Pubbl. Mer, 15 Mar 2023
Rapporti tra ordinamento statale e confessionale: rilevanza civile dei controlli canonici
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Francesco Uncini
L´articolo in questione analizza dal punto di vista storico l´evoluzione dei rapporti intercorsi tra l´autorità politica e l´autorità ecclesiastica, focalizzandosi sul fenomeno italiano. Il corpo principale di questo contributo prende in esame un aspetto peculiare di tale relazione, ovvero la rilevanza all´interno dell´ordinamento statale dei controlli canonici imposti dal diritto confessionale per quanto concerne la validità degli atti negoziali posti in essere da enti ecclesiastici
Relationship between statal legal sistema and confessional legal system: civil relevance of canonical check
This article analysises from the historical point of view the evolution of the relationship between the civil authority and the ecclesiastic authority, shedding a light on the Italian experience. The main part of this essay examines a peculiar aspect of this relationship, such as the relevance of the canonical checks provided for by the confessional law inside the statal legal system as regards the validity of the contracts stipulated by ecclesiastic entity.Sommario: 1. Introduzione; 2. Evoluzione storica dei rapporti tra Stato e Chiesa; 3. La normativa della rilevanza civile dei controlli canonici: art 18 L. 206/1985; 4. Orientamenti giurisprudenziali in materia di controlli canonici; 5. Conclusioni.
1. Introduzione
Volgendo uno sguardo all’evoluzione storica dei rapporti tra Stato e Chiesa, emerge chiaramente come tale relazione sia stata per molto tempo caratterizzata da un elevato tasso di conflittualità, che ha comportato aspre e radicali conseguenze giuridiche in capo ad entrambi gli ordinamenti. Si è presto, dunque, palesata la necessità di dar vita ad una regolamentazione che conciliasse il patrimonio giuridico statale con i valori confessionali professati e disciplinati dall’ordinamento canonico, soluzione che sembra ormai trovata nei Patti Lateranensi del 1929, così modificati ed adattati all’attuale panorama costituzionale dagli Accordi di Villa Madama del 1984.
Lo scopo di questo articolo è analizzare una particolare fattispecie del rapporto tra questi due ordinamenti autonomi ed indipendenti, ponendo la luce infatti sulla rilevanza civile dei controlli posti in essere dalle autorità confessionali come previsto dall’attuale disciplina normativa e dagli orientamenti ermeneutici forniti dalla giurisprudenza.
2. Evoluzione storica dei rapporti tra Stato e Chiesa
Storicamente parlando, la tensione tra l’autorità politica e il fenomeno religioso si è per la prima volta manifestata con l’avvento e la diffusione del Cristianesimo, la cui visione dei rapporti con il potere imperiale è ben evincibile dalla famosa frase “Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”[1]: ciò che viene introdotto in maniera innovativa è infatti la volontà di mantenere totalmente distante e separata la sfera religiosa da quella temporale.
Gli scarsi risultati ottenuti dalle ondate di persecuzione dei cristiani poste in essere dai romani – i quali vedevano con ostilità questo nuovo approccio circa la ripartizione delle sfere di competenza – convinsero gli imperatori, in primo luogo, a tollerare questo culto, per poi stringere rapporti sempre più stretti, dando vita al sistema noto come “cesaropapismo”, in cui il capo dell’autorità politica è anche capo dell’autorità religiosa.
Questa relazione tra l’autorità temporale e spirituale procurava evidentemente vantaggi reciproci in quanto, in cambio della protezione imperiale fornita alla Chiesa, produceva la spontanea volontà dell’autorità ecclesiastica a sottoporsi alle pretese imperiali.
Una successiva tappa fondamentale delle relazioni tra potere secolare e potere spirituale è da rinvenirsi nella diffusione del sistema giurisdizionalista sviluppato nel XIV e XV secolo, intendendo un modello dove l’organizzazione locale del fenomeno religioso è subordinato al potere del sovrano. Tra i caratteri comuni degli stati europei che assunsero una tale visione di rapporti con le confessioni religiose emergono gli iura maiestatica, ovvero specifiche attribuzioni del sovrano in materia ecclesiastica. In particolare, tali diritti si possono distinguere in base alle finalità perseguite.
