Pubbl. Ven, 16 Dic 2022
Il riconoscimento di nuovi modelli di vita familiare nel diritto comunitario
Modifica paginaIl presente contributo offre una disamina sul ruolo della giurisprudenza e della normativa comunitaria nel graduale ampliamento della nozione di famiglia e nel conseguente riconoscimento di nuovi modelli di vita familiare relativi a persone eterosessuali, omosessuali e transessuali, fondati o meno sul matrimonio.
Sommario: 1. Introduzione; 2. Il ruolo della giurisprudenza comunitaria nel riconoscimento di nuove forme di convivenza tra persone eterosessuali; 2.1. (segue) e nelle dinamiche evolutive in relazione ai rapporti tra persone omosessuali e transessuali; 3. Il contributo della normativa comunitaria; 4. Conclusioni.
1. Introduzione
La giurisprudenza comunitaria ha fortemente contribuito all’evoluzione del concetto di famiglia. Le pronunce della Corte di giustizia delle Comunità europee e del Tribunale di primo grado, prima ancora del Trattato di Amsterdam, hanno inciso sull’interpretazione di concetti propri del diritto di famiglia contenuti in diversi atti comunitari, soprattutto quelli relativi alla libera circolazione delle persone e al rispetto del principio di non discriminazione fondata sul sesso1.
Risulta evidente un graduale ampliamento della nozione di famiglia, da cui è scaturito il riconoscimento di nuovi modelli di vita familiare: il presente contributo si propone di offrire una breve disamina degli aspetti evolutivi di tale riconoscimento con riferimento a tutti i tipi di legami, siano essi relativi a persone eterosessuali, omosessuali e transessuali, fondati o meno sul matrimonio.
2. Il ruolo della giurisprudenza comunitaria nel riconoscimento di nuove forme di convivenza tra persone eterosessuali
La Corte di giustizia ha in un primo momento assunto una posizione di pieno rifiuto avverso ogni forma di legame non fondato sul matrimonio: la sentenza The Netherlands v. Reed (1986) affermava che il termine coniuge all’art. 10 del Regolamento (CEE) n.1612/68 doveva essere inteso solo in riferimento a una relazione maritale2.
La pronuncia fondava la propria ratio su un’interpretazione restrittiva del suddetto articolo e sull’assenza di qualsiasi indicazione di uno sviluppo sociale generale tale da giustificarne un’interpretazione ampia. Pochi anni più tardi, tale indirizzo era confermato dal Tribunale nella pronuncia Arauxo-Dumay v. Commission (1993): l’organo giurisdizionale ribadiva la propria incompetenza ad ampliare sia la definizione di matrimonio, affinché fosse compresa al suo interno la convivenza, sia la definizione di marito o moglie, affinché fosse ricompresa al loro interno la nozione di convivente3.
Nel 2000, questo orientamento veniva ribaltato dalla stessa Corte di Giustizia che, con la sentenza C-65/98, ha considerato familiari una cittadina turca e il consorte anche nel periodo in cui gli stessi erano conviventi, non avendo ancora contratto il secondo matrimonio dopo aver sciolto il primo4.
La questione verteva su una decisione di rigetto della domanda della ricorrente, diretta a far accertare che fosse in possesso dei requisiti per svolgere un’attività lavorativa in Austria, prescritti dall’art. 7, co. 1, decisione n. 1/805. Secondo detta disposizione, i familiari autorizzati a raggiungere un lavoratore turco inserito nel regolare mercato del lavoro di uno Stato membro hanno il diritto di rispondere, fatta salva la precedenza ai lavoratori degli Stati membri della Comunità, a qualsiasi offerta di impiego, se vi risiedono regolarmente da almeno tre anni.
Se vi risiedono regolarmente da almeno cinque anni, invece, beneficiano del libero accesso a qualsiasi attività dipendente di loro scelta.
