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Pubbl. Gio, 1 Dic 2022
Sottoposto a PEER REVIEW

Premiale o non premiale: questo è il dilemma!

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Saverio Regasto
Professore OrdinarioUniversità degli Studi di Brescia



Il contributo analizza la legislazione penale di favore, la sua compatibilità con la Costituzione e l´impatto sulla società.


Di certo lo studio teorico del diritto penale consente la formazione basilare di quanti intendano dedicare la propria vita alla legge. Tuttavia, chi scrive ritiene che - accanto a queste conoscenze - sia necessario affiancare una costante e approfondita valutazione del delicato e rilevante rapporto fra l’uomo e la società.

L’imputabilità, la pericolosità e l’autodeterminazione sono alcuni dei numerosi principi che interessano necessariamente il diritto penale e il diritto processuale penale.

Interpretare il diritto penale non significa solamente cercare di comprendere quale sia il fondamento e la portata delle sue leggi, ordinarie e speciali, e ciò al fine di poterle correttamente e adeguatamente applicare, ma include altresì un’opera ermeneutica molto più complessa e profonda. Prima di espletare il difficile compito dell’interprete, il giurista deve dunque individuare e intendere il filo conduttore che congiunge la legge penale alla società: quest’ultima intesa quale entità generica e generale completamente considerata nelle proprie differenze, specialità e particolarità.

In quest’ottica, tipica del penalista, lo studio della società di riferimento, e dunque - di riflesso - anche del soggetto processuale, è coltivato non già attraverso l’impiego di un punto di vista morale, economico ovvero religioso, bensì prettamente psicologico. Tale studio, che si estrinseca con una vera e propria analisi tecnica e scientifica, induce inevitabilmente il giurista a leggere nella mente del reo([1]), impresa questa certamente assai ardua, onde poter giungere alla corretta individuazione e applicazione di una sanzione penale che si dimostri adeguata e proporzionata in concreto. Appare così facile comprendere e dimostrare come sia irrilevante e inutile l’esistenza di numerose leggi penali laddove esse vengano lette esclusivamente con l’occhio astratto del legislatore. 

Il lavoro giudiziario si presenta allora lungo e difficile quando ci si trovi di fronte a soggetti quali autori di un crimine tentato ovvero consumato in condizioni psicologiche distruttive.

Di fronte a un fatto antigiuridico e quindi lesivo di interessi è dunque necessario partire dall’analisi concreta di ogni circostanza passata, presente e futura ricollegabile al reato. L’indagine e il conseguente accertamento della verità devono imprescindibilmente coinvolgere i fenomeni della psiche del reo nonché di coloro che abbiano eventualmente collaborato alla realizzazione del fatto. La ratio di simile analisi è di chiara rilevanza se si pensa che innumerevoli principi enunciati dal codice penale fanno riferimento all’imputabilità e dunque all’esistenza o meno di certe condizioni soggettive.

Il giudizio sul punto, volto all’accertamento delle rinominate condizioni, è tipico dell’organo giudicante il quale, affiancato dai periti, è chiamato a valutare la psiche e il movente che hanno indotto il reo, causalmente e dal punto di vista soggettivo, a intraprendere una direzione delinquenziale.

La corretta individuazione della sanzione applicabile, pena e misura di sicurezza - giacché le misure alternative ovvero premiali costituiscono una valutazione successiva - laddove la stessa sia validamente comminabile, rappresenta l’epilogo della giurisdizione penale la quale, tuttavia, non si esaurisce di fronte a chi, seppure affetto da una grave anomalia psichica, abbia ucciso un uomo anche con particolare malvagità. È questo il caso in cui l’autore del fatto illecito debba essere considerato, sebbene non imputabile, socialmente pericoloso a causa dell’istinto omicida inculcato nella propria intima personalità e manifestatosi quale atto automatico e indipendente dalla malattia psichica.

Di più, è applicabile la misura di sicurezza a un soggetto sano di mente, imputato di un reato, il quale abbia dato conto della probabilità di commettere nuovi fatti antigiuridici della stessa indole ovvero identici a quello per cui si procede. In tal caso, la risocializzazione è comunque consentita dal fatto che tale misura, aggiunta alla pena detentiva, viene eseguita dopo che la pena stessa sia stata scontata o si sia altrimenti estinta.

