Pubbl. Mer, 19 Apr 2023
La classificazione giuridica delle tipologie di rifiuti
Modifica paginaIn questo elaborato partiremo da uno studio storico-dottrinale del d.lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, il quale all’articolo 7 ci ricorda come il diritto positivo vada a classificare i rifiuti in base all’origine e alla pericolosità in modo da permettere una gestione puntuale ed efficiente del ciclo di vita del rifiuto.
The legal classification of waste types
In this paper we will start from a historical-doctrinal study of Legislative Decree No. 22 of February 5, 1997, which in Article 7 reminds us how positive law goes about classifying waste according to origin and hazardousness so as to allow for timely and efficient management of the waste life cycle.Sommario: 1. Premessa; 2. La classificazione dei rifiuti nel Decreto Ronchi; 3. La classificazione dei rifiuti nel T.U.A.; 4. I rifiuti classificati come pericolosi 5. I rifiuti con codice CER speculari; 6. La Giurisprudenza nella classificazione dei rifiuti ; 7. Il confronto della dottrina sulla classificazione dei rifiuti; 8. L’intervento dell’Europa nel dibattito sulla classificazione dei rifiuti; 9. Il principio di precauzione; 10. Conclusioni.
1. Premessa
In questo elaborato si partirà da uno studio storico-dottrinale del d.lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, il quale all’articolo 7 ci ricorda come il diritto positivo vada a classificare i rifiuti in base all’origine e alla pericolosità[1] in modo da permettere una gestione puntuale ed efficiente del ciclo di vita del rifiuto. La precedente classificazione del decreto Ronchi aveva un’efficacia giuridica poiché introduceva una disciplina, parzialmente, difforme rispetto le differenti fattispecie. Nel dettaglio nella classificazione del previgente decreto possiamo dire che la distinzione per origine si ramificava in rifiuti urbani e rifiuti speciali[2].
Il decreto Ronchi ha introdotto un modello della classificazione dei rifiuti che ancora oggi, seppur con l'introduzione del T.UA., ha permesso di mantenere un assetto normativo chiaro per quanto concerne il soddisfacimento dell'interesse collettivo e dell'ambiente. Di conseguenza la classificazione è un processo i cui risvolti si ripercuotono su tutte le fasi successive della gestione dei rifiuti, compresi gli adempimenti di carattere amministrativo che dovranno essere affrontati sia in ambito di rendicontazione che di localizzazione e mappatura dei rifiuti.
2. La classificazione dei rifiuti nel Decreto Ronchi
I rifiuti urbani previsti all’interno del previgente decreto Ronchi ricomprendevano i rifiuti domestici e quelli assimilati ad essi, i rifiuti provenienti dallo spazzamento delle strade, quelli giacenti sulle strade, aree pubbliche, quelli di carattere vegetale provenienti da aree verdi e quelli derivati da esumazioni, estumulazioni e dalle altre attività cimiteriali. I rifiuti di origine speciale erano costituiti da attività agricole o agroalimentari, da attività di demolizione, di scavo e costruzione, dalle lavorazioni di tipo industriale, artigianale e commerciale, dalle attività di servizio, recupero e smaltimento rifiuti, sanitarie, dai macchinari e apparecchiature deteriorate od obsolete, dai veicoli a motore, rimorchi e simili fuori uso, e loro parti.
I rifiuti vengono tutt’oggi classificati anche in base alla loro pericolosità o meno, al riguardo il decreto Ronchi elencava solo i primi, con il chiaro obiettivo che si potesse ipotizzare che tutti i rifiuti non classificati come pericolosi dovessero appartenere alla categoria dei rifiuti non pericolosi, in estrema sintesi i rifiuti pericolosi erano rifiuti di carattere non domestico ed erano previgentemente elencati all’interno degli allegati D, G, M, e I del d.lgs. 5 febbraio 1997 n. 22[3].
3. La classificazione dei rifiuti nel T.U.A.
La normativa italiana sulla classificazione dei rifiuti vede come per la nozione di “rifiuto” un passaggio dal cosiddetto decreto Ronchi al “Testo Unico Ambientale” ovvero il d.lgs. 152/2006, il quale è stato modificato e integrato per mezzo del d.lgs. 205/2010; quest’ultimo ha interessato solo marginalmente la categorizzazione dei rifiuti prevista nell’art. 184 T.U.A., ponendo un occhio particolare ai rifiuti pericolosi che analizzeremo a breve.
A seguito dell’entrata in vigore del decreto correttivo, viene mantenuta la partizione previgente, scolpita su quella introdotta dal già citato decreto Ronchi per porre attuazione alla direttiva 91/689/CEE; in confronto alla previgente formulazione del T.U.A. nell’anno 2006, la classificazione dei rifiuti contenuta all’interno del d.lgs. 152/2006 ha ricevuto modifiche estremamente attenuate anche in funzione dell’attività normativa del d.lgs. n. 4/2008. Confermiamo pertanto la precedente classificazione dei rifiuti per origine, urbani e speciali, e secondo la loro caratteristica di pericolosità. La distinzione per origine, urbani e speciali, e la loro categorizzazione è estremamente rilevante ai fini della modalità di gestione di essi.
Analizzando l’articolo 198 del T.U.A., si può notare come le fasi di gestione dei rifiuti urbani ovvero, servizi pubblici di raccolta, recupero, smaltimento dei rifiuti urbani e di quelli assimilati ad essi, sono di competenza strettamente Comunale[4]. L’attuale formulazione normativa riguardo i rifiuti urbani collocata presso l’articolo 184 del T.U.A. recita, in sintesi, che rifiuti urbani sono: rifiuti derivanti dallo spazzamento delle strade; i rifiuti provenienti da civili abitazioni; i rifiuti vegetali provenienti dalla pulizia di aree verdi e quelli derivati da attività cimiteriali [5].
