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Pubbl. Mar, 14 Feb 2023

L´articolo 21-octies e la dequotazione dei vizi formali e procedimentali del provvedimento amministrativo

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Raffaella Granata
Laurea in GiurisprudenzaUniversità degli Studi di Napoli Federico II



L´articolo si prefigge di analizzare gli effetti di una norma innovativa e relativamente recente come l´articolo 21-octies, inserito nel corpus della legge 241/1990 nel 2005. L´indagine verte anche sugli ulteriori strumenti di sanatoria previsti dall´ordinamento, in un´ottica volta al perseguimento del risultato e dell´efficienza dell´agere amministrativo.


ENG

21-octies and the delisting of formal and procedural defects of the administrative act.

The article aims to outline the main effects of a recent and innovative standard such as 21-octies, introduced only in 2005. The analysis also focuses on further amnesty tools, with a view to pursuing the result and the efficiency of administrative activity.

Sommario: 1. La rinnovata centralità del procedimento amministrativo e i rimedi giurisprudenziali; 2. L’inserimento dell’articolo 21-octies nel corpus della legge 241/1990; 3. La controversa natura del 21-octies; 4. La violazione dell’articolo 10-bis e risvolti applicativi; 5. La convalida del provvedimento amministrativo illegittimo, con particolare riferimento al vizio di motivazione; 6. Conclusioni.

1. La rinnovata centralità del procedimento amministrativo e i rimedi giurisprudenziali

La Pubblica Amministrazione, al di fuori delle ipotesi cosiddette di “amministrazione consensuale”, esercita il potere conferitole dalla legge mediante il provvedimento amministrativo, con cui essa può incidere unilateralmente, in senso peggiorativo o meno, sulle situazioni giuridico-soggettive dei destinatari.

Il provvedimento è l’atto tipico della funzione amministrativa, la cui massima espressione si rinviene all’interno del procedimento amministrativo.

È questo il momento che, secondo una certa impostazione, è preposto alla cura concreta del pubblico interesse, che illustri autori come Giorgio Berti identificano quale fine ultimo dell’agire amministrativo[1].

La centralità del procedimento amministrativo rivendica il proprio valore all’indomani dell’entrata in vigore della legge 241/1990: prima di tale intervento legislativo, esistevano soltanto discipline di settore volte a regolamentare singoli procedimenti amministrativi diretti all’emanazione di un certo provvedimento[2].

La conseguenza era che l’eventuale violazione di alcuni momenti procedimentali, non espressamente codificati, da parte della Pubblica Amministrazione finiva per integrare tuttalpiù un sintomo di eccesso di potere, in luogo del più pregnante vizio di violazione di legge.

La novella del 1990 inaugura invece una diversa concezione dell’agire amministrativo, informato ai principi di trasparenza e partecipazione dei soggetti direttamente coinvolti nelle scelte della Pubblica Amministrazione.

Tuttavia, la giurisprudenza, a partire già dagli anni Novanta, è animata dal timore che tale rinnovata centralità del momento procedimentale possa ledere alcuni principi altrettanto importanti dell’azione amministrativa, primi fra tutti il principio di economicità e di efficienza.

La necessità di forgiare una nozione di legalità sostanziale emerge alla luce della valorizzazione di quella “Amministrazione di risultato” tutta volta ad una maggiore speditezza dell’azione amministrativa, in vista di un più efficace perseguimento del pubblico interesse, a discapito delle garanzie procedimentali.

Per riprendere le parole di Franco Ledda, ad un certo punto la giurisprudenza, prima, e il legislatore, poi, si trovano di fronte al volgare baratto tra legalità ed efficienza[3].

Viene così applicato ad esempio, a livello pretorio, un principio già presente nel codice di procedura civile vigente, ossia il principio del raggiungimento dello scopo.

Tale principio è in grado di preservare il provvedimento dall’annullamento, anche a fronte di violazioni procedimentali evidenti, laddove lo scopo procedimentale sia stato ugualmente conseguito in altro modo.

Si pensi all’ipotesi in cui la Pubblica Amministrazione abbia emanato un provvedimento non preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento di cui all’articolo 7 della legge 241/1990, istituto volto ad assicurare la partecipazione al procedimento amministrativo dei soggetti destinatari del provvedimento finale.

