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Pubbl. Mer, 1 Feb 2023
Sottoposto a PEER REVIEW

Summum ius summa iniuria: l´esenzione IMU discrimina la famiglia e le unioni civili

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Giacomo Vivoli
Professore incaricatoUniversità degli Studi di Firenze



Il contributo analizza la recente sentenza n. 209/2022 con la quale la Corte costituzionale ha ritenuto illegittima l´agevolazione fiscale ai fini IMU nella parte in cui comprendeva il riferimento al ”nucleo familiare”; la decisione, al di là degli aspetti meramente tributari, mette in evidenza come la precedente disposizione determinasse la lesione di valori costituzionali fondamentali.


ENG

Summum ius summa iniuria: the IMU (Municipal Property Tax) exemption discriminates against the family and civil unions

This paper addresses the recent sentence no. 209/2022 with which the Constitutional Court declared illegitimacy of tax relief of municipal property tax (IMU) in the part in which it included the reference to the ”family nucleus”; the decision, beyond the purely tax aspects, highlights how the previous provision led to the violation of fondamental constitutional values.

Sommario: 1. Il dubbio sollevato dal giudice a quo; 2. Excursus storico normativo sulla disciplina IMU; 3. Il “diritto vivente” e la mancata deferenza verso il MEF; 4. L’intervento della Corte costituzionale quale unica via per il giudice a quo; 5. La vera causa del vulnus: il cambio di prospettiva della Corte nell’ordinanza n. 94 del 2022; 6. Conclusioni: la sentenza n. 209 del 2022, una decisione a “rime già usate”.

1. Il dubbio sollevato dal giudice a quo

Con la sentenza n. 209 del 2022 la Corte costituzionale risolve una questione in materia di fiscalità locale ma la decisione guarda ben oltre le mere implicazioni tributarie e rimedia ad una situazione irragionevole e discriminatoria che da anni, in spregio alla Costituzione, puniva le famiglie e le unioni civili[1]; prendendo spunto dal caso che le si presenta, la Corte alza lo sguardo e passando prima per il tramite di una pronuncia di autorimessione a sé decide poi riportando le lancette indietro nel tempo, al 2011, “riesumando” il concetto di abitazione principale come pensato dal legislatore in sede di primo concepimento dell’IMU.

L’espressione utilizzata dalla Corte nella sentenza che sembra più emblematica per rappresentare la ratio della decisione è che «[n]el nostro ordinamento costituzionale non possono trovare cittadinanza misure fiscali strutturate in modo da penalizzare coloro che, così formalizzando il proprio rapporto, decidono di unirsi in matrimonio o di costituire una unione civile».

La questione di legittimità costituzionale ruotava attorno alla debenza dell’IMU sull’abitazione principale; più precisamente, il punctum dolens risultava la portata della misura agevolativa che ne determinava l’esenzione[2]; e può sembrare quasi paradossale come sia stato proprio l’inserimento in essa da parte del legislatore dell’espressione “nucleo familiare” che abbia poi determinato le plurime lesioni dei valori costituzionali accertate con la sentenza.

Partendo dall’origine del caso, l’ordinanza che dà impulso al giudizio giunge dalla CTP di Napoli dove il contribuente aveva impugnato gli avvisi di rettifica notificati dal Comune di Napoli con i quali gli veniva negata la possibilità di fruire dell’esenzione IMU di cui egli si era avvalso per le annualità dal 2015 al 2018.

Il contribuente contestava le rettifiche per avere invece, a suo parere, il pieno diritto di godere dell’esenzione in quanto residente nell’immobile risultante anche «dimora abituale dell'intero nucleo familiare»; il sussistere di tale duplice condizione gli avrebbe quindi consentito la legittima fruizione del beneficio.

Tuttavia il Comune di Napoli recuperava l’imposta proprio avvalendosi della definizione di “abitazione principale” che riconosce come tale solo quella in cui sia il possessore sia il suo nucleo familiare «dimorano  abitualmente e risiedono anagraficamente»; ma dato che il coniuge risultava aver trasferito sin dal 2012 la sua residenza nel Comune di Scanno, in provincia dell’Aquila, la rettifica si giustificava  per il mancato rispetto della condizione che l’intero nucleo familiare risiedesse nell’immobile; in pratica il cambio di residenza della moglie non avrebbe permesso al contribuente di avvalersi dell’agevolazione per l’accertata “separazione” del nucleo familiare che impediva la qualificazione dell’immobile quale abitazione principale.

Sul punto occorre già una precisazione: da un punto di vista letterale, la disposizione agevolativa, per come scritta, propendeva a favore della rettifica operata dal Comune; la costruzione dell’enunciato lascia poco spazio a slanci ermeneutici e, del resto, non a caso, sarà proprio la rigida struttura della disposizione di favore – diventata in realtà di sfavore – ad aver determinato il formarsi di un granitico diritto vivente in seno alla giurisprudenza di legittimità che, a giudizio del rimettente, rendeva impraticabile una sua diversa interpretazione conforme[3].

Il giudice a quo, dubitando delle conseguenze applicative dell’agevolazione, ha individuato nell’ordinanza di rimessione plurime violazioni di parametri costituzionali[4]; al fine di poter meglio comprendere la complessità delle riflessioni giuridiche sottese alla questione è opportuno prima ricostruire l’evoluzione normativa in materia di IMU e la giurisprudenza che si è formata sulla disposizione che permetteva al contribuente di fruire delle agevolazioni.

2. Excursus storico normativo sulla disciplina IMU

Nella prima versione della disciplina IMU[5] fu stabilito il principio che l’imposta non dovesse trovare applicazione al possesso dell'abitazione principale (ed alle pertinenze), quest’ultima definita come quell’unità immobiliare «nel quale il possessore dimora abitualmente e risiede anagraficamente»[6]; enunciato sostanzialmente confermato nell’art. 13, co. 2 del d.l.  201/2011[7] (convertito con modifiche dalla L. 214/2011) con cui si anticipò, in via sperimentale, l’istituzione dell’imposta a decorrere dal 2012[8]; la novità più significativa in riferimento all’agevolazione fu il ripensamento sul beneficio passando dall’esenzione totale ad una riduzione dell’imposta.

E’ opportuno quindi notare che il legislatore nel momento genetico della nuova imposta plasmata sulle ceneri dell’ICI[9], ai fini della fruizione del beneficio, non faceva alcun riferimento al concetto di “nucleo familiare”; la misura di favore veniva riconosciuta al sussistere di due condizioni oggettive calibrate sul rapporto tra il possessore e l’immobile: residenza anagrafica e dimora abituale.

In ottica comparativa, per venire alla violazione più evidente che il caso porterà davanti alla Corte, dal meccanismo di favore cui si ispirava il quadro normativo pro tempore, conseguiva la neutralità dell’agevolazione rispetto allo status di coniugati[10] o meno dei possessori; difatti se due persone non coniugate possedevano un immobile a testa ed ognuno risiedeva ed aveva dimora abituale nel proprio, entrambe avrebbero fruito dell’agevolazione e anche, ceteris paribus, due persone coniugate; nessuna discriminazione emergeva proprio perché il concetto di  “abitazione principale”- vero e proprio “tramite” per il riconoscimento dell’agevolazione – non dipendeva anche da altre valutazioni sui legami affettivi esistenti tra il possessore ed altre persone.

 Questo iato rappresenta il fulcro su cui farà leva buona parte del ragionamento della Corte  - e che spiega, come si vedrà[11], il cambio di prospettiva motivato nell’ordinanza n. 94/2022 di autorimessione - per giungere a dichiarare l’incostituzionalità della disposizione censurata dal giudice a quo: non è soltanto l’aspetto fiscale in sé della strutturazione dell’agevolazione ma il “combinato disposto” della successiva azione legislativa e del conseguente “diritto vivente” che su di essa si è sviluppato; il risultato finale è stato quello di penalizzare, senza una motivazione costituzionalmente giustificabile, l’esistenza di un legame familiare formalizzato con tutte le conseguenze (e le evidenze) in fatto di discriminazione sull’istituto del matrimonio e dell’unione civile.

Il seme della discriminazione viene piantato con il d.l. 16/2012 convertito con modifiche in L. 44/2012 il cui art. 4, co. 5, lett. a) ha rimodellato alcuni elementi della disciplina e, in particolare, interviene sull’art. 13, co. 2 del d.l. 201/2011 nella parte che definisce il concetto di abitazione principale che assume, a quel punto, la veste del contenzioso poi giunto davanti alla CTP di Napoli; in base alla novella, infatti, per abitazione principale dovrà intendersi l’immobile nel quale il possessore «e il suo nucleo familiare dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente»; è pertanto in questo momento storico che il legislatore ha ritenuto di dover inserire all’interno della disposizione di favore ai fini IMU anche il concetto di “nucleo familiare”[12].

Con lo stesso intervento legislativo viene anche aggiunto un ulteriore periodo che stabiliva, in evidente ottica antielusiva, una limitazione all’agevolazione in presenza di più immobili nello stesso comune; difatti, in casi del genere, se i componenti del nucleo familiare avessero stabilito residenza anagrafica e dimora abituale in immobili diversi, l’agevolazione si sarebbe applicata ad un solo immobile.

L’impostazione generale viene confermata nella L. 147/2013 all’interno di una riforma più articolata che prevedeva l’istituzione dell’imposta unica comunale (IUC) dove confluivano, in realtà, un’imposta, un tributo e una tassa; la IUC si fondava su due presupposti impositivi costituiti, rispettivamente, dal possesso di immobili e dall'erogazione e fruizione di servizi comunali[13].

Nei limiti di quanto interessa[14] con l’art. 1 co. 707 (che non interviene sul concetto di abitazione principale), viene anche inserita nel corpo dell’art. 13, co. 2 la previsione che l’IMU non dovesse applicarsi al possesso dell'abitazione principale e delle pertinenze della stessa con l’esclusione degli immobili classificati nelle categorie catastali A/1, A/8 e A/9; il salto qualitativo avviene quindi nella tipologia del beneficio concesso in quanto, dopo un breve periodo è stata riconosciuta solo una agevolazione, si ritorna, così come nella versione originaria, ad una esenzione totale dall’imposta salvo i c.d. “immobili di lusso” per i quali, invece,  l’imposta resta dovuta.

 Si giunge quindi alla L. 160/2019 dove, all’interno di un ripensamento dell’imposizione sugli immobili[15], con l’art. 1 co. 741, lett. b) viene confermata la definizione di abitazione principale come prevista dal d.l. 16/2012.

