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Pubbl. Mar, 18 Apr 2023

L´Adunanza Plenaria sui limiti operativi del vincolo di destinazione d’uso del bene culturale

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Marco Di Donfrancesco
Laurea in GiurisprudenzaLUISS Guido Carli



Con la sentenza del 13 febbraio 2023, n.5, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, esaminando il caso de ”Il Vero Alfredo”, giunge ad ammettere la configurabilità di un c.d. vincolo di destinazione d’uso del bene culturale, qualora il mancato vincolo di prosecuzione di una determinata attività in relazione alla res farebbe perdere alla stessa il suo valore culturale; coglie inoltre l’occasione per fare il punto sul regime giuridico applicabile ai c.d. beni culturali immateriali, ritenuti tutelabili per il tramite degli ordinari strumenti normativi previsti dal Codice dei beni culturali e del paesaggio.


ENG In its ruling of February 13, 2023, No. 5, the Plenary Assembly of the Council of State, reviewing the case of the ” Il Vero Alfredo”, goes so far as to admit the configurability of a the use restriction of cultural assets, if the failure to restrict the continuation of a given activity in relation to the res would cause it to lose its cultural value; it also takes the opportunity to take stock of the legal regime applicable to the what is known as intangible cultural assets, which are deemed protectable through the ordinary regulatory tools provided by the Code of cultural heritage and landscape.

Sommario: 1. Il caso all’attenzione della Plenaria; 2. Tar Lazio 5684/2021 Roma, Sez. II-quater, 19 maggio 2021, n. 5864; 3. Il giudizio d’appello (Consiglio di Stato, Sez. 6, n. 5357/2022); 4. Le questioni poste all’attenzione dell’Adunanza Plenaria; 4.1. L’orientamento che nega l’ammissibilità del vincolo culturale di destinazione d’uso; 4.2. L’orientamento che collega l’ammissibilità del vincolo a circostanze eccezionali e circoscritte; 4.3. L’orientamento che ammette il vincolo sulla base di adeguata motivazione; 5. La pronuncia dell’Adunanza Plenaria, 13 febbraio 2023, n. 5; 5.1. Le espressioni di identità culturale collettiva; 5.2. Considerazioni generali sul patrimonio culturale; 6. Conclusioni.

1. Il caso all’attenzione della Plenaria

La vicenda riguarda lo storico ristorante “Il vero Alfredo”, fondato nel 1908 a Roma, all’inizio sito in via della Scrofa e trasferitosi nel 1950 nella sede di Piazza Augusto Imperatore, in uno dei locali posti al piano terra del complesso immobiliare denominato “Palazzo dell’Istituto Nazionale di Previdenza sociale”. Trattasi di un ristorante molto noto, anche a livello internazionale, all’interno del quale si è svolta una buona parte della c.d. “Dolce Vita”, periodo storico in cui le strade della Capitale erano pervase da personalità provenienti dal mondo della cultura, delle arti e dello spettacolo, che facevano delle vie capitoline e dei locali che in esse si trovavano punto di incontro e di scambio di idee ed opinioni.

Tra questi locali non può che annoverarsi anche il ristorante “Il vero Alfredo”, assiduamente frequentato da diverse personalità dello spettacolo, della vita culturale e politica, come anche testimoniano le svariate fotografie dell’epoca apposte sulle pareti del locale; in esso si respira la vera tradizione popolare italiana e specificamente romana che, congiuntamente al «successo di una formula gastronomica e di ospitalità, perpetuatasi attraverso immutate prassi di attività che, ancorché ammantata di mondanità e lustro spettacolare»[1] lo hanno reso famoso in tutto il mondo.

L’edificio in cui si trova il ristorante – in origine di proprietà di un ente pubblico – venne dichiarato, tramite decreto ministeriale, di interesse storico artistico ai sensi dell’art. 10, comma 1, d. lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio)[2]. L’intero complesso immobiliare veniva poi, nel 2016, acquisito da una società privata; nelle more dell’acquisto giungeva a naturale scadenza il contratto di locazione dell’unità immobiliare condotto dal gestore del ristorante “Il vero Alfredo”.

La già menzionata società, tenuto conto del mancato spontaneo rilascio dell’unità immobiliare dedita ad attività di ristorazione, intimava al conduttore lo sfratto per finita locazione[3].

A seguito della dichiarazione di cessazione del contratto di locazione (tramite sentenza n. 2373/2018 del Tribunale civile di Roma), il gestore del ristorante opponeva al preavviso di rilascio dell’immobile due considerazioni: da un lato, la tutela dell’esercizio in quanto c.d. Negozio Storico d’eccellenza[4]; dall’altro la pendenza del procedimento di vincolo promosso dal Ministero, la quale ne provocava conseguentemente l’improcedibilità.

Ambedue le opposizioni furono tuttavia rigettate dal Tribunale civile di Roma in considerazione dell’irrilevanza dell’attività, in nessun caso determinante rispetto all’immobile di riconosciuto valore culturale. Fu inoltre rimarcata, in quell’occasione, la distinzione tra “vincolo di destinazione” e “vincolo di destinazione d’uso”: se il primo è volto a salvaguardare il valore storico e di civiltà di un bene culturale, configurando pertanto un divieto di mutamento della destinazione che impedisca le “innovazioni incompatibili con il valore culturale”, il vincolo di destinazione d’uso è invece inammissibile giacché, garantendo la continuazione di specifica attività, disattende la previsione costituzionale che impone la libertà dell’iniziativa economica privata.

Nelle more del procedimento esecutivo avviato nelle more dalla società proprietaria per ottenere il rilascio dell’unità immobiliare veniva intrapreso, da parte del Ministero della Cultura, il procedimento di dichiarazione d’interesse culturale ai sensi dell’art. 14 D. Lgs. n. 42/04 relativo al locale ristorante, alle opere di Gino Mazzini e agli elementi di arredo conservati al suo interno, inquanto ritenuti di interesse particolarmente importante ai sensi dell’art. 10, comma 3, lett. d), D. lgs. n. 42/2004, anche in considerazione dei principi enunciati dall’art. 7 bis del medesimo decreto in relazione alla tutela delle espressioni di identità culturale collettiva.

