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Pubbl. Ven, 23 Giu 2023

Processo penale: la messa alla prova per le persone giuridiche al vaglio delle Sezioni Unite

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autori Annalisa Nocera , Cosimo Zuccaro



Il contributo esamina il contrasto giurisprudenziale sorto all’interno dei palazzi di giustizia avente ad oggetto la possibilità di applicare la sospensione del processo con messa alla prova agli enti. La normativa di riferimento per gli enti è il d. lgs. 231/2001 che rimane silente in merito all’istituto in questione. Innanzi a questo silenzio si sono sviluppati due orientamenti interpretativi: uno negazionista, contrario alla possibilità di applicare all’ente l’istituto della messa alla prova, e uno possibilista, invece favorevole. Il 27 ottobre 2022, con la sentenza n. 14840/2023, le Sezioni Unite hanno sciolto il nodo interpretativo aderendo alla tesi negazionista.


ENG

The pronunciation n. 14840/2023 by the United Sections: the admissibility of the probationary period for the companies

The paper examines the dispute occurred into the Italian courts having as topic the chance to apply the probationary period at the companies. The law that rules the criminal penalties for the companies is the d. lgs. 231/2001 that does not say anything about the probation. In front of that silence two different kind of thought developed: one approach, contrary to the possibility to apply the probation to the companies, and another one, otherwise agreeing. The 27th October 2022, with sentence n. 14840/2023, the United Sections solved the problem agreeing with the contrary approach.

Sommario: 1) L’estinzione del reato per esito positivo della messa alla prova. I requisiti per le persone fisiche; 2) La natura della messa alla prova e le implicazioni sulla responsabilità dell’ente; 3) L’orientamento contrario all’applicazione della messa alla prova all’ente; 4) L’orientamento favorevole; 5) La soluzione offerta dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 14840/2023 depositata il 6 aprile 2023.

1. L’estinzione del reato per esito positivo della messa alla prova. I requisiti per le persone fisiche

La sospensione del processo con messa alla prova è stata introdotta nel nostro ordinamento con la legge delega nr. 67/2014.

Il provvedimento normativo, oltre a delegare al Governo il compito di procedere con la depenalizzazione di alcune norme incriminatrici, prevedeva l’introduzione della messa alla prova nei confronti degli adulti dato che, fino ad allora, era prevista nella sola legislazione minorile[1].

Le norme di diritto penale sostanziale che disciplinano la messa alla prova sono gli artt. 168-bis, 168-ter, 168-quater del codice penale i quali prevedono che nei procedimenti per i reati puniti con la sola pena edittale pecuniaria o con la pena edittale detentiva non superiore nel massimo a quattro anni, sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria; oppure per i delitti indicati dal comma 2 dell’art. 550 c.p.p.: violenza o minaccia a un pubblico ufficiale, resistenza a un pubblico ufficiale, oltraggio a un magistrato in udienza aggravato, violazione di sigilli aggravata, rissa aggravata, furto aggravato e ricettazione, l’imputato possa chiedere la sospensione del processo con messa alla prova[2].

Se viene accolta la richiesta, la messa alla prova comporta l’adozione di condotte riparatorie finalizzate alla rimozione del danno o del pericolo creato nonché, ove possibile, il risarcimento del danno.

L’imputato viene, inoltre, affidato ai servizi sociali per lo svolgimento di un programma di trattamento ed è tenuto a svolgere lavori di pubblica utilità.

Le prescrizioni imposte devono essere correttamente osservate e, in caso di grave o reiterata trasgressione alle stesse oppure di commissione, durante il periodo di prova, di un nuovo delitto non colposo ovvero di un reato della stessa indole rispetto a quello per cui si procede, il giudice procederà immediatamente a disporre la revoca del beneficio.

Tuttavia, non tutti possono ambire alla sospensione del processo con messa alla prova ed invero non può essere concessa a chi ne ha già beneficiato una volta, chi è stato dichiarato delinquente abituale ex artt. 102, 103 o 104 c.p., chi è stato dichiarato delinquente professionale o per tendenza ai sensi dell’art. 105 c.p., e dell’art. 108 c.p.

Per quanto riguarda le norme contenute nel codice di rito, l’art. 464-bis c.p.p. prescrive che l’imputato possa presentare l’istanza oralmente o per iscritto fino a che non siano formulate le conclusioni ex art. 421 e 422 c.p.p., a meno che non si tratti di un giudizio direttissimo o di un procedimento di citazione diretta a giudizio, dove il termine sarà prolungato fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado; qualora sia stato notificato il decreto di giudizio immediato si dovrà presentare l’istanza depositandola nella cancelleria del GIP con prova di avvenuta notifica entro 15 giorni dalla ricezione di quest’ultima; non si tratti di in un procedimento per decreto, nel quale la richiesta di sospensione sarà presentata con l’atto di opposizione.