Da un lato si tendeva a preservare l’unità e integrità dottrinale della Chiesa, per cui si garantivano al sovrano lo ius protectionis, ovvero il diritto di sanzionare ogni eresia o scisma, lo ius reformandi, cioè il diritto di introdurre riforme in ambito ecclesiastico e lo ius inspiciendi, intendendo il potere di vigilanza sulle istituzioni ecclesiastiche e sulla loro amministrazione interna.
D’altro canto, gli iura maiestatica avevano lo scopo anche a preservare il diritto dello Stato ad ingerirsi nelle materie canonistiche: si segnala a tal riguardo lo ius cavendi, ovvero il diritto al controllo preventivo sugli atti emanati dalle autorità ecclesiastiche e lo ius nominandi, consentendo al sovrano di intervenire nelle nomine degli uffici ecclesiastici. Ai fini specifici di questo articolo preme sottolineare un'altra facoltà in capo al monarca, cioè lo ius domini eminentis, che riconosceva in capo all’autorità politica il diritto di proprietà su tutto il territorio del regno, compresi gli enti ecclesiastici, da cui derivava la facoltà di imporre imposte e tributi e di amministrare i beni e goderne dei frutti[2].
Altro momento fondamentale per le relazioni tra l’Italia e la Chiesa Cattolica fu quello del separatismo liberale che ha improntato il sistema di relazioni durante il Regno d’Italia: proprio l’art. 24 Statuto Albertino[3] introduceva il principio di uguaglianza nel godimento dei diritti civili e politici senza distinzione in base al culto professato. Da questo approccio di equidistanza dalle religioni derivarono poi le cosiddette “leggi eversive” ovvero una serie di provvedimenti emessi nella seconda metà dell’Ottocento con cui si tentava di rimuovere i privilegi che nel passato erano stati riconosciuti alla Chiesa Cattolica, con la finalità di porre sullo stesso piano tutte le confessioni religiose: tra i principali risultati di questa politica si segnala la revoca del riconoscimento quali enti civili a tutti gli enti ecclesiastici, l’acquisizione dei beni immobiliari degli enti ecclesiastici da parte del demanio statale e l’introduzione del matrimonio civile come unico matrimonio valido, abolendo quello concordatario.
Di lì a poco si aprì la celeberrima questione romana, ovvero il dibattito sulle sorti della posizione giuridica del Papa e della Sede apostolica dopo l’unificazione del territorio italiano, che si risolse nella conquista militare di tutta Roma con la breccia di Porta Pia nel 1870 da un lato, e d’altro lato con l’emanazione della “legge sulle guarentigie pontificie” con cui si riconoscevano al Pontefice numerose garanzie personali e reali, tra cui il riconoscimento del godimento a titolo gratuito dei palazzi apostolici di proprietà dello Stato. La reazione da parte della Santa Sede fu prevedibilmente dura e irrevocabile: con la disposizione del non expedit Papa Pio IX vietò a tutti i cristiani di partecipare alla vita politica dello Stato.
Le ultime fasi da passare in rassegna dal punto di vista storico si svolsero negli anni ‘30 del Novecento, quando, maturate le condizioni storico-politiche, Benito Mussolini siglò con la Chiesa Cattolica i Patti Lateranensi nel 1929, con cui si pose fine ai lunghi dissidi. Con due accordi bilaterali di diritto internazionale, il Trattato e il Concordato, lo Stato italiano e la Santa Sede risolsero i punti di maggiore controversia. Con il primo degli atti, si dipanava la questione romana riconoscendo al Papa il diritto di proprietà sui palazzi apostolici e costituendo lo Stato della Città del Vaticano.
Con il Concordato, invece, le parti regolarono i loro rapporti tramite il riconoscimento della religione cattolica come religione di Stato, ed un trattamento di favore accordato agli ecclesiastici (ad esempio esenzione dal servizio militare, dall’ufficio di giurato e dall’obbligo di testimonianza) e agli enti ecclesiastici, che videro un riconoscimento speciale disciplinato nel dettaglio dalla L. 848/1929 rubricata “Disposizioni sugli Enti ecclesiastici e sulle Amministrazioni civili dei patrimoni destinati a fini di culto”, attuata dal regolamento R.D. 2 dicembre 1929, n. 2262.