Detto procedimento sfociava nel decreto n. 50 del 13 luglio 2018, con cui il Ministro dichiarava «l’immobile (Ristorante) denominato “Il Vero Alfredo”, con le opere di Gino Mazzini e gli elementi di arredo conservati all’interno, sito in Roma, piazza Augusto Imperatore, 30 (…) di interesse particolarmente importante ai sensi dell’art. 10, co. 3, lett. d) (“Beni culturali”) e in considerazione dei principi enunciati dall’art. 7 bis (“Espressioni di identità culturale collettiva”) del d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 e ss.mm.ii.”, sottoponendolo, di conseguenza, a tutte le disposizioni di tutela contenute nel predetto decreto legislativo»[5]. Il vincolo era atto a garantire sull’immobile di Piazza Augusto Imperatore anche la conservazione della continuità d’uso – ossia dell’attività di ristorazione – “esplicata negli aspetti legati alla tradizione culturale di convivialità del locale”.

Contro il provvedimento veniva promosso ricorso da parte della società proprietaria dell’immobile, che di doleva dell’errata interpretazione della normativa in tema di beni culturali posta in essere dal Ministero, poiché la destinazione d’uso, infatti, non rientrerebbe in quelle espressioni di identità culturale collettiva a cui fa riferimento l’art. 7-bis del Codice dei beni culturali.

2. Tar Lazio 5684/2021 Roma, Sez. II-quater, 19 maggio 2021, n. 5864

Ritenendo fondato il ricorso, il T.A.R. Lazio giunge a ritenere inammissibile il vincolo storico-artistico diretto a garantire la continuazione di un esercizio di ristorazione, inserendosi nel solco di giurisprudenza consolidata[6].

Il vincolo di destinazione d’uso sarebbe, infatti, uno strumento ulteriore e non previsto dall’attuale regime vincolistico, che attualmente concede il solo divieto, “in negativo”, di usi c.d. non compatibili, fatta eccezione per gli specifici casi normativamente previsti[7] e in ogni caso conformi agli imprescindibili requisiti di proporzionalità e ragionevolezza.

Secondo il T.A.R., il Codice predispone un sistema vincolistico di tipo binario: alle ordinarie misure di tutela dei beni materiali si affiancano le misure di promozione dedicate alla salvaguardia dei c.d. “nuovi” beni culturali intangibili, ossia delle attività di riconosciuto valore culturale ai sensi di quanto disposto dall’art. 7-bis. Una tale separazione impedirebbe la dichiarazione di interesse culturale dell’attività tramite apposizione del vincolo di destinazione d’uso sull’immobile sede dell’esercizio. Diversamente opinando, l’imposizione di un tale vincolo si tradurrebbe in pericolose limitazioni contra legem di diritti costituzionali (segnatamente, il riconoscimento della proprietà privata e la garanzia di libertà di iniziativa economica).

In definitiva, il Tribunale amministrativo ritiene che la fondatezza del ricorso si poggi proprio sulla constatazione che tra “attività” e “beni” culturali intercorra una netta linea di separazione, che impedirebbe quindi l’utilizzo dello strumento vincolistico previsto dal Codice in relazione ai beni culturali anche alle “attività” che hanno un valore culturale[8].

3. Il giudizio d’appello (Consiglio di Stato, Sez. 6, n. 5357/2022)

Nel giudizio di appello, innanzitutto, veniva evidenziato come il provvedimento con cui l’Amministrazione aveva imposto il vincolo di destinazione d’uso al locale del ristorante “Il vero Alfredo” non potesse ritenersi privo di base legale, poiché la norma attributiva del potere di imporre un tale vincolo sarebbe già collocata all’interno del Codice.

L’art. 20 del d. lgs. 42/2004, infatti – collocato nel Capo III del Codice dedicato alla protezione e conservazione dei beni culturali, nella Sezione I riguardante le misure di protezione – , disciplina gli “Interventi vietati”, disponendo che i beni culturali non possono essere distrutti, deteriorati, danneggiati o adibiti ad usi non compatibili con il loro carattere storico o artistico oppure tali da recare pregiudizio alla loro conservazione; dal divieto di “usi non compatibili” si dedurrebbe, secondo gli appellanti, l’esistenza di un potere in capo all’Amministrazione di imprimere al bene culturale un vincolo di destinazione d’uso, che consenta di evitare un uso del bene culturale incompatibile con il profilo storico-artistico che lo caratterizza.

In secondo luogo, la società appellante affermava che la disciplina contenuta nell’art. 7-bis del Codice consentirebbe l’introduzione di una “tutela dell’immateriale”, slegata appunto dalla materialità della res di interesse culturale (elemento che è, invece, perno del sistema di tutela delineato dal Codice); inoltre, nel caso di specie, vi sarebbe comunque un riferimento all’elemento materiale, dato dall’immobile vincolato, ospitante il ristorante, nonché dalle opere e dagli elementi di arredo conservati al suo interno[9].

Secondo le appellanti, dunque, la sentenza impugnata sarebbe viziata per un duplice ordine di ragioni: da un lato, dalla lettura delle considerazioni del Tar Lazio emergerebbe un’errata contrapposizione tra la ‘tutela delle cose’ e la ‘tutela delle attività’ di interesse culturale; dall’altro, la predetta decisione si tradurrebbe in un invasione del merito amministrativo, poiché non avrebbe adeguatamente considerato e dato rilevanza alla motivazione del provvedimento amministrativo di apposizione del vincolo, con ciò sostituendosi all’Amministrazione nella valutazione di merito circa l’idoneità del locale ad essere ammesso alla tutela culturale.

La Sesta Sezione del Consiglio di Stato, riscontrando l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale circa l’ammissibilità del c.d. “vincolo di destinazione d’uso”, disponeva il deferimento della questione all’Adunanza Plenaria per la definitiva risoluzione.

4. Le questioni poste all’attenzione dell’Adunanza Plenaria

Due, quindi, gli interrogativi all’attenzione della Plenaria: in primo luogo, se si possa ritenere sussistente in capo al Ministero della Cultura, nell’esercizio dei poteri di tutela dei beni culturali previsti dal D. lgs. n. 42/04, il potere di imporre un vincolo di destinazione d’uso in relazione ad una res che abbia un interesse culturale sia per il riferimento ad accadimenti del passato – afferenti alla storia politica, militare, della letteratura, dell'arte, della scienza, della tecnica, dell'industria e della cultura in genere – di cui la cosa ha costituito la sede o reca la testimonianza, sia per il collegamento con “espressioni di identità culturale collettiva” (di cui all’art. 7-bis del Codice) in essa o attraverso di essa ricreate, condivise e tramandate; in secondo luogo, la Plenaria è chiamata a chiarire gli elementi costitutivi della “espressione di identità culturale” ed accertare se il nostro ordinamento preveda già la possibilità di imporre un vincolo di destinazione d’uso ad un’attività culturale, sebbene tale vincolo sia pacificamente ritenuto inammissibile in relazione alle manifestazioni culturali materiali.