Ebbene, appellandosi a questa confortante previsione, va detto che di fronte a richieste abnormi, incomplete o insufficienti di messa alla prova([2]), supportate da istanze che propongono tanto modalità riparatorie di contenuto illegittimo - perché non fedelmente conforme al capo di imputazione e alla complessità del singolo caso – quanto modalità risarcitorie inadeguate - per carenza di proporzionalità rispetto al danno arrecato alla vittima - l’organo giudicante deve necessariamente rendersi garante della corretta celebrazione del processo penale mediante il rigetto di quell’istanza, vieppiù di fronte al negato consenso alla concessione del beneficio espresso dal pubblico ministero([3]).

Diversamente viene celebrato un ingiusto processo che contrasta palesemente con i canoni del giusto processo sancito dalla Costituzione italiana oltre che in spregio alla normativa comunitaria sul punto([4]).

La commisurazione della sanzione penale deve poi costituire il risultato di una ulteriore valutazione concreta rivolta, differentemente, nei confronti di colui che abbia ucciso perché spinto dall’ira rispetto a chi, invece, abbia ucciso per semplice piacere. Lo stesso vale per colui che abbia rubato una sola volta nella vita e per chi, invece, delinque abitualmente per professione nonché, a maggior ragione e al di fuori del mero caso di scuola, anche per quel singolare reo che abbia perseverato con più azioni nella violazione della stessa legge penale, in attuazione di un medesimo disegno criminoso, diffamando ripetutamente ([5]) via web un noto soggetto passivo mediante l’impiego di plurimi nicknames di fantasia e ciò a dimostrazione di una intensa e premeditata capacità criminale di per sé meritevole di una condanna effettiva([6]).

Tanto è, in punto di concreta commisurazione della sanzione penale, anche in riferimento al tipo di mezzo offensivo utilizzato dal reo, cosicché deve rilevare l’inoffensività pratica, seppure solo dal punto di vista oggettivo, di un’arma giocattolo rispetto a un’arma funzionante, sia essa propria ovvero impropria, nonché, per quanto riguarda i delitti contro l’onore, deve essere considerata l’intensa offensività concreta del mezzo diffusivo del web e di internet rispetto all’uso meno invasivo dei mezzi di comunicazione cartacei.

Il lavoro pratico del giudice ([7]), sotto questo profilo, è guidato dal contenuto dell’art. 133 del codice penale, da applicarsi imprescindibilmente in linea con l’art. 3 della Costituzione, che considera le modalità di esercizio del suo potere discrezionale al fine di non renderlo controproducente sia per il reo che per la realizzazione della funzione repressiva e preventiva della sanzione penale all’interno del processo e del tessuto sociale.

La norma citata definisce i fattori ai quali il giudice deve necessariamente attenersi nell’esercitare il potere discrezionale ([8]) attribuitogli dall’art. 132 del codice penale e disegna una sorta di gerarchia fra gli stessi anteponendo i criteri di valutazione della gravità del fatto, oggettiva e soggettiva, rispetto a quelli più strettamente legati alla personalità dell’autore e alle modalità in concreto da quest’ultimo attuate per l’esecuzione del crimine.

L’art. 133 del codice penale, tuttavia, a differenza delle altre norme penali che disciplinano la valutazione delle circostanze del reato, non prevede l’elencazione di specifici criteri di prevalenza ovvero di equivalenza da adottare in merito alla interpretazione dei suddetti concorrenti elementi. In sostanza, il potere discrezionale è slegato dal principio di bilanciamento seppure esso debba essere necessariamente motivato anche con la logica. Tale libertà di apprezzamento, che in ogni caso deve essere prudente e limitata appunto dal vincolo della motivazione, consente al giudice di dover valutare tutti gli elementi previsti dal nominato art. 133 attribuendo, secondo il proprio dictat, una prevalenza di taluni rispetto ad altri che è variabile caso per caso.

L’assenza di una norma che definisca espressamente l’aspetto teleologico([9]) della commisurazione della pena conduce dunque a risultati differenti a seconda che i fattori elencati dalla disposizione in esame siano utilizzati, rectius valutati, dal giudice in una prospettiva retributiva, special-preventiva o addirittura general-preventiva come potrebbe essere, in quest’ultima ipotesi, per l’istituto della messa alla prova([10]) che, in ogni caso, non costituisce affatto un diritto dell’imputato([11]) con la conseguente esclusa sua applicazione a seguito di una asettica, dal punto di vista del necessario pentimento, e incompleta, dal punto di vista formale, istanza di costui.