L’articolo 184 del T.U.A. individua senza rimando all’articolo 183 del T.U.A., i rifiuti speciali ovvero quella tipologia di rifiuto proveniente da attività industriale, commerciale, agricola, artigianale, di servizio, di recupero e smaltimento di rifiuti; al suo interno vi sono anche i rifiuti prodotti da potabilizzazione, depurazione e trattamento delle acque e da abbattimento di fiume e per concludere i rifiuti derivanti da attività in campo sanitario. Conseguentemente i rifiuti urbani e i rifiuti speciali devono essere qualificati come pericolosi o non pericolosi. Diviene fondamentale tale distinzione soprattutto in funzione dei diversi regimi autorizzatori[6] e abilitativi per tutto ciò che riguarda gli adempimenti tassativi di registrazione e comunicazione con cadenza annuale[7] ed anche per tutti ciò che riguarda gli aspetti sanzionatori.
4. I rifiuti classificati come pericolosi
Diviene estremamente utile effettuare un passaggio di approfondimento riguardo i rifiuti pericolosi in particolar modo comparando la normativa attuale con la normativa previgente all’entrata in vigore del d.lgs. 205/2010; prima dell’entrata in vigore del decreto correttivo il T.U.A. non aveva una vera e propria definizione di rifiuto pericoloso; le varie caratteristiche di pericolosità si ricavavano dalla classificazione contenuta all’interno dell’articolo 184 (commi 1, 4 e 4) e dall’Allegato D presente nella Parte IV del T.U.A. [8].
La definizione di rifiuti pericolosi verrà introdotta per mezzo del d.lgs. 205/2010 in conformità e attuazione della nota direttiva europea 2008/98/CE; in particolar modo l’articolo 184 al suo comma 4, stabilisce che sono rifiuti pericolosi quelli “che recano le caratteristiche di cui all’Allegato I della Parte IV del presente decreto” e nel comma 5 stabilisce: “l’elenco dei rifiuti dei rifiuti di cui all’Allegato D alla Parte IV del presente decreto include i rifiuti pericolosi e tiene conto dell’origine e della composizione dei rifiuti e, ove necessario, dei valori limite di concentrazione delle sostanze pericolose. Esso è vincolante per quanto concerne la determinazione dei rifiuti da considerarsi pericolosi (..)”. Provando a fare un sunto rimanendo fedeli alle indicazioni fornite dalla normativa, è plausibile individuare due tipologie di rifiuti pericolosi: i rifiuti pericolosi ritenuti tali in sé per sé e i rifiuti che vengono individuati come pericolosi quando le sostanze presenti in essi arrivino a raggiungere dei determinati livelli di concentrazione.
Quest’ultima qualora dovesse superare i livelli limite imposti dalla normativa vigente, può essere accertata con delle apposite analisi chimiche; l’onere di procedere a tali indagini ricade sul produttore[9] o detentore dei rifiuti. Le diverse tipologie di rifiuti pericolosi si contornano di una fedeltà alla normativa europea; nella prima tipologia possiamo riscontrare una coerenza rispetto all’articolo 3 della diretta 2008/98/CE, che prevede una presenza delle caratteristiche, una o più, all’interno dell’allegato III; un esempio tipico ed estremamente intuibile sono i rifiuti tossi classificati con il termine “Nocivo” individuabili con la sigla “H5”[10].
Alla seconda tipologia di rifiuti pericolosi, precedentemente trattata, appartengono quelli non considerabili necessariamente pericolosi, tuttavia, rientrano in tale categoria in ragione di una concentrazione[11] di sostanze pericolose contenute al loro interno.
Le anzidette distinzioni sono derivate dall’ordinamento comunitario di settore, invece le tipologie dei rifiuti sono elencate all’interno dell’Elenco Europeo dei Rifiuti (E.E.R., già C.E.R.); quest’ultimo rappresenta una misura di armonizzazione delle varie normative nazionali all’interno del diritto ambientale. La classificazione svolta dagli organismi europei comprende venti famiglie omogenee di rifiuti, le quali intrecciano tanto i rifiuti non pericolosi quanto quelli pericolosi; quest’ultimi vengono contrassegnati da un asterisco.
Precedentemente la prima stesura del CER comprendeva due elenchi separati ora sostituiti da un unico elenco nel quale, come abbiamo poc’anzi detto, vengono contrassegnati con un asterisco *[12] i rifiuti pericolosi.
5. I rifiuti con codice CER speculari
Vi sono poi dei casi in cui è necessario determinare se un rifiuto sia o meno pericoloso, potendo questi ben atteggiarsi in entrambe le manifestazioni. Al riguardo si tratta di rifiuti con codice CER speculari, anche detti codici con “voci specchio”[13]. A tal proposito il legislatore nel 2014, legge n.116 del 2014[14], ha precisato che per stabilire se il rifiuto sia pericoloso o meno “debbono essere determinate le proprietà di pericolo che esso possiede”. Tale normativa è stata ulteriormente modificata dall’intervento del legislatore del 2017, che con l’art. 9 d.l. n. 91/2017 ha sostituito la normativa richiamata in premessa della legge del 2014 con la più breve disposizione secondo cui la “classificazione dei rifiuti è effettuata dal produttore assegnando ad essi il competente codice CER ed applicando le disposizioni contenute nella decisione 2014/955/UE e nel regolamento (UE) n. 1357/2014 della Commissione, del 18 dicembre 2014”.