L’istanza deve contenere in allegato anche un programma di trattamento elaborato d’intesa dall’imputato con l’Ufficio penale di esecuzione esterna riguardante le modalità di svolgimento del trattamento, le prescrizioni comportamentali e le condotte volte a promuovere la mediazione con la persona offesa.

Il predetto programma può essere modificato dal giudice solamente con il consenso dell’imputato.

Una volta presentata la richiesta il giudice trasmette gli atti al pubblico ministero, il quale esprimerà consenso o dissenso. In caso di parere negativo del pubblico ministero, l’istanza può essere rinnovata prima dell’apertura il dibattimento e il giudice decide in ordine al suo accoglimento.

L’accoglimento della domanda di sospensione con messa alla prova è disposto con ordinanza, sentite le parti e la persona offesa, a meno che il giudice non ritenga di dover pronunciare sentenza ex art. 129 c.p.p.

L’ordinanza in questione è ricorribile in Cassazione dall’imputato e dal pubblico ministero e l’impugnazione non sospende il procedimento. L’impugnazione potrà provenire anche dalla persona offesa in persona, se sia stato omesso l’avviso dell’udienza o il giudice non l’abbia sentita.

L’accoglimento della domanda di sospensione con messa alla prova dipende dall’esame dei parametri ex art. 133 c.p.; da una valutazione sull’idoneità del programma di trattamento allegato all’istanza; da un giudizio prognostico basato sulla possibilità che l’imputato non commetta altri reati.

La sospensione non può avere durata superiore a due anni quando si tratta di reati punibili con la pena detentiva, mentre non può avere durata superiore a un anno se si procede per reati per i quali è prevista la sola pena pecuniaria.

Una volta emessa l’ordinanza, questa è trasmetta all’ufficio di esecuzione penale esterna che prenderà in carico l’imputato e durante la sospensione il giudice potrà in qualsiasi momento, sentiti l’imputato e il pubblico ministero, modificare le prescrizioni originarie.

Decorso il periodo di sospensione il giudice valuterà la messa alla prova e se essa avrà avuto esito positivo, il reato sarà dichiarato estinto con sentenza; altrimenti il processo riprenderà il suo corso.

Le disposizioni normative sulla messa alla prova sono modellate sulla responsabilità della persona fisica tant’è che entrano in gioco differenti obblighi comportamentali quali, ad esempio, lo svolgimento di un programma di trattamento e l’adozione di condotte relazionali e riparatorie nei confronti della persona offesa del reato.

2. La natura della messa alla prova e le implicazioni sulla responsabilità dell’ente

A seguito dell’introduzione della messa alla prova nel nostro ordinamento, in occasione della sua applicabilità ai giudizi pendenti al momento della sua entrata in vigore, la dottrina e la giurisprudenza si sono interrogate in ordine alla natura processuale o sostanziale della stessa.

Lo scioglimento della questione era rilevante perché ne derivava la regola da seguire in materia di successione di leggi nel tempo, essendo le norme sostanziali e processuali soggette a principi differenti.

Invero, solamente le norme di diritto penale sostanziale sono soggette al divieto di retroattività della legge penale più sfavorevole e consentono l’applicazione retroattiva della legge più favorevole.

Le norme processuali, di contro, soggiacciono al principio del tempus regit actum che implica l’applicabilità delle norme sopravvenute agli atti ancora da compiere, mentre esse non sono applicabili retroattivamente agli atti già compiuti.

Non sempre è chiaro se ci si trova dinanzi a una norma di diritto penale sostanziale o di diritto penale processuale e non sempre la collocazione normativa nel codice penale o nel codice di rito è dirimente.

Per comprendere se una norma ha natura sostanziale o processuale l’interprete deve esaminarne attentamente gli effetti, nel senso che deve essere verificato se essi si ripercuotono sulla libertà personale del reo in termini di maggiore o minore afflittività dell’esecuzione della pena.

In caso di risposta positiva la norma potrà dirsi sostanziale, altrimenti essa avrà natura processuale.

Ciò premesso, è possibile esaminare nel dettaglio il dibattito giurisprudenziale e dottrinale sorto in relazione alla natura delle norme sulla messa alla prova.

La natura processuale della messa alla prova è stata accolta dalla Corte Costituzionale che ha aderito a quell’orientamento che richiama il genus dei procedimenti speciali.

In particolare, la Consulta ha affrontato la questione intertemporale affermando che «Pur avendo effetti sostanziali, quali l’estinzione del reato, la messa alla prova si caratterizzerebbe per un’intrinseca dimensione processuale, in quanto consiste in un nuovo procedimento speciale, alternativo al giudizio»[3].

Ritenendo che la messa alla prova sia un procedimento speciale, di conseguenza le norme dettanti la sua disciplina sarebbero tout court norme processuali.