In definitiva, «la soluzione delle questioni deferite impone di verificare se – anche laddove dovesse negarsi il potere del Ministero della cultura di imporre un vincolo culturale di destinazione d’uso o, comunque, dovesse riconoscersi un tale potere solo in ipotesi residuali ed eccezionali – l’art. 10 e l’art. 7 bis del Codice consentano, comunque, di giustificare un vincolo di destinazione d’uso ove si faccia questione di un bene costituente (altresì) testimonianza di espressioni di identità culturale collettiva[10]».

Si controverte dunque della legittimità di un provvedimento amministrativo con cui il Ministero della Cultura, pur dichiarando l’interesse culturale di cose materiali (l’unità immobiliare e le opere e gli arredi in essa contenuti), ha comunque tutelato l’immobile quale ristorante, in relazione cioè all’attività commerciale in esso esercitata. Il decreto ministeriale ha quindi evidenziato, secondo la Plenaria, un interesse culturale “per riferimento” a specifici fatti ed eventi della storia artistica e culturale della comunità nazionale e locale, dei quali l’unità immobiliare ha costituito la sede o ne reca testimonianza[11]. Il provvedimento amministrativo ha «valorizzato, sia sotto il profilo sistematico che teleologico, la connessione inscindibile tra gli elementi materiali e quelli immateriali, ravvisando l’essenzialità della continuità dell’uso» – recependo le prescrizioni della allegata Relazione Storico-Critica – «esplicata negli aspetti legati alla tradizione culturale di convivialità del locale»[12].

Il Ministero ha in definitiva evidenziato che «il patrimonio immateriale de “Il Vero Alfredo” sia costituito dall’insieme de “le prassi, le rappresentazioni, le espressioni, le conoscenze, il know-how – come pure gli strumenti, gli oggetti, i manufatti e gli spazi culturali associati agli stessi – che le comunità, i gruppi e in alcuni casi gli individui riconoscono in quanto parte del loro patrimonio culturale”; trattasi di un patrimonio culturale immateriale che è stato trasmesso di generazione in generazione e “costantemente ricreato dalle comunità e dai gruppi in risposta al loro ambiente, alla loro interazione con la natura e alla loro storia”, di talché l’Amministrazione ha ritenuto debba essere tutelato, al fine di garantire la conservazione “oltre che degli aspetti architettonici e decorativi, anche della continuità d’uso esplicata negli aspetti legati alla tradizione culturale di convivialità del locale»[13].

Il Supremo Consesso amministrativo, a tal punto – trattandosi di questioni di massima di particolare importanza, correlate alla tutela del patrimonio culturale, nonché all’oggetto e al contenuto dei poteri ministeriali esercitabili in materia –, ritiene necessario un chiarimento sulla questione in funzione nomofilattica, anche al fine di orientare la futura azione amministrativa.

Per tale ragione, la Plenaria passa in rassegna i tre principali orientamenti che sono maturati sul punto in seno allo stesso Consiglio di Stato.

4.1. L’orientamento che nega l’ammissibilità del vincolo culturale di destinazione d’uso

Secondo la tesi dell’inammissibilità, un vincolo di destinazione d’uso contrasterebbe con la disciplina positiva prevista dal Codice dei beni culturali e con la tutela costituzionale e convenzionale del diritto di proprietà e della libertà di iniziativa economica; ad essere tutelata, in tal caso, sarebbe non tanto la res di interesse culturale, quanto la sua destinazione e, quindi, l’attività che in essa viene esercitata[14].

Tale potere vincolistico dell’Amministrazione dovrebbe fondarsi su una visione autoritaria e svalutativa del diritto di proprietà, comportando la possibilità per la stessa Amministrazione di vincolare un immobile avuto riguardo non alla conformazione costruttiva e materiale dello stesso, ma con riferimento alla sua destinazione e, quindi, ad una determinata attività che ivi si svolge.

È lo stesso principio di legalità che verrebbe intaccato; ammettendo un vincolo di destinazione d’uso, infatti, si finirebbe per ammettere una sorta di potere espropriativo extra ordinem in capo all’Amministrazione.

Per i sostenitori dell’inammissibilità, dunque, si «trasformerebbe una disposizione che si limita a consentire prescrizioni accessorie e strumentali - conservative delle caratteristiche storico-architettoniche di determinati beni oggetto di tutela - in una disposizione attributiva di poteri sostanzialmente espropriativi, la quale escluderebbe a priori ogni destinazione diversa da quella in atto al momento dell’imposizione del vincolo»; e ciò sino al punto di «trasformare una disposizione permissiva del godimento del proprietario in conformità di limiti di interesse generale, secondo l’impostazione dell'art. 42 Cost., in un precetto impositivo di una servitù pubblica immobiliare legislativamente innominata (perché non attinente al valore del bene immobiliare in sé), quindi in contrasto con il principio di legalità ex artt. 42-43 Cost. (Consiglio di Stato, sez. VI, 16 settembre 1998, n.1266[15].

Si richiama, a sostegno, la disposizione di cui all’art. 51 co. 1 del Codice il quale, nel prevedere un particolare regime vincolistico per i cc.dd. studi d’artista, ammette eccezionalmente il divieto di modificarne la destinazione d’uso. Proprio l’eccezionalità di tale previsione confermerebbe la generale inammissibilità di un vincolo di destinazione d’uso del bene culturale (in conformità al brocardo latino ubi lex voluit dixit, ubi lex noluit tacuit).

Inoltre, anche i principi di proporzionalità e ragionevolezza non verrebbero rispettati, poiché un tale vincolo comporterebbe un’insostenibilità economica del bene, contrastante con le stesse finalità cui è orientata la legge di tutela.

«In definitiva, tale primo indirizzo, basato sulla necessaria distinzione tra ‘vincolo strutturale’ e ‘vincolo di destinazione d’uso’ (Consiglio di Stato, sez. IV, 29 dicembre 2017, n. 6166), esclude l’ammissibilità di ‘vincoli culturali di mera destinazione’, specie per attività commerciali o imprenditoriali, anche se attinenti a valori storici e culturali presi in considerazione dalla legge»[16].

4.2. L’orientamento che collega l’ammissibilità del vincolo a circostanze eccezionali e circoscritte

Altre pronunce del Consiglio di Stato (cfr., ex multis, Consiglio di Stato, sez. VI, 28 agosto 2006, n.5004; sez. VI, 6 maggio 2008, n. 2009; sez. IV, 12 giugno 2013, n. 3255) si sono rivolte nel senso dell’ammissibilità di un vincolo di destinazione d’uso, qualora risulti funzionale ad una migliore conservazione della res.