Se i suddetti soggetti partecipano ugualmente al procedimento, avendone avuto conoscenza altrove o avendo dato impulso al procedimento mediante istanza, il provvedimento non è annullabile perché il vizio procedimentale risulta sanato.

Un’ulteriore categoria pretoria che viene elaborata in quegli anni è quella della mera irregolarità: in tale ipotesi vi è un formale divario tra il provvedimento e il modello normativo procedimentale, ma si tratta di una violazione così ininfluente da non integrare un vero e proprio vizio.

2.  L’inserimento dell’articolo 21-octies nel corpus della legge 241/1990

Questa tendenza alla deformalizzazione e alla dequotazione del vizio procedurale viene recepita a livello normativo dal legislatore nel 2005, anno in cui si introduce l’articolo 21 octies nel corpus della legge 241/1990.

Enunciati i vizi che determinano l’annullamento del provvedimento amministrativo, il secondo comma dell’articolo 21 octies si sofferma sui provvedimenti affetti da vizi formali o procedurali: questi non sono annullabili, e dunque sanati, laddove risulti palese che il loro contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.

Il legislatore riprende così una riflessione già avanzata dalla giurisprudenza, relativa all’effettiva funzione del procedimento amministrativo e alla partecipazione del soggetto al procedimento stesso, ma compie un passo ulteriore.

La partecipazione del privato non può essere fine a sé stessa, in quanto deve essere funzionale ad esercitare un’influenza, almeno a livello potenziale, sull’esito del procedimento[4].

Se in giudizio risulta palese che, a fronte di un’attività vincolata, la partecipazione del privato non avrebbe potuto in alcun modo condizionare l’esito del procedimento, allora anche in questo caso opera una sorta di sanatoria del provvedimento amministrativo, che risulta illegittimo ab origine ma non annullabile[5].

Si tratta di un’innovazione importante perché evidenzia come al torto formale della Pubblica Amministrazione corrisponda un torto sostanziale del privato, la cui pretesa risulta palesemente infondata, tale da non consentire l’annullamento del provvedimento e il rinnovato esercizio del potere amministrativo.

A tale approdo il giudice deve giungere in via immediata, liquida, senza necessità di compiere ulteriori accertamenti, in quanto la sede privilegiata per lo svolgimento dell’istruttoria e il contemperamento dei vari interessi in gioco è quella del procedimento amministrativo, e non giurisdizionale.

Argomentando diversamente, si legittimerebbe un’indebita ingerenza del giudice in un’attività preposta alle cure della Pubblica Amministrazione, oltre che una lesione del fondamentale principio di ragionevole durata del processo, costituzionalizzato all’articolo 111.

Il secondo periodo del comma 2 dell’articolo 21 octies si concentra, invece, sulla particolare ipotesi in cui sia mancata la comunicazione di avvio del procedimento.

In tal caso, il tenore letterale della norma lascia presumere, ad un’attenta analisi, che non sia sufficiente l’evidenza del contenuto vincolato del provvedimento: alcuni autori hanno sottolineato che la disposizione in esame può operare anche a fronte dell’esercizio di un’attività amministrativa discrezionale, in cui non è sempre agevole per il giudice individuare la ratio della scelta amministrativa.

Nel caso di specie, la disposizione pone l’onere in capo alla Pubblica Amministrazione di dimostrare in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso.

Si tratta, a ben guardare, di una probatio diabolica, specie laddove venga in rilievo l’esercizio di attività amministrativa discrezionale.

Solo l’allegazione, da parte del privato, dell’interesse che questi avrebbe fatto valere in sede procedimentale in caso di conoscenza di avvio del procedimento potrebbe infatti consentire alla Pubblica Amministrazione di dimostrare in giudizio che, laddove essa fosse stata edotta di tutti gli interessi in gioco per una determinata decisione, il contenuto del provvedimento non sarebbe comunque mutato.

Quindi il 21 octies in questa parte sembra prevedere un doppio onere: un onere di allegazione in capo al privato che impugna il provvedimento affetto da un particolare vizio procedimentale e un onere di confutazione in capo alla Pubblica Amministrazione la quale, al fine di salvare il provvedimento, potrebbe anche procedere ad integrare successivamente la motivazione dello stesso.