In tal modo, la messa alla prova verrebbe sottoposta alle regole del tempus regit actum che, conseguenzialmente, sarebbero inapplicabili retroattivamente senza lasciare alcuno spazio all’art. 2 c.p. comma 4 e al principio di retroattività della lex mitior.

A quest’orientamento se n’è contrapposto un altro, posto a sostegno della natura sostanziale della messa alla prova.

All’interno di questa corrente di pensiero si sono poi formati due diversi filoni interpretativi che interpretavano la sospensione del processo talvolta come istituto favorevole al reo, talaltra sfavorevole. Nello specifico, la natura favorevole al reo veniva dedotta dall’esito certamente favorevole in caso di esito positivo della messa alla prova: l’estinzione del reato[4].  La natura sfavorevole veniva sostenuta da chi, invece, riteneva che l’effetto estintivo del reato non fosse elemento sufficiente per poter parlare di norme favorevoli, essendo incerto l’esito del trattamento[5].

È naturale che interpretare l’istituto come favorevole o sfavorevole al reo incide sui confini applicativi dell’art. 2 c.p. e sulle norme in materia di successioni penali nel tempo, dato che solamente le norme di favore possono essere applicate analogicamente e possono trovare applicazione retroattiva anche ai fatti commessi anteriormente all’entrata in vigore della norma.

Ad oggi, sembra che la dottrina e la giurisprudenza abbiano trovato la pace accordandosi sulla qualificazione della messa alla prova come istituto ibrido avente natura processuale con effetti sostanziali.

Tuttavia, le questioni relative alla natura favorevole o meno della messa alla prova sono ancora attuali, specie quando si verte in materia di responsabilità amministrativa degli enti derivante da reato.

Nello specifico, il noto interpretativo sulla natura favorevole o sfavorevole dell’istituto è fondamentale per comprendere se la sospensione del processo con messa alla prova possa applicarsi all’ente.

Dinanzi a un orientamento che sostiene che la messa alla prova produca effetti sfavorevoli[6], perché da essa deriva l’adozione di determinate prescrizioni obbligatorie aventi finalità special-preventiva e repressiva, se ne contrappone un altro che ne esclude la natura sanzionatoria affermandone bensì gli effetti in bonam partem[7]. Invero, ad avviso della dottrina “se l’afflittività è, effettivamente, carattere imprescindibile della pena (dal latino poena “castigo, molestia, sofferenza” e dal greco ποινή “ammenda, castigo”), non sempre vale la relazione contraria: non si può cioè parlare di pena ogni qual volta vi sia sofferenza[8].

Quindi, se caratteristica imprescindibile della pena è l’afflittività, non necessariamente gli effetti afflittivi di un istituto implicano una pena.

Tuttavia, l’applicabilità o meno della messa alla prova all’ente non dipende esclusivamente dalla sua qualificazione giuridica come istituto di favore o di sfavore, ma vi sono ulteriori considerazioni che devono essere tenute a mente e che sono state attenzionate dalla giurisprudenza nel percorso evolutivo che ha condotto alla pronuncia delle Sezioni Unite del 27 ottobre 2022.

3. L’orientamento contrario all’applicazione della messa alla prova all’ente

La prima volta che è sorta la necessità di comprendere se la messa alla prova fosse applicabile agli enti si è verificata nel 2017.

Non vi erano precedenti in materia e, dinanzi a un quadro normativo e giurisprudenziale povero di contenuto, la XI Sezione penale del Tribunale di Milano era stata chiamata a decidere tentando di offrire una risposta alla problematica.

La pronuncia del Tribunale si era concentrata prevalentemente sul silenzio normativo, specificando che sia le regole del codice penale e di procedura penale, ove è collocata la disciplina della messa alla prova per le persone fisiche (artt. 168 bis ss. c.p. – artt. 464bis ss. c.p.p.), sia le disposizioni di cui alla sezione VI del titolo III del d.lgs. 231/2001, che disciplina l’applicazione dei procedimenti speciali alle persone giuridiche, nulla dicono con riferimento alla sospensione del processo con messa alla prova per gli enti.

Ulteriore vuoto normativo è stato individuato con riferimento agli artt. 34 e 35 del D. Lgs. 231/2001 che si limitano a chiarire, con una formulazione alquanto generica, che alle persone giuridiche sono applicabili le norme del codice di procedura penale e le disposizioni processuali relative all’imputato persona fisica in quanto compatibili.

Ad avviso del Tribunale si tratta di riferimenti normativi scarni e che non possono essere tenuti in considerazione per sostenere l’estensione della sospensione del processo con messa alla prova agli enti

Inoltre, prima ancora di verificare la possibilità di intercalare le norme della messa alla prova all’ente, il Tribunale si è interrogato sulla natura processuale o sostanziale della messa alla prova, nonché sugli effetti favorevoli o sfavorevoli per il reo.

Invero, il Tribunale ha ritenuto che la messa alla prova avesse natura ibrida, processuale con effetti sostanziali, però di natura sanzionatoria e quindi sfavorevoli all’imputato.