Si è osservato, in particolare, che l’eccezione alla regola generale del divieto di vincolo di destinazione d’uso del bene culturale è ammissibile qualora il bene materiale risulti intimamente correlato alla specifica destinazione ad esso impressa o ad un’iniziativa storico-culturale di rilevante importanza ivi svoltasi (è questa l’idea alla base del requisito della c.d. “compenetrazione”).

Non vi sarebbe alcun contrasto con l’impianto normativo vigente: il vincolo sarebbe volto a tutelare in via immediata e diretta il bene culturale in sé, e non l’attività in esso esercitata; il diritto di proprietà non incontrerebbe dunque limitazioni di sorta, poiché il vincolo di destinazione d’uso non imporrebbe un obbligo di continuazione sine die dell’attività culturale, ma solo l’esatta individuazione dell’uso compatibile con la dichiarazione di interesse culturale della res, prescindendo dall’identità della persona legittimata ad esercitare l’attività.

La compromissione del diritto di proprietà sarebbe giustificata comunque dalla legislazione vigente, che ammette il potere conformativo dell’Amministrazione rispetto a particolari categorie di beni.

4.3. L’orientamento che ammette il vincolo sulla base di adeguata motivazione

Un terzo orientamento, infine (al quale dimostrano di aderire sia la Sezione remittente, sia la stessa Adunanza Plenaria), sostiene la legittimità del vincolo di destinazione d’uso, tenuto conto dell’adeguatezza della motivazione alla base della decisione amministrativa concretamente assunta.

La tutela accordata dall’art. 10 del Codice ai beni culturali dovrebbe, a fortiori, essere estesa anche alle espressioni di identità culturale di cui all’art. 7-bis del Codice, rispetto alle quali la necessità di garantire la conservazione della res è strettamente correlata alla continuità nel processo di condivisione, riproduzione e trasmissione delle manifestazioni immateriali a cui la cosa sia collegata.

5. La pronuncia dell’Adunanza Plenaria, 13 febbraio 2023, n. 5

L’Adunanza Plenaria espressamente afferma di aderire al terzo tra gli orientamenti appena descritti, in quanto coerente con il quadro costituzionale e della legislazione vigente, nonché funzionale agli obiettivi di interesse generale sottesi alla tutela dei beni culturali.

Innanzitutto, la Plenaria sottolinea che la disciplina contenuta nel d. lgs. 42/2004 concepisce e tutela l’uso del bene culturale come funzionale alla conservazione materiale della res di interesse culturale; ciò si evince dal combinato disposto degli articoli 18, co.1, 20 co. 1 e 21 co. 4 del d. lgs. 42/2004, che fondano il potere dell’Amministrazione di imporre limiti all’uso del bene culturale.

È questa una interpretazione che – secondo la Plenaria –, conferendo la «maggior latitudine possibile alla tutela del bene culturale e valorizzando l’importanza della motivazione alla base della decisione amministrativa», garantisce il raggiungimento degli obiettivi di interesse generale che permeano tutta la disciplina positiva del Codice, volta alla conservazione del patrimonio culturale quale elemento di formazione, promozione e trasmissione della memoria della comunità nazionale (art. 1, co.2 d.lgs. 42/2004).

Se si negasse, infatti, l’ammissibilità di un vincolo di destinazione d’uso, tali esigenze di tutela sarebbero vanificate tutte le volte in cui un mutamento di destinazione d’uso potrebbe risultare pregiudizievole per la conservazione del bene e per il relativo valore culturale.

In secondo luogo, l’imposizione di un vincolo di questo tipo non comporterebbe un’ingiustificata e sproporzionata lesione del diritto di proprietà e della libertà di iniziativa economica; da tempo, infatti, la giurisprudenza costituzionale (cfr. Corte costituzionale, 20 dicembre 1976, n. 245) sostiene la natura conformativa e non espropriativa dei vincoli culturali, poiché essi si estrinsecano nell’imposizione di limiti alla proprietà privata in relazione a modi di godimento di intere categorie di beni, senza però comportare una definitiva compromissione del diritto reale (effetto invece tipico di un vincolo espropriativo).

Anche la Corte costituzionale, con la sentenza n. 118/1990 (rilevato che l’interesse culturale ex art. 9 Cost. prevale su qualsiasi altro interesse, compresi quelli economici), ha affermato alcuni principi che depongono nel senso della ammissibilità di poteri vincolistici di destinazione d’uso, ancorando la loro ammissibilità alla funzione sociale che la proprietà privata deve svolgere ai sensi dell’art. 42 Cost.; tale funzione imporrebbe, infatti, la necessità di preservare il carattere culturale del bene, in tali casi collegato a doppio filo con l’uso al quale la res è stata storicamente destinata[17]. Tale vincolo, in ogni caso, non può riguardare l’attività in sé e per sé considerata separatamente dal bene, poiché tale attività deve invece essere libera, secondo i principi costituzionali di cui agli art. 2, 9, 21 e 33 della Costituzione.

Per tale via, si ricava dunque che «la tutela del bene culturale non può che estendersi anche al suo uso, ogni qualvolta anche quest’ultimo contribuisca alla sua rilevanza culturale».

A conforto, si pensi al fatto che la giurisprudenza ha ammesso che il vincolo di destinazione d’uso è in grado di condizionare anche l’esercizio di distinti poteri pubblici, come quello di pianificazione territoriale, che deve debitamente tener conto del carattere storico-identitario che talune attività possono rivestire in determinati luoghi per la collettività locale, per tale ragione recanti in sé un valore culturale meritevole di tutela (Consiglio di Stato, sez. IV, 22agosto 2018, n. 5029, per un vincolo di destinazione a “caffè-bar”).

Sarebbe «irragionevole negare un’analoga possibilità all’amministrazione istituzionalmente competente a tutelare i beni culturali, non consentendole di apprestare adeguata tutela a quelle attività – di qualsiasi natura – che nella storia sono divenute coessenziali con quella stratificazione del costruito, rappresentandone in una certa misura la stessa ragione d’essere».

La Plenaria rigetta inoltre l’argomento fondato sull’eccezionalità della previsione del vincolo di destinazione d’uso in relazione ai cc.dd. studi d’artista; tale disposizione, che prevede in via generale e astratta il vincolo di destinazione d’uso in ragione della particolare qualitas del bene culturale in questione – funzionale, dunque, a rendere immodificabile l’ambiente e i luoghi in cui operò l’artista –, non esclude l’ammissibilità di un vincolo analogo in relazione ad altre categorie di beni, rispetto ai quali sarà però necessaria una valutazione amministrativa che accerti di volta in volta, in relazione al singolo bene, le ragioni per cui usi diversi della res potrebbero recare pregiudizio al carattere storico o artistico ovvero all’integrità materiale della stessa.