La valorizzazione di questi due momenti consente al giudice di effettuare un sindacato di legittimità anche a fronte di un’attività puramente discrezionale, senza il rischio che si configuri un’inedita ipotesi di giurisdizione di merito.

3. La controversa natura del 21-octies

In dottrina e in giurisprudenza sono state elaborate diverse tesi sulla natura della disposizione di cui all’articolo 21-octies e sulla ratio della sua introduzione nella legge sul procedimento amministrativo.

Si tratta di una norma che ha posto di frequente dubbi sulla propria costituzionalità, in quanto ci si chiede se sia accettabile una tale menomazione del diritto del privato di cui agli articoli 24 e 113 della Costituzione, idonea a privare di tutela la posizione giuridica vantata dal cittadino rispetto ad un provvedimento illegittimo[6]

Una prima tesi professa l’idea secondo la quale si tratterebbe dell’applicazione, a livello normativo, del principio del raggiungimento dello scopo.

L’articolo 156 c.p.c al comma 3 stabilisce infatti che l’atto raggiunge lo scopo quando, pur essendo invalido in astratto, tale invalidità venga reputata in concreto irrilevante in ragione del fatto che, da un’indagine operata ex post dal giudice, emerga che lo scopo dell’atto è stato comunque raggiunto.

In particolare, tale tesi ha trovato terreno fertile con riferimento alle ipotesi di violazione dell’articolo 7 della legge 241 del 1990, in tutte le ipotesi in cui vi sia un atto equipollente alla formale comunicazione.

Tuttavia, ad un’attenta analisi della disposizione non può ritenersi che l’art. 21-octies codifichi il principio di sanatoria del vizio procedimentale per raggiungimento dello scopo, in quanto il legislatore del 2005 ha certamente voluto superare la ratio del suddetto principio.

L’articolo 156 c.p.c reputa irrilevante la violazione delle norme sul procedimento o sulla forma dell’atto, in quanto essa consente che il vizio sia sanato prima ancora che trasmetta la sua invalidità al provvedimento, che non è illegittimo: l’articolo 21-octies, al contrario, è destinato ad operare in ipotesi più gravi e ogniqualvolta si evinca che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto comunque essere diverso nonostante il vizio.

Un’ulteriore tesi ha prospettato l’applicazione dell’articolo 21-octies in tutte le ipotesi di irregolarità dell’atto amministrativo: si tratta di una figura di elaborazione pretoria che indica uno scostamento minimale del provvedimento rispetto la norma.

Il provvedimento, a differenza di quanto viene contemplato dall’articolo 21-octies, non sarebbe dunque illegittimo.

Una terza tesi avallata da parte della dottrina ritiene che il vizio contemplato dall’articolo 21-octies possa essere sanato dal provvedimento che conclude il procedimento amministrativo, parlando a tal proposito di emanazione di un provvedimento sanante.

La tesi prevalente in giurisprudenza, e certamente da accogliere, ritiene che l’articolo 21-octies abbia una valenza più processuale che sostanziale: la valenza processuale della norma determina che il provvedimento non possa essere annullato non perché affetto da una forma peculiare di invalidità, bensì perché la circostanza che il suo contenuto non possa essere diverso-accertabile in maniera liquida dal giudice-priva il ricorrente dell’interesse ad adire le vie giurisdizionali.[7]

Evidente risulta, dunque, lo spirito deflattivo della disposizione in oggetto, la quale opera estensivamente anche con riferimento al potere di annullare un provvedimento d’ufficio da parte della Pubblica Amministrazione.

4. La violazione dell’articolo 10-bis e risvolti applicativi

La legge 15/2005 ha introdotto nel corpus della legge 241/1990 l’articolo 10-bis, il cui contenuto è da ritenersi certamente rilevante: la norma infatti stabilisce che, nei procedimenti a istanza di parte, il responsabile del procedimento o l’organo competente, prima di adottare formalmente il provvedimento di diniego, comunica tempestivamente a coloro che hanno determinato l’avvio del procedimento i motivi che ostano all’accoglimento dell’istanza.

L’alveo applicativo di tale istituto è limitato ai procedimenti avviati su istanza di parte e non comprende, per espressa esclusione di legge, le procedure concorsuali e i procedimenti in materia previdenziale e assistenziale gestiti dagli appositi Enti.