3. La normativa della rilevanza civile dei controlli canonici: art. 18 L. 206/1985
La attuale disciplina che regola i controlli canonici in relazione all’efficacia civile degli atti posti in essere dagli enti ecclesiastici è contenuta nella L. 20 maggio 1985, n. 222 rubricata “Disposizioni sugli enti e i beni ecclesiastici”, approvata con Protocollo tra Santa Sede e Stato italiano il 15 novembre 1984, reso esecutivo in Italia con la L. 20 maggio 1985, n. 206 e nell’ordinamento canonico con il decreto del Segretario di Stato del 3 giugno 1985. Si osserva prima facie come tale normativa costituisca parte integrante sia del diritto statale italiano che del diritto canonico, senza che però si faccia uso di alcun tipo di rinvio[4] da parte di un ordinamento a favore dell’altro, avendo la suddetta disciplina un accordo bilaterale internazionale come fonte genetica, che si è dimostrato ex post produttivo di numerosi vantaggi pratici[5].
La norma specifica contenuta nella L. 206/1985 che disciplina nel dettaglio la rilevanza civile dei controlli canonici è l’art.18 che recita “Ai fini dell'invalidità o inefficacia di negozi giuridici posti in essere da enti ecclesiastici non possono essere opposte a terzi, che non ne fossero a conoscenza, le limitazioni dei poteri di rappresentanza o l'omissione di controlli canonici che non risultino dal codice di diritto canonico o dal registro delle persone giuridiche”.
Questa norma, il cui contenuto non è immediatamente evincibile, si rifà al principio ispiratore degli Accordi di Villa Madama del 18 febbraio 1984, ovvero la volontà dello Stato di porre fine a ogni tipo di ingerenza nell’amministrazione dei beni da parte degli enti ecclesiastici, che conseguentemente risulta essere soggetta ai soli controlli canonici, come direttamente affermato in linea di principio dall’art. 7 co. 1 Accordo di Villa Madama[6].
D’altra parte, simile disciplina era prevista agli artt. 12 e 14 L. 27 maggio 1929, n. 848 e all’art. 23 R.D. 2 dicembre 1929, n. 2262, in attuazione del principio ex art. 30 Concordato secondo cui “la gestione ordinaria e straordinaria dei beni appartenenti a qualsiasi istituto ecclesiastico od associazione religiosa ha luogo sotto la vigenza e controllo delle competenti autorità della Chiesa escluso ogni intervento da parte dello Stato italiano, e senza obbligo di assoggettare a conversione i beni immobili”.
Emerge dunque la soppressione dell’obbligo di autorizzazione governativa per l’acquisto di beni immobili, accettazioni di donazioni o eredità da parte delle persone giuridiche, che era prevista dall’art. 17 cc[7], e contestualmente il venir meno dei meccanismi di controllo statale sugli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione dei patrimoni beneficiati.
Dopo aver delineato la ratio ispiratrice della norma oggetto dello studio, risulta opportuno analizzare il significato preciso di ogni parola della disposizione per capire interamente il suo portato normativo. In primo luogo, il riferimento principale che emerge dalla lettura dell’art. 18 L. 206/1985 sono l’istituto degli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti: a tal riguardo si rimanda all’art. 1 L. 222/1985 che li definisce come “gli enti costituiti o approvati dall'autorità ecclesiastica, aventi sede in Italia, i quali abbiano fine di religione o di culto[8]”.
Il riconoscimento della personalità giuridica, concessa su domanda di chi rappresenta l’ente previo assenso dell’autorità ecclesiastica competente ex art. 3 L. 222/1985, comporta l’obbligo di iscrizione nel registro delle persone giuridiche tenuto presso la Prefettura[9], da cui si potrà consultare secondo l’art. 5 L. 222/1985 le norme di funzionamento e i poteri degli organi di rappresentanza dell’ente.
L’aspetto che ai fini di questo contributo più rileva è il co. 3 dell’art. 6 L. 222/1985 secondo cui “gli enti ecclesiastici di cui ai commi precedenti potranno concludere negozi giuridici solo previa iscrizione nel registro predetto”: si evince che la condizione necessaria per poter stipulare accordi giuridicamente vincolanti e validi è proprio l’iscrizione nel registro delle persone giuridiche.