Per la Plenaria, dunque, il potere di porre limiti alla destinazione di un bene culturale rientra nel generale sistema dei vincoli legislativamente previsti per la tutela delle cose di interesse storico o artistico.

L’esercizio di tale potere – finalizzato alla salvaguardia dell’integrità e alla conservazione del bene – non deve tuttavia tradursi nell’obbligo di gestire una determinata attività: nessun obbligo di esercizio o prosecuzione dell’attività commerciale o imprenditoriale può essere imposto ad un determinato gestore, né sarà possibile attribuire ad esso una “riserva di attività”, che si tradurrebbe in una sorta di “rendita di posizione” (dovendosi ritenere, in tal caso, l’illegittimità del provvedimento amministrativo per sviamento di potere).

Secondo la Plenaria, quindi, non può che ammettersi l’imposizione di un «divieto di usi diversi da quello attuale»; un vincolo che imponga un divieto di questo tipo, «a carattere e contenuto “misto” (di tipo “intrinseco” e di tipo “relazionale esterno” o “testimoniale”) ai sensi dell’art. 10, comma 3, lett. d) del Codice, è funzionale sia alla conservazione della res che alla prosecuzione dell’attività ivi svolta, se inscindibile e compenetrata negli elementi materiali considerati di interesse storico-culturale»[18].

L’Amministrazione gode, quindi, di due poteri: da un lato (in negativo), del potere di precludere ogni uso incompatibile con la conservazione materiale della res; dall’altro (in positivo), del potere di disporre la continuità dell’uso attuale cui la cosa è stata, storicamente e fin dalla sua realizzazione, destinata.

I giudici amministrativi sottolineano, inoltre, che ai fini della dichiarazione dell’interesse culturale dei beni c.d. “per riferimento” ex art. 10, comma 3, lett. d), può essere sufficiente anche il richiamo a fatti ed eventi – comunque specifici – della ‘storia locale’ ovvero della ‘storia minore’, pur sempre idonei a giustificare la conservazione e la trasmissione del valore culturale.

È proprio l’elemento del collegamento che, secondo la Plenaria, consentirebbe quindi l’imposizione del vincolo di destinazione d’uso.

Particolare importanza, però, dovrà rivestire la motivazione del provvedimento impositivo, che dovrà dare puntualmente conto dell’esistenza di un tale collegamento tra la res e l’attività ivi svolta; l’Amministrazione, dunque, è tenuta ad indicare le ragioni per le quali il valore culturale della res non può essere salvaguardato se non attraverso la conservazione del suo pregresso uso che, «compenetratosi nelle cose che ne costituiscono il supporto materiale, è divenuto ad esso ‘consustanziale’»[19]; dovrà quindi darsi conto del collegamento tra gli elementi culturali materiali e quelli immateriali, che si concretizza nello svolgimento di un’attività, collegamento da cui si evince il valore culturale della res, evidenziato dall’immedesimazione dei valori storico culturali con le strutture materiali (quali l’immobile e gli arredi in esso contenuti) e dalla relazione dei beni con determinati eventi della storia e della cultura.

In punto di tutela giurisdizionale, da ultimo, la Plenaria sottolinea che, poiché le valutazioni alla base del provvedimento impositivo del vincolo costituiscono esercizio di discrezionalità tecnica (riservata all’Amministrazione in merito alla qualitas del bene), il sindacato giurisdizionale incontrerà i consueti limiti: il Giudice Amministrativo potrà quindi sindacare la valutazione compiuta dall’Amministrazione esclusivamente sotto il profilo della coerenza, logicità e completezza, relativamente anche alla correttezza del criterio tecnico e del procedimento applicativo prescelti; non sarà in ogni caso ammissibile un sindacato ti tipo sostitutivo che riguardi il merito delle scelte effettuate dall’Amministrazione, poiché trattasi di valutazioni tecniche-specialistiche, proprie di settori scientifici disciplinari della storia, dell’arte e dell’architettura e caratterizzata da ampi margini di opinabilità, valutazioni demandate ex lege all’Amministrazione (come è stato già chiarito da Cons. giust. amm. Sicilia, 7 maggio 2021, n. 406; Consiglio di Stato, sez. VI, 4 settembre 2020 n. 5357)[20].

5.1. Le espressioni di identità culturale collettiva  

L’Adunanza Plenaria, inoltre, nel definire l’esatta interpretazione della locuzione “espressione di identità culturale collettiva” contenuta nell’art. 7-bis del Codice, riconosce che il provvedimento che reca un vincolo di destinazione d’uso non configura uno strumento atipico, ma rientra nell’impianto normativo generale delle tutele predisposte a favore dei beni culturali previsto dal d. lgs. 42/2004.

L’art. 7-bis del d.lgs. è stato introdotto nel Codice dei beni culturali dal d. lgs. 62 del 2008, per dare pronta attuazione alle Convenzioni UNESCO[21] in materia di salvaguardia del patrimonio immateriale e per la protezione e la promozione delle diversità culturali; la norma afferma testualmente che le espressioni di identità culturale collettiva contemplate dalle Convenzioni possono ricevere tutela nel nostro ordinamento qualora sussistano due condizioni, e cioè che siano rappresentate da testimonianze materiali e che sussistano le condizioni dell’art. 10 del Codice.

Le Convenzioni UNESCO vengono richiamate dall’art. 7-bis del Codice in funzione meramente identificativa delle fattispecie astrattamente costituenti “espressioni di identità culturale”; ne deriva che il procedimento di salvaguardia del bene di interesse culturale ex art. 7-bis del Codice, svolto dal competente Ministero sul territorio nazionale è indipendente dal procedimento di candidatura dei siti UNESCO.

La Plenaria evidenzia poi la diversità di fondo tra il sistema nazionale e quello convenzionale in relazione alla tutela del bene culturale immateriale.

Se, infatti, le Convenzioni UNESCO consentono di tutelare il bene immateriale in via immediata e diretta, a prescindere dall’esistenza di un collegamento con una res fisica, l’ordinamento nazionale richiede invece necessariamente un collegamento qualificato con un elemento materiale.