Entro dieci giorni dal ricevimento della suddetta comunicazione, i soggetti destinatari hanno il diritto di presentare per iscritto le loro osservazioni eventualmente corredate da documenti.

La ratio sottesa alla norma è ben chiara: essa garantisce un’ulteriore fase di contraddittorio scritto tra il privato e la Pubblica Amministrazione procedente, con un chiaro intento difensivo nei confronti dell’istante.

Al privato infatti viene riconosciuta, di fronte ad una proposta di provvedimento negativo, la possibilità di confutare e contestare tale proposta mediante asserzioni miranti a far rilevare la illegittimità della decisione amministrativa.

La Pubblica Amministrazione, dal canto suo, ove ritenga di non poter accogliere le argomentazioni prospettate dal privato e di non modificare la decisione di rigetto, è tenuta a motivare in modo puntuale e analitico la propria posizione, senza limitarsi a parafrasare quanto già espresso nella comunicazione di cui all’articolo 10-bis.

In secondo luogo, specie ove ritenga che le argomentazioni siano tali da rendere errati i motivi di un eventuale diniego, non potrà adottare un provvedimento negativo adducendo ragioni nuove non emergenti dalla decisione comunicata preventivamente al privato.

Si evince dunque anche una funzione deflattiva dell’articolo in questione, in quanto il legislatore ha inteso alimentare un momento di confronto tra la PA e il richiedente precedente ad un eventuale giudizio di impugnazione del provvedimento negativo di fronte al GA[8].

Tuttavia, la locuzione utilizzata dal legislatore è tale da includere, con certezza, tutti i casi in cui l’istanza del privato è destinata ad essere interamente rigettata.

Più problematica risulta l’ipotesi in cui la PA intenda accogliere solo in parte la domanda del privato.

Al riguardo, occorre distinguere tra due ipotesi: la prima concerne il caso in cui il privato, nonostante il parziale accoglimento della propria istanza, sia ugualmente riuscito a conseguire l’utilitas finale auspicata; la seconda ipotesi, invece, si verifica laddove il provvedimento accordi soltanto in parte il bene della vita costituente oggetto dell’interesse del privato, con un’inevitabile deminutio dello stesso.

Soltanto in quest’ultima ipotesi deve infatti ritenersi che l’Amministrazione sia obbligata a comunicare formalmente i motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza[9].

La giurisprudenza è unanime nel ritenere che il preavviso di rigetto comunicato dalla Pubblica Amministrazione non integri un provvedimento amministrativo bensì un atto endoprocedimentale, per natura inidoneo a ledere autonomamente la sfera giuridica del destinatario, dal momento che la PA potrebbe assumere in un secondo momento una decisione differente.

Il provvedimento finale dovrà indicare a sua volta le ragioni della determinazione assunta dall’Amministrazione procedente: in particolare, l’articolo 10-bis stabilisce che, qualora gli istanti abbiano presentato osservazioni, il responsabile del procedimento è tenuto a dar ragione del loro eventuale mancato accoglimento in sede di motivazione del provvedimento finale[10].

Dopo le modifiche apportate dal Decreto Semplificazioni nel 2020[11], l’articolo 10-bis pone un limite al riesercizio del potere in caso di annullamento giurisdizionale del provvedimento adottato in seguito al preavviso di rigetto, impedendo alla Pubblica Amministrazione di addurre per la prima volta motivi ostativi già emergenti dall’istruttoria del provvedimento annullato.

A tal proposito, alcuni autori ritengono che la norma sembri riecheggiare la teoria di elaborazione pretoria del cosiddetto one shot temperato, secondo la quale, dopo l’annullamento in giudizio per difetto di motivazione, la PA deve inserire nel nuovo provvedimento tutti i motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza, con la conseguenza che, laddove vi fosse un secondo annullamento per difetto di motivazione, non sarà più possibile adottare un terzo diniego.

Tuttavia, il limite al riesercizio del potere non è assoluto, in quanto non sono preclusi all’Amministrazione nuovi motivi ostativi che, non emergenti nell’originaria istruttoria, risultino sussistenti all’esito di un approfondimento istruttorio importo, ad esempio, dallo stesso giudicato di annullamento del primo provvedimento.

In questa sede, tuttavia, preme soffermarsi sulla questione relativa all’ipotesi di mancata comunicazione al privato del preavviso di cui all’articolo 10-bis.