Va segnalato infatti che questa nuova figura di diritto sostanziale e processuale, nel realizzare una rinuncia statuale alla potestà punitiva condizionata al buon esito di un periodo di prova controllata e assistita, si connota per una accentuata dimensione processuale che la colloca nei procedimenti speciali alternativi al giudizio seppure essa presenti una natura sostanziale appunto. I giudici della Suprema Corte hanno evidenziato che la messa alla prova rappresenta, da un lato, un nuovo rito speciale in cui l’imputato rinuncia al processo ordinario trovando il vantaggio di un trattamento sanzionatorio non detentivo e, dall’altro, persegue scopi special-preventivi, in una fase anticipata rispetto alla normale sequenza cognizione-esecuzione della pena, in funzione del raggiungimento della risocializzazione del soggetto([12]).

La garanzia di un giusto processo - prevista dall’art. 111 della Costituzione - di cui la persona offesa del reato, e non solo l’imputato, deve poter pienamente godere risiede dunque nella Costituzione la quale fornisce l’inquadramento teleologico dell’art. 133 del codice penale attraverso i suoi principi ([13]). Innanzitutto occorre fare riferimento all’art. 25 della Carta che fissa il principio della materialità del reato al fine di impedire l’utilizzazione, nella commisurazione della pena, di elementi di giudizio estranei agli elementi strutturali dello stesso.

Il giudice deve esclusivamente e necessariamente tenere conto del fatto cristallizzato nel capo di imputazione([14]), della sua antigiuridicità penale e della colpevolezza dell’imputato. Il processo penale deve essere sorretto e guidato dal giudice quale soggetto imparziale e vincolato solo alle regole procedurali. L’imputato non può decidere liberamente e senza cognizione di causa, se non a proprio ingiusto vantaggio oltre che illegittimamente, il contenuto dell’oggetto dell’accertamento processuale([15])! Di tal guisa, l’imputato non può operare una cernita indiscriminata del capo di imputazione([16])delineando arbitrariamente i limiti e il contenuto della condotta riparatoria da egli aspirata per mezzo dell’istituto della messa alla prova e senza che ciò comporti un inevitabile e grave pregiudizio all’interesse morale della vittima del reato la quale vede così “barattata” e non tutelata la propria posizione([17]).

Quest’ultima, infatti, deve essere del pari protetta dalla legge anche di fronte all’applicazione del diritto premiale! Laddove, infatti, manchi la giusta corrispondenza fra il fatto antigiuridico commesso e la via del premio processuale deve necessariamente subentrare il dettato dell’art. 27 della Costituzione secondo cui l’unica pena non contraria al principio di umanità è quella che corrisponda, sia nell’an che nel quantum, alla stretta necessità e ciò nella prospettiva del reinserimento e del recupero sociale. In sostanza, il peso della condotta riparatoria e risarcitoria deve corrispondere al peso dell’offesa arrecata al bene giuridico tutelato dalla norma penale violata: è questa la portata della stretta necessità quale parametro costituzionalmente previsto ([18]).

L’imputato che abbia consumato con dolo un reato e che, in sede processuale, abbia proposto una modifica al capo di imputazione dimostra, secondo una piana lettura psicologica della sua condotta - non richiedente l’intervento di periti – una chiara tendenza a delinquere per il futuro dimostrata da uno scaltro affronto alla legge e alla giustizia. L’assenza del requisito del pentimento, non ovviabile attraverso una compensazione risarcitoria anche irrisoria, deve certamente escludere l’applicazione di benefici che male si concilierebbero, se concessi indiscriminatamente a chiunque, con l’azione di tutela sociale e di prevenzione del crimine.

Chi scrive ritiene infatti che le nominate azioni di tutela e di prevenzione, prima che su strada, debbano trovare alloggio nella celebrazione del giusto processo a garanzia della certezza del diritto quale unico principio volto a rispondere efficacemente al mantenimento dell’ordine sociale.

Il diritto premiale deve in sostanza essere impiegato ma non abusato ([19]) al fine di evitare il rischio, concreto ed attuale, della vanificazione del principio di effettività della sanzione penale senza il quale il diritto e la procedura penale non hanno ragion d’essere a causa della perdita del potere punitivo dello Stato di fronte al crimine.