In particolare, secondo la Plenaria, l’elemento fisico correlato deve, da un lato, «testimoniare l’esistenza e il modo di essere dell’espressione di identità culturale collettiva», tramandando «un lascito del passato, da preservare nel presente per la trasmissione alle generazioni future»; dall’altro, sussistendone le condizioni, deve essere già di per sé tutelabile ex art. 10 del d. lgs. 42/2004.

In definitiva, in presenza di queste condizioni, si può riconoscere l’operatività di un vincolo di destinazione d’uso del bene culturale immateriale, ove appunto emerga un collegamento qualificato con la res, tanto che la stessa «costituisce prova» del bene immateriale, «consentendo di ricostruirne contenuto e caratteristiche identitarie».

Sulla base di queste premesse, la Plenaria arriva ad affermare che, in forza di una siffatta interpretazione dell’art. 7-bis, gli strumenti di tutela del patrimonio culturale nazionale non possono ritenersi circoscritti alle sole manifestazioni culturali meramente materiali: è indispensabile, infatti, ricomprendere nell’ambito della tutela anche le manifestazioni culturali immateriali[22] che, essendo per propria natura destinate ad essere «costantemente ricreate e condivise a beneficio della comunità di riferimento», necessitano di strumenti di tutela volti ad evitarne la dispersione.

In particolare, il potere di tutela deve essere funzionale a «garantire non soltanto l’integrità fisica della res, ma anche la continuità dell’espressione culturale di cui la cosa costituisce “testimonianza vivente”».

Per perseguire queste finalità – sottolinea la Plenaria – è valorizzabile l’istituto del c.d. vincolo di destinazione d’uso, «che ponga la res a servizio dell’espressione culturale di cui costituisce la testimonianza in relazione al messaggio che il bene culturale, come un vero e proprio documento, è in grado di perpetuare per le generazioni future (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 4 settembre 2020, n. 5357)».

Il vincolo di destinazione d’uso non rappresenta uno strumento diverso e ultroneo rispetto ai procedimenti ordinari propri della tutela dei beni culturali ex artt. 13 e ss. d. lgs. n. 42/2004; a ben vedere, infatti, l’art. 7-bis integra e rafforza il sistema di tutele contemplate dal Codice.

Tale assunto consente di superare la tradizionale visione formalistica – che contrappone la “tutela delle cose” ex art. 10 del Codice (che si fonda su un procedimento autoritativo di tipo verticale) alla “tutela delle attività” ex art. 7-bis (che rappresenta, invece, un procedimento partecipativo) – a beneficio di «un approccio integrato e dinamico del bene culturale, considerato nella sua interezza».

Coerentemente con i principi enunciati anche dalla Corte costituzionale (n. 118 del 1990), la Plenaria sostiene dunque che l’art. 7-bis «non configura un sistema di protezione “binario” all’interno del Codice»; infatti, le misure a tutela delle manifestazioni culturali materiali possono essere «adeguatamente utilizzate per salvaguardare le “attività culturali”, per esse e in esse si svolgono, al ricorrere delle condizioni indicate dalla norma.»

Aggiunge la Plenaria che «anche in tale ipotesi, non può essere disposta una riserva di attività a favore di un determinato gestore, né può essere imposto un obbligo di prosecuzione dell’attività a suo carico.»

Infatti, oggetti di tutela sono sempre il bene e l’attività culturale svolta in esso o per mezzo di esso, senza rilevare il ‘chi’ la svolga: se venisse meno o l’uno o l’altro – il locale, le opere e gli arredi o l’uso e l’attività – verrebbe meno la stessa ragion d’essere della tutela, che risiede in un’intima connessione tra gli elementi materiali tangibili e quelli immateriali.

È questo «tutt’uno inscindibile che dà forma, infatti, a quella peculiare espressione artistica e storica riconosciuta di particolare interesse culturale, meritevole di perpetuarsi nel tempo».

Devono esservi ricompresi anche i beni che risultano essere espressione culturale di una identità collettiva proprio ed in quanto risulta impossibile scindere i profili immateriali dalla fisicità della res, stante la loro immedesimazione; in siffatte ipotesi, dunque, il vincolo sull’immobile non può prescindere dall’imprimere sullo stesso un determinato uso, pena la sua vanificazione; è proprio lo stretto collegamento tra l’attività svolta e la dimensione materiale ad essere espressione del patrimonio culturale della collettività, che si perderebbe qualora venisse consentito un uso della res diverso da quello storicamente posto in essere, pregiudicando inevitabilmente il valore testimoniale della cultura della collettività.

In tal caso, l’Amministrazione eserciterebbe legittimamente un potere conformativo, che potrebbe ragionevolmente e proporzionalmente sacrificare diritti soggettivi e interessi legittimi dei privati, garantendo per tale via l’interesse pubblico primario e sovraordinato alla tutela del patrimonio storico e artistico della Nazione ex art. 9 Cost.

Il provvedimento dichiarativo dell’interesse culturale del bene – unico sia per i profili materiali che per quelli immateriali – dovrà, secondo il massimo organo di giustizia amministrativa, evidenziare dunque «l’esistenza di un’indissolubile connessione fra beni materiali e beni immateriali che attribuisca ad un tempo rilevanza storico-artistica ai beni e valore storico e sociale all’attività svolta».

5.2. Considerazioni generali sul patrimonio culturale

In esito alla sua opera esegetica, l’Adunanza Plenaria svolge alcune considerazioni generali in tema di patrimonio culturale tentando, con uno sforzo definitorio, di individuare gli esatti confini del concetto di bene culturale.

Il bene culturale, infatti, secondo la Plenaria, rileva anche come “testimonianza vivente”, rappresentando un mezzo di prova di una manifestazione culturale immateriale e collettiva che, tramite la res, si alimenta e si ricrea, tramandandosi alle generazioni future. La forza evocativa della res è il vero perno della tutela del bene culturale; tra la res e la manifestazione culturale immateriale deve esservi un rapporto bilaterale, proprio in quanto la cosa si permea di valore testimoniale per mezzo del suo rilievo culturale. Il profilo immateriale e quello materiale «vengono così a coesistere in un tutt’uno inscindibile, in cui spazio e tempo attribuiscono nel loro insieme alla res il valore culturale meritevole di tutela».

È proprio quel determinato uso che consente alla collettività di concepire quel bene come bene culturale; esso, quindi, diventa non solo “patrimonio culturale” – apprezzabile in un’ottica conservativa per la sua preservazione – ma anche “eredità culturale” (c.d. cultural heritage) da trasmettere alle future generazioni.