Per addivenire a tale conclusione è stato richiamato un precedente delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione che, con sentenza n. 36272 del 31 marzo 2016, esprimendosi sulla sospensione del processo con messa alla prova in termini generali, ne aveva sostenuto la natura ibrida.

Le stesse Sezioni Unite avevano voluto richiamare altresì le argomentazioni espresse dalla sentenza nr. 240/2015 della Corte Costituzionale che, nell’esaminare l’istituto, ne hanno affermato la natura mista: processuale, in ragione della collocazione delle norme contenute tra i procedimenti speciali alternativi al giudizio, e sostanziale in considerazione del fatto che si tratta di «istituto che persegue scopi social preventivi in una fase anticipata, in cui viene ‘infranta’ la sequenza cognizione-esecuzione della pena in funzione del raggiungimento della risocializzazione del soggetto»[9].

Palese, quindi, lo schieramento a favore della natura sfavorevole dell’istituto.

In conseguenza di ciò, ad avviso del Tribunale, ne consegue l’impossibilità di procedere con l’analogia perché opererebbe in malam partem andando a violare il principio di legalità di cui all’art. 25, c. 2 della Costituzione e, come suo precipitato logico, il principio di riserva di legge.

La pronuncia del Tribunale di Milano ha tracciato la via per un tendenziale consolidamento dell’orientamento contrario all’ammissibilità della messa alla prova nei confronti dell’ente.

In tal senso ha convenuto il Tribunale di Bologna, pur non condividendo del tutto alcune considerazioni e argomentazioni espresse dal Tribunale di Milano.

Nello specifico, con l’ordinanza 10 dicembre 2020, il Tribunale di Bologna ha sostenuto che le ragioni della non applicabilità della messa alla prova agli enti non risiedono nella natura della messa alla prova bensì nel silenzio della legge.

Addirittura, nell’ordinanza si afferma che la messa alla prova non ha natura sanzionatoria e in astratto non vi sarebbe alcuna preclusione derivante dal divieto di applicazione analogica. Le ragioni per le quali non sarebbe possibile applicare all’ente il beneficio vengono individuate in altro, e cioè nel silenzio della legge dato che «il mancato coordinamento della legge n. 67 del 2014 con il testo della 231 del 2001 non è frutto di una mera dimenticanza del legislatore, ma è da considerare voluto, in ossequio al principio del ubi lex dixit voluit, noluit tacuit ritenendo che l’istituto sia modellato sulla figura dell’imputato persona fisica»[10].

Ancora, per il giudicante bolognese, è evidente che l’istituto previsto dall’art. 168bis c.p. sia modellato sulla figura dell’imputato persona fisica, in ottica special preventiva, riparativa, conciliativa, ma anche e soprattutto rieducativa.

Prova ne è il contenuto del sistema normativo che si concentra, principalmente, sul lavoro di pubblica utilità che, dovendo essere eseguito da una persona giuridica, non costituirebbe più un elemento essenziale nel percorso di risocializzazione dell’imputato, ma unicamente un costo per la persona giuridica perchè il lavoro di pubblica utilità per l’ente si risolverebbe in un risarcimento nei confronti della collettività.

Dunque, ciò che sottolinea il Tribunale di Bologna è che l’assenza di una norma specifica attribuirebbe alla giurisprudenza il ruolo di delineare i presupposti sostanziali e processuali della messa alla prova degli enti.

Ulteriori argomentazioni, fondate sempre su considerazioni differenti, si trovano nella giurisprudenza della Cassazione, nello specifico nella sentenza n. 30305 del 2 novembre 2020, Sez. III, Cassazione penale, nonché nell’ordinanza del Tribunale di Spoleto.

La prima ha rilevato che la responsabilità dell’ente ha “natura amministrativa” e quindi “non consente l’applicabilità di istituti giuridici specificamente previsti per le sanzioni di natura penale”[11].

Il Tribunale di Spoleto, invece, ha ritenuto non percorribile il ricorso allo strumento della analogia in quanto «il percorso esegetico astrattamente concepito lascerebbe, in concreto, ampi margini di incertezze operative; in particolare, rimarrebbe imprecisato l’ambito di applicazione della messa alla prova per gli enti, non essendone chiari i requisiti di ammissibilità»[12].

Ma, soprattutto, l’estensione della messa alla prova agli enti deve essere inibita «anche per un altro motivo: ossia, il fatto che il programma di messa alla prova, con i dovuti riadattamenti che risentono della assenza di connotazioni antropomorfiche per il soggetto imputato, finirebbe con l’assumere un contenuto sostanzialmente equipollente alle prescrizioni dettate dall’art. 17 D. Lgs. 231/2001»[13][14].