Peraltro, anche la giurisprudenza riconosce il ruolo fondamentale di tale atto: il Tribunale di Isernia con sentenza del 10 febbraio 2010, n. 110 afferma che il combinato disposto dell’art 18 L. 206/1985 e dell’art. 5 L. 222/1985 “induce a ritenere che le limitazioni ai poteri di rappresentanza possano essere opposte ai terzi se risultanti dal pubblico registro”, fermo restando che le limitazioni di rappresentanza o l’omissione di controlli canonici che non risultino dal codice di diritto canonico o dal registro delle persone giuridiche possono essere opposte solo ai terzi che ne fossero a conoscenza[10].
Continuando con l’analisi del contenuto dell’art.18 L. 206/1985, si legge che ai terzi possono essere opposte sia le limitazioni dei poteri di rappresentanza[11] sia l’omissione dei controlli canonici. A tal riguardo preme approfondire questo ultimo aspetto caratteristico del diritto canonico che contestualmente svolge un ruolo essenziale per poter comprendere il significato della disciplina ex art. 18 L. 206/1985. Difatti il riferimento ai “controlli canonici”[12] trova ampia disciplina all’interno del codice di diritto canonico dove, al titolo II intestato “L’amministrazione dei beni” del libro V rubricato “I beni temporali della chiesa”, can. 1281 § 1 dispone che “gli amministratori [degli enti ecclesiastici] pongono invalidamente atti che oltrepassano i limiti e le modalità dell’amministrazione ordinaria a meno che non abbiano ottenuto prima permesso scritto dall’ordinario”[13].
Conseguentemente dal combinato disposto dell’art.18 L. 206/1985 e can. 1281 § 1 emerge che è giuridicamente necessaria, ai fini della validità dell’atto, l’autorizzazione da parte dell’ordinario nel caso in cui tale atto comporti un’attività eccedente l’ordinaria amministrazione, pena l’annullabilità del negozio, anche a pregiudizio dei terzi. A sostegno di ciò, la Corte di Appello di Genova sez. I civile nella sentenza del 21 gennaio 2006 si è dovuta pronunciare riguardo alla efficacia dell’atto di compravendita di tre appezzamenti di terreno per mano di un istituto religioso a favore di una società a responsabilità limitata.
In questo caso i giudici hanno ribadito che “se e in quanto una autorizzazione di un supremo organo ecclesiastico di controllo sia prevista come necessaria dall’ordinamento canonico ai fini della stipulazione di un atto avente ad oggetto la dismissione di beni patrimoniali […] è chiaro che tale autorizzazione […] deve avere un oggetto determinato e specifico, al cui difetto non può sopperire la ricerca aliunde della prova del ritenuto conseguimento dello stesso risultato di tutela dell’ente protetto”.
Rileva poi analizzare il significato corretto da associare ai termini “invalidità” ed “inefficacia” contenuti dell’art. 18 L. 206/1985, che rispecchiano le incertezze che la giurisprudenza e dottrina hanno mostrato in relazione alle conseguenze da associare alla mancata autorizzazione canonica. Un primo filone di natura principalmente dottrinale sostiene che gli atti posti in essere privi del necessario assenso delle autorità confessionali siano inefficaci, in quanto tali autorizzazioni sono da considerarsi come condiciones iuris[14], paragonabili alle ingerenze statali di natura pubblicistica esercitate in passato sugli enti ecclesiastici.
D’altro canto, un’altra interpretazione ritiene che i controlli canonici siano elementi che integrano la capacità dell’ente di poter stipulare contratti, per cui sono ritenuti incidenti direttamente sulla validità del negozio stesso: il mancato consenso dell’autorità canonica non può che portare alla annullabilità dell’atto[15] in quanto l’ente è ritenuto essere incapace legalmente di contrarre ex art.1425 cc[16], e conseguentemente si applicano tutte le disposizioni previste per tale causa di invalidità ex art. 1441 ss. cc[17] e art. 1398 cc[18].
A sostegno della tesi che preferisce l’annullabilità come conseguenza alla mancata autorizzazione ecclesiastica, si cita la sentenza del Tribunale di Isernia del 10 febbraio 2010, n. 110, dove i giudici chiariscono che il riferimento atecnico alla categoria dell’invalidità da parte dell’art 18 L. 206/1985 costituisce “un concetto giuridico generale descrittivo del vizio patologico di un contratto”, mentre si dovrebbe propriamente parlare di “annullabilità del negozio piuttosto che la nullità, vizio più grave, rilevabile da chiunque vi abbia interesse ed implicante la violazione di disposizioni poste a tutela dell’interesse generale”[19].