2.1. (segue) e nelle dinamiche evolutive in relazione ai rapporti tra persone omosessuali e transessuali
Nel caso D and Sweden v. Council of European Union (2001), la Corte ribadiva che, secondo le definizioni generalmente accettate dagli Stati Membri, il termine matrimonio facesse esclusivo riferimento all’unione tra persone di sesso diverso. Per di più, sebbene dal 1989 fosse sempre più frequente il riconoscimento giuridico di varie forme di unione tra partner dello stesso sesso (o opposto) a cui venivano attribuiti effetti uguali o comparabili al matrimonio, tali tipi di relazione dovevano essere considerate, in quegli stessi Stati, istituti distinti dal matrimonio.
Dunque, ove opportuno, la possibilità di modificare tale situazione doveva essere riconosciuta solo alle legislazioni nazionali6. La Corte di giustizia si è poi resa protagonista di una graduale apertura verso il riconoscimento di diritti di natura familiare anche a coppie omosessuali e transessuali. Di notevole importanza in tal senso è la sentenza K.B. v. National Health Service Pension Agency7, che ha sancito un fondamentale punto di contatto con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo.
Difatti, richiamando espressamente la pronuncia C. Goodwin v. The United Kingdom, la Corte di giustizia ha sentenziato la contrarietà all’art. 141 del Trattato CE della normativa britannica, che non consentiva alle persone transessuali di contrarre matrimonio secondo il sesso acquisito post-operazione, precludendo di fatto l’ottenimento della pensione di reversibilità dopo la morte della persona convivente8.
3. Il contributo della normativa comunitaria
La direttiva 2000/78 CE in tema di discriminazioni dirette e indirette fondate sull’orientamento sessuale9 ha sancito un quadro generale per la parità di trattamento in ambito di occupazione e condizioni di lavoro, incidendo sulla giurisprudenza della Corte di giustizia e contribuendo al processo di ampliamento della nozione di vita familiare.
Nel caso Maruko v. Versorgungsansanstalt der deutschen Bühnen (2008), per la prima volta i giudici comunitari, sulla base degli artt. 1 e 2 della citata direttiva, hanno equiparato gli effetti promananti da un’unione civile registrata a quelli che derivano dal matrimonio fra persone eterosessuali. Stando al dispositivo della pronuncia: «il combinato disposto degli artt. 1 e 2 della direttiva 2000/78 osta ad una normativa […] in base alla quale, dopo il decesso del suo partner con il quale ha contratto un’unione solidale, il partner superstite non percepisce una prestazione ai superstiti equivalente a quella concessa ad un coniuge superstite, mentre, nel diritto nazionale, l’unione solidale porrebbe le persone dello stesso sesso in una posizione analoga a quella dei coniugi per quanto riguarda la detta prestazione ai superstiti»10.
Il combinato disposto dei citati artt. 1 e 2 stabilisce un quadro generale per la lotta alle discriminazioni fondate sulla religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali, per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro al fine di rendere effettivo negli Stati membri il principio della parità di trattamento. Dunque, per principio di parità di trattamento si intende l’assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta basata su uno di tali motivi.
Di conseguenza, si avrà discriminazione diretta (come nel caso Maruko) laddove, sempre sulla base di uno qualsiasi dei motivi indicati, una persona sia trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga.
Sussisterà, invece, discriminazione indiretta laddove una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possano mettere in una posizione di particolare svantaggio le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di un particolare handicap, le persone di una particolare età o di una particolare tendenza sessuale, rispetto ad altre persone11.
Ciò costituisce un importante passo verso l’accoglimento di una nozione allargata di famiglia, garantendo la possibilità alle coppie same-sex di porsi sullo stesso piano di quelle eterosessuali12.
Sulla falsariga della direttiva appena esaminata si pongono anche gli artt. 9 e 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. In particolare, l’art. 9, nel riconoscere il diritto a contrarre matrimonio e quello di costituire una famiglia come diritti fondamentali, prevede che essi siano garantiti secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio.
Sebbene parte della dottrina sia di opposto avviso13, dal tenore letterale della disposizione sembrerebbe che la ratio ad essa sottesa sia solo quella di fornire una nozione allargata di famiglia e di vita familiare e non anche quella di imporla ai singoli Stati membri14. A ben vedere, in linea generale, tale indirizzo, oltre ad essere stato proiettato in numerose sentenze, può altresì ritrovarsi in varie direttive comunitarie.