L’avvento della disciplina del 2017, per mezzo del nuovo legislatore, ribadisce il compito del produttore del rifiuto di classificarlo in conformità ai codici CER e che vige l’applicazione della normativa europea. Possiamo subito notare con un primo sguardo come la volontà del legislatore del 2017 sia di mettere da parte la disciplina di dettaglio, introdotta precedentemente con la normativa nazionale del 2014. La motivazione a capo di questa scelta sembra trovare la propria fondatezza nella Relazione illustrativa del d.l. 91 del 2017, quando per giustificare lo strumento del decreto-legge per motivi di necessità ed urgenza viene paventata la sussistenza di “criticità tali da compromettere l’intero funzionamento del sistema di gestione dei rifiuti” dovute alla normativa interna riguardo la materia della classificazione dei rifiuti.
La giurisprudenza contrasta con l’affermazione sopra espressa; al riguardo segnalo la precisazione promossa dal Sostituto Procuratore Generale P. Fimiani nella sua Requisitoria del 21 luglio 2017 ove afferma che “non può dirsi risolta a livello normativo la questione se i numeri da 1 a 7 della parte premessa all'introduzione dell'allegato D alla parte IV del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 siano stati tacitamente abrogati per incompatibilità dalle disposizioni contenute nella Decisione 2014/955/UE e nel Regolamento (UE) n. 1357/2014”.
6.La Giurisprudenza nella classificazione dei rifiuti
Il continuo susseguirsi di modifiche legislative ha generato molte incertezze applicative nei riguardi della disciplina di settore, provocando una discussione sia a livello di dottrina che di giurisprudenza. In particolar modo il problema di maggior rilevanza sul quale verte lo scontro riguarda la modalità attraverso la quale determinare la pericolosità o meno di un rifiuto nella specifica fattispecie in cui, per lo stesso rifiuto, siano previste delle voci a specchio in ragione del suo diverso atteggiarsi come rifiuto pericoloso o non pericoloso.
Appare evidente come nell’approfondire la materia oggetto del paragrafo, sia in una chiave squisitamente giurisprudenziale che di dottrina, i rilievi e le considerazioni che possiamo trarne sono prevalentemente relativi alla certezza giuridica e scientifica riguardo il tema se un rifiuto sia o meno pericoloso. La qualificazione di un rifiuto come pericoloso possiede moltissimi e rilevanti risvolti pratici in funzione del regime di gestione e di smaltimento del rifiuto e gli eventuali oneri economici.
La classificazione di un rifiuto con codice a specchio si intreccia perfettamente nel dibattito sulla pericolosità o meno di un rifiuto e credo che ne esalti anche il dibattito giurisprudenziale; a riguardo segnalo un puntuale excursus svolto dal Collegio nel luglio 2017 della Terza Sezione Penale della Suprema Corte (in pronuncia n. 37460 del 27 luglio 2017 - Cc 21 luglio 2017) che richiama puntualmente la sentenza della Cass. Sez. III n. 46897 del 9 novembre 2016[15].
La pronuncia n. 46897 del 2016 affermava con forza il principio di diritto alla base del quale “la classificazione di un rifiuto identificato da un "codice a specchio", e la conseguente attribuzione del codice (pericoloso/non pericoloso) compete al produttore/detentore del rifiuto; ne consegue che, dinanzi ad un rifiuto con codice "a specchio", il detentore sarà obbligato ad eseguire le analisi (chimiche, microbiologiche, ecc.) necessarie per accertare l'eventuale presenza di sostanze pericolose, e l'eventuale superamento delle soglie di concentrazione; solo allorquando venga accertato, in concreto, l'assenza, o il mancato superamento delle soglie, di sostanze pericolose, il rifiuto con codice "a specchio" potrà essere classificato come non pericoloso”.
La pronuncia appena citata pone all’attenzione il modo in cui il Collegio del 2016 ha imposto al produttore, per perseguire l’obiettivo di una corretta classificazione del rifiuto con “codici speculari”, di eseguire le analisi “necessarie” per l’accertamento dell’eventuale presenza di sostanze pericolose. Il Collegio ha utilizzato il termine “necessarie”, per fare in modo che non vi sia un'imposizione nei confronti del produttore di analizzare tutte le sostanze presenti nel rifiuto. Tuttavia, tale considerazione sembra smentita dalla stessa pronuncia, in particolar modo nella parte in cui il Collegio aggiunge che “compete al detentore del rifiuto dimostrare in concreto che, tra i due codici “a specchio”, il rifiuto vada classificato come non pericoloso, previa caratterizzazione dello stesso; in mancanza il rifiuto va classificato come pericoloso”.
La richiamata affermazione della Corte impone al produttore un dovere probatorio relativo alla non pericolosità del rifiuto con codici speculari. La non pericolosità, peraltro, può essere attribuita solo a seguito di una ben definita caratterizzazione del rifiuto stesso e la caratterizzazione imporrebbe, secondo un pensiero assolutista, la cognizione dei componenti chimici nella loro totalità formanti il rifiuto.
7. Il confronto della dottrina sulla classificazione dei rifiuti
La situazione appena richiamata rende palesi le notevoli difficoltà applicative in analisi della modalità di individuazione della caratterizzazione del rifiuto, non soltanto della metodologia di campionamento e di indagine della quantità di sostanza eventualmente pericolose da comparare ai valori-soglia di accettabilità previsti dalla materia legislativa. I dubbi appena affrontati hanno messo in difficoltà costantemente anche la dottrina, che ha mostrato le inerenti convinzioni con schiettezza collocandosi in due diverse correnti: una a fondamento della tesi della “certezza” e una a sostegno della argomentazione della “probabilità”.