L’ultimo ritocco normativo giunge con il recente d.l. 146/2021 convertito con modifiche nella L. 215/2021; con l’art. 5-decies, co. 1, viene inserita la seguente previsione all’interno dell’art. 1 co. 741 lett. b): «[n]el caso in cui i componenti del nucleo familiare abbiano stabilito la dimora abituale e la residenza anagrafica in immobili diversi situati nel territorio comunale o in comuni diversi, le agevolazioni per l’abitazione principale e per le relative pertinenze in relazione al nucleo familiare si applicano per un solo immobile, scelto dai componenti del nucleo familiare»; in sintesi la disposizione viene integrata stabilendo che, in caso di più immobili, diventa ininfluente ai fini dell’agevolazione dove sia la loro ubicazione.

Mentre la regolazione precedente, al sussistere degli altri presupposti, davanti a due immobili situati nello stesso comune, limitava l’agevolazione ad un solo di essi, niente specificava nell’ipotesi in cui questi fossero localizzati in comuni diversi; ed è proprio nel vuoto creato da questo “silenzio normativo” che si è sviluppata una tensione ermeneutica.

Sia per una miglior contezza delle dinamiche giuridiche sottese alla sentenza n. 209 del 2022, sia per comprendere meglio il motivo per cui il legislatore è stato indotto, con l’art. 5-decies, co. 1 del d.l. 146/2021, a rimodulare la portata applicativa della disposizione occorre tener conto dell’evoluzione interpretativa avvenuta in seno alla giurisprudenza di legittimità.

3. Il “diritto vivente” e la mancata deferenza verso il MEF

Riepilogando brevemente quanto sin qui visto è con il d.l. 16/2012 che viene integrato il concetto di abitazione principale ai fini IMU inserendovi anche il riferimento al “nucleo familiare”; inoltre, in caso di due immobili ubicati nello stesso comune, fu aggiunto che l’agevolazione spettava soltanto per uno di essi, tacendo invece la disposizione se essi fossero situati in comuni diversi; solo con il recente d.l. 146/2021 il legislatore ha chiarito che anche in tale ipotesi l’esenzione spetta, comunque, almeno per un immobile.

L’ultimo aggiustamento nasce come reazione a quanto nel frattempo elaborato dalla Corte di cassazione che, in un primo momento, giungeva ad attribuire al silenzio normativo il significato di limitare la portata dell’agevolazione anche al caso di immobili situati in comuni diversi; in tale ipotesi ai coniugi il beneficio spetterebbe, al massimo, solo per uno di essi e non su entrambi come si poteva anche ipotizzare.

Infatti, su quest’ultimo aspetto, merita di essere riportata la diversa posizione assunta dal MEF nella circolare 3/DF del 2012 dove, nel compiere un’ampia ricognizione sull’IMU ed affrontandone sia aspetti generali che puntuali, prendeva una chiara posizione sullo specifico “vuoto” legislativo; in particolare, dopo aver rilevato l’intento antielusivo della disposizione in quanto volta ad «impedire che, nel caso in cui i coniugi stabiliscano la residenza in due immobili diversi nello stesso comune, ognuno di loro possa usufruire delle agevolazioni dettate per l’abitazione principale e per le relative pertinenze»[16], veniva però osservato come, nella diversa ipotesi di immobili siti in comuni diversi, la mancanza di specificazione del legislatore poteva essere interpretata considerando che «il rischio di elusione della norma è bilanciato da effettive necessità di dover trasferire la residenza anagrafica e la dimora abituale in un altro comune, ad esempio, per esigenze lavorative»[17]; il MEF riconosce quindi una ratio alla stretta sull’agevolazione davanti a situazioni di prossimità - che possono presupporre comportamenti elusivi -, ma ritiene che, invece, le esigenze sottese ad essa sfumino e perdano di consistenza se gli immobili diventano più distanti[18]; in tal caso si può infatti almeno presupporre che la scelta dei possessori non sia influenzata da considerazioni di natura fiscale ben potendo entrare in gioco fattori diversi quali il trasferimento per motivi di lavoro.

Tuttavia, nonostante la posizione interpretativa “accomodante” del MEF la Corte di cassazione ne ha assunta una più rigida in nome del principio di stretta applicazione di una disposizione agevolativa[19]che impedisce – anche per evitare il rischio di incentivare comportamenti elusivi - una sua interpretazione estensiva o analogica; il rigore interpretativo ha condotto anche a ritenere che mere separazioni di fatto, senza adeguate formalizzazioni giuridiche, risultino del tutto prive di rilievo[20]; infatti soltanto davanti a rotture definitive del nucleo familiare, vista l’incidenza diretta che il concetto riverbera in quello di abitazione principale, i giudici si sono dimostrati disponibili a riconoscere come quest’ultima non possa più essere identificata con la casa coniugale[21] con le relative conseguenze ai fini dell’agevolazione.

Ma il percorso ermeneutico non si è fermato nel negare una agevolazione che invece il MEF aveva ipotizzato come ammissibile; il passaggio ulteriore e maggiormente intriso di elementi discriminatori è stato quello di disconoscere l’agevolazione per entrambi gli immobili.

 Il ragionamento ruota sempre attorno al concetto di nucleo familiare che, nelle parole degli ermellini, «resta unico, ed unica, pertanto, potrà essere anche l’abitazione principale ad esso riferibile»; da questa premessa di partenza si giunge ad impostare una equazione giuridica dal risultato e dalle conseguenze disarmanti: l’intangibilità del nucleo familiare determina che se il contribuente dimora «in un immobile di cui sia proprietario (o titolare di altro diritto reale), non avrà alcun diritto all’agevolazione se tale immobile non [costituisce] anche dimora abituale dei suoi familiari, non realizzandosi in quel luogo il presupposto della “abitazione principale” del suo nucleo familiare»[22]; in sintesi o tutti i componenti del nucleo familiare hanno residenza e dimora abituale nello stesso immobile o l’agevolazione non spetta; e a quel punto non spetta per nessun immobile.

Ed è proprio in reazione a questo approdo giurisprudenziale, giunto a negare l’agevolazione in assenza dello scenario da “unico focolare” in cui tutti i componenti del nucleo familiare risiedano e dimorino nello stesso immobile, che il legislatore è intervenuto, in via d’urgenza, con il d.l. 146/2021 convertito in L. 215/2021 dove viene ritoccato chirurgicamente l’art. 1, co. 741, lett. b) della L. n. 160/2019 facendogli assumere la forma vigente al momento della sentenza della Corte costituzionale[23] sanando così la distorsione più evidente cui era giunto l’approdo giurisprudenziale.

Ripercorsi, seppur sinteticamente, l’excursus normativo della disciplina IMU e l’evoluzione interpretativa che nel tempo si è formato nella giurisprudenza di legittimità è adesso possibile, con maggior contezza, affrontare il contenuto dell’ordinanza di rimessione del giudice a quo.

4. L’intervento della Corte costituzionale quale unica via per il giudice a quo

Come già accennato la CTP di Napoli dubita che le conseguenze applicative della disposizione agevolativa siano rispettose di alcuni riferimenti costituzionali; in altri termini la disposizione di favore, per com’è scritta, crea delle distorsioni non compatibili con l’ordinamento costituzionale[24].

Peraltro, l’esistenza di un diritto vivente - come prima riassunto - rappresenta anche l’elemento che impedirebbe al giudice del rinvio di ricercare un’altra strada interpretativa costituzionalmente orientata che, come noto, rappresenta un tentativo che deve essere esperito pena l’inammissibilità della questione sollevata[25]; in effetti, la situazione che si palesa davanti ha assunto, nel tempo, una consistenza tale da rappresentare un ostacolo difficile da scavalcare per qualsiasi altra soluzione ermeneutica.

In primis c’è il dato letterale dell’enunciato che, risultando privo di elementi ambigui, non risulta idoneo alla prospettazione di altre ipotesi interpretative; sul punto anche la Corte costituzionale ha chiarito che qualora una disposizione non consenta una interpretazione diversa da quella adottata dal giudice a quo «l’univoco tenore della norma segna il confine in presenza del quale il tentativo interpretativo deve cedere il passo al sindacato di legittimità costituzionale»[26]; in tali casi pertanto non soltanto il giudice a quo può ma deve rivolgersi alla Corte.

Il secondo elemento è rappresentato dalla natura della disposizione che, essendo di favore, vede escludere la sua applicazione ad ipotesi che non risultano esplicitamente previste; già nella sentenza n. 292 del 1987 la Corte, davanti ad una esenzione parziale fissò il principio che essa non potesse essere suscettibile di interpretazione estensiva; inoltre chiarì, in ottica di deferenza e self restraint, che soltanto il legislatore statale ne può motivatamente disporre[27]; e non vi sono motivi per negare l’applicazione di tale principio nel caso specifico della disciplina di favore ai fini IMU[28].

Infine, come elemento che rafforza l’impraticabilità di una diversa interpretazione conforme, c’è la constatazione da parte del giudice rimettente dell’esistenza di un diritto vivente “univoco”; su quest’ultimo aspetto si ritiene opportuno aprire una breve parentesi di richiamo volta in particolare a offrire alcuni riferimenti nel complesso rapporto triangolare che si realizza tra Corte costituzionale, Corte di Cassazione e giudice del rinvio sui “confini” dell’interpretazione.

A monte di tutto occorre ricordare come vi sia il noto assunto elaborato dalla Corte costituzionale in base al quale «in linea di principio, le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali (e qualche giudice ritenga di darne), ma perché è impossibile darne interpretazioni costituzionali»[29]; il tema è ovviamente enorme è apre molteplici profili complessi per cui si richiamano solo quegli elementi minimi in relazione al caso in analisi.  

La teorica del diritto vivente si pone davanti a fattispecie non dettagliatamente disciplinate in cui, inevitabilmente, la funzione interpretativa assume più rilevanza; in casi del genere si apre un possibile “terreno di scontro” tra giurisprudenza costituzionale e quella non costituzionale per stabilire a chi competa, nel rispetto dei reciproci ruoli, l’ultima parola sul diritto a interpretare; diritto che, almeno in prima battuta, non può che essere assegnato alla Corte di Cassazione[30] per la sua fondamentale funzione nomofilattica svolta nell’interesse dell’ordinamento; allo stesso modo, del resto, nessun giudice è in grado di imporre al giudice delle leggi come interpretare il testo costituzionale.