4. Orientamenti giurisprudenziali in materia di controlli canonici
Dopo aver analizzato la normativa attuale, è essenziale prendere atto anche del diritto vivente che ha originato filoni ermeneutici rilevanti per comprendere a pieno tale argomento. Lo studio della giurisprudenza in materia non è stato però così agevole nello svolgimento, visto che mai nessun organo giurisdizionale si è espresso direttamente in relazione a questa tematica, ma ha spesso delineato dei principi generali da applicare anche in questo ambito nel sostenere le proprie tesi ed argomentare le decisioni di casi non direttamente inerenti alla materia oggetto del presente articolo.
Occorre in primo luogo evidenziale il risultato giurisprudenziale dell’affermazione della competenza giurisdizionale del giudice italiano nel valutare la validità ed efficacia di atti posti in essere dagli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti, giudizio che deve tener conto sia del codice di diritto canonico che le norme statutarie dell’ente stesso, alla luce anche dell’art. 29 Concordato lateranense[20]. In questo senso si sostiene nella sentenza emessa dalle Sezioni Unite della Cassazione civile del 12 novembre 1988, n. 6130: il caso riguardava un contratto di locazione stipulato da un priore di una confraternita senza delibera del consiglio dell’ente.
Gli Ermellini hanno affermato che “non si è mai seriamente dubitato che rientri nella giurisdizione dei giudici italiani l’accertamento della validità od efficacia di negozi giuridici posti in essere da enti ecclesiastici quando si tratti di negozi di diritto privato, e specie se stipulato tra enti ecclesiastici e privati cittadini”. Dello stesso avviso è la sentenza della Cass. sez. 3° del 12 maggio 1993, n. 5418 avente ad oggetto l’acquisto di beni immobiliari tra un privato ed una mensa vescovile: anche in questo caso si argomenta che can. 1281 ss. impone l’autorizzazione dell’autorità ecclesiastica per poter validamente porre in essere atti di alienazione, invalidità che si trasmette anche nell’ordinamento civile acquisendo le norme canoniche “forza di legge nell’ordinamento italiano, in virtù del rinvio formale”.
Proprio da questa ultima sentenza si è aperto un altro dibattito giurisprudenziale inerente alla qualificazione dell’art 18 L. 206/1985 come norma di rinvio formale, tesi sostenuta da Cass. sez. 3° del 12 maggio 1993, n. 5418, o meno, come invece ritenuto da Cass. sez. 2° del 17 ottobre 2013, n. 23593. In questa ultima pronuncia riguardante la rivendicazione di un diritto di superficie da parte di una parrocchia nei confronti dei proprietari di fondi contigui, il supremo consesso ha ritenuto che l’art. 18 L. 206/1985 non operi alcun tipo di rinvio a can. 1281, visto che il contenuto della prima norma si riferisce solo all’affidamento di terzi, non potendo dunque “essere forzata in senso inverso, al fine cioè di attribuire ai terzi stessi un’ingerenza sulle relazioni interorganiche dell’ordinamento canonico, per paralizzare l’azione dell’ente ecclesiastico”.
A tal riguardo occorre delineare più nel dettaglio l’istituto del rinvio da parte dell’ordinamento civile a quello confessionale, che infatti rientra tra i tipici strumenti di collegamento tra diversi ordinamenti elaborati dal diritto internazionale privato, e che quindi possono essere predisposti unilateralmente dallo Stato ovvero da fonti di derivazione pattizia. Si è dibattuto a lungo se il rinvio recettizio o materiale potesse essere usato per congiungere l’ordinamento statale con quello confessionale, seppur si sia subito propeso per una risposta negativa visto che ciò comporterebbe “l’appropriazione da parte dell’ordinamento richiamante delle norme dell’ordinamento richiamato e, nel caso degli ordinamenti religiosi, l’inserimento di norme confessionali nel sistema giuridico statale sarebbe contrario con il principio di distinzione degli ordini e con il principio supremo di laicità”[21].
Diversamente invece avviene nel caso di rinvio formale non recettizio o presupposizione: nel primo caso, infatti, lo Stato si astiene volontariamente dal disciplinare un aspetto preferendo dare rilevanza alla disciplina religiosa mediante l’attribuzione dell’efficacia civile alle norme senza però inserirle all’interno dell’ordinamento statale. In altre parole, il rinvio formale alle disposizioni normative confessorie si ha quando lo Stato rinuncia a disciplinare una materia riconoscendone efficacia civile, senza che esse entrino a far parte del diritto statale[22].