Il primo indirizzo dottrinale “postula la conoscenza certa della composizione del rifiuto” quale imprescindibile premessa da cui muovere l’analisi per la verifica della sussistenza o meno di sostanze pericolose. Necessaria, dunque, è l’accurata conoscenza della struttura chimica del rifiuto. La tesi parte dalla elaborazione per cui, in caso di esistenza di codici speculari per un determinato rifiuto, il conferimento del codice di “non pericoloso” è possibile solo in quanto il rifiuto sia diverso da quello pericoloso. Queste affermazioni rivelerebbero un primo confronto nel dato testuale delle norme. In particolare, il rapporto è rappresentato dalla classificazione dei codici CER, dove il secondo codice speculare (quello non pericoloso) viene circoscritto come “diverso” riguardo a quello pericoloso.
Ulteriore conferma al riguardo è data dalla giurisprudenza del 2002 quando la Corte chiariva che solamente al cospetto di rifiuti con voci a specchio andava applicato il “criterio della concentrazione limite”[16], da misurare, ai fini della definizione del rifiuto come non pericoloso, tenendo giustamente riguardo al superamento delle soglie di delimitazione annunciate per il differente rifiuto pericoloso. Dunque, si può notare come il criterio della concentrazione limite, non essendo ricercato in caso di assenza di voci a specchio (ove restano sufficienti, ai fini della corretta classificazione del rifiuto, soltanto la genesi e la natura del rifiuto pericoloso), consentirebbe di attestare che il rifiuto con voci a specchio non sia più pericoloso, come peraltro sostenuto da alcuna dottrina. Questa pericolosità sarebbe declassabile nelle argomentazioni di presenza interna di sostanze pericolose non superiori alle soglie di confine attese dalla normativa.
Riguardo invece la già richiamata teoria della certezza, quest’ultima sostiene che “per classificare un rifiuto a specchio si deve partire dalla sua caratterizzazione, provvedendo ad individuare puntualmente le sostanze in esso contenute per poi verificare, senza che permangano zone d'ombra o addirittura incognite, se tra queste vi siano o meno sostanze pericolose. Qualora la verifica in questione non venga effettata, il rifiuto deve essere considerato come pericoloso.
Al fine di individuare tempestivamente le consistenze contenute nel rifiuto appare evidente che si debbano comprendere tutte le sostanze in esso presenti; al riguardo è proprio dalla interezza delle sostanze da esaminare che la contrapposta argomentazione dottrinale, detta “della probabilità”, spinge i caratteristici caposaldi. Infatti, secondo i sostenitori della tesi probabilistica, sarebbe impossibile (prima ancora di appurare) determinare tutte le singolari componenti del rifiuto.
La conseguenza logica induce a pensare che sarebbe bastante ricercare (in caso di rifiuti con voci a specchio) l’esistenza di sostanze che con maggiore ed elevato livello di ammissibilità potrebbero essere presenti nel rifiuto, e con riferimento a quelle appurare il superamento delle soglie-limite di concentrazione laddove siano presunte. Aderendo a questa argomentazione diverrebbe necessario e perentorio analizzare le consistenze presenti all’interno del rifiuto; una tale supposizione esisterebbe tenendo in attenta valutazione le sostanze coinvolte durante il ciclo produttivo del rifiuto.
Le diverse posizioni presenti nella dottrina hanno segnato ulteriormente i loro confini a seguito del citato intervento della giurisprudenza di legittimità, soprattutto nella parte in cui presume l’onere probatorio della corretta qualifica del rifiuto (con i codici a specchio) come non pericoloso in capo al produttore. A questo proposito, una successiva dottrina ha chiarito come la prova certa della non pericolosità, imposta dalla giurisprudenza risulti impossibile dal momento che la prova può solo essere probabilistica[17]. Questa affermazione trova forza in ragione del fatto che riscontrare la partecipazione di sostanze pericolose all’interno del rifiuto comparandole con tutte le sostanze pericolose esistenti è “complicato e molto costoso” e per di più riduce drasticamente la classificazione al solo utilizzo dei metodi analitici.
Appare abbastanza chiaro come sorgerebbero diversi problemi riguardo la scelta della campionatura del rifiuto, parte della dottrina reputa estremamente chiaro che a seconda della preferenza del campione potrebbero essere svariate le misure quantitative di sostanze pericolose contenute in esso, in quanto è scientificamente pacifico che il tipo di campione presente nel rifiuto oggetto di analisi non rappresenta con sicurezza l’intero stock del rifiuto.
8. L’intervento dell’Europa nel dibattito sulla classificazione dei rifiuti
Gli scontri dottrinali sul tema rendono palese che i fautori delle tesi della certezza e della probabilità si scontrano al fine di sostenere la veridicità delle proprie convinzioni; al riguardo reputo necessario segnalare che in presenza di tale dicotomia, la Suprema Corte di Cassazione tiene conto nell’ordinanza di rimessione alla Corte di Giustizia del 2017, ove precisa che la tesi della probabilità trova fondamento nel principio europeo dello “sviluppo sostenibile[18]”; la tesi della certezza, invece, in quello di “precauzione”. La Corte inoltre evidenzia l’attuale vigenza del decreto Mezzogiorno[19] del 2017 che, abrogando la disciplina nazionale del 2014, ribadisce l’applicazione, in materia di rifiuti, delle disposizioni contenute nella Decisione 2014/955/UE e nel Regolamento (UE) n. 1357/2014.