L’autorevolezza degli insegnamenti di alcuni dei Padri del pensiero penalistico italiano ([20]) è di grande attualità in quanto, seppure vada tenuto conto del continuo e irrefrenabile progresso sociale che impone una giustizia al passo con i tempi, la funzione della pena e dunque la sua effettiva effettività mantiene o dovrebbe mantenere, secondo l’opinione di chi scrive, il proprio unico fondamento nella punizione di un fatto illecito che - in quanto tale - non ha la possibilità di essere convertito in lecito. Infatti, forse peccando di troppa semplicità di pensiero, sempre chi scrive ritiene che il reo, in quanto soggetto, possa sì essere rieducato, sebbene tale tentativo non conceda la reale possibilità di cancellazione del crimine commesso (anche se la messa alla prova e la successiva sentenza di estinzione del reato non trovano menzione nel certificato penale), ma il reato, in quanto oggetto-fatto antigiuridico privo di anima, rimane tale con tutti i conseguenti strascichi materiali e morali in danno della persona offesa e dell’ordine sociale.

Il principio dell’affidamento del cittadino nello Stato risiede in ogni caso nella pubblica garanzia della tutela dei beni giuridici, personali e patrimoniali, elencati nelle norme incriminatrici appunto. Tali considerazioni inducono ad accogliere con un timido approccio l’istituto in esame al fine di non sconvolgere il delicato e fragile mantenimento dell’equilibrio fra il crimine e la sua repressione giudiziaria senza incorrere in una probabile, se non pericolosa, idea di smaltimento del carico giudiziario inculcata in un’arma a doppio taglio fra il mondo giudiziario e i suoi problemi e il mondo sociale e le sue necessità.

Il maestro Francesco CARNELUTTI ha scritto che “La pena è il termine correlativo del delitto. In quanto vi sia stato un delitto in tanto ci può, anzi ci deve, essere una pena. Per capire la pena bisogna dunque capire il delitto”([21]). Questa riflessione di alto livello comporta tutt’oggi che la messa alla prova non costituisce affatto un diritto dell’imputato in quanto egli è tale, anzitutto, perché autore di un delitto con la conseguenza che l’eventuale sua incapacità di comprendere l’antigiuridicità del fatto commesso e di adeguatamente riparare il danno con una coscienza umile e sincera, scevra dal tentativo concreto di ricorrere a strumenti difensivi di sorta, ne esclude la giusta e legittima applicabilità([22]).

Tuttavia, se a fronte di reati bagatellari risulta finanche educativo per il reo offrire una possibilità di prova da superare per l’ottenimento della cancellazione del crimine commesso, tale prova deve essere richiesta, ed a maggior ragione per reati di rilievo, in modo conforme, adeguato e proporzionale rispetto alla gravità del fatto commesso e alla predisposizione psicologica che lo stesso reo abbia manifestato sia durante la consumazione del reato sia durante l’espletamento del processo: il c.d. contegno processuale([23]). L’estensione ad ogni costo di questo istituto comporta un avvicinamento troppo ristretto fra il potere punitivo dello Stato e la condotta antigiuridica del reo con il rischio che simile premio venga inteso, prima dal popolo e poi dall’imputato, non già quale preziosa opportunità di ravvedimento e di pentimento bensì quale via di fuga dal processo e dalla condanna. In tale senso, è dunque criticata la pretesa sconsiderata di estensione della messa alla prova laddove peraltro motivata dalla necessità di sfoltire il carico giudiziario. La ratio dell’istituto diviene così completamente annullata lasciando spazio a inutili ragioni logistiche che non rientrano affatto nello spirito della Costituzione e del giusto processo se non in danno della società civile e di chi subisce reato ([24]).

Il limite della premialità deve essere di conseguenza segnato dal giusto equilibrio fra la condotta antigiuridica e il male ingiusto, anche e soprattutto morale, subito dalla vittima che certamente non può trovare una valida alternativa né nella concessione di una condotta risarcitoria inadeguata, né in una provvisionale, né in un successivo giudizio civile. Ciò, in particolare, in tema di reati contro l’onore ([25]).

Tanti sono i problemi che preoccupano la società ma non tutti interessano l’argomento della certezza della pena ossia un problema penale di sostanza. Parlando in termini procedimentali, in questi tempi costituisce un punto fermo la questione della lungaggine processuale. La risposta dello Stato è quella di smaltire i processi attraverso un allargamento della concessione dei benefici e della depenalizzazione. Tuttavia, la sicurezza del cittadino si realizza concretamente attraverso una giustizia che garantisca, contribuisca ovvero collabori non solo per la prevenzione dei reati ma anche con la repressione del crimine attraverso la comminazione astratta di una sanzione sebbene essa presenti sul piano pratico il problema concreto del sovraffollamento carcerario([26]).