Nel secondo caso “l’ordinamento dello Stato non rinvia alle norme del diritto confessionale ma assume le qualificazioni giuridiche date da quel diritto o le situazioni giuridiche concrete sorte e disciplinare al suo interno, per farne oggetto di una autonoma regolamentazione normativa”[23].
Dopo aver fatto questa disamina definitoria dell’istituto del rinvio, risulta utile riportare la tesi secondo cui un esempio di rinvio formale è rinvenibile nell’art. 7 n. 5 Accordo di Villa Madama che recita “L’amministrazione dei beni appartenenti agli enti ecclesiastici è soggetta ai controlli previsti dal diritto canonico”, mentre trattasi di rinvio integrativo, ovvero rimandante alle norme canoniche solo per individuare alcuni elementi che costituiscono le disposizioni pattizie, l’art. 18 L.222/1985 alla luce del fatto che disciplina esclusivamente l’opponibilità ai terzi ed il regime caducatorio dei controlli canonici. Secondo questa visione, si creerebbe un nuovo equilibrio “rispettoso dell’autonomia del sistema canonico, non riconducibile alle leggi civili, e dall’altro evita una commistione fra i due sistemi, non giustificabili in base ai principi di sovranità ed indipendenza che regolano i rapporti fra la Chiesa e lo Stato”[24].
Un altro aspetto oggetto di analisi interpretativa da parte della giurisprudenza riguarda la titolarità a sollevare in giudizio il difetto di rappresentanza o della necessaria autorizzazione canonica, che spetta solo all’ente ecclesiastico, e non anche alla controparte. Tale principio di diritto è così espresso in Cass. sez. 3° del 9 giugno 1986, n. 3833, dove, in un caso di affrancazione di canoni enfiteutici, viene rigettata la richiesta dell’attore della mancanza dell’autorizzazione governativa per tale affrancazione perché “la mancanza di autorizzazione può esser fatta valere, in conformità dell’orientamento espresso da autorevole dottrina, solo dai rappresentanti dell’ente ecclesiastico o dai superiori gerarchici e non da altri interessati, compresa la controparte che ha stipulato l’atto”[25].
Si è anche discusso in giurisprudenza delle tipologie di fonti del diritto che la legge impone al giudice di considerare in sede di giudizio, escludendo dal vaglio giurisdizionale, secondo il parere della Cassazione, le delibere della CEI che determinano il limite degli importi dei contratti che devono esser assoggettati ad una preventiva autorizzazione. Le ragioni di tale scelta sono da ricondurre alla natura di atto amministrativo interno all’ordinamento canonico delle delibere stesse, e che conseguentemente per poter essere considerata in sede processuale, devono essere appositamente indicate ed allegate dalle parti che intendono avvalersene.
Tale orientamento, però, ha suscitato forti critiche dottrinali basate sull’art. 11 D.P.R. 13 febbraio 1987, n. 33 in attuazione della L. 222/1985, che impone l’obbligo della CEI di comunicare al Ministero dell’Interno entro 30 giorni dalla promulgazione le delibere adottate secondo le norme del codice del diritto canonico. La contraddizione con l’orientamento espresso dagli Ermellini è evidente quando si legge al co. 2 del medesimo articolo che recita “Chiunque vi abbia interesse può richiedere alla prefettura del luogo in cui risiede copia delle deliberazioni indicate nel comma 1, vigenti al momento della richiesta”, per cui si può ritenere che tali delibere siano opponibili ai terzi dal momento che gli interessati ne possono prendere liberamente visione.
5. Conclusioni
Dopo aver analizzato il quadro storico in cui le relazioni tra Stato italiano e Chiesa Cattolica si sono sviluppate nei secoli, si è attenzionato con particolare precisione il dettato normativo dell’art. 18 L.222/1985, ritenuto la norma chiave che disciplina uno degli aspetti che collega l’ordinamento statale con quello confessionale. All’esito dell’analisi normativa ed ermeneutica di tale norma, ciò che più risalta all’occhio dello studioso è la finalità che il legislatore ha perseguito nel regolare il fenomeno della rilevanza civile dei controlli canonici, il quale, discostandosi da un passato caratterizzato da un’ingerenza statale seppur sempre minore nella materia ecclesiastica, è ora improntata ad una totale indipendenza tra le due sfere, in particolare in relazione alla capacità di stipulazione degli atti negoziali da parte degli enti ecclesiastici.