L’Adunanza Plenaria ribadisce la distinzione tra le espressioni di identità culturale collettiva di cui all’art. 7-bis del Codice e il patrimonio immateriale contemplato dalle Convenzioni UNESCO; se quest’ultimo, infatti, è tutelabile a prescindere dal suo substrato materiale, le espressioni cui si riferisce la norma nazionale sono caratterizzate da un contenuto misto, in quanto l’espressione immateriale è indissolubilmente legata alla manifestazione materiale.

L’art. 7-bis, in conclusione, consente non solo la conservazione del valore culturale incorporato nella res – aspetto già considerato dal successivo art. 10 – ma anche la continuità dell’espressione culturale di cui la cosa costituisce testimonianza; per il tramite di tale disposizione, dunque, è possibile garantire la tutela, nel nostro ordinamento, anche ai c.d. “beni culturali intangibili” (o “patrimonio culturale immateriale”), che trova la ratio della tutela proprio nell’inscindibile legame tra la manifestazione immateriale e la dimensione materiale del bene stesso.

In materia di beni culturali, dunque, non si può contrapporre la tutela delle cose alla tutela delle attività, se la cosa deve essere salvaguardata proprio in ragione della sua connessione funzionale con l’attività; in tali casi operano le stesse forme di tutela previste dall’art. 10, cioè i procedimenti autoritativi fondati sulla dichiarazione di interesse culturale ex art. 13 del Codice. Le altre forme di tutela, di tipo partecipativo, potranno coesistere con tali procedimenti ordinari, senza poterne mai escludere l’applicabilità alle fattispecie contemplate dall’art. 7-bis del Codice dei beni culturali.

6. Conclusioni

La sentenza dell’Adunanza Plenaria in commento, in definitiva, si dimostra favorevole a consentire l’ingresso della tutela del patrimonio culturale immateriale nel nostro ordinamento.

La pronuncia accoglie una visione dinamica e moderna della nozione di bene culturale, che deve essere intesa in senso ampio: in essa vanno ricomprese anche tutte quelle manifestazioni culturali immateriali che, per il loro valore storico, artistico, letterario, rappresentano il comune sentire di un popolo, ne costituiscono testimonianza vivente. Attraverso tali espressioni immateriali si crea e si tramanda l’identità culturale di una collettività, che in esse rivede i momenti storici e le espressioni artistiche (in senso lato intese) che la caratterizzano. Proprio tali caratteristiche intrinseche dei beni culturali immateriali fanno emergere la necessità di una loro protezione elastica ed efficace, andando oltre la dimensione materiale e considerando il bene culturale nella sua globalità, in relazione ai valori culturali che esso esprime e reca in sé.

La Plenaria, seppur prima facie sembra ammettere anche la tutela dei beni culturali intangibili attraverso gli ordinari procedimenti vincolistici previsti dal Codice dei beni culturali, è tuttavia ben consapevole della necessaria correlazione tra la disciplina di tutela del patrimonio culturale e la dimensione materiale della res; l’esegesi compiuta dal Supremo Consesso amministrativo, infatti, consente di conferire tutela ad un valore culturale “estrinseco” (correlato, cioè, ai fatti della storia e della cultura), solo qualora emerga un collegamento biunivoco e indefettibile con la materialità di una res che incorpora e reca in sé quel valore culturale.

È il valore culturale che compenetra nella res che ne costituisce prova e testimonianza pro-futuro; il bene ha un valore culturale proprio e in quanto in esso si svolge una determinata attività al quale lo stesso è strettamente collegato. Così, nel caso di specie, il valore culturale del ristorante “Il Vero Alfredo” andrebbe inevitabilmente perso se si consentisse di svolgere in quei locali un’altra attività, che non consentirebbe più all’immobile di esprimere il proprio valore culturale, quale punto di incontro di storie, mondi e personalità differenti, che di questo luogo di convivialità hanno, nel tempo, fatto punto di approdo.

La pronuncia in commento rimane coerente con l’impianto normativo predisposto a tutela dei beni culturali, consentendo sì la tutela dei profili culturali immateriali ma, al contempo, dimostrando di non ripudiare la dimensione materiale del bene, costituente testimonianza del valore culturale immateriale che reca in sé.

Sulla scorta di tale ragionamento, la Plenaria afferma dunque la legittimità del c.d. vincolo di destinazione d’uso di un bene culturale qualora, in mancanza di un vincolo di tal fatta, la res finirebbe per perdere inevitabilmente il proprio valore culturale.

La previsione di uno strumento vincolistico di questo tipo – come sottolinea più volte la Plenaria – opera soltanto sul piano oggettivo, regolando l’uso della res, senza in nessun caso avere effetti sul piano soggettivo, onde evitare alcun obbligo di prosecuzione dell’attività né la riserva della stessa a beneficio di un determinato soggetto, che altrimenti si tradurrebbe in un’inammissibile “rendita di posizione”.

L’interpretazione data dall’Adunanza Plenaria, inoltre, consente di sgombrare il campo da altre interpretazioni foriere di conseguenze negative; nonostante l’interpretazione “a maglie larghe” della norma di cui all’art. 7-bis, infatti, la soluzione adottata nella pronuncia de qua non sembra poter far rientrare – dato la ritenuta e più volte rimarcata indefettibilità di un collegamento con la materialità della res – nel concetto di “espressioni di identità culturale collettiva” anche manifestazioni culturali del tutto immateriali; una tale conclusione, infatti, contrasterebbe non solo con l’impianto normativo del Codice dei beni culturali – il quale, come più volte ribadito, resta ancorato al requisito della materialità –, ma creerebbe inoltre importanti difficoltà di coordinamento con le altre branche dell’ordinamento poste a tutela di beni immateriali espressione di attività culturali (si pensi, ad esempio, alla legge sul diritto d’autore).

Coerentemente con l’impianto normativo vigente, il massimo organo di giustizia amministrativa fa rientrare tale istituto nei poteri vincolistici generalmente riconosciuti all’Amministrazione a tutela e salvaguardia del patrimonio culturale; il vincolo di destinazione d’uso potrà dunque essere apposto tramite l’esercizio di un potere conformativo – e non espropriativo – della proprietà privata – legittimamente sacrificata in nome dell’interesse pubblico primario e sovraordinato riconosciuto dall’art. 9 Cost. – ad essa riconosciuto; le “espressioni di identità culturale” ex art. 7-bis d. l.gs. 42/2004 potranno ricevere tutela per il tramite degli ordinari procedimenti vincolistici previsti dagli artt. 10, 13 e ss. del medesimo decreto, senza la necessità di individuare ulteriori strumenti diversi da quelli già esistenti.