Ciò in quanto «l’adempimento delle prescrizioni stabilite dall’art. 17 D. Lgs. 231/2001, se avvenuto prima della dichiarazione di apertura del dibattimento, non prevede l’estinzione del reato, bensì stabilisce, in caso di condanna all’esito del giudizio, una mitigazione del trattamento sanzionatorio escludendo l’applicazione di sanzioni interdittive”. Se così è, “offrire all’ente la possibilità di chiedere la sospensione del procedimento con messa alla prova significherebbe fornirgli uno strumento agevole per eludere la disciplina di cui agli artt. 17 e 65 D. Lgs. 231/2001 consentendogli di ottenere, alle stesse condizioni e senza alcun onere aggiuntivo, il beneficio della estinzione del reato»[15].

Svariate, dunque, le pronunce volte a negare l’applicabilità della messa alla prova all’ente ciascuna di esse sostenuta da argomentazioni divergenti ma tutte riconducibili al medesimo risultato.

Anche parte della dottrina si è espressa a sostegno della tesi negazionista chiarendo che l’effetto estintivo del reato non è automatico, ma dipende solamente dall’esito positivo della messa alla prova. Esso rappresenta un modulo di definizione alternativa della vicenda processuale, che si affianca agli altri procedimenti speciali disciplinati nel Libro VI del Codice di procedura penale e da cui consegue solo in via eventuale, in caso di esito positivo della prova cui è sottoposto l’indagato o l’imputato, l’effetto tipico di una causa di non punibilità in senso stretto, sub specie di causa di estinzione del reato[16].

Accanto a quest’orientamento negazionista se n’è sviluppato un altro che, invece, ha ritenuto applicabile all’ente la sospensione del processo con messa alla prova.

5. L’orientamento favorevole

La sospensione del processo con messa alla prova in favore degli enti è stata pronunciata per la prima volta dal G.I.P. del Tribunale di Modena, con l’ordinanza del 19 ottobre 2020.

Nella richiesta di esecuzione di un programma di trattamento si dava atto della volontà dell’ente di provvedere tempestivamente all’eliminazione degli effetti negativi dell’illecito, al risarcimento dei danneggiati, all’aggiornamento del modello di organizzazione e gestione, al potenziamento delle attività di controllo, nonché allo svolgimento di attività di volontariato.

Accolta la richiesta e adempiute le prescrizioni ivi contenute, si procedeva alla verifica della corretta osservanza delle stesse che sortiva esito positivo con conseguenziale dichiarazione di estinzione del reato.

Nelle motivazioni contenute nell’ordinanza, il G.I.P. ha sottolineato che il D. Lgs 231/2001 conosce una serie di istituti che, come la messa alla prova, determinano una stasi momentanea del rito consentendo all’ente l’esecuzione di condotte redentive.

Ad avviso del giudicante, vi sarebbe un unico filo conduttore tra questi istituti che è la finalità rieducativa, certamente rinvenibile anche nelle previsioni introdotte dalla L. n. 67/2014.

Ciò che è condizione imprescindibile per accedere al beneficio è il possesso, da parte dell’ente, di compliance programs ritenuti inidonei all’assolvimento dei programmi delle prescrizioni contenute nel programma di trattamento. Peraltro, conformemente alla messa alla prova per le persone fisiche, l’istituto sarebbe applicabile solo per illeciti dotati di scarso disvalore.

Anche in dottrina si sono registrati voci favorevoli all’applicazione della messa alla prova all’ente. Invero, è stato affermato che «la trasposizione dell’alternativa di cui agli artt. 464 bis ss. c.p.p. nel peculiare contesto in esame non comporta chissà quali forzature ermeneutiche. L’istituto deflativo premiale palesa infatti una spiccata affinità con le svariate occasioni di ravvedimento che si ripetono lungo tutto l’arco processuale di cui la persona giuridica è protagonista; affinità, questa, destinata a emergere ancor più chiaramente se si considera che il decreto già contempla situazioni che comportano, al pari del probation, una momentanea paralisi del rito funzionale al perfezionamento di condotte di operosa resipiscenza (artt. 49 e 65). Detti strumenti risultano, in buona sostanza, accumunati dalla medesima logica, sicché, come ha giustamente notato taluno (F. Centorame), «ove mai si negasse all’ente la facoltà di richiedere la messa alla prova, si finirebbe, in fondo, per rinnegare la stessa natura intimamente rieducativa del processo per gli illeciti de societate»[17].

Vi è poi chi sostiene che la sospensione del processo con messa alla prova sia a tutti gli effetti un rito speciale che, grazie all’art. 34, riesce a essere applicabile anche all’ente nonostante i “silenzi” del legislatore del 2001[18].   

Ciò in quanto la praticabilità del giudizio immediato e del giudizio direttissimo risulta pacifica nell’ambito del processo all’ente, non rinvenendosi ragioni di incompatibilità di detti riti speciali rispetto al processo “231”.