Elementi dai quali poter tracciare il reciproco confine sono ricavabili dalla sentenza n. 124/2019 dove viene precisato come, di fronte a una puntuale motivazione offerta della Cassazione, la Corte costituzionale non sia «chiamata a fornire una propria interpretazione della disposizione censurata, ma unicamente a verificare la compatibilità dell’interpretazione fornitane dal diritto vivente con le superiori norme costituzionali»; quindi seppure il rispetto dell’equilibrio tra poteri interpretativi imponga, di regola, la deferenza del giudice delle leggi al risultato interpretativo elaborato del giudice a cui il sistema ha attribuito compiti nomofilattici, ciò non impedisce alla Corte costituzionale, in via eccezionale, di poter abbandonare  il proprio self-restraint, nel caso in cui l’interpretazione offerta dal diritto vivente, sconfinando nell’illegittimità costituzionale, imponga un rimedio[31]; è evidente inoltre che la tensione sale davanti a sentenze della Corte costituzionale meramente interpretative.

La dottrina non ha mancato di evidenziare come non sia pacifico fornire una definizione univoca del diritto vivente[32] ma che esso presupponga «una condizione di uniformità delle interpretazioni-applicazioni della legge» da intendersi come un «consistente orientamento prevalente»[33].

La Corte costituzionale, nel valutare le condizioni di una sua esistenza o meno, ha precisato come non risultino sufficienti orientamenti emersi in seno alla giurisprudenza di merito[34] ma possano rilevare solo quelli espressi dalla Cassazione[35]; non ha inoltre esitato ad accertarne l’esistenza in presenza di una sola sentenza a sezioni unite[36] oppure anche davanti ad una sola sentenza di sezione se seguita dalla giurisprudenza di merito e sostenuta dalla dottrina[37].

Inoltre il tentativo da parte del giudice a quo di interpretazione conforme assume per la Corte costituzionale un rilievo diverso in funzione del riconoscimento o meno della presenza di un diritto vivente che si sia formato sulla disposizione di cui egli dubita della legittimità costituzionale; difatti, mentre in assenza di un diritto vivente la Corte considera lo sforzo ermeneutico un vero e proprio dovere del giudice, la sua accertata esistenza, d’altra parte, non può trasformarsi in un vincolo che gli impedisca una propria valutazione ermeneutica al caso che gli si presenta[38].

Quindi tentando un quadro di sintesi, consapevoli che la realtà risulti più complessa e sfuggente di ogni schematica rappresentazione, l’interpretazione delle disposizioni, ossia la trasformazione degli enunciati in significati, è compito, in ultima istanza, della Corte di Cassazione; la Corte costituzionale tende ad accettare gli orientamenti ermeneutici che in essa si formano, salvo intervenire, qualora il diritto vivente determini una violazione degli equilibri costituzionali. 

Richiamati, seppur brevemente, i basilari riferimenti teorici su cui ruota la complessa questione del diritto vivente passiamo ad affrontare gli elementi specifici che caratterizzano il caso in analisi; la CTP di Napoli ritiene come, nonostante le decisioni della Corte di cassazione non si possano definire numerose, in esse non si possa che individuare un chiaro indirizzo univoco in relazione all’interpretazione della disposizione, nel senso chiaro di negare l’esenzione al contribuente ricorrente.

A conferma di come la questione si sia ormai consolidata nell’ordinamento, l’ordinanza segnala come anche l’unica voce contraria, quella del MEF[39], sia venuta meno; viene infatti riportata la risposta fornita nell'ambito dell'interrogazione n. 5-06286 («Esenzione dell'IMU per la prima casa per componenti di nuclei familiari residenti in immobili diversi») svolta durante i lavori della VI Commissione permanente finanze della Camera in data 23 maggio 2021 nella quale è stato affermato che «Il Dipartimento delle Finanze non può che prendere atto dell'orientamento espresso dalla Corte di cassazione, alla quale è affidato in ultima istanza, nel nostro ordinamento giuridico, il compito di fornire l'interpretazione della legge»; quasi come a lanciare comunque un “grido” la risposta prosegue precisando che, una volta chiarito quanto del resto dovuto, «gli uffici dell'amministrazione finanziaria sono disponibili, ove sussistesse la volontà politica, a predisporre una norma che introduca chiarezza»; difficile poter pretendere di più dalla struttura che istituzionalmente è preposta a massimizzare gli introiti; peraltro, come già evidenziato, il legislatore  qualche mese dopo è intervenuto rimuovendo la distorsione più evidente, ossia il negare l’esenzione su entrambi gli immobili qualora ubicati in comuni diversi.

In sintesi quindi, alla luce degli elementi che si presentano davanti al giudice del rinvio, l’unica possibilità per rimediare alle conseguenze applicative della disposizione agevolativa è di richiedere l’intervento della Corte costituzionale che, una volta attivata, aggiunge un ulteriore elemento “processuale” alla vicenda.

Infatti, valutate le censure sulla disposizione di favore e la prospettazione dell’ordinanza di rimessione del giudice a quo - e, in particolare, del “verso” che egli indica -, ritiene che il vero vulnus costituzionale risieda a monte ossia nel riferimento al “nucleo familiare” (termine aggiunto, si ricorda, nel concetto di abitazione principale nel 2012 e non presente invece nella versione originaria); la Corte ha ritenuto quindi sussistere le condizioni[40] per sollevare davanti a se stessa questione di legittimità costituzionale dell’art. 13, co. 2 del d.l. 201/2011, come novellato delle successive modifiche, nella parte in cui richiede, ai fini dell’agevolazione, il sussistere della duplice condizione di residenza e dimora abituale non solo per il possessore ma anche per il suo nucleo familiare.

Una volta sorto il dubbio in seno alla Corte che la radice del problema sia in una diversa parte della disposizione sottoposta al suo giudizio, l’ordinanza di autoremissione diventa un passaggio obbligato per la necessità di estendere il thema decidendum il cui perimetro, come è noto, sarebbe altrimenti fissato nell’ordinanza di rimessione “originaria” quale applicazione del principio di corrispondenza tra “chiesto e pronunciato”[41].

5. L’origine del vulnus: il cambio di prospettiva della Corte nell’ordinanza n. 94 del 2022

Dalla ricostruzione del quadro normativo di riferimento in materia di IMU, alla luce anche dell’interpretazione data dalla giurisprudenza di legittimità alla disposizione censurata dal giudice a quo, si possono fissare tutti gli elementi salienti del caso e che tracciano il sentiero verso la decisione della Corte.

In primis l’evoluzione legislativa evidenzia come la modifica apportata nel 2012 - ossia l’inserimento del concetto di “nucleo familiare” in quello di abitazione principale -, ha l’effetto di trasformarne geneticamente la struttura la quale, incardinata inizialmente su elementi di natura oggettiva verificabili in capo al solo possessore, declina la sua portata applicativa dando rilievo anche a fattori di natura soggettivo-relazionale con i suoi familiari più stretti.

Su tale slittamento, già criticabile in sé in funzione della natura reale dell’imposta[42], si inserisce l’evoluzione ermeneutica della Corte di cassazione che, nel silenzio della disposizione e nonostante la posizione di apertura assunta dal MEF, prima nega la doppia agevolazione su immobili in comuni diversi per poi giungere, addirittura, ad escluderla per entrambi salvo prova di una rottura giuridicamente formalizzata del nucleo familiare.

Occorre osservare come la rigorosa esegesi conduca verso aporie e risultati veramente assurdi nella misura in cui giunge a negare l’agevolazione anche a casi in cui  persino l’argomento antielusivo mosso a giustificazione della stretta al beneficio - cioè la possibile scelta “di comodo” escogitata dai coniugi simulando una “separazione” non affettiva ma solo fisica per motivi di convenienza fiscale -, perde di significato ab origine per l’impossibilità di ottenere una duplice esenzione; difatti, seguendo la linea interpretativa, l’agevolazione risulterebbe negata anche se un coniuge risulta residente altrove in base ad un titolo del tutto irrilevante ai fini dell’IMU quale, ad esempio, un contratto di locazione in quanto lo scenario da “unico focolare” viene comunque meno.

A rendere tutto ancor più “kafkiano” c’è la constatazione che la progressione ermeneutica ad opera dalla Corte di cassazione, dal risultato prima facie iniquo, non è altro che l’applicazione di un principio giuridico di diritto tributario[43] - cioè la necessità di interpretazione restrittiva e non analogica delle agevolazioni fiscali -, che, in sé, non appare criticabile[44]; cautela ed esigenza del resto ribadita anche recentemente dalla stessa Corte costituzionale[45] e confermata nella sentenza in commento[46]; insomma sembra di essere davvero davanti ad una situazione in cui sia lecita l’esclamazione summum ius summa iniuria dove tra interventi legislativi (inconsapevolmente colpevoli) e interpretazioni giurisprudenziali (rigorose ma difficilmente criticabili) si è smarrito il senso generale e spento lo spirito del diritto: i singoli elementi afferenti il caso si combinano diabolicamente realizzando uno scopo probabilmente non voluto da nessuno ma manifestamente discriminatorio.

L’ordinanza di rimessione del giudice a quo si “limitava” però a ritenere incostituzionale l’art. 13, co. 2, del d.l. 201/2011, vigente ratione temporis[47], nella parte in cui non prevedeva l'esenzione dall'imposta se uno dei componenti il nucleo familiare risultava residente o dimorasse in un immobile ubicato in altro comune[48].

A giudizio del rimettente infatti l’agevolazione, per essere compatibile con l’ordinamento costituzionale, avrebbe dovuto essere estesa anche al caso in cui un componente del nucleo familiare risultasse residente in altro comune; l’ordinanza era quindi finalizzata a ottenere il riconoscimento dell’esenzione comunque per un immobile (a prescindere quindi dal comune di ubicazione) e prospettava violazione di una pluralità di riferimenti costituzionali.

In particolare, in merito all’art. 3 della Costituzione, veniva evidenziata l’irragionevole disparità di trattamento tra due situazioni che non appaiono significativamente diverse: quale motivazione costituzionalmente rilevante può essere addotta per giustificare il riconoscimento del godimento dell’agevolazione ai coniugi che hanno diverse residenze in immobili posti nello stesso comune – così è il dato legislativo – ed invece escluderlo nel caso in cui siano ubicati in comuni diversi? Il diverso trattamento risulta fondato soltanto su di un mero e “neutro dato geografico” che non sembra in grado di sviluppare argomentazioni tali da rendere plausibile la distinzione operata dal legislatore.

Il terreno “fiscale” è ovviamente molto delicato in quanto il legislatore non può che conservare una certa discrezionalità nello stabilire gli aspetti generali dell’imposizione e le relative agevolazioni da riconoscere[49] in funzione degli obiettivi di politica generale da realizzare; materia del resto che in Italia risulta essere in perenne discussione in ogni legislatura (compresa la XIX appena iniziata).