Analizzando nel concreto la giurisprudenza riguardo la classificazione dei rifiuti e in particolar modo dei rifiuti con codice a specchio, reputo necessaria una sintetica analisi della sentenza n. 37460 del 27 luglio 2017 e dei suoi sviluppi interpretativi per di più ampliati a un livello europeo. Il Sostituto Procuratore Generale nella sua requisitoria scritta, interpellato a proferire nel fatto relativo ad una supposta attività organizzata per traffico illecito di rifiuti classificabili con voci a specchio, trattati in discarica come rifiuti non pericolosi (essendo tali rifiuti così classificati tramite analisi chimiche compiacentemente parziarie), dopo aver compiutamente richiamato la disciplina europea e nazionale applicabile in materia di classificazione dei rifiuti e quella applicabile in materia di caratterizzazione dei rifiuti da introdurre in discarica, soffermava l’attenzione sulle questioni giuridiche sottese ai fatti di causa. In primo luogo, insisteva sulla non consistenza penale delle questioni relative l’avvicendamento di leggi nel tempo alla disciplina transitoria da applicarsi sino al giugno 2015 e la sopravvenienza del Decreto Mezzogiorno del 2017.
In aggiunta il Procuratore affrontava la questione dei contrasti dottrinali relativamente alla classificazione dei rifiuti con codici a specchio, richiamando puntualmente le diverse tesi già affrontate in questo paragrafo ovvero della “certezza e della probabilità”, Inoltre, procedeva nell’affrontare anche l’ulteriore profilo critico della disciplina sulla caratterizzazione dei rifiuti da ammettere in discarica.
Date queste premesse, il Sostituto Procuratore rilevando ragionevoli dubbi in merito alla corretta applicazione, esortava il Collegio alla sospensione del processo e alla rimessione degli atti alla Corte di Giustizia, ex art. 267 TFUE, al fine di ottenere una pronuncia in merito alla veridicità della circostanza che: “in ogni caso (si ritiene) necessaria una analisi quantitativamente esaustiva del rifiuto di modo che la somma algebrica delle porzioni analizzate copra una percentuale che, sommata a quella di concentrazione più bassa prevista per le varie sostanze pericolose, raggiunga nel complesso il 100% della composizione del rifiuto analizzato”[20].
Non solo, in ragione dell’esito positivo o negativo al quesito, sulle eventuali ripercussioni in ipotesi di “mancata esecuzione” o “omessa esecuzione” in termini di presunzione di pericolosità o meno del rifiuto. Per di più, il PG chiedeva alla Corte di rinviare anche in merito al tema relativo l’interpretazione della disposizione al n. 2 dell'allegato della Decisione 2014/955/UE; in particolare domandava se il legame della norma fosse “alla sola fase di aggiornamento dell’elenco armonizzato dei rifiuti” o altresì “alla procedura di classificazione da parte del produttore/detentore” essendo in ogni caso necessaria una analisi quantitativamente esaustiva del rifiuto [..]che raggiunga nel complesso il 100% della composizione del rifiuto analizzato”.
Nella supposizione di esito positivo si chiedevano chiarimenti in virtù della valenza o meno della supposizione di pericolosità del rifiuto.
In conclusione, il Sostituto procuratore generale enunciava ulteriori problemi interpretativi inerenti alla faccenda dell’ammissione dei rifiuti in discarica. In subordine, rispetto alla sospensione del procedimento e al rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia, il PG concludeva per l’annullamento con rinvio.
La Corte, tenuto conto degli interventi delle parti coinvolte e dopo aver integrato il sistema normativo di riferimento e la esistenza di un dibattito dottrinale in materia, determina di voler trattare la questione della “classificazione dei rifiuti con voci a specchio”, tralasciando le incerte interpretazioni dell’inserimento dei rifiuti in discarica. La Corte manifesta subito un intento primario di affrontare le problematiche interpretative della classificazione dei rifiuti con particolare riguardo alle cosiddette voci a specchio, primo dubbio interpretativo ricade sulla norma di cui al punto 2 dell’Allegato alla Decisione 2014/955/UE nella parte in cui prescrive la classificazione di rifiuti con codici a specchio come “opportuna solo quando questo rifiuto contiene sostanze pericolose pertinenti […]”.
La scelta semantica della traduzione italiana della normativa europea e l’assenza nella vigente normativa europea di “indicazioni prescrittive di specifiche procedure analitiche” alimentano i già noti dissidi dottrinali tra i sostenitori delle diverse tesi “della certezza”[21] e “della probabilistica”[22]. la Corte, una volta riassunte le divergenze di posizioni della dottrina, ritiene che la caratterizzazione del rifiuto sia l’unico strumento capace di indicare la corretta composizione, soltanto a seguito della quale è consentito ricercare le eventuali sostanze pericolose potenzialmente presenti. A fondamento di tali esposizioni vi sarebbe il rispetto del principio di precauzione, cui deve orientarsi la gestione dei rifiuti, così come richiamato dalla disciplina in materia ex art. 178 del T.U.A.
Pertanto, fedele a tale principio sarebbe una tesi intermedia, rispetto a quelle prospettate dalla storica dottrina[23], che viene definita come “tesi della certezza scientifica”[24], principio di tale orientamento è l’inesistenza nella realtà della certezza assoluta e ciò in ragione del fatto che il criterio, utilizzato per la campionatura e per l’analisi chimica delle componenti del rifiuto, non può che essere un metodo scientifico, quest’ultimo risponde alla logica della ‘probabilità di avvicinarsi il più possibile’ ad una “certezza scientifica”[25], che consiste nel ritenere veritiero un processo analitico descrittivo rispettoso delle procedure scientifiche sino alla dimostrazione della sua inesattezza.