In conclusione, è giusto leggere e applicare il diritto penale e processuale con la visione dell’illustre giurista parmense Gian Domenico Romagnosi([27]) secondo il quale la pena è definita quale “spinta alla controspinta criminosa”. In effetti, vanificare il timore della pena attraverso una premialità ingiustificata ovvero smisuratamente allargata determina il rischio di rendere effimero l’intero sistema penale sul quale si fonda il prezioso equilibrio dell’ordine sociale ove deve necessariamente regnare la capacità di ciascun individuo, ricco e povero ovvero sapiente e meno sapiente, di comprendere nell’immediato l’antigiuridicità della propria condotta, evitandola, tanto più se il reo è un esperto nella materia violata!


Note e riferimenti bibliografici

[1] G. GULLOTTA, Elementi di psicologia giuridica e di diritto psicologico. Civile, penale, minorile, in Psicologia Giuridica e criminale, Giuffrè, 2002.

[2] La messa alla prova è stata introdotta con legge 28.04.2014 n. 67, in vigore dal 17.05.2014, ed è regolata dagli artt. da 168-bis a 168-quater del cod. pen., dagli artt. da 464-bis a 464-novies, 657-bis del cod. proc. pen., nonché dagli artt. 141-bis e 141-ter delle norme di attuazione del cod. proc. pen. Essa integra un modo alternativo alla conclusione del processo penale consentendo all’imputato ovvero all’indagato di richiedere, per certe tipologie di reato e con il fine di evitare la pronuncia di una sentenza di condanna, la sospensione del processo e l’ammissione a un programma che preveda lo svolgimento di attività lavorativa non retribuita oltre all’adempimento di certe prescrizioni e al risarcimento del danno alla persona offesa e/o danneggiata dal reato, nonché, ove possibile, l’eliminazione ovvero l’attenuazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato. Cfr. anche Legge 27 settembre 2021, n. 134 – G.U. 4 ottobre 2021 n. 237.

[3] L’estensione delle disposizioni dei riti alternativi, in primis il patteggiamento, al rito speciale di messa alla prova comporta che anche in tale ultima fattispecie processuale sia attribuito al Giudice il potere di ordinare l’esibizione degli atti contenuti nel fascicolo del Pubblico Ministero ai fini della decisione. Il Giudice, quindi, seppure ciò non sia espressamente previsto dalla norma, potrà acquisire e valutare gli atti delle indagini preliminari con il fine di effettuare un controllo formale e sostanziale della richiesta di messa alla prova e della adeguatezza della condotta riparatoria e risarcitoria ad essa connessa. Cfr. Cass., Sez. Un., Sent. 27 ottobre 2004, n. 44711, in Cass. Pen., 2005, p. 358.

[4] R. MUZZICA, Sospensione del processo con messa alla prova e materia penale: tra Corte EDU e Corte costituzionale nuovi scenari pro reo sul versante intertemporale, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2017, 4, p. 1432 ss.; E. NICOSIA, Convenzione europea dei diritti dell’uomo e diritto penale, Torino, 2006. Cfr. in giurisprudenza Corte EDU, Engel c. Paesi Bassi, n. 5100/71, 8 giugno 1976; Corte EDU, 9 febbraio 1995, Welch c. Regno Unito e Corte EDU, 8 giugno 1995, Jamil c. Francia.