Con riferimento alle coppie di fatto, ad esempio, ai sensi dell’art. 15, par. 1, lett. a), dir. 2001/55/CE del Consiglio, nel caso di famiglie già costituite nel Paese d’origine che sono state separate a causa di circostanze connesse all’afflusso massiccio, si considerano membri di una famiglia anche il partner del richiedente il ricongiungimento non legato da vincoli di matrimonio che abbia una relazione stabile con l’interessato, qualora la legislazione o la prassi dello Stato membro interessato assimili la situazione delle coppie di fatto a quella delle coppie sposate nel quadro della legge sugli stranieri15.
Analogamente, l’art. 2, par. 2, lett. b), dir. 2004/38/CE del Parlamento europeo e del Consiglio stabilisce che per familiare deve intendersi non solo il coniuge, ma anche il partner che abbia contratto con il cittadino dell’Unione un’unione registrata sulla base della legislazione di uno Stato membro, qualora la legislazione dello Stato membro ospitante equipari l’unione registrata al matrimonio e nel rispetto delle condizioni previste dalla pertinente legislazione dello Stato membro ospitante16. Al riguardo, nel 2018, i giudici di Lussemburgo, nella causa Relu Adrian Coman, Robert Clabourn Hamilton, Asociatia Accept v. Inspectoratul General pentru Imigrari and Ministerul Afacerilor Interne, hanno affermato che laddove un cittadino dell’Unione abbia esercitato la sua libertà di circolazione, recandosi e soggiornando in modo effettivo (conformemente alle condizioni di cui all’art. 7, par. 1, della citata direttiva 2004/38/CE) in uno Stato membro diverso da quello di cui ha la cittadinanza, e in tale occasione abbia sviluppato o consolidato una vita familiare con un cittadino di uno Stato terzo dello stesso sesso, al quale si è unito con un matrimonio legalmente contratto nello Stato membro ospitante, l’art. 21, par. 1, TFUE osta a che le autorità competenti dello Stato membro di cui il cittadino dell’Unione ha la cittadinanza rifiutino di concedere un diritto di soggiorno sul territorio di quello Stato al suddetto cittadino di uno Stato terzo, per il fatto che l’ordinamento di tale Stato membro non prevede il matrimonio tra persone dello stesso sesso17.
È dunque chiara la tendenza del legislatore comunitario a preservare la coerenza interna degli ordinamenti nazionali in relazione alla nozione di famiglia. Tuttavia, è altrettanto palese che dagli atti comunitari emerga una nozione di famiglia di essenza pluralista18.
Risale infatti al 1994 la risoluzione con cui il Parlamento europeo ha invitato la Commissione a presentare una proposta di raccomandazione non solo al fine di riconoscere i diritti degli omosessuali, ma anche al fine di rimuovere gli ostacoli al matrimonio same-sex o ad un istituto giuridico equivalente, consentendo la registrazione delle unioni, così da garantire pieni diritti19.
Nel 2000, in un’altra risoluzione sui diritti umani nell’Unione europea, il Parlamento ha sollecitato gli Stati membri ad adeguare le proprie legislazioni al fine di introdurre la convivenza registrata tra uomini e donne affinché, nell’ambito comunitario, fosse favorito il riconoscimento reciproco delle convivenze non coniugali e dei matrimoni tra persone dello stesso sesso20.
4. Conclusioni
Al giorno d’oggi, il pieno riconoscimento dei diritti della comunità LGBTIQ+ nell’UE è fortemente ostacolato da legislazioni oppressive (su tutte quelle di Polonia e Ungheria). Altresì, la mancata adozione della proposta di direttiva del Consiglio recante applicazione del principio di parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla religione o le convinzioni personali, la disabilità, l’età o l’orientamento sessuale (presentata il 2 luglio 2008), è state fermamente condannata in una recente risoluzione del Parlamento europeo21.
In detta risoluzione, inoltre, la Commissione è stata invitata a presentare una proposta di revisione del citato art. 2, par. 2, lett. b), dir 2004/38/CE22, onde rispettare pienamente il principio di non discriminazione sancito nell’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. Risalente al 20 ottobre 2022 è, invece, la Risoluzione del Parlamento europeo sull’aumento dei reati generati dall’odio contro persone LGBTIQ+ in Europa23.