Appare chiaro al lettore che in tal senso non vi potrà mai essere una certezza assoluta e indiscutibile riguardo la rappresentazione di un rifiuto, necessaria ai fini della sua classificazione, questo perché un limite di errore, anche se lieve, esiste sempre per il solo che fatto che le analisi vengono attuate tramite campionatura[26].
I dubbi e gli interrogativi sono molti e soprattutto non pacifici sia in campo dottrinale che in campo giurisprudenziale; al riguardo per tutte le ragioni che ho sopra riportato, il Collegio, ritiene che in materia di “classificazione dei rifiuti con voci a specchio” esistano tuttora lati di incertezza interpretativa della materia comunitaria di settore da attuarsi nell’ordinamento interno. In presenza di tali incertezze, sussistendo ancora dei dubbi in materia, la Suprema Corte ha rimesso gli atti alla Corte di Giustizia, la quale, recepite le ragioni per le quali il giudice nazionale ha provveduto alla rimessione e avendo reputato le interpellanze pregiudiziali ricevibili, ha fatto luce sulla esatta interpretazione della normativa europea in materia di classificazione dei rifiuti con codici speculari.
La Corte, prima di entrare nel merito delle questioni sottoposte al suo giudizio, ha tempestivamente riorganizzato il quadro normativo di attinenza e riepilogato le contrapposte tesi dottrinali. Definito il contesto normativo e dottrinale e tenute in debito conto le conclusioni dell’Avvocato Generale (più volte richiamate nel testo della sentenza in questione), la Corte di Giustizia precisa che è richiesta una “conoscenza sufficiente” della composizione del rifiuto ottenuta tramite la raccolta di “informazioni idonee”. Giungendo alle nostre conclusioni sugli argomenti della citata sentenza ritengo necessario citare testualmente alcuni passaggi della sentenza della Corte di Giustizia per poi analizzarne sinteticamente in contenuto.
9.Il principio di precauzione
In richiamo fedele ai temi e alle argomentazioni affrontate nella pronuncia in questione, la Decima Sezione della Corte di Giustizia, nelle cause riunite C487/17-C489-17, pres. K.Lenaerts, rel. F.Biltgen, ha dichiarato che la normativa europea in materia di classificazione dei rifiuti con codici speculari deve: “essere interpretata nel senso che il detentore di un rifiuto che può essere classificato sia con codici corrispondenti a rifiuti pericolosi sia con codici corrispondenti a rifiuti non pericolosi, ma la cui composizione non è immediatamente nota, deve, ai fini di tale classificazione, determinare detta composizione e ricercare le sostanze pericolose che possano ragionevolmente trovarvisi onde stabilire se tale rifiuto presenti caratteristiche di pericolo, e a tal fine può utilizzare campionamenti, analisi chimiche e prove previsti dal regolamento (CE) n. 440/2008 della Commissione, del 30 maggio 2008, che istituisce dei metodi di prova ai sensi del regolamento (CE) n. 1907/2006 del Parlamento europeo e del Consiglio concernente la registrazione, la valutazione, l’autorizzazione e la restrizione delle sostanze chimiche (REACH) o qualsiasi altro campionamento, analisi chimica e prova riconosciuti a livello internazionale”.
La Corte affronta anche il tema del principio di precauzione che nella materia dei rifiuti pericolosi si colloca in una zona sicuramente fondamentale; la Corte di Giustizia afferma, riporto in modo sintetico, che il richiamato principio di precauzione deve essere inteso che dopo una stima dei rischi in una misura il più possibile completa e tenuto conto delle circostanze di specie, il detentore di un rifiuto che può essere classificato sia con codici corrispondenti a rifiuti pericolosi e sia con codici corrispondenti a rifiuti non pericolosi si trovi nell’impossibilità pratica di determinare la presenza di sostanze pericolose o di valutare le caratteristiche di pericolo che detto rifiuto presenta, quest’ultimo deve essere raggruppato come rifiuto pericoloso.
10. Conclusioni
Le conclusioni giurisprudenziali della Corte di Giustizia consentono di richiamare nuovamente tutto quello che già è stato esposto all’interno di questo elaborato. Appare estremamente coerente che la giusta contrapposizione degli interessi presenti nella materia in questione resti il giusto espediente e la via da seguire nella classificazione dei rifiuti con codici speculari. Una corretta gestione dei rifiuti passa in modo inequivocabile da una corretta individuazione degli stessi, a tal fine la nostra società dovrà sempre di più abituarsi a differenziare i rifiuti per perseguire un tipo di policy che conduca ad un miglioramento non solo della vita del singolo ma di tutta la collettività.
[1]Cit. testo art.7 c.d. decreto RONCHI : 1. Ai fini dell'attuazione del presente decreto i rifiuti sono classificati, secondo l'origine, in rifiuti urbani e rifiuti speciali, e, secondo le caratteristiche di pericolosità, in rifiuti pericolosi e rifiuti non pericolosi.
2. Sono rifiuti urbani:
a) i rifiuti domestici, anche ingombranti, provenienti da locali e luoghi adibiti ad uso di civile abitazione;
b) i rifiuti non pericolosi provenienti da locali e luoghi adibiti ad usi diversi da quelli di cui alla lettera a), assimilati ai rifiuti urbani per qualità e quantità, ai sensi dell'articolo 21, comma 2, lettera g);
c) i rifiuti provenienti dallo spazzamento delle strade;
d) i rifiuti di qualunque natura o provenienza, giacenti sulle strade ed aree pubbliche o sulle strade ed aree private comunque soggette ad uso pubblico o sulle spiagge marittime e lacuali e sulle rive dei corsi d'acqua;
e) i rifiuti vegetali provenienti da aree verdi, quali giardini, parchi e aree cimiteriali;
f) i rifiuti provenienti da esumazioni ed estumulazioni, nonché gli altri rifiuti provenienti da attività cimiteriali diversi da quelli di cui alle lettere b), c) ed e).