In tema di agevolazioni fiscali è opportuno ricordare una recente e importante ricognizione concettuale operata dalla Corte nella sentenza n. 120 del 2020, con giudice relatore sempre il Prof. Luca Antonini, lo stesso della decisione in commento; in quel caso oggetto del giudizio era una agevolazione fiscale in tema di imposta di successioni e donazioni volta a favorire il passaggio generazionale dell’azienda, dei rami aziendali, delle quote sociali e delle azioni; in particolare si trattava di valutare la legittimità costituzionale dell’esclusione del coniuge del dante causa dal novero dei soggetti esentati dal pagamento dell’imposta; l’ordinanza del giudice rimettente, la CTR dell’Emilia Romagna, prospettava un vulnus degli artt. 3 e 29 Cost.

Prima di affrontare il caso nel merito, la Corte, nella sentenza n. 120 del 2020, illustra la dogmatica che ispira l’inquadramento dei possibili benefici fiscali riconosciuti dal legislatore; in particolare rileva la riflessione della Corte che, al fine di poter calibrare il proprio vaglio, pone la preliminare necessità di chiarire in quale species sia inquadrabile la disposizione di favore all’interno dell’esteso genus delle agevolazioni fiscali, «che non rappresentano un “accidente” dei sistemi tributari, quanto piuttosto il modo di risolvere complessi problemi di ponderazione degli interessi e dei valori in gioco in materia di imposizione».

La decisione prosegue descrivendo il delicato equilibrio tra poteri costituzionali e in particolare la distinzione tra il momento legislativo e la pur sempre possibile verifica costituzionale; se i complessi bilanciamenti sottesi all’imposizione fiscale non possono infatti che essere rimessi «in primo luogo alla valutazione discrezionale del legislatore», la scelta resta però sindacabile dalla Corte «sotto il profilo della proporzionalità del bilanciamento operato, in particolare quando viene in causa una vera e propria deroga al dovere di tutti di concorrere alle spese pubbliche in base alla propria capacità contributiva (artt. 2, 3 e 53 Cost.), con ricaduta sulle connesse finalità redistributive e sulle esigenze di finanziamento dei diritti costituzionali (sentenza n. 288 del 2019)».

Dopo aver premesso che le dinamiche, a volte turbolenti e legate anche ad eventi imprevedibili, delle politiche finanziarie possono non essere condizione ideale per il realizzarsi di sistemi fiscali razionali, coerenti e fondati su categorie concettuali omogenee, la Corte ritiene che sia comunque «possibile e opportuno, sul piano della giustificazione costituzionale, operare una distinzione – di massima, poiché le interconnessioni rimangono sempre possibili – tra i diversi istituti agevolativi».

In particolare vengono individuate agevolazioni di carattere strutturale la cui esistenza è motivata da finalità intrinseche al prelievo stesso[50] e altre che invece, nonostante l’esistenza di una capacità contributiva in linea con la logica del tributo, prevedono poi «per motivi extrafiscali, forme di esenzione, di tassazione sostitutiva più favorevole o altre misure comunque dirette a rendere meno gravoso o non incidente il carico tributario in relazione a determinate fattispecie».

Inoltre, per queste ultime, la Corte ritiene possibile individuare una ulteriore distinzione tra quelle in cui «la finalità extrafiscale perseguita dal legislatore appare riconducibile all’attuazione di altri principi costituzionali (quali, a titolo esemplificativo, la tutela della famiglia, del diritto alla salute o lo sviluppo della previdenza) e quelle per le quali, invece, questa prospettiva teleologica non è individuabile»; mancanza quest’ultima però che non  conduce necessariamente, da sola, ad una lesione dei precetti costituzionali a meno che «la finalità extrafiscale non sia in alcun modo riconducibile a motivi attinenti al bene comune e assuma piuttosto il tratto di un mero privilegio»; tuttavia, la Corte non ha mancato di ribadire come anche in presenza di tale mancanza resta fermo il punto che nell’ambito del sindacato sulla violazione del principio di eguaglianza tributaria, si debba adottare comunque «uno scrutinio particolarmente rigoroso sulla sussistenza di una eadem ratio che ne giustifichi l’estensione in riferimento alle fattispecie ritenute escluse».

Riflessione importante in quanto nello sviluppo della motivazione della sentenza n. 209/2022, la Corte inquadrerà l’agevolazione ai fini IMU proprio tra queste ultime, dove quindi risulta massima la discrezionalità del legislatore ma dove, di riflesso, il suo sindacato in termini di “eadem ratio” resta sempre possibile seppur con le cautele appena richiamate; del resto una volta che il legislatore nell’esercizio della propria legittima discrezionalità abbia stabilito, in un certo momento storico, le regole generali del sistema fiscale ha anche l’onere di farsi carico di garantire una certa coerenza interna nella struttura delle agevolazioni; il giudice rimettente del resto non dubitava della compatibilità costituzionale in sé dell’agevolazione quanto sul fatto che il silenzio legislativo – ossia l’assenza di una disposizione specifica nel caso “esocomunale” - e l’interpretazione elaborata dal diritto vivente avessero reso il risultato applicativo della disposizione illogico e discriminatorio; la soluzione prospettata dal rimettente era infatti quella di estendere la portata dell’agevolazione per un immobile, per analogia[51], anche al caso in cui uno dei componenti del nucleo familiare risieda anagraficamente o dimori in altro comune; richiesta che ha il limite di non evidenziare la ferità più profonda che il legislatore ha inferto alla famiglia e all’unione civile.

E’ vero che il giudice a quo solleva anche una violazione in riferimento agli artt. 3, 29 e 31 della Costituzione ponendo in rilievo l’elemento discriminatorio del resto più evidente cioè il fatto che la disposizione risulti «idonea a penalizzare contribuenti coniugati rispetto ai componenti delle famiglie di fatto»; tuttavia la doglianza resta “miope” nella misura in cui focalizza l’irragionevolezza sul fatto che il dato letterale della disposizione di favore - assieme al doveroso rigore esegetico applicato dalla giurisprudenza di legittimità - impedisce ai coniugi di fruire dell’esenzione per entrambi gli immobili; insomma, si ribadisce, per il giudice a quo sarebbe stato sufficiente riconoscere ai coniugi l’esenzione su almeno un immobile; e in tal senso, si ricorda, ha poi agito il legislatore nel 2021.

Ma la Corte eleva la prospettiva di osservazione e si convince, andando oltre la prospettazione del rimettente, a pronunciare una ordinanza di autorimessione[52] ritenendo necessario affrontare una questione che si configura come «logicamente pregiudiziale e strumentale» per definire quella sollevata dal giudice a quo[53].

Il caso insinua nella Corte un dubbio più ampio che non potrebbe essere risolto affrontando solo la questione nei termini prospettati in quanto muta anche la base normativa che determina l’aporia di cui il caso davanti al suo giudizio rappresenta solo un effetto; anche valutando l’esito prognostico la Corte considera che nell’ipotesi di avallare la soluzione prospettata dal rimettente se da un alto, ovviamente, ciò risolverebbe in senso positivo la posizione del contribuente, dall’altro, non verrebbe rimossa dall’ordinamento la fonte identificabile quale generatrice del vulnus; in altri termini la soluzione prospettata non affronterebbe la vera questione di fondo ossia l’irragionevole discriminazione che la disposizione opera nei confronti delle coppie sposate rispetto a quelle conviventi.

Il dubbio di legittimità costituzionale si trasforma in quanto non è più se si debba riconoscere ai coniugi l’esenzione su almeno un immobile ma se sia compatibile con la Costituzione escluderla per entrambi al sussistere delle altre condizioni; ma per affrontare questo aspetto occorre partire dalla definizione di “abitazione principale” nella parte in cui richiama il concetto di “nucleo familiare” che però non era il riferimento censurato nell’ordinanza di rimessione del giudice a quo.

Infatti il petitum risultava circoscritto al quinto periodo dell’art. 13 co. 2 d.l. 201/2011 e la prospettazione del rimettente volta ad ottenere, con pronuncia additiva, il riconoscimento dell’esenzione da IMU anche quando la residenza e la dimora di uno dei componenti del nucleo familiare siano stabilite fuori dal Comune dove è sito l’immobile del possessore; ottenendo in questo modo ciò che il diritto vivente negava.

E’ evidente lo spostamento di prospettiva e l’innalzamento dei valori costitizionali in gioco: non è tanto più un problema di ubicazione endocomunale o esocomunale di immobili; è il favor familias che viene pregiudicato.

Del resto il risultato pratico determinato dal quadro legislativo e interpretativo risulta chiaro: ai fini IMU si ha la massima convenienza ad essere conviventi di fatto rispetto ad essere sposati in quanto nella migliore delle ipotesi, a parità di condizioni di residenza e dimora abituale, alla “formalizzazione” matrimoniale non viene riconosciuta alcuna agevolazione “incrementale” mentre, nella peggiore, entrambi i coniugi dovrebbero pagare l’IMU quando, in caso di convivenza, ambedue ne sarebbero esentati.

Limpida risulterà sul punto la sentenza n. 209/2022, dove si afferma che la norma censurata palesa un contrasto con gli artt. 3, 31 e 53 della Costituzione e «solo indirettamente il tema dell’estensione di un’agevolazione a soggetti esclusi».

La Corte conclude nell’ordinanza n. 94/2022 che le questioni sollevate dal giudice a quo siano «strettamente connesse alla più ampia e pregiudiziale questione derivante dalla regola generale stabilita dal quarto periodo del medesimo art. 13, comma 2, del d.l. n. 201 del 2011, che, ai fini del riconoscimento della suddetta agevolazione, definisce quale abitazione principale quella in cui si realizza la contestuale sussistenza del duplice requisito della residenza anagrafica e della dimora abituale non solo del possessore ma anche del suo nucleo familiare»[54]; meritano di essere evidenziate le motivazioni addotte dalla Corte, nell’ordinanza stessa, in punto di non manifesta infondatezza in relazione agli artt. 3 e 31 Cost.

In relazione all’art. 3, la Corte osserva come, nonostante l’innegabile validità del principio di stretta interpretazione delle disposizioni che introducono agevolazioni fiscali, si può legittimamente dubitare «dell’esistenza di un ragionevole motivo di differenziazione tra la situazione dei possessori degli immobili in quanto tali e quella dei possessori degli stessi in riferimento al nucleo familiare, quando, come spesso accade nell’attuale contesto, effettive esigenze comportino la fissazione di differenti residenze anagrafiche e dimore abituali da parte dei relativi componenti del nucleo familiare».