1 G. PASTINA, La nozione di famiglia nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo e gli obblighi alimentari derivanti da unioni unipersonali, in G. CARELLA, La Convenzione europea dei diritti dell’uomo e il diritto internazionale privato. Bari, 2009, 143 ss.
2 Corte di giust. CE, 17 aprile 1986, 59/85, The Netherlands v. Reed, par. 15.
3 Trib. I grado CE, 17 giugno 1993, T-65/92, Arauxo-Dumay v. Commission of European communities, par. 30.
4 Corte giust. UE, 22 giugno 2000, C-65/98, Safet Eyüp v. Landesgeschäftsstelle des Arbeitsmarktservice Vorarlberg.
5 Decisione del consiglio di associazione del 19 settembre 1980 n. 1/80, relativo allo sviluppo dell’accordo che crea un’associazione tra la CEE e la Turchia.
6 Corte giust. CE, 31 maggio 2001, C-122/99, D and Sweden v. Council of the European Union, parr. 34-38. Analogamente: Corte di giust. CE, 17 febbraio 1998, C-249/96, Grant v. South-West Trains.
7 Corte giust. CE, 7 gennaio 2004, C-117/01, K.B. v. National Health Service Pension Agency, par. 36.
8 Oggi art. 157 TFUE.
9 Direttiva 2000/78 CE del Consiglio, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di trattamento e di condizioni di lavoro, in G.U.C.E., n. L 303 del 2 dicembre 2000.
10 Corte giust. CE, 1° aprile 2008, C-267/06, Maruko v. Versorgungsansanstalt der deutsche Bühnen, par. 73.
11 Cfr. articoli 1 e 2 direttiva 2000/78 del Consiglio.
12 N. BOSCHIERO, Les unions homosexuelles à l’épreuve du droit international privé italien, in Riv. Dir. Int., 2007; L. TOMASI, La tutela degli status familiari nel diritto dell’Unione europea. Padova, 2007.
13 N. BOSCHIERO, op. cit.
14 L. TOMASI, La nozione di famiglia negli atti dell’Unione e della Comunità europea, in S. BARIATTI (a cura di), La «famiglia» nel diritto internazionale privato comunitario. Milano, 2007.
15 Cfr. direttiva 2001/55/CE del Consiglio, sulle norme minime per la concessione della protezione temporanea in caso di afflusso massiccio di sfollati e sulla promozione dell’equilibrio degli sforzi tra Stati membri che ricevono gli sfollati e subiscono le conseguenze dell’accoglienza degli stessi, in G.U.C.E. n. L 212, 7 agosto 2001.
16 Cfr. direttiva 2004/38/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, in G.U.C.E., n. L 158, 30 aprile 2004.
17 Corte giust. UE, 5 giugno 2018, C 643/16, Relu Adrian Coman, Robert Clabourn Hamilton, Asociatia Accept v. Inspectoratul General pentru Imigrari and Ministerul Afacerilor Interne.
18 L. TOMASI, op. cit.
19 Cfr. Risoluzione del Parlamento europeo sulla parità dei diritti per gli omosessuali della Comunità, in G.U.C.E., n. C 61, 28 febbraio 1994.
20 Cfr. Risoluzione del Parlamento europeo sul rispetto dei diritti umani nell’Unione europea, in G.U.C.E., n. C 377, 16 marzo 2000.
21 Cfr. Risoluzione del Parlamento europeo del 14 settembre 2021 sui diritti delle persone LGBTIQ nell’UE (2021/2679(RSP)).
22 In particolare, al fine di eliminare la condizione che recita “qualora la legislazione dello Stato membro ospitante equipari l’unione registrata al matrimonio”.
23 Cfr. Risoluzione del Parlamento europeo del 20 ottobre 2022 sull’aumento dei reati generati dall’odio contro persone LGBTIQ+ in Europa alla luce del recente omicidio omofobo in Slovacchia (2022/2894(RSP)).