3. Sono rifiuti speciali:
a) i rifiuti da attività agricole e agro-industriali;
b) i rifiuti derivanti dalle attività di demolizione, costruzione, nonché i rifiuti pericolosi che derivano dalle attività di scavo;
c) i rifiuti da lavorazioni industriali;
d) i rifiuti da lavorazioni artigianali;
e) i rifiuti da attività commerciali;
f) i rifiuti da attività di servizio;
g) i rifiuti derivanti dalla attività di recupero e smaltimento di rifiuti, i fanghi prodotti dalla potabilizzazione e da altri trattamenti delle acque e dalla depurazione delle acque reflue e da abbattimento di fumi;
h) i rifiuti derivanti da attività sanitarie;
i) i macchinari e le apparecchiature deteriorati ed obsoleti;
l) i veicoli a motore, rimorchi e simili fuori uso e loro parti.
4. Sono pericolosi i rifiuti non domestici precisati nell'elenco di cui all'allegato D.
[2] MANTOLOCI M., LISI F., PAPETTI P., I rifiuti. Quesiti e risposte: aspetti documentali, tributari e di vigilanza: in 283 domande le più ricorrenti problematiche in materia di classificazione dei rifiuti, oneri, obblighi e adempimenti per la gestione, procedure amministrative, imballaggi, verifiche fiscali della Guardia di finanza e reati ambientali. Milano: Il Sole 24 Ore, 2000. Print. Ambiente E Sicurezza.
[3] GALANTINO I., Gestione dei rifiuti e sicurezza del lavoro, Torino, Giappichelli editore, p. 30.
[4] Saggio di CARTEI G.F., MILAZZO P., Produzione, gestione, smaltimento dei rifiuti in Italia, Francia e Germania tra diritto, tecnologia e politica.
[5] Art. 184, c. 2, lett. a), c), d), e), f), d.lgs. 152/2006, così come modificato dal d.lgs.
205/2010.
[6] BERNARDINO B., La gestione dei rifiuti nell’economia circolare, Palermo, Edizioni Flaccovio, 2021.
[7] BOVINO C., Classificazione dei rifiuti: la nuova normativa su gestione e tracciabilità, articolo, tratto dal volume Manuale Ambiente 2017, Wolters Kluwer Italia, segnalazione del 11/08/2017.
[8] GIAMPIETRO V., Classificazione dei rifiuti pericolosi, in F. GIAMPIETRO, La nuova disciplina dei rifiuti, Milano, Kluwer, 2011.
[9] 6 D.lgs. 152/2006, Art. 183, c. 1, lett. f), Produttore di rifiuti: Il soggetto la cui attività produce rifiuti (produttore iniziale) o chiunque effettui operazioni di pretrattamento, di miscelazione, o altre operazioni che hanno modificato la natura o la composizione di detti rifiuti.
[10] Il I giugno 2015 entra in vigore il Regolamento Europeo 1357/2014 in base al quale la sigla di identificazione dei rifiuti pericolosi cambia da H ad HP.
[11] Legge 24 Marzo 2012, n. 28, art 6.
[12] Legge 11 agosto 2014, n. 116. Conversione in legge, con modificazioni, del decreto legge 24 giugno 2014, n. 91, recante disposizioni urgenti per il settore agricolo, la
tutela ambientale e l'efficientamento energetico dell'edilizia scolastica e universitaria, il rilancio e lo sviluppo delle imprese, il contenimento dei costi gravanti sulle tariffe elettriche, nonché per la definizione immediata di adempimenti derivanti dalla normativa europea. (14G00128) (GU Serie Generale n.192 del 20-08-2014 - Suppl. Ordinario n. 72).
[13] Per un maggiore approfondimento si veda G.GALASSI, “la classificazione delle voci a specchio e il criterio di esaustività delle analisi: dallo scontro in dottrina alla soluzione del decreto Mezzogiorno”, in Ambiente Legale Digesta, maggio-giugno 2017.
[14] Legge 11 agosto 2014, n. 116. Conversione in legge, con modificazioni, del decreto legge 24 giugno 2014, n. 91 già citato.
[15] Cass. Sez. III n. 46897 del 9 novembre 2016: “Ai sensi della L. 11 agosto 2014, n. 116, che ha aggiunto all’Allegato D del d.lgs. 152 del 2006 un art. 1, rubricato “Classificazione dei rifiuti”, “…Le indagini da svolgere per determinare le proprietà di pericolo che un rifiuto possiede sono le seguenti: a) individuare i composti presenti nel rifiuto attraverso: la scheda informativa del produttore; la conoscenza del processo chimico; il campionamento e l’analisi del rifiuto; b) determinare i pericoli connessi a tali composti attraverso: la normativa europea sulla etichettatura delle sostanze e dei preparati pericolosi; le fonti informative europee ed internazionali; la scheda di sicurezza dei prodotti da cui deriva il rifiuto; c) stabilire se le concentrazioni dei composti contenuti comportino che il rifiuto presenti delle caratteristiche di pericolo mediante comparazione delle concentrazioni rilevate all’analisi chimica con il limite soglia per le frasi di rischio specifiche dei componenti, ovvero effettuazione dei test per verificare se il rifiuto ha determinate proprietà di pericolo. Se i componenti di un rifiuto sono rilevati dalle analisi chimiche solo in modo aspecifico, e non sono perciò noti i composti specifici che lo costituiscono, per individuare le caratteristiche di pericolo del rifiuto devono essere presi come riferimento i composti peggiori, in applicazione del principio di precauzione. Quando le sostanze presenti in un rifiuto non sono note o non sono determinate con le modalità stabilite nei commi precedenti, ovvero le caratteristiche di pericolo non possono essere determinate, il rifiuto si classifica come pericoloso. La classificazione in ogni caso avviene prima che il rifiuto sia allontanato dal luogo di produzione”. Pertanto, compete al detentore del rifiuto dimostrare in concreto che, tra due codici “a specchio”, il rifiuto vada classificato come non pericoloso, previa caratterizzazione dello stesso; in mancanza, il rifiuto va classificato come pericoloso (art 1, comma 6, Alleg. D).