Dubbio che, sviluppandosi in seno al concetto di famiglia, merita una particolare attenzione in funzione di una evidente tensione tra i possibili effetti della disposizione censurata e il contenuto dell’art. 31 della Costituzione: come si coniuga l’impegno della Repubblica rivolto ad agevolare «con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia» con il fatto che la giurisprudenza di legittimità, sulla base di una interpretazione della stessa disposizione, è giunta a negare l’agevolazione IMU ad ambedue i coniugi per i relativi immobili quando, qualora conviventi, ne avrebbero fruito entrambi?

6. Conclusioni: la sentenza n. 209 del 2022, una decisione a “rime già usate”.

La Corte, accogliendo i dubbi sollevati con l’ordinanza di autorimessione ha dichiarato incostituzionale l’art. 13, co. 2 d.l. 201/2011 e ss.mm. nella parte in cui stabiliva che per abitazione principale si dovesse intendere l’immobile «nel quale il possessore e il suo nucleo familiare dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente», anziché disporre «nel quale il possessore dimora abitualmente e risiede anagraficamente».

La decisione assume una forma ibrida nella misura in cui risulta classificabile tra quelle di natura manipolativa ma si passa da una richiesta di sentenza additiva[55] – in tal senso il “verso” del giudice rimettente - ad una sostitutiva con l’espunzione del riferimento al “nucleo familiare”, risultata la fonte di discriminazione tra persone coniugate rispetto alle convivenze.

 Ma la decisione sembra avere piuttosto natura meramente ablativa tenuto conto che, al di là della rimozione dei due termini, le altre modifiche servono soltanto a rendere grammaticalmente corretto l’enunciato di risulta; si potrebbe anche affermare che la sentenza è formalmente sostitutiva - nella misura in cui dichiara l’illegittimità costituzionale della disposizione utilizzando la formula “nella parte in cui stabilisce/anziché disporre” -, ma sostanzialmente ablativa; la decisione risulta in realtà condizionata dalla costruzione dell’enunciato che non avrebbe permesso l’eliminazione del riferimento al nucleo familiare senza i necessari e conseguenti adeguamenti linguistici.

Con la sentenza n. 209/2022 la Corte ha riportato indietro le lancette del tempo recuperando l’originaria disposizione legislativa introdotta con l’art. 8 del d.lgs. 23/2011 e confermata nell’art. 13, co. 2 del d.l. 201/2011 convertito con modifiche nella L. 214/2011.

L’effetto della sentenza risulta quindi più ampio di quello prospettato dal rimettente che richiedeva una additiva che consentisse il riconoscimento dell’agevolazione per uno degli immobili; la Corte invece prima estende il thema decidendum, per poi riconoscere invece l’agevolazione su entrambi gli immobili al sussistere, ovviamente, degli altri presupposti.

La Corte ritiene fondate le questioni sollevate con riferimento agli artt. 3, 31 e 53, gli stessi parametri oggetto dell’ordinanza di autorimessione.

In riferimento all’art. 3, dopo aver classificato l’agevolazione tra quelle “in senso proprio”, ossia tra quelle in cui l’esenzione è riconducibile a quelle rimesse alla discrezionalità legislativa – e per cui il sindacato sulla eadem ratio dev’essere particolarmente rigoroso da parte della Corte – evidenzia come l’applicazione dell’agevolazione ai fini IMU determini una situazione definita quale “poco lineare” in quanto se i residenti non la pagano questa risulterà a carico dei non residenti che però non votano nel comune che stabilisce l’aliquota; questa distorsione di fondo, che non sarà scalfita dalla decisione della Corte, delinea in effetti una fiscalità locale non proprio ispirata al principio “no taxation without rapresentation” in quanto restano incisi dall’imposta soprattutto i cittadini che non votano nel comune che stabilisce l’aliquota.

Ma questo profilo, ancorché forse meritevole di una qualche riflessione di ordine più generale sul sistema impositivo ai fini IMU, assume scarso rilievo nella valutazione della Corte che sposta l’attenzione sul vulnus che ha prodotto l’introduzione del riferimento al nucleo familiare all’interno della disposizione di favore, divenuto poi l’elemento determinante per negare l’agevolazione ai coniugi.

Preso atto delle attuali dinamiche del mondo del lavoro[56], della presenza di disposizioni che consentono di derogare all’obbligo di coabitazione[57] e che la portata antielusiva risulta argomento non convincente per la possibilità che hanno i comuni di utilizzare altri strumenti di controllo[58], la Corte conclude che la disposizione censurata viola l’art. 3 della Costituzione nella parte in cui introduce il riferimento al nucleo familiare nel definire l’abitazione principale, in quanto disciplina situazioni omogenee in modo ingiustificatamente diverso[59].

La Corte ritiene fondate anche le censure riferite agli artt. 31 e 53 della Costituzione; in particolare, in relazione al primo viene osservato che se la disposizione costituzionale non obbliga a prevedere trattamenti fiscali a favore delle famiglie sicuramente porta ad escludere quelli che determinano una loro penalizzazione; inutile ricordare gli effetti perversi già analizzati in precedenza; emblematica anche la constatazione della Corte che, nonostante il riconosciuto favor costituzionale, il sistema fiscale italiano, sulla base anche di studi elaborati dalla dottrina, si dimostri poi, in concreto, “avaro” nei confronti della famiglia.

Per quanto concerne invece la violazione dell’art. 53 emerge il profilo di contrasto tra la natura reale dell’imposta e il peso che invece ricoprivano, ai fini del riconoscimento dell’agevolazione, fattori di natura relazionale tra il contribuente e il proprio nucleo familiare; elemento di incoerenza che richiederebbe, per non assumere la veste di una arbitraria discriminazione[60], il sostegno di una “ragionevole giustificazione” che la Corte ritiene non sussistere[61].

Nella decisione la Corte avverte anche l’esigenza di puntualizzare come il risultato finale che si vuole realizzare non è assolutamente quello di esentare da imposizione le c.d. “seconde case” di coppie unite in matrimonio e in unione civile; la rimodulazione dell’agevolazione legandola soltanto ad elementi oggettivi - depurandola quindi dall’effetto perverso ottenuto inavvertitamente dal legislatore con l’aggiunta del riferimento al “nucleo familiare” e la conseguente discriminazione a sfavore delle coppie non di fatto - , non si traduce affatto, a prescindere,  in un automatico riconoscimento dell’esenzione; la nuova disciplina richiede ai comuni di monitorare, fruendo dei dati cui possono liberamente accedere, disconoscendo il beneficio se l’immobile non è oggetto sia di residenza che di dimora abituale del possessore.

Davanti alle decisioni “creative”, cui si può ricondurre la sentenza n. 209 del 2022, pare lecito quantomeno porsi la domanda se con la soluzione adottata si sia realizzato un riequilibrio costituzionale oppure uno sconfinamento nell’attività legislativa vera e propria; valutare cioè se, alla luce degli effetti normativi che la decisione realizza, si «abbia a che fare con un esercizio di funzioni legislative da parte della Corte costituzionale, oppure al contrario di decisioni che, nell’alveo delle scelte del legislatore, operano per armonizzarle alla Costituzione»[62], segnando le due ipotesi il confine, rispettivamente, tra l’ammissibilità o meno dell’intervento del giudice delle leggi.

Tuttavia vi sono elementi che depongono per escludere qualsiasi sconfinamento da parte della Corte in attività legislativa; difatti ricordando sia l’effetto sostanzialmente ablativo della decisione sia l’imprinting legislativo del 2011 - che, si ricorda, non conteneva il riferimento al nucleo familiare[63]-, la sentenza n. 209 del 2022, rimodulando la nota espressione che si deve a Crisafulli[64], si potrebbe definire a “rime già usate” perché recupera il dato legislativo originario; nelle parole della Corte, la modifica operata nel 2012 nell’enunciato iniziale ha paradossalmente trasformato la disposizione, in funzione degli approdi cui è giunta la giurisprudenza, in una radicale penalizzazione per i componenti di un nucleo familiare «i quali, se residenti in comuni diversi, si sono visti escludere dal regime agevolativo entrambi gli immobili che invece sarebbero stati candidati a fruirne con la originaria formulazione prevista nel d.lgs. n. 23 del 2011».

C’era quindi un precedente solco legislativo nell’ordinamento su cui fondare la decisione assunta; del resto l’alternativa per la Corte, davanti alla rilevata situazione discriminatoria, era “ripiegare” in una sentenza additiva - come prospettato dal giudice a quo -, con (l’ennesimo) monito o auspicio rivolto al legislatore.

La decisione si completa con due effetti a valle: in primis l’illegittimità consequenziale ex art. 27 della L. 87/1953 di tutte le altre disposizioni la cui vigenza risulterebbe oramai incompatibile con la decisione presa; inoltre, l’accoglimento delle questioni riferite al quarto periodo nonché l’illegittimità consequenziale del successivo quinto periodo dell’art. 13 co. 2 – su cui si radicava la prima ordinanza di rimessione - determina anche l’inammissibilità delle questioni sollevate dalla CTP di Napoli per sopravvenuta carenza di oggetto.


Note e riferimenti bibliografici

[1] Si precisa che le osservazioni ed i profili discriminatori descritti nel contributo sono riferibili sia al matrimonio sia all’unione civile ma per non appesantire il contributo non sempre saranno richiamati entrambi facendo riferimento, principalmente, all’istituto del matrimonio.

[2] Così la disciplina di favore nel caso che si presenta davanti alla CTP di Napoli; per la precisione occorre considerare come il legislatore abbia riconsiderato più volte la natura del beneficio che consisteva inizialmente in una esenzione, diventata successivamente (per un breve periodo) una agevolazione fiscale – si otteneva quindi una riduzione dell’imposta che non escludeva anche l’azzeramento del dovuto -, per poi assumere nel 2013 di nuovo la veste di  esenzione totale ad esclusione dei cd “immobili di lusso”; la ricostruzione delle disposizioni agevolative ai fini IMU viene ricostruita infra par. 2.

[3] Si affronterà meglio la questione infra par. 4.

[4] Quali la violazione della parità sostanziale a parità di condizioni (art. 3), dei diritti dei lavoratori costretti a lavorare fuori della sede familiare (articoli 1, 3, 4 e 35), del diritto alla parità dei contribuenti coniugati rispetto a partner di fatto (3, 29 e 31), della tassazione in base alla capacità contributiva e progressività impositiva (art. 53), della famiglia quale società naturale (art. 29), dell’aspettativa rispetto alle provvidenze per la formazione della famiglia e adempimento dei compiti relativi (art. 31) e della tutela del risparmio (art. 47).

[5] Istituita con l’art. 8 del D.lgs. 23/2011 recante «Disposizioni in materia di federalismo Fiscale Municipale»

[6] Art. 8, co. 3, secondo periodo D.lgs. 23/2011.

