si completava con la previsione (confermata nel 2015) della possibilità di rivolgere l'azione in via diretta unicamente contro lo Stato. Quanto all'azione di rivalsa nei confronti del magistrato (resa nel 2015 espressamente obbligatoria), essa era consentita solo una volta intervenuto il giudicato di condanna al risarcimento del danno e con i limiti di importo indicati dal successivo art. 8, vale a dire - salvo il caso dell'illecito doloso - non oltre un terzo dell'annualità dello stipendio, al netto degli oneri fiscali, e, in caso di rivalsa esercitata tramite trattenute sullo stipendio, con rate mensili non superiori a un quinto dello stipendio netto (tali limiti, con la legge n. 18 del 2015, sono stati rispettivamente elevati alla metà dello stipendio annuale netto e a rate non superiori a un terzo dello stipendio mensile netto)».

[88] Sul punto si rileva che il giudice rimettente sottolinea l’inapplicabilità della nuova formulazione a fatti verificatisi anteriormente, ma ancora sub iudice, determinerebbe «una disparità di trattamento e [una lesione] dei principi di effettività ed integralità del risarcimento correlato alla violazione di diritti primari della persona».

[89] Il danno biologico, inquadrato all’epoca nell’art. 2043 c.c., quale tertium genus acrivibile al danno ingiusto o – secondo una diversa prospettiva – quale danno lato sensu patrimoniale da reato, riconducibile alle “norme ordinarie”, che si riespandevano, ai sensi dell’art. 13 in  presenza di un illecito penale. 

[90] «L'esigenza di preservare l'autonomia e l'indipendenza della magistratura rileva nella definizione del confine fra lecito e illecito e nella dialettica tra azione civile diretta nei confronti dello Stato e azione di rivalsa nei riguardi del magistrato. Sono questi i profili della disciplina vòlti a realizzare il «delicato bilanciamento» tra i principi di cui agli artt. 101 e 103 Cost. e gli interessi di chi risulta «ingiustamente danneggiato» (sentenza n. 164 del 2017, che richiama affermazioni già svolte nella sentenza n. 2 del 1968). Viceversa, una volta delimitato il campo dell'illecito, a beneficio della serenità e dell'autonomia del giudice nello svolgimento delle sue funzioni (sentenze n. 49 del 2022, n. 164 del 2017, n. 18 del 1989, n. 26 del 1987 e n. 2 del 1968), non si ravvisano ragioni idonee a giustificare una compressione di quella tutela essenziale dei diritti inviolabili della persona, che è data dal risarcimento dei danni non patrimoniali. E l'irragionevolezza diviene ancora più evidente, ove si consideri che l'autonomia del magistrato è preservata anche dal carattere indiretto della responsabilità, nonché dai limiti posti all'azione di rivalsa. In un simile contesto, la compressione della tutela civile dei diritti inviolabili della persona si traduce in una irragionevole limitazione della responsabilità civile dello Stato e del magistrato».