Tale principio ispiratore trova difatti ampia giustificazione nei principi di rango costituzionale della distinzione degli ordini e della autonomia della Chiesa Cattolica, frutto di secolari scontri anche violenti con l’autorità politica, che hanno comportato persino l’applicazione di norme estranee all’ordinamento interno come quelle confessionali anche nella giurisdizione nazionale italiana, in virtù dell’obbligo del giudice di prendere in considerazione, oltre che al diritto statale, anche le norme di diritto canonico come nel caso dell’art.18 L.222/1985.
Un rispetto così pedissequo del valore costituzionale della separazione tra ordinamento civile e religioso, apparentemente intangibile, trova però un limite che emerge chiaramente dalla lettura testo della norma in esame, ovvero la tutela dell’affidamento del terzo in buona fede che si trova in una posizione di ignoranza rispetto agli interessi dell’ente ecclesiastico perché non contenuti nelle norme confessionali o nel registro delle persone giuridiche, due strumenti considerati alla stregua di fonti pubbliche liberamente accessibili da chiunque.
Da ultimo, quindi, il contenuto dell’art. 18 L. 222/1985 rappresenta il risultato ottenuto dal bilanciamento tra valori costituzionali effettuato dal legislatore, dove la tutela della buona fede del terzo che entra in contatto con enti di natura religiosa viene privilegiata rispetto all’interesse al riconoscimento della validità dei negozi giuridici e dunque alla protezione del traffico giuridico di capitali.
[1] E’ una celebre frase attribuita a Gesù nei vangeli sinottici, in particolare nel Vangelo secondo Matteo 22,21, nel Vangelo secondo Marco 12,17 e nel Vangelo secondo Luca 20,25.
[2] Cfr. I. ZUANAZZI, M.C. RUSCAZIO, M. CIRAVEGNA, La convivenza delle religioni negli ordinamenti giuridici dei Paesi europei, Torino, G. Giappichelli, 2022, pp. 37-38.
[3] L’art 24 Statuto Albertino recita: “Tutti i regnicoli, qualunque sia il loro titolo o grado, sono eguali dinanzi alla legge. Tutti godono egualmente i diritti civili e politici, e sono ammissibili alle cariche civili, e militari, salve le eccezioni determinate dalle Leggi”.
[5] Basti pensare al dibattito dottrinale sulla tipologia di rinvio (recettizio o formale) che l’ordinamento statale può lecitamente fare nei confronti dell’ordinamento confessionale.
[6] L’art 7 co 1 degli Accordi di Villa Madama recita: “La Repubblica italiana, richiamandosi al principio enunciato dall'articolo 20 della Costituzione, riafferma che il carattere ecclesiastico e il fine di religione o di culto di una associazione o istituzione non possono essere causa di speciali limitazioni legislative, né di speciali gravami fiscali per la sua costituzione, capacità giuridica e ogni forma di attività”.
[7] L’art 17 cc è stato soppresso dall’art 13 L. 15 maggio 1997, n. 127.
[8] A tal riguardo l’art 2 L. 222/1985 considera “aventi fine di religione o di culto gli enti che fanno parte della costituzione gerarchica della Chiesa, gli istituti religiosi e i seminari”, demandando invece ad un controllo accertato di volta in volta per le altre persone giuridiche canoniche ex art 2 co 2.
[9] Ciò è previsto dall’art 6 L. 222/1985 secondo cui “gli enti ecclesiastici già riconosciuti devono richiedere l'iscrizione nel registro delle persone giuridiche entro due anni dalla entrata in vigore delle presenti norme”.
[10] Nel caso di specie, il Tribunale si doveva pronunciare su un ricorso per decreto ingiuntivo presentato da un avvocato che intendeva ottenere i compensi per le proprie prestazioni professionali svolte a favore di un istituto diocesano. Il giudice ha optato per la non applicazione dell’art 18 L. 206/1985 tenuto conto che il ricorrente aveva ricoperto per molto tempo la carica di vicepresidente dell’istituto e dunque era necessariamente a conoscenza dello statuto dell’ente: non si trattava quindi di un terzo ignaro.