[7] Disposizioni urgenti per la crescita, l'equita' e il consolidamento dei conti pubblici.

[8] Quando l’art. 8 del D.lgs. 23/2011 la posticipava al 2014.

[9] Cfr. anche nota n. 12 dove sarà evidenziato che anche l’agevolazione ai fini ICI presentava già i germi degli stessi profili discriminatori emersi con la sentenza in commento in relazione all’IMU.

[10] Nel contributo si farà sempre riferimento al rapporto tra coniugi perché il caso più ricorrente ma i profili critici prodotti dalla disposizione censurata si determinano anche nel caso in cui la condizione di residenza o dimora non venga rispettata anche da altri componenti del nucleo familiare.

[11] Infra par. 4.

[12] Tuttavia vale la pena osservare come già l’art. 8, co. 2 del d.lgs. 504/1992 (che istituì l’ICI a partire dal 1° gennaio 1993) definiva l’abitazione principale quella nella quale «il contribuente, che la possiede a titolo di proprietà, usufrutto o altro diritto reale, e i suoi familiari dimorano abitualmente» (enfasi aggiunta) mentre con il successivo art. 1, co. 173, lett. b) della L. 296/2006 (Legge finanziaria del 2007) fu specificato, integrando la disposizione, che per abitazione principale si dovesse intendere «salvo prova contraria, quella di residenza anagrafica». Pertanto, mutatis mutandis, anche la struttura agevolativa dell’ICI sembrava già contenere gli stessi profili discriminatori emersi poi nella sentenza in commento in riferimento all’IMU. A conferma di tale aspetto si consideri che con ordinanza del 23 settembre 2020 (l’ordinanza della CTP di Napoli è del 22 novembre 2021) la CTR Liguria aveva sollevato questione di legittimità costituzionale degli articoli sopra richiamati in riferimento agli artt. 3,16, 29 e 53 della Cost. proprio perché, tre le varie censure e in funzione del diritto vivente, risultava una disparità di trattamento tra coppie coniugate con residenza nello stesso comune e quelle residenti in comuni diversi nonché tra coppia coniugate, da un lato, e coppie di fatto e unioni civili, dall’altro, «consentendo alle prime uno o nessuna detrazione, a differenza delle altre, alle quali possono spettarne anche due». Con l’ordinanza n. 107 del 2022 la Corte costituzionale ha dichiarato manifestamente inammissibile la questione di legittimità perché «formulata in modo oscuro e contraddittorio, con conseguenti ripercussioni in termini di ambiguità del petitum»; da segnalare peraltro come il giudice a quo avesse sollevato dubbi anche sull’art. 13, co. 2 del d.l. 201/2011 in quanto le pronunce della Cassazione che avrebbero precluso soluzioni interpretative diverse, seppur relative all’IMU, estendevano il loro effetto anche all’ICI perché richiamavano al proprio interno precedenti decisioni relative a quest’ultima; anche su tale aspetto la Corte ha concluso per la manifesta inammissibilità accogliendo l’eccezione sollevata dall’Avvocatura in punto di rilevanza: l’oggetto di impugnativa nel processo principale era un avviso di accertamento relativo all’ICI e quindi il giudice a quo, nel risolvere la controversia, non doveva applicare l’art. 13 co. 2 del d.l. 201/2011.  

[13] Più precisamente nell’IUC convergevano in base al primo presupposto l’IMU e, in base al secondo, la TASI (tributo per i servizi a carico sia del possessore che dell'utilizzatore dell'immobile) e la TARI (tassa sui rifiuti).

[14] Le modifiche toccano anche altri aspetti riferibili sempre all’agevolazione ma che non rilevano ai fini dell’analisi della sentenza in commento. In particolare vengono previste specifiche eccezioni con l’aggiunta, alla fine della disposizione, di una serie di periodi volti a escludere l’imposizione in alcuni casi o, in altri, concedere ai Comuni la facoltà di escluderla; in particolare, in riferimento a quest’ultima possibilità, l’art. 1 co. 707, in relazione al concetto di abitazione principale, ha disposto che i Comuni possono (è quindi una facoltà) considerare tale «l'unità immobiliare posseduta a titolo di proprietà o di usufrutto da anziani o disabili che acquisiscono la residenza in istituti di ricovero o sanitari a seguito di ricovero permanente, a condizione che la stessa non risulti locata, l'unità immobiliare posseduta dai cittadini italiani non residenti nel territorio dello Stato a titolo di proprietà o di usufrutto in Italia, a condizione che non risulti locata, nonché l'unità immobiliare concessa in comodato dal soggetto passivo ai parenti in linea retta entro il primo grado che la utilizzano come abitazione principale, prevedendo che l'agevolazione operi o limitatamente alla quota di rendita risultante in catasto non eccedente il valore di euro 500 oppure nel solo caso in cui il comodatario appartenga a un nucleo familiare con ISEE non superiore a 15.000 euro annui. In caso di più unità immobiliari, la predetta agevolazione può essere applicata ad una sola unità immobiliare».

Inoltre viene esclusa ex lege l’imposizione IMU nei seguenti casi:

«a) alle unità immobiliari appartenenti alle cooperative edilizie a proprietà indivisa, adibite ad abitazione principale e relative pertinenze dei soci assegnatari;

b) ai fabbricati di civile abitazione destinati ad alloggi sociali come definiti dal decreto del Ministro delle infrastrutture 22 aprile 2008, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 146 del 24 giugno 2008;

c) alla casa coniugale assegnata al coniuge, a seguito di provvedimento di separazione legale, annullamento, scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio;

d) a un unico immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, posseduto, e non concesso in locazione, dal personale in servizio permanente appartenente alle Forze armate e alle Forze di polizia ad ordinamento militare e da quello dipendente delle Forze di polizia ad ordinamento civile, nonché dal personale del Corpo nazionale dei vigili del fuoco, e, fatto salvo quanto previsto dall'articolo 28, comma 1, del decreto legislativo 19 maggio 2000, n. 139, dal personale appartenente alla carriera prefettizia, per il quale non sono richieste le condizioni della dimora abituale e della residenza anagrafica».

[15] Superando la complessa concezione della IUC si giunge alla cd “nuova IMU” comprensiva anche della TASI.

[16] Circolare 3/DF del 18 maggio 2012 del Ministero dell’Economia e delle Finanze, p. 11.

[17] Ibid.

[18] Peraltro, come riflessione generale, legare una agevolazione al territorio comunale non si fa carico di prendere in considerazione il dato di fatto della possibile ed enorme differenza della dimensione dei comuni italiani. La Corte, nella sentenza n. 209 del 2022, dichiarerà anche l’illegittimità consequenziale di tale parte della disposizione ritenendo che se da un lato la residenza (o dimora) disgiunta all’interno dello stesso comune è una situazione che possa legittimare qualche sospetto, dall’altro «sia le grandi dimensioni di alcuni comuni italiani, sia la complessità delle situazioni della vita, essa non può essere esclusa a priori».

[19] Cass. sentenza n. 23833/2017, ord. n. 3011/2017.

[20] Vedi recente Cass. ordinanza n. 17408/2021 dove il ricorrente sosteneva di aver diritto all’agevolazione per risultare essere separato di fatto ma in assenza di una avvenuta formalizzazione; la Corte riafferma la posizione restrittiva precisando come «nel caso in cui due coniugi non separati legalmente abbiano la propria abitazione in due differenti immobili, il nucleo familiare (inteso come unità distinta ed automa rispetto ai suoi singoli componenti) resta unico, ed unica, pertanto, potrà essere anche l'abitazione principale ad esso riferibile, con la conseguenza che il contribuente, il quale dimori in un immobile di cui sia proprietario (o titolare di altro diritto reale), non avrà alcun diritto all'agevolazione se tale immobile non costituisca anche dimora abituale dei suoi familiari, non realizzandosi in quel luogo il presupposto della "abitazione principale" del suo nucleo familiare. Ciò in applicazione della lettera e della ratio della norma, che è quella di impedire che la fittizia assunzione della dimora o della residenza in altro luogo da parte di uno dei coniugi crei la possibilità per il medesimo nucleo familiare di godere due volte dei benefici per l'abitazione principale».

[21] Cass., Sez. V, sentenza n. 15439/2019.

[22] Cass., Sez. VI, ord. n. 1199/2022.

[23] Si tenga presente che l’ordinanza di rimessione della CTP di Napoli fa riferimento ad avvisi di rettifica degli anni 2015-2018 per cui le successive novità legislative non rilevano ai fini della risoluzione del caso specifico.

[24] Si ricorda che il contenzioso davanti alla CTP di Napoli attiene le annualità 2015-2018 e pertanto non rilevano, ai fini di tale giudizio, le modifiche legislative successive.

[25] E’ stato evidenziato come si registrino anche casi in cui, nonostante il tentativo esperito dal giudice a quo, la Corte decida comunque per l’inammissibilità della questione; in tal senso A.RUGGERI, A.SPADARO, Lineamenti di giustizia costituzionale, 2019, p. 182; nessun dubbio invece nel caso in cui il tentativo manchi del tutto che determina sempre l’inammissibilità della questione sollevata; Ibidem, p. 183 anche per corposa giurisprudenza citata.

[26] Così la sentenza n. 26 del 2010 in relazione al contenuto dell’art. 669-quaterdecies c.p.c.; in precedenza anche sentenza n. 219 del 2008 sul dettato dell’art. 314 del c.p.p. tale circostanza segna il confine, in presenza del quale il tentativo interpretativo deve cedere il passo al sindacato di legittimità costituzionale; vedi anche sentenza n. 232/2013.

[27] In quel caso l’ordinanza di rimessione dubitava di una serie di disposizioni fiscali che sarebbero risultate non rispettose degli artt. 3 e 53 della Cost. nella parte in cui, con riguardo alle indennità percepite per lo svolgimento di funzioni elettive diverse da quelle di parlamentare o di giudice costituzionale o di membro di organi elettivi regionali o provinciali o comunali, non prevedevano l'assimilazione al reddito di lavoro dipendente, la limitazione del reddito imponibile al 40% e l'obbligo dell'ente pubblico erogante le indennità di operare la ritenuta alla fonte, a titolo di imposta d'acconto, commisurata al 40% dell'ammontare corrisposto. In particolare la Corte sulla premessa che una agevolazione rappresenta una deroga al principio costituzionale secondo il quale "tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva" rigettò la doglianza in relazione all’art. 53 della Cost. in quanto trattandosi, in quel caso, del riconoscimento di esenzione parziale dell'imposta risulta «insuscettibile, in quanto tale, di interpretazione estensiva"(e che inoltre solo il legislatore statale può motivatamente disporre)».