Nell’intento di una reductio ad unitatem del sistema, la Plenaria pone in capo all’Amministrazione un particolare onere motivazionale; quest’ultima, nell’imporre il vincolo di destinazione d’uso, sarà tenuta ad evidenziare le ragioni per le quali una diversa scelta non sarebbe ammissibile, poiché comporterebbe un irreparabile pregiudizio del valore culturale del bene, rispetto al quale il profilo immateriale si lega indissolubilmente con quello materiale. Una volta assolto tale onere motivazionale, tuttavia, la valutazione dell’Amministrazione non potrà più essere sindacata se non sotto il profilo della coerenza, logicità e chiarezza, in quanto si tratta di un atto espressione di discrezionalità tecnica; nei suoi confronti, dunque, sarà ammesso soltanto un sindacato estrinseco del giudice amministrativo, non potendo quest’ultimo sostituirsi alla valutazione dell’Amministrazione, poiché ad essa è demandato il compito di individuare il valore culturale della manifestazione materiale in uno con la res che ne è testimonianza.


Note e riferimenti bibliografici

[1] Queste le parole dell’ordinanza di rimessione della Sesta Sezione del Consiglio di Stato, 28 giugno 2022, n. 5357, richiamata dalla sentenza dell’Adunanza Plenaria in commento (13 febbraio 2023, n. 5) al punto 3.2. della motivazione;

[2] Di seguito, per brevità, il Codice;

[3] La vicenda è più compiutamente ricostruita dalla sentenza dell’Adunanza Plenaria in commento, n. 5/2023, alla quale si rinvia; cfr. punti 1.1. e ss. della motivazione;

[4] si vedano le Deliberazioni del Consiglio Comunale di Roma del 1° febbraio 2010, n. 10 e del 6 febbraio 2006, n. 36, tramite le quali il ristorante Il Vero Alfredo ricevette il riconoscimento di Negozio Storico di Eccellenza.  Il Comune di Roma ha invero inteso promuovere e salvaguardare una serie di attività commerciali tradizionali e storiche condotte nel perimetro del centro storico della Capitale.

[5] Punto 2.6. della motivazione;

[6] In questi termini MUSSATTI A., Il vincolo storico-artistico di destinazione d’uso: inammissibilità dello strumento, inadeguatezza della disciplina, in Giornale di diritto amministrativo, fasc. 3/2022, p. 404 e ss.;

[7] Il vincolo di destinazione d’uso è invero concesso in via eccezionale ai c.d. studi d’artista ai sensi dell’art. 51, d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, ove il provvedimento sia tuttavia conforme ai criteri di proporzionalità e ragionevolezza, stante l’assenza del dovere di giustificazione relativamente al beneficio comunque apportato all’interesse pubblico. Cfr. sul punto Cons. Stato, Sez. VI, 12 luglio 2011, n. 4198.

[8] Per una puntuale disamina delle argomentazioni del Tar nella pronuncia di cui trattasi si veda, funditus, MUSSATTI A., op. cit.;

[9] il Ministero della Cultura evidenziava «il provvedimento impugnato in prime cure abbia avuto quale ‘oggetto unitario’ l’immobile, le opere d’arte e gli arredi in esso contenuti (art. 10,comma 3, lett. d), nonché gli aspetti immateriali (art. 7 bis), relativi alla tradizione culturale enogastronomica, di convivialità e socialità del ristorante in esso incorporati - tutti elementi presenti fin dalla fondazione del locale -, senza però alcun fine di imporre la continuità d’uso dei locali da parte di uno specifico gestore, né di favorire una determinata attività imprenditoriale o commerciale» cit. punto 6.3.;  

[10] punto 1.3., cit. p.4.;

[11] L’Adunanza Plenaria, al punto 3.2., p. 7, individua gli elementi posti a base della dichiarazione di importanza culturale del ristorante da parte del Ministero della Cultura, per la cui esatta elencazione si rinvia alla lettura della decisione de qua; si veda, ad esempio, i riferimenti al “collegamento tra la storia del ristorante e il suo allestimento”, oppure alla presenza di “58 libri-firme delle Celebrities dichiarati di interesse storico particolarmente importante”, così come al “successo di una formula gastronomica e di ospitalità”;

[12] punto 1.3., cit. p. 13;

[13] punto 3.4., cit. pp. 8-9;

[14] Cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 16 settembre 1998, n.1266; sez. VI, 12 luglio 2011, n. 4198; sez. VI, 2 marzo 2015, n. 1003; sez. IV, 29 dicembre 2017, n. 6166; sez. V, 25 marzo 2019, n. 1933.

[15] punto 2.1., cit. p. 15;

[16] punto 2.1., cit. pp. 15-16;

[17] Segnatamente, la Corte costituzionale, nella sentenza 9 marzo 1990, n. 118, ha sostenuto che «il valore culturale dei beni di cui all'art. 2…, al cui genere appartengono quelli di cui trattasi, è dato dal collegamento del loro uso e della loro utilizzazione pregressi con accadimenti della storia, della civiltà o del costume anche locale. In altri termini, essi possono essere stati o sono luoghi di incontri e di convegni di artisti, letterati, poeti, musicisti ecc.; sedi di dibattiti e discussioni sui più vari temi di cultura, comunque di interesse storico-culturale, rilevante ed importante, da accertarsi dalla pubblica amministrazione competente. La detta utilizzazione non assume rilievo autonomo, separato e distinto dal bene ma si compenetra nelle cose che ne costituiscono il supporto materiale e, quindi, non può essere protetta separatamente dal bene». La Corte ha quindi concluso che “[l]'esigenza di protezione culturale dei beni, determinata dalla loro utilizzazione e dal loro uso pregressi, si estrinseca in un vincolo di destinazione che agisce sulla proprietà del bene e può trovare giustificazione, per i profili costituzionali, nella funzione sociale che la proprietà privata deve svolgere (art. 42 della Costituzione)”. punto 3.3., cit. pp. 19-20;

[18] punto 3.3. - 3.8., cit. pp. 20 e ss.;  

[19] Punto 3.8., cit. p. 25;

[20] punto 3.9., cit. p. 26;

[21] Si tratta delle Convenzioni sottoscritte a Parigi il 30 novembre 2003 ed il 20 ottobre 2005;

[22] Con riferimento ai beni culturali immateriali, un’attenta ricostruzione della storia normativa che li ha riguardati, così come dei rapporti di competenza Stato-Regioni è rinvenibile nel contributo di GUALDANI A., I beni culturali immateriali: una categoria in cerca di autonomia, in Aedon, fasc. 1/2019, pag. 83 e ss.;