[5] G.D. ROMAGNOSI, Genesi del diritto penale, Milano, 1836, II, p. 196. Il noto giurista segnala, con una ricostruzione degna di nota nell’esempio riportato in prosa, come “La volontà si forma in mezzo alla influenza e alla sollecitazione dei motivi, i più vari, tra i quali avviene la scelta. Siccome i motivi operano sul volere e questo di conseguenza ha una reazione su di essi con taluni atteggiamenti, così è possibile prevedere i comportamenti umani”. Viene dunque dato un particolare rilievo al movente ossia alle ragioni che hanno determinato la condotta criminale. Il movente ovvero lo scopo ad esso connesso costituiscono gli elementi imprescindibili che il Giudice deve valutare ai fini della commisurazione della pena nonché dell’opportunità o meno, ed in che termini, della concessione di benefici all’imputato. Il ROMAGNOSI, ibidem, sostiene che “il giudizio morale attribuisce oltre il merito o il demerito all’azione, se preveduta, ma tale valutazione sarà di gran lunga maggiore se l’azione è abituale”. Nel reato di diffamazione (art. 595 c.p.), aggravata dall’uso del web, il bene giuridico tutelato è l’onore, la reputazione e il decoro della persona ragion per cui il Giudice non può evitare in alcun modo di valutare con attenzione la propensione morale passata, presente e futura del reo in uno con il movente che lo ha indotto consapevolmente e con premeditazione a commettere il reato. Con la messa alla prova il giudizio si definisce allo stato degli atti imponendo una maggiore cautela, a discapito di una discrezionalità troppo ampia, nella valutazione degli elementi a disposizione in quel momento: in primis la condotta processuale dell’imputato e le sue condizioni personali anche rispetto al crimine commesso.

[6] Un post su un social network ovvero un commento inappropriato e falso comunque pubblicato sul web è in grado, per presunzione e in concreto, di raggiungere un numero indeterminato di persone al di fuori dei confini nazionali dai quali la notizia o il commento trae origine. In tale caso l’azione illecita di carattere denigratorio ed infamante nei confronti del destinatario assume una portata eccezionalmente grave a causa dell’effetto di risonanza incontrollata dell’evento diffamatorio al di fuori di un preciso limite territoriale. La giurisprudenza ha statuito che senza l’accertamento dell’indirizzo di provenienza cui riferire il messaggio offensivo della reputazione non è possibile l’individuazione del colpevole. Senza di esso, infatti, non si potrà ottenere il massimo grado di certezza possibile in merito all’attribuzione della responsabilità penale del portatore del nickname, cfr. Cass. Pen., Sez. V, n. 5352 del 22 novembre 2017. Tuttavia è stato anche ritenuto che “si possa desumere la riferibilità soggettiva del messaggio diffamatorio anche da differenti circostanze fattuali quali ad esempio i burrascosi rapporti lavorativi intercorsi tra le parti”, cfr. Ufficio Indagini Preliminari di Livorno, provvedimento n. 38912 del 31 dicembre 2012. 

[7] La Suprema Corte così si esprime “nella fase del vaglio dell’ammissibilità il giudice, seppure in base ad un accertamento sommario, anticipa un sul fatto, sull’autore e sulle conseguenze della messa alla prova”, cfr. Cass., Sez. V, 14 novembre 2014, in CED Cass. n. 264270; Cass., Sez. V, 3 giugno 2015, in CED Cass. n. 264061; Cass., Sez. II, 12 giugno 2015, in CED n. 264574; Cass., Sez. V, 15 dicembre 2014, in CED Cass. n. 262106.

[8] CORBETTA, La cornice edittale della pena e il sindacato di legittimità costituzionale, in Riv. Ital. Dir. Proc. Pen., 1997, p. 148; C. CARUSO, La discrezionalità penale nella commisurazione della pena: dovere conoscitivo o potere dispositivo del giudice?, l’indice penale, 2006 n. 2, pp. 560-561; V. ZAGREBELSKY, V. PACILEO, Codice penale annotato con la giurisprudenza, Torino, Utet, 1999, p. 663.

[9] I limiti alla liberà personale sono garantiti dall’art. 13 della Costituzione e consistono nella giurisdizione e nella riserva di legge. Cfr. sull’argomento F. CALLARI, Il periculum libertatis costituito dal rischio di realizzazione di determinati reati e le misure cautelari: il fine giustifica i mezzi? in www.dirittopenalecontemporaneo.it, p. 2.

[10] Nella giurisprudenza della Corte EDU è rinvenibile una nozione sostanziale della “pena” che è basata, anziché sul nomen juris, sulle sue caratteristiche naturali identificabili nella qualificazione giuridica dell’illecito, nella natura dello stesso e nella natura e nel grado di severità della sanzione. Dunque è ragionevole sostenere che, a fronte dello scopo special-preventivo e general-preventivo voluto dal legislatore in ordine all’istituto della messa alla prova, quest’ultima abbia in sostanza una natura penale. Viene così criticata la Sentenza della Corte Costituzionale n. 91/2018 in R. MUZZICA, La Consulta “salva” la messa alla prova: l’onere di una interpretazione convenzionalmente orientata per