La mancata menzione da parte del legislatore del 2001 non deve essere intesa quale divieto di ricorso a tali procedimenti, bensì quale «conferma del fatto che lo stesso non abbia ritenuto di apportare deroghe allo schema tipico dei due riti (accogliendo così il rinvio all’intero “pacchetto” delle relative discipline), può altresì osservarsi che è lo stesso articolo 59, in tema di contestazione dell’illecito, a prevedere come questa sia «contenuta in uno degli atti indicati dall’art. 405, 1° co., c.p.p.», con diretto rinvio alla disposizione codicistica che annovera tra le possibili modalità di esercizio dell’azione penale quelle dei «casi previsti nei titoli […] III, IV […] del libro VI», concernenti appunto il giudizio direttissimo e il giudizio immediato»[19][20].

Ulteriore considerazione sollevata dalla dottrina possibilista fa riferimento ai limiti edittali di pena, quale requisito di natura oggettiva per l’applicazione della messa alla prova.

Invero, non sembrano sussistere particolari problemi di adattabilità del rito alla disciplina “231”, atteso che il suddetto limite edittale è senz’altro riferibile al reato-presupposto da cui dipende la responsabilità amministrativa del reato[21].

Tutto il sistema 231 è improntato a incentivare l’ente a orientarsi verso una organizzazione

“virtuosa”, tale cioè da prevenire o, comunque, ridurre al minimo il rischio di commissione di altri reati-presupposto.

In ragione di una siffatta ratio del d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, la dottrina ha agevolmente constato come la normativa, sorprendentemente, coincida con le finalità proprie dell’istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova, che contiene una componente riparatoria e una di recupero[22].

Alla luce delle differenti correnti di pensiero e dei diversi approcci ermeneutici, le Sezioni Unite non potevano non essere chiamate in causa per dirimere il contrasto.

Il Supremo Collegio ha composto la questione lo scorso 27 ottobre 2022 aderendo all’orientamento sfavorevole.

5. La soluzione offerta dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 14840/2023 depositata il 6 aprile 2023

Le due questioni di diritto rimesse alle Sezioni Unite penali della Corte di Cassazioni possono così di seguito riassumersi:

  1. Se il procuratore generale sia legittimato ad impugnare, con ricorso per cassazione, l'ordinanza che ammette l'imputato alla messa alla prova (art. 464-bis cod. proc. pen.) e, in caso affermativo, per quali motivi”;
  2. Se il procuratore generale sia legittimato ad impugnare con ricorso per cassazione la sentenza di estinzione del reato pronunciata ai sensi dell'art. 464-septies cod. proc. pen.”.

In merito alla prima questione rimessa alle SS.UU. della Suprema Corte, i giudici, delineano preliminarmente i termini del contrasto. In particolare, :

  • al punto 2.1 espongono il primo orientamento secondo il quale “il procuratore generale presso la corte di appello è legittimato ad impugnare l’ordinanza di accoglimento dell’istanza di sospensione del procedimento con la messa alla prova e, nel caso in cui non sia stata effettuata nei suoi confronti la comunicazione dell’avviso di deposito dell’ordinanza di sospensione, ad impugnare la stessa unitamente alla sentenza con la quale il giudice dichiara l’estinzione del reato per esito positivo della prova” (cfr. pag. 4 e 5 della sentenza);
  • al punto 2.2 espongono il secondo orientamento secondo il quale sarebbe esclusa “la legittimazione del procuratore generale presso la corte di appello ad impugnare l’ordinanza di accoglimento dell’istanza di sospensione del procedimento, anche unitamente alla sentenza con la quale il giudice dichiara l’estinzione del reato per esito positivo della prova, non essendo espressamente individuato tra i soggetti che possono proporre ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 464-quater, comma 7, c.p.p.” (cfr. pag. 5 e 6 della sentenza).

Ad avviso delle SS.UU. della Cassazione deve essere confermato l’orientamento maggioritario, secondo cui “il procuratore generale presso la Corte di appello è legittimato ad impugnare, con ricorso per cassazione, l’ordinanza di sospensione del procedimento di messa alla prova dell’imputato, ai sensi degli artt. 464-bis e 464-quater c.p.p.[23].

In merito alla seconda questione rimessa alle SS.UU. della Suprema Corte, i giudici, hanno ritenuto di dare risposta affermativa, ossia, ritengono possibile che il procuratore generale possa impugnare la sentenza di estinzione del reato, pronunciata ai sensi dell’art. 464-septies c.p.p. e, nel caso di mancata comunicazione dell’ordinanza di ammissione alla prova, di impugnare tale ordinanza, in uno alla sentenza di estinzione del reato.

A pag. 16 della sentenza è affermato il seguente principio di diritto:

il procuratore generale è legittimato ad impugnare con ricorso per cassazione, per i motivii di cui all’art. 606 c.p.p., l’ordinanza di ammissione alla prova di cui all’art. 464-bis c.p.p., ritualmente notificagli, mentre, in caso di omessa comunicazione della stessa, è legittimato ad impugnare quest’ultima insieme alla sentenza di estinzione del reato”.