[11] Questo limite è stato considerato dalla dottrina come un’eccezione al principio generale ex art 2394 co 2 cc dettato in tema di società, secondo cui “le limitazioni ai poteri degli amministratori che risultano dallo statuto o da una decisione degli organi competenti non sono opponibili ai terzi, anche se pubblicate, salvo che si provi che questi abbiano intenzionalmente agito a danno della società”.
[12] Cfr. CEI, Istruzione in materia amministrativa (2005), nn. 62-64 e A. Zamboni, I beni ecclesiastici: amministrazione e vigilanza, in QDE 28, 2015, pp. 202 – 229.
[13] Al § 2 del medesimo articolo si prevede anche l’obbligo di stabilire negli statuti gli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione e, nel caso di silenzio, spetta al vescovo diocesano, sentito il parere del consiglio per gli affari economici, determinare tali atti. Il § 3 prescrive altresì un regime di esenzione da responsabilità della persona giuridica per gli atti posti invalidamente dagli amministratori se non nella misura in cui ne hanno avuto beneficio.
[14] Cfr. M. RIVELLA, Rilevanza civile dei controlli canonici, in QDE 29, 2016, pp. 492.
[15] Per completezza si cita Cass. sez. 2° del 26 gennaio 2010, n.1560 dove, contrariamente all’orientamento maggioritario, si dichiara la nullità dell’atto di alienazione di un’area di proprietà di un istituto diocesano, in quanto era privo della licenza imprescindibile del vescovo diocesano richiesta espressamente dallo statuto dell’ente ecclesiastico.
[16] Alla luce dell’orientamento giurisprudenziale in tema di legittimità a sollevare la mancanza di autorizzazione canonistica, si evince come l’unico regime di invalidità applicabile a questa fattispecie sia solo l’annullamento: si veda § 4.
[17] Si cita ad esempio la prescrizione quinquennale dell’azione di annullabilità, o l’imprescrittibilità nel caso sia sollevata dalla parte convenuta.
[18] Tale articolo rubricato “Rappresentanza senza potere” si applica anche nel caso di annullamento dell’atto posto in essere dall’ente ecclesiastico privo dell’autorizzazione dell’autorità ecclesiastica: il rappresentante dell’ente ecclesiastico deve risarcire il danno alla controparte per aver ecceduto i limiti di facoltà conferite dalla legge.
[19] Dello stesso avviso è la sentenza della Corte di Appello di Genova sez. 1° civ. del 21 gennaio 2006, in cui si afferma che “la mancanza dell’autorizzazione non comporta […] la nullità del contratto secondo la previsione dell’art 1418 cc alla quale si riferisce, costituendone limite, quella di cui all’art 1419 cc, ma produce i suoi effetti sul piano della inefficacia relativa”.
[20] L’art 29 Concordato lateranense afferma: “Lo Stato italiano rivedrà la sua legislazione in quanto interessa la materia ecclesiastica, al fine di riformarla ed integrarla, per metterla in armonia colle direttive, alle quali si ispira il Trattato stipulato colla Santa Sede ed il presente Concordato”.
[21] Cfr. I. ZUANAZZI, M.C. RUSCAZIO, M. CIRAVEGNALa convivenza delle religioni negli ordinamenti giuridici dei Paesi europei, Torino, G. Giappichelli, 2022, p. 143.
[22] Cfr. M. RIVELLA, Rilevanza civile dei controlli canonici, in QDE 29, 2016, pp. 495 e cfr. G. Dalla Torre, Lezione di diritto ecclesiastico, Torino 2011, p. 143.
[23] Cfr. I. ZUANAZZI, M.C. RUSCAZIO, M. CIRAVEGNA, La convivenza delle religioni negli ordinamenti giuridici dei Paesi europei, Torino, G. Giappichelli, 2022, p. 143.
[24] Cfr. M. RIVELLA, Rilevanza civile dei controlli canonici, in QDE 29, 2016, pp. 496.
[25] Così ribadito anche in Cass, sez. 3° del 12 maggio 1993, n. 5418; Cass. sez. 2° del 17 ottobre 2013, n. 23593; Corte d’appello di Salerno sez. speciali agrarie del 29 gennaio 1996, n. 49 e Trib. Isernia del 10 febbraio, n. 110