A rigore, alcuni autori ritenevano che in questa ipotesi il provvedimento finale dovesse ritenersi illegittimo: a questa tesi, tuttavia, osta la previsione di cui all’articolo 21 octies comma 2.

In sede di prima applicazione della disposizione non si è registrato un orientamento giurisprudenziale univoco: secondo una parte della giurisprudenza, certamente prevalente, all’omessa comunicazione ex. art. 10 bis poteva applicarsi in via estensiva la disposizione di cui all’articolo 21-octies comma 2, che espressamente menzionava la sola comunicazione di avvio del procedimento.

Di conseguenza, laddove la PA avesse dimostrato in giudizio che il contenuto dispositivo del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato, il provvedimento non sarebbe stato annullabile.

Altra parte della giurisprudenza, invece, non riteneva applicabile l’articolo 21-octies al caso di mancata comunicazione del preavviso di rigetto, sottolineando la valenza marcatamente difensiva dell’articolo 10-bis nei confronti della posizione del privato.

Il legislatore, dal canto suo, ha risolto tale contrasto modificando il secondo comma dell’articolo 21-octies[12]: l’ultimo periodo stabilisce espressamente che le disposizioni di cui al secondo periodo della norma non si applicano al provvedimento adottato in violazione dell’articolo 10bis.

5. La convalida del provvedimento amministrativo illegittimo, con particolare riferimento al vizio di motivazione

Un ulteriore strumento di sanatoria del provvedimento amministrativo è rappresentato dalla convalida, inquadrabile tra i provvedimenti di secondo grado ad esito conservativo.

La convalida ha la medesima finalità conservativa del corrispondente istituto di civilistico di cui al 1444 c.c., ma se ne differenzia profondamente in quanto l’unico soggetto legittimato ad esercitare il potere di convalida è la Pubblica Amministrazione, lo stesso soggetto che ha creato il vizio[13].

Già prima dell’entrata in vigore dell’articolo 21-nonies[14], la giurisprudenza ammetteva pacificamente la possibilità per la PA di convalidare i precedenti atti viziati, anche laddove il provvedimento avesse già prodotto in tutto o in parte i suoi effetti.

Anche per gli atti illegittimi, tuttavia, non tutti i vizi possono essere emendati da un provvedimento di convalida, in quanto esso presuppone che il contenuto sostanziale del provvedimento rimanga inalterato.

La convalida riguarda dunque solo i vizi di tipo formale e procedimentale, ivi compreso quello di incompetenza (relativa); la stessa è inammissibile con riferimento agli atti nulli, che sono giuridicamente inesistenti e che non possono rimanere in vita mediante la rimozione del vizio.

Di recente il Consiglio di Stato ha reso una pronuncia[15] con particolare riferimento al difetto di motivazione, i cui principi possono essere sintetizzati come di seguito.

Se l’inadeguatezza della motivazione riflette un vizio sostanziale della funzione-in termini di contraddittorietà, sviamento, travisamento, difetto dei presupposti- il difetto degli elementi giustificativi del potere non può giammai essere emendato, tantomeno con un mero ritocco della motivazione: l’atto illegittimo, dunque, dovrà essere ugualmente annullato, nei termini di decadenza.

Laddove invece la carenza di motivazione corrisponda unicamente ad un’insufficienza del discorso giustificativo-formale, ovvero al non corretto riepilogo della decisione presa, si è di fronte ad un vizio formale dell’atto e non della funzione: in tale caso, non vi sono ragioni per non riconoscersi all’Amministrazione la possibilità di riaprire il procedimento, munendo l’atto originario di un’argomentazione giustificativa sufficiente e lasciandone ferma l’essenza dispositiva[16].

Con riguardo agli effetti del provvedimento di convalida, la giurisprudenza prevalente ritiene che gli atti attraverso i quali si manifesta la cosiddetta convalescenza del provvedimento amministrativo producano effetti ex tunc[17].

Tale tesi induceva a ritenere non convalidabile l’atto in corso di giudizio, ipotesi che invece, oggi, è generalmente ammessa: l’unico limite alla convalida sarebbe, dunque, l’intervenuto annullamento dell’atto da convalidare, in seguito al quale l’Amministrazione può al massimo adottare un nuovo provvedimento.