Con specifico riferimento alla questione relativa alla possibilità per l’Ente di essere ammesso alla prova, ai sensi dell’art. 168-bis c.p., nell’ambito del processo instaurato a suo carico per l’accertamento della responsabilità amministrativa dipendente da reato ex d.lgs. n. 231/2001 le “Sezioni Unite ritengono di privilegiare l’interpretazione, secondo cui l’istituto della messa alla prova, di cui all’ art. 168-bis c.p., non può essere applicato agli enti in relazione alla responsabilità amministrativa” (cfr. pagg. 18 e 19 della sentenza).

Tra le altre argomentazioni, gli scriventi, ne ritengono sicuramente interessanti alcune di esse laddove sono stati riassunti i punti di approdo della giurisprudenza costituzionale e di legittimità sulle caratteristiche dell’istituto di cui all’art. 168-bis c.p. che consentono di affermare l’indubbia natura “sanzionatoria” della messa alla prova dei maggiorenni sulla base degli inequivoci indici rilevatori valorizzati nella sentenza n. 91 della Corte Costituzionale (cfr. pagg. 24 e 25 della sentenza).

6. Alcune considerazioni conclusive in chiave critica rispetto alla pronuncia delle SS.UU. della Cassazione n. 14840/2023

La tesi negazionista sposata dalle SS.UU. della Suprema Corte con la suindicata sentenza conduce ad esiti non perfettamente coincidenti con le garanzie del processo penale.  

Invero, a parere degli scriventi, le teorie possibiliste appaiono maggiormente condivisibili sotto molteplici punti vista.

Se da una parte è stato sostenuto che la sospensione del processo con messa alla prova è istituto di tipo sfavorevole, perché determina l’imposizione di oneri, dall’altra parte è preferibile quella linea di pensiero che sostiene che non tutto ciò che è afflittivo è sinonimo di pena. Inoltre, non è da sottovalutare la natura anche deflativa e premiale dell’istituto dato che, nonostante gli oneri che ne derivano (e dunque una parziale afflittività), l’esito positivo della messa alla prova determina l’estinzione del reato con esiti favorevoli per l’imputato.

Il che si pone in coerenza con le finalità del sistema 231 volto a orientare l’ente verso una organizzazione “virtuosa”, che possa prevenire o, comunque, ridurre al minimo il rischio di commissione di altri reati-presupposto.

Ancora, nemmeno il silenzio della legge sarebbe elemento ostativo dato che, come sottolineato dalle tesi possibiliste, il vuoto normativo non osta all’applicazione all’ente delle norme sul processo penale perché al meccanismo di rinvio di cui all’art. 34 si deve riconoscere il merito di avere esteso all’ente, ad esempio, l’applicazione delle regole sul rito direttissimo. Non si coglie perché mai l’ente debba vedersi preclusa un’importante chance difensiva quale quella offerta dalla messa alla prova, la cui mancata previsione nel testo del decreto legislativo è superabile proprio grazie al rimando di cui all’art. 34.

Nemmeno sembra ostativo il requisito oggettivo del limite edittale di pena poiché, come sostenuto anche dalla dottrina già illustrata nel par. 4, si riferisce al reato presupposto da cui tra l’altro discende il sistema sanzionatorio dell’ente.

Sembra superabile anche l’obiezione secondo cui l’istituto non potrebbe applicarsi all’ente perché modellato sulla redenzione della persona fisica.

Infatti, se l’ente può delinquere allora non si comprende perché esso non possa redimersi mediante l’elaborazione di un programma ad hoc specificamente costruito e pensato per la struttura societaria in questione. 

D’altronde il nostro sistema sanzionatorio è orientato verso la rieducazione del reo e, nonostante il d. lgs. 231/2001 qualifichi la responsabilità dell’ente come amministrativa, all’ente si applicano le norme processualpenalistiche e le garanzie del processo penale tra cui rientra altresì la natura rieducativa del processo e la possibilità, per l’ente, di compiere condotte riparative e ripristinatorie.

In ogni caso, è auspicabile che il legislatore prenda conoscenza, e coscienza, della spinosa zona grigia determinata dal silenzio normativo ed è altresì auspicabile che intervenga expressis verbis al fine di rimuovere i dubbi interpretativi che ancora permangono su taluni aspetti applicativi del d. lgs. 231/2001.