[28] Vedi infra par. 5 e nota n. 45.

[29] La sentenza capostipite è la n. 356 del 1996 con nota critica di E. LAMARQUE, Una sentenza «interpretativa di inammissibilità»?, in Giur. Cost., 1996, 3107 ss; ma ben prima si levavano voci in dottrina che sollevavano rilievi critici in argomento tra le quali v. A.PACE, I limiti dell’interpretazione “adeguatrice”, in Giur. Cost., 1963, 1066 e ss.

[30] Ruolo svolto invece, come è noto, dalla Corte dei conti in materia di contabilità pubblica e dal Consiglio di Stato nei giudizi amministrativi.

[31] Recentemente con la sentenza n. 32 del 2020 la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’interpretazione dell’art. 1, co. 6, lett. b), della L. 3 del 2019 (la cd “spazzacorrotti) offerta dal diritto vivente; in particolare l’illegittimità è stata dichiarata in relazione all’applicazione del divieto di retroattività della legge penale sfavorevole, di cui all’art. 25, co. 2, Cost., alle modifiche apportate all’art. 4-bis, co. 1, ordin.  penit. dall’art. 1, co. 6, lett. b), della L. 3 del 2019 (Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici), che vi ha incluso i delitti contro la pubblica amministrazione, senza prevedere alcuna disciplina transitoria.

[32] Cfr G. ZAGREBELSKY – V. MARCENO’, Giustizia costituzionale, 2012, p. 369 in cui gli A. elencano una serie di definizioni proposte dalla dottrina.

[33] Ibidem.

[34] In tal senso la sentenza n. 78/2012 dove afferma «[f]ermo il punto che alcune pronunzie adottate in sede di merito non sono idonee ad integrare un “diritto vivente”».

[35] Nella sentenza n. 217/2010 la Corte, nel ritenere inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 49, co. 1, del D.lgs. 546/92 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della L. n. 413/1991) sollevata dalla CTR della Campania, dopo aver criticato il giudice rimettente per non aver tentato di interpretare in maniera conforme la disposizione censurata, ha precisato anche come non vi fosse «alcuna pronuncia della Corte di cassazione, ma solo contrastanti orientamenti della giurisprudenza di merito, che non assurgono a diritto vivente».

[36] Nella recente sentenza n. 190/2020 la Corte, in riferimento all’ambito penale, ha affermato che «[n]el diritto vivente, consolidatosi a seguito d’una pronuncia delle sezioni unite della Corte di cassazione in punto di ammissibilità del tentativo (sentenza 19 aprile – 12 settembre 2012, n. 34952), è ormai riconosciuto che il reato si consuma a seguito della sottrazione della cosa altrui, senza che sia necessaria l’instaurazione di una nuova e autonoma situazione di possesso in capo all’agente»; in precedenza, in ambito civile, nella sentenza n. 338/2011 è stato precisato come «in presenza di un orientamento non univoco, le Sezioni Unite civili della Corte di cassazione, hanno ritenuto, nell’esercizio della propria funzione nomofilattica, di cui questa Corte deve tenere conto, di superare in tal modo il contrasto. Siffatta interpretazione costituisce, pertanto, «diritto vivente», del quale si deve accertare la compatibilità con i parametri costituzionali evocati».

[37] Nella sentenza n. 369 del 1996 la Corte, a fronte di una serie di ordinanze che dubitavano dell’intervento legislativo del 1995 con cui si equiparava la disciplina del risarcimento del danno a quella concernente la determinazione della indennità dovuta in caso di espropriazione per pubblica utilità, affermava che «la verifica di legittimità della disposizione denunciata va condotta alla stregua della interpretazione presupposta dalle autorità rimettenti: nella quale effettivamente può ravvisarsi - come riconosciuto anche dalla Avvocatura dello Stato - il "diritto vivente", trattandosi di esegesi univocamente accolta dai giudici di merito, condivisa anche dalla dottrina pressoché unanime e confortata infine dalla prima (e finora unica) decisione, in tema, della Cassazione (sentenza 18 luglio 1996, n.980)».

[38] Limpida in tal senso la sentenza n. 91 del 2004 laddove la Corte afferma che «in presenza di un orientamento giurisprudenziale consolidato che abbia acquisito i caratteri del "diritto vivente", la valutazione se uniformarsi o meno a tale orientamento è una mera facoltà del giudice remittente»; sul punto nella più recente sentenza n. 95/2020 la Corte ha anche ricordato come per costante giurisprudenza, in presenza di un indirizzo giurisprudenziale consolidato «il giudice a quo, se pure è libero di non uniformarvisi e di proporre una sua diversa esegesi, ha, alternativamente, la facoltà di assumere l’interpretazione censurata in termini di “diritto vivente” e di richiederne su tale presupposto il controllo di compatibilità con i parametri costituzionali (ex plurimis, sentenze n. 39 del 2018, n. 259 del 2017 e n. 200 del 2016; ordinanza n. 201 del 2015)». La Corte di cassazione, Sez. I civile, nella sentenza n. 7667 del 2020 ha ricordato come «il giudice investito da un'eccezione di legittimità costituzionale ha il dovere di adottare un'interpretazione costituzionalmente orientata della norma interessata, anche sulla base del diritto vivente, ovvero di esplicitare le ragioni per le quali ritenga invece di rimettere la questione alla Corte Costituzionale, qualora siano escluse opzioni interpretative conformi alle norme costituzionali».

[39] Vedi supra par. 3.

[40] La Corte ha riconosciuto la propria legittimazione a sollevare questioni davanti a se stessa fin dagli anni ’60 (cfr. ordinanza n. 13 del 1960); un altro recente caso riferibile sempre all’ambito familiare, ma in chiave identitaria e non fiscale, in cui ha ritenuto sussistere le condizioni per seguire tale via è quello sulle disposizioni che regolavano l’attribuzione del cognome ai figli (v. ordinanza n. 18 del 2021) concluso con la risonante sentenza n. 131 del 2022 con la quale, ritenendo discriminatoria e lesiva dell’identità del figlio l’attribuzione automatica del cognome paterno, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di tutte le norme che prevedono tale automatismo per i figli nati nel o fuori dal matrimonio nonché per i figli adottivi.

[41] Ai sensi dell’art. 27 della L. 87/1953, la Corte costituzionale «quando accoglie una istanza o un ricorso relativo a questione di legittimità costituzionale di una legge o di un atto avente forza di legge, dichiara, nei limiti dell'impugnazione, quali sono le disposizioni legislative illegittime» (enfasi aggiunta).

[42] La Corte troverà fondata anche la censura in relazione all’art. 53 della Costituzione in quanto la natura reale dell’imposta se da un lato risulta coerente far riferimento ad elementi oggettivi legati all’immobile, dall’altro il nesso viene meno nella parte della disposizione che attiene invece alle «relazioni del soggetto con il nucleo familiare e, dunque, lo status personale del contribuente»; cid 11 sentenza n. 209/2022.

[43] Il principio generale è espresso anche nell’art. 14 delle preleggi in base al quale le leggi «che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati».

[44] In ambito sportivo si veda ord. 17976/2021 dove così si esprime la Corte di cassazione, sez. tributaria: «il Collegio intende riaffermare il principio di diritto per il quale le norme che prevedono agevolazioni tributarie sono di stretta interpretazione; il postulato giuridico è stato da ultimo enunciato (tra le altre) da Cass. 16/07/2020, n. 15249, nonché da Cass. 27/04/2018, n. 10214, in connessione con Cass. Sez. U. 22/09/2016, n. 18574, che richiama un precedente delle Sezioni unite (Cass. Sez. U. 03/06/2015, n. 11373) in base al quale costituisce caposaldo dell’ordinamento tributario, nonché “principio assolutamente consolidato nella giurisprudenza di questa Corte e condiviso dalla prevalente dottrina, che le norme fiscali di agevolazione sono norme di ‘stretta interpretazione’, nel senso che non sono in alcun modo applicabili a casi e situazioni non riconducibili al relativo significato letterale”».

[45] Nella sentenza n. 218/2019 la Corte ha ricordato sia come in tema di agevolazioni fiscali essa debba mantenere, di regola, un certo self restraint rispetto alla possibili opzioni discrezionali che pone in essere il legislatore, sia come possano anche esserci delle eccezioni; nella parole della Corte in caso di disposizioni «aventi carattere eccezionale e derogatorio, costituiscono esercizio di un potere discrezionale del legislatore, censurabile solo per la sua eventuale palese arbitrarietà o irrazionalità (sentenza n. 292 del 1987; ordinanza n. 174 del 2001); con la conseguenza che la Corte stessa non può estenderne l’ambito di applicazione, se non quando lo esiga la ratio dei benefici medesimi (sentenze n. 6 del 2014, n. 275 del 2005, n. 27 del 2001, n. 431 del 1997 e n. 86 del 1985; ordinanze n. 103 del 2012, n. 203 del 2011, n. 144 del 2009 e n. 10 del 1999)»; con la sentenza n. 218/2019 la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 23, co. 6, del d.lgs. 252/2005 nella parte in cui prevedeva che il riscatto della posizione individuale sia assoggettato a imposta ex art. 52, co. 1, lett. d-ter), del TUIR invece che ai sensi dell’art. 14, co. 4 e 5, dello stesso d.lgs. n. 252/2005; in pratica ha riscontrato, davanti a fattispecie omogenee, un diverso trattamento tributario tra dipendenti pubblici e privati, a sfavore dei primi, in relazione al riscatto di una posizione individuale maturata tra il 2007 e il 2017 nei fondi pensione negoziali. Come altro esempio può essere citata la sentenza n. 242/2017 con cui la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 15, co.1, DPR 601/1973 – nella versione in vigore anteriormente alle modifiche apportate dalla L. 244/2007 – nella parte in cui escludeva l’applicabilità dell’agevolazione fiscale prevista in tale disposizione ad analoghe operazioni effettuate dagli intermediari finanziari.

[46] La Corte afferma infatti nella sentenza n. 209/2022 che l’esigenza, sul piano generale, di interpretare restrittivamente le agevolazioni tributarie «non appare contestabile in riferimento a un’agevolazione del tipo di quella in esame».