[16] Cass Sez. III n. 32143 del 26 settembre 2002 (Ud.30-05-2002).
[17] PARLANGELI M.I., La problematica questione della classificazione dei rifiuti con codici a specchio, Lexambiente 1 (2019): 116-41.
[18] MONTINI M., cit., p. 52. Cfr. anche garabello r., Le novità del Trattato di Amsterdam in materia di politica ambientale comunitaria, in Riv. Giur. Amb., 1999, p. 151; N. DHONDT, Integratione of Environmental Protection into other EC Policies Legal Theory and Practice, Groningen, 2003.
[19] GALASSI G., La classificazione delle voci a specchio e il criterio di esaustività delle analisi: dallo scontro in dottrina alla soluzione del decreto Mezzogiorno, in Ambiente Legale Digesta, maggio-giugno 2017.
[20] GIAMPIETRO F., Rifiuti con codice a specchio: i quesiti alla Corte di Giustizia e la disciplina speciale sullo smaltimento dei rifiuti urbani, pubblicata sul sito Ambiente Sviluppo, n. 1/2018, pag. 6: “non sembra pertinente il richiamo (ritenuto equivalente) al principio comunitario di precauzione, invocato dal Supremo Collegio a fondamento del preteso obbligo probatorio, gravante sul produttore e/o detentore del rifiuto, attraverso la c.d. prova esaustiva ovvero la prova analitica del 99,9% dei componenti del rifiuto, al fine di escluderne la pericolosità”.
[21]AMENDOLA G., M. SANNA M., Codici a specchio: basta confusione, facciamo chiarezza, pubblicato sul sito www.industrieambiente.it, 2017, pag. 5.
[22] FIRMIANI P., La classificazione dei rifiuti dopo la novità della legge 125/2015, in Rifiuti n. 231, agosto-settembre 2015.
[23] AMENDOLA G., M. SANNA M., Codici a specchio: basta confusione, facciamo chiarezza, cit., pag. 6: “Per la separazione dei diversi gruppi di sostanze, sfruttando le loro differenze di volatilità e solubilità nei diversi solventi, si ricorrerà a metodi chimici e fisici. Su questi criteri si basa appunto la sistematica di Staudinger, messa a punto negli anni ‘30 del secolo scorso e ripresa successivamente dai vari manuali, che naturalmente potrà essere adattata impiegando le moderne strumentazioni. Separate le diverse classi di sostanze presenti (quali, ad esempio, le ammine, le ammidi, i fenoli, le aldeidi, i nitro composti, ecc.), si procederà al loro riconoscimento utilizzando i metodi strumentali attualmente disponibili”.
[24] FORMENTON W., FARINA M., SALGHINI G., TONELLO I., ALBRIZIO F., Codici a specchio: fra certezza scientifica e verità, in Lexambiente, 7 luglio 2017, non impaginata. Su una posizione che, seppur vicina agli autori prima citati, non è del tutto chiara, è invece Franco M., Codici a specchio: nasce il partito della “incertezza” scientifica, in Lexambiente, 19 luglio 2017, non impaginata.
[25] MAGLIA S., I rifiuti pericolosi e le voci a specchio: come classificarli correttamente?, pubblica sulla Rivista on line Lexambiente, 28 febbraio 2014, non impaginato, il quale precisa che "in caso di voci a specchio per verificare la pericolosità di un rifiuto non è ovviamente necessario verificare analiticamente la presenza di tutte le migliaia di sostanze pericolose esistenti e determinarne la concentrazione, ma deve essere indagata la presenza delle sostanze che con più elevato livello di probabilità potrebbero essere presenti nel rifiuto e, con riferimento a quelle, verificare il superamento dei limiti di concentrazione, ove previsti".
[26] Anche i più noti sostenitori della tesi della certezza sembrano convergere verso le medesime posizioni al riguardo; amendola g., m. sanna m., Codici a specchio: cresce il partito della certezza (scientifica), in Lexambiente, 11 luglio 2017, non impaginato, i quali precisano: “l’incertezza sia insita in ogni misura è un dato scontato indipendentemente dalla grandezza misurata, dell’unità di misura impiegata e del valore rilevato, sia esso il 100% o 100 mg/l o 100 g. Questa misura sarà sempre affetta da una incertezza e quindi, quando si esprime in modo astratto un valore, appare del tutto superfluo sottolineare anche la incertezza del medesimo… è però anche evidente che perché vi sia una incertezza nella misura vi dovrà essere la misura stessa. Perciò se si deve conoscere la composizione di un rifiuto è prima di tutto necessario che si proceda alla individuazione ed alla misura delle sostanze in esso contenute. Se si rinuncia a priori a tale misura e ci si attesta sulla conoscenza del 50 % della sua composizione non si potrà certo sostenere che il residuo 50% è costituito dalla incertezza della misura. Misura che per altro non è stata effettuata, cercando di colmare la mancanza di conoscenza del residuo incognito e delle sostanze che lo potrebbero costituire solo con ipotesi e supposizioni (la famosa “lotteria”)”.