Note e riferimenti bibliografici

[1] DELLA BELLA A., Approvata in via definitiva la legge sulla sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili. al governo due deleghe in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio, in www.archiviodpc.dirittopenaleuomo.org, 04 aprile 2014, https://archiviodpc.dirittopenaleuomo.org/d/2964-approvata-in-via-definitiva-la-legge-sulla-sospensione-del-procedimento-con-messa-alla-prova-e-nei,

[2] Sul limite di pena edittale le Sezioni Unite hanno affermato che a fini dell’individuazione dei reati ai quali è astrattamente applicabile la disciplina dell’istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova, il richiamo contenuto all’art. 168 bis c.p. alla pena edittale detentiva non superiore al massimo a quattro anni va riferito alla pena massima prevista per la fattispecie base, non assumendo a tal fine alcun rilievo le circostanze aggravanti, comprese quelle ad effetto speciale e quelle per cui la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato. Cass., S.U., 31 marzo 20156 – 1° settembre 2016, n. 36272, CED 267238

[3] Corte Costituzionale nr. 240 del 7 ottobre 2015

[4] FILICE F., Messa alla prova: un vademecum da Vercelli in www.questionegiustizia.it, 2 luglio 2014; MURRO O., Messa alla prova per l’imputato adulto: prime riflessioni sulla legge n. 67/2014, in Stud. iuris, 2014.

[5]  FANULI G.L., L’istituto della messa alla prova ex lege 28 aprile, n. 67. Inquadramento teorico e problematiche applicative in Archivio della nuova procedura penale, 2014, p. 441

[6] Tribunale di Milano, ordinanza del 27 marzo 2017

[7] GIP presso il Tribunale di Modena che, con la pronuncia del 19 ottobre 2020, dichiara invece la natura favorevole dell’istituto perché ne deriva l’estinzione del reato.

Tribunale di Bologna, che con l’ordinanza del 10 dicembre 2020 esclude la natura sanzionatoria.

Tribunale di Spoleto, che con ordinanza del 21 aprile 2021 afferma la produzione di effetti in bonam partem.

[8] SAPORITO M. C. La messa alla prova nell’esperienza giurisprudenziale: un faticoso percorso verso l’allineamento costituzionale in Processo penale e giustizia n. 5 | 2019

[9] Cassazione a Sezioni Unite nr. 36272 del 31 marzo 2016.

[10] Il Tribunale di Bologna, ordinanza del 10 dicembre 2020

[11] Cassazione penale, Sez. III, 2 novembre 2020, n. 30305

[12] Tribunale di Spoleto, ordinanza del 21 aprile 2021

[13] Tribunale di Spoleto, ordinanza del 21 aprile 2021

[14] L’art. 17 del d. lgs. 231/2001 è rubricato Riparazione delle conseguenze del reato e prescrive che «Ferma l'applicazione delle sanzioni pecuniarie, le sanzioni interdittive non si applicano quando, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, concorrono le seguenti condizioni:

a) l'ente ha risarcito integralmente il danno e ha eliminato le conseguenze dannose o pericolose del reato ovvero si è comunque efficacemente adoperato in tal senso»;

b) l'ente ha eliminato le carenze organizzative che hanno determinato il reato mediante l'adozione e l'attuazione di modelli organizzativi idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi;

c) l'ente ha messo a disposizione il profitto conseguito ai fini della confisca.

[15] Tribunale di Spoleto ordinanza del 21 aprile 2021

[16] SPAGNOLO P., Il diritto dell’imputato ad essere informato sulle alternative processuali: la Corte costituzionale riduce, ma non elimina le asimmetrie, Giur. cost., 2016, 4, 1422

[17] GARUTI G., TRABACE C., Qualche nota a margine della esemplare decisione con cui il Tribunale di Modena ha ammesso la persona giuridica al probation, in Giurisprudenza Penale Web, 2020, 10 https://www.giurisprudenzapenale.com/wp-content/uploads/2020/10/GarutiTrabace_gp_2020_10.pdf

[18] RICCARDI M., CHILOSI M., la messa alla prova nel processo “231”:

Quali prospettive per la diversion dell’ente?, in https://archiviodpc.dirittopenaleuomo.org/upload/1515-riccardicilosi1017.pdf, nr. 10/2017

[19] SPANGHER G., Le incursioni di regole speciali nella disciplina del rito ordinario, e PIZIALI G., Anomalie sistematiche e i suoi effetti -l'ammissibilità dei giudizi immediato e direttissimo, in AA.VV., La responsabilità amministrativa degli enti, Milano, 2002.

[20] BRICCHETTI R., Società al debutto nel registro degli indagati, in Guida dir., 2001, 26, 102.

[21] RICCARDI M., CHILOSI M., cit.

[22] BOVE V., l'istituto della messa alla prova "per gli adulti": indicazioni operative per il giudice e provvedimenti adottabili in https://archiviodpc.dirittopenaleuomo.org/d/3452-l-istituto-della-messa-alla-prova-per-gli-adulti-indicazioni-operative-per-il-giudice-e-provvedimen, 27 novembre 2014.

[23] Da pag. 7 a pag. 14 della sentenza delle SS.UU. della Corte di Cassazione sono evidenziate le argomentazioni.