[47] Si ricorda che l’art. 13 co. 2 vigente ratione temporis prevedeva solo che in presenza di più immobili nello stesso comune, qualora i componenti del nucleo familiare avessero stabilito residenza anagrafica e dimora abituale in immobili diversi, le agevolazioni per l'abitazione principale e per le relative pertinenze potevano trovare applicazione per un solo immobile; dopo che la disciplina ai fini IMU è stata trasfusa nell’art. 1, co. 741, lett. b), della L. 160/2019 con l’art. 5-decies del d.l. 146/2021 convertito, con modificazioni, nella L. 215/2021, il legislatore ha poi esteso, per stemperare l’orientamento emerso in seno alla giurisprudenza di legittimità, la possibilità di fruire dell’agevolazione per l’abitazione principale anche al caso di immobili ubicati «in comuni diversi», rimettendo la scelta di quello da esentare ai componenti del nucleo familiare; ma l’evoluzione legislativa risulta irrilevante ai fini del giudizio a quo avendo ad oggetto avvisi di rettifica riferibili alle annualità che vanno dal 2015 al 2018 e che l’art. 5-decies poteva esprimere una valenza solo per il futuro non avendo natura di norma di interpretazione autentica; la natura non interpretativa né retroattiva della disposizione viene confermata dalla Corte nell’ordinanza n. 94 del 2022 nel respingere la richiesta dell’Avvocatura di restituzione degli atti al giudice affinché questi potesse (ri)valutare, in punto di rilevanza, gli effetti dello ius superveniens nel giudizio principale.

[48] A giudizio del rimettente infatti l’agevolazione, per essere compatibile con il dettato costituzionale dovrebbe potersi applicare anche «nel caso in cui un componente del nucleo familiare risieda in Comune diverso»; a si aggiunge anche come proprio in tale fattispecie l'aporia normativa precluderebbe «non solo per entrambi gli immobili ipoteticamente posseduti ma anche per la sola abitazione principale, addirittura e paradossalmente, perfino nel caso in cui il titolo della diversa residenza/dimora extra-comunale avvenisse, ad esempio, sulla base di una locazione, di un comodato od altro rapporto, tutti oggettivamente estranei al campo di applicazione IMU e, dunque, nonostante l'evidente impossibilità di potenziali elusioni».

[49] Ad esempio nel caso delle detrazioni, con la sentenza n. 134 del 1982, la Corte ha precisato come «la detraibilità non è secondo Costituzione necessariamente generale ed illimitata, ma va concretata e commisurata dal legislatore ordinario secondo un criterio che concili le esigenze finanziarie dello Stato con quelle del cittadino chiamato a contribuire ai bisogni della vita collettiva, non meno pressanti di quelli della vita individuale. il punto di incontro e di contemperamento di tali esigenze varia a seconda dell'evoluzione economica, finanziaria e sociale del Paese e, […], spetta al legislatore ordinario di determinarlo, tenendo conto di tutti i dati del problema»; in quel caso fu dichiarata infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla CTP di Bolzano della disposizione fiscale vigente ratione temporis che fissava dei limiti (in percentuale e, comunque, con una somma massima) di detrazione per le spese mediche, ospedaliere e per acquisto di medicinali; ancora nella più recente sentenza n. 120 del 2020 (vedi anche infra) la Corte, dichiarando l’infondatezza dell’eccezione d’inammissibilità formulata dall’Avvocatura generale che reclamava l’ampia discrezionalità di cui gode il legislatore nella materia tributaria, puntualizza come se non c’è dubbio che «le disposizioni che prevedono agevolazioni fiscali costituiscono esercizio di un potere discrezionale, ciò tuttavia non preclude l’intervento di questa Corte, dal momento che tale discrezionalità è pur sempre censurabile “per la sua eventuale palese arbitrarietà o irrazionalità […]” (ex plurimis, sentenze n. 264 e n. 177 del 2017)».

[50] In queste circostanze «la sottrazione all’imposizione (o la sua riduzione) è resa necessaria dall’applicazione coerente e sistematica del presupposto del tributo (ad esempio per evitare doppie imposizioni) o dalla ricognizione dei soggetti passivi oppure dal rilievo di una minore o assente capacità contributiva (che il legislatore può riscontrare in relazione ad alcune circostanze di fatto o alla particolare fisionomia del tributo). In siffatte ipotesi, si è in presenza di agevolazioni previste per finalità intrinseche al prelievo».

[51] La Corte ha già ritenuto di poter sondare la compatibilità costituzionale delle agevolazioni fiscali giungendo ad estendere il beneficio a fattispecie analoghe tramite sentenze additive; nella sentenza n. 154 del 1999 la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 19 della L. 74/1987 (Nuove norme sulla disciplina dei casi di scioglimento di matrimonio), nella parte in cui non estendeva l’esenzione in esso prevista a tutti gli atti, i documenti ed i provvedimenti relativi al procedimento di separazione personale dei coniugi; in precedenza v. anche sentenza n. 176/1992.

[52] Per un commento all’ordinanza n. 94 del 2022 v. G.MONACO, Pregiudizialità logica della questione che la Corte solleva innanzi a sé. Osservazioni sull’ord. n. 94 del 2022 della Consulta, in Osservatorio AIC, n. 4, del 2 agosto 2022.

[53] Corte cost. ordinanza n. 94/2022.

[54] Corte cost. ordinanza n. 94/2022.

[55] Nell’affrontare con la recente sentenza n. 120 del 2020 un ricorso promosso dalla CTR dell’Emilia Romagna in materia di imposta sulle successioni e donazioni, la Corte ha rivendicato sia la possibilità, in generale, di avvalersi di tale tecnica decisoria sia, in ambito fiscale, di poter estendere le agevolazione fiscali in presenza di una eadem ratio; in particolare ritenendo infondata l’eccezione di inammissibilità sostenuta dell’Avvocatura generale dello Stato che contestava l’ordinanza di rimessione del giudice a quo nella misura in cui invocava una mera pronuncia additiva, la Corte ha colto l’occasione per precisare come «[l]’eccezione non è fondata, perché si basa esclusivamente sull’assunto, palesemente infondato, secondo cui a questa Corte sarebbe inibito emettere (e al rimettente richiedere) una pronuncia additiva. È qui sufficiente ricordare, in contrario, sia la costante giurisprudenza che ammette in generale tale tipo di pronuncia, sia quella che specificamente consente di estendere le agevolazioni fiscali quando lo esiga l’identità di ratio (ex plurimis, sentenza n. 242 del 2017)». La Corte, nell’ordinanza n. 202/2011 di manifesta inammissibilità, non ha mancato nemmeno di marcare il limite delle sentenze additive ricordando come non sia possibile «una pronuncia additiva tesa ad estendere una disposizione derogatoria ed eccezionale – quale quella impugnata – senza che sussista piena identità di funzione tra le discipline poste a raffronto (ex plurimis: sentenze n. 96 del 2008; n. 439 del 2007; n. 149 del 2005; ordinanza n. 144 del 2007)»; il caso traeva origine dal giudice dell’esecuzione del Tribunale di Napoli – sezione distaccata di Pozzuoli che dubitava della compatibilità costituzionale dell’art. 499, co. 1, c.p.c. in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione.

[56] La Corte valuta come la visione da “unico focolare” non possa più essere vista quale condizione necessaria della vita relazionale familiare;  ritiene infatti come in contesto come quello attuale «caratterizzato dall’aumento della mobilità nel mercato del lavoro, dallo sviluppo dei sistemi di trasporto e tecnologici, dall’evoluzione dei costumi, è sempre meno rara l’ipotesi che persone unite in matrimonio o unione civile concordino di vivere in luoghi diversi, ricongiungendosi periodicamente, ad esempio nel fine settimana, rimanendo nell’ambito di una comunione materiale e spirituale».

[57] Se l’art. 143 c.c. impone l’obbligo di coabitazione è altrettanto vero che una determinazione consensuale o una giusta causa non impedisce ai coniugi di stabilire residenze disgiunte (ex plurimis Corte di Cassazione, ord. 1785/2021); inoltre, a tale possibilità non possono essere di ostacolo «le norme sulla “residenza familiare” dei coniugi (art. 144 cod. civ.) o “comune” degli uniti civilmente (art. 1, comma 12, della legge 20 maggio 2016, n. 76, recante ‘Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze’)».

[58] La diversa questione delle c.d. “seconde case” può essere affrontata dai Comuni utilizzando gli strumenti che già hanno a loro disposizione tra i quali la Corte individua «accesso ai dati relativi alla somministrazione di energia elettrica, di servizi idrici e del gas relativi agli immobili ubicati nel proprio territorio»; tali strumenti sarebbe già sufficienti per dimostrare la non sostenibile dimora abituale in un immobile qualora le utenze non corroborassero il dato.

[59] Ex plurimis sent. 165/2020.

[60] Cfr. sentenza n. 10 del 2015.

[61] Riflessione che si completa considerando che «qualora, infatti, l’organizzazione della convivenza imponga ai coniugi o ai componenti di una unione civile l’effettiva dimora abituale e residenza anagrafica in due immobili distinti, viene ovviamente meno la maggiore economia di scala che la residenza comune potrebbe determinare, ovvero la convivenza in un unico immobile, fattispecie che per tabulas nel caso in considerazione non si verifica».

[62] G.ZAGREBELSKY,V.MARCENO’, Giustizia costituzionale, 2012, p. 408

[63] E’ stato invece già evidenziato come la precedente disciplina ICI contenesse invece gli stessi germi discriminatori; vedi nota 12.

[64] V.CRISAFULLI, La Corte costituzionale ha vent’anni, in Giur. Cost., n. 1, 1976, pp. 1694-1708; la nota espressione è riportata a p. 1707 dove l’A. nell’argomentare a favore delle sentenze manipolative affermò che «[s]e di creazione di diritto vuole parlarsi (ma non lo è), dovrà almeno aggiungersi, dunque, che si tratterebbe di una legislazione a rime obbligate. La Corte non inventa alcunché, ma estende o esplicita o specifica qualcosa che, seppure allo stato latente, era già compreso nel sistema normativo in vigore». Anche se sono le sentenze additive – aggiungendo quello che il legislatore non ha detto - quelle che prestano più il fianco ad osservazioni critiche per assumere la Corte un ruolo, non consentivo, di legislatore occorre anche considerare come l’evoluzione processuale abbia fatto assumere alla decisione aspetti peculiari; infatti, come è stato già osservato (v. infra), la sentenza n. 209/2022, nonostante la forma sostitutiva, sia sostanzialmente ablativa; ma la decisione viene presa a seguito dell’ordinanza di autoremissione con la quale, superando la “miopia” dell’ordinanza della CTP di Napoli, la Corte eleva la prospettiva perché sorge il dubbio su una questione pregiudiziale più ampia; questo mutamento nel dubbio determina anche poi che, in termini di effetti, la ricaduta della decisione sul piano legislativo risulta più incisiva della una sentenza additiva  dal giudice a quo.