6. Conclusioni

La modifica legislativa del 2005 è figlia della riflessione sul fatto che il processo amministrativo non sia un semplice giudizio sull’atto amministrativo, ma un giudizio sul rapporto: in determinate ipotesi, l’analisi del rapporto tra Pubblica Amministrazione e privato si traduce inevitabilmente in un giudizio sull’atto.

Un’ulteriore prova di questa evoluzione la si può rinvenire nelle norme che disciplinano l’azione avverso il silenzio inadempimento della Pubblica Amministrazione.

Tale istituto ha origine esclusivamente giurisprudenziale, e la dottrina, già dagli anni Quaranta, ha attribuito un significato diverso al dovere di provvedere, conferendo al silenzio non più valore di rifiuto bensì di comportamento inadempiente[18].

L’istituto ha assunto valore significativo solo dopo il superamento della visione meramente impugnatoria del processo amministrativo, dal momento in cui sono stati riconosciuti al giudice maggiori poteri ordinatori e cognitori, per mezzo dei quali è permesso lo svolgimento del giudizio anche sul rapporto e non esclusivamente sull’atto, qualificando così il silenzio non significativo come inadempimento della PA. 

In particolare, l’articolo 31 del c.p.a., al comma 3, attribuisce al giudice il potere di pronunciarsi sulla fondatezza della pretesa avanzata dal privato a fronte di un’attività amministrativa vincolata ovvero laddove non siano necessari ulteriori accertamenti istruttori.

La differenza rispetto all’articolo 21 octies è da rinvenirsi nel fatto che, mentre nel primo caso il giudice si trova di fronte ad un provvedimento illegittimo ma non annullabile, nell’ipotesi dell’articolo 31 il giudice non solo potrà censurare il comportamento della Pubblica Amministrazione inadempiente, ma potrà contestualmente condannare la stessa ad un facere, a fronte di una pretesa privata palesemente fondata.


Note e riferimenti bibliografici

[1] Per approfondire, si rinvia a Allegretti U. Il pensiero amministrativistico di Giorgio Berti: l’Amministrazione capovolta in “JUS”. 2-3\2007. 371-387

[2] Scoca F.G. Diritto Amministrativo. Torino, G.Giappichelli. 2019, VI edizione Scoca F.G. Diritto Amministrativo. Torino, G.Giappichelli. 2019, VI edizione

[3] Cfr. Ledda F. Scritti giuridici, CAEDAM. 2002

[4] Ferrara R., Introduzione al diritto amministrativo, Laterza, Roma-Bari, 2014

[5] Clarich M., Manuale di diritto amministrativo. Il Mulino, 2017.

[6] Chieppa R., Giovagnoli R. Manuale di Diritto Amministrativo. Giuffrè, Milano. 2022

[7] Ex plurimis, Consiglio di Stato Sez. VI, sent. n. 4218/2014

[8] Scoca F.G. Diritto Amministrativo. Torino, G.Giappichelli. 2019, VI edizione Scoca F.G. Diritto Amministrativo. Torino, G.Giappichelli. 2019, VI edizione

[9] Sul punto, cfr. Chieppa R., Giovagnoli R. Manuale di Diritto Amministrativo. Giuffrè, Milano. 2022

[10] Si parla a tal proposito di duplicazione motivazionale

[11] Si fa riferimento al decreto legge n. 76/2020

[12] Il comma 2 è stato modificato dall'art. 12, comma 1, lett. d) del D.L. 16 luglio 2020, n. 76

[13] Scoca F.G. Diritto Amministrativo. Torino, G.Giappichelli. 2019, VI edizione

[14] L’articolo 21-nonies, inserito nel corpus della legge 241/1990 dalla l. 11/2005, prevede al comma 2 che “è fatta salva la possibilità di convalida del provvedimento annullabile, sussistendone le ragioni di interesse pubblico ed entro un termine ragionevole”.

[15] Cons. Stato, n. 3385/2021

[16] Chieppa R., Giovagnoli R. Manuale di Diritto Amministrativo. Giuffrè, Milano. 2022

[17] Cfr. Consiglio di Stato sent. n. 3448/2003

[18] Sandulli A. M., Questioni recenti in tema di silenzio della Pubblica Amministrazione, in Foro Italiano, 1949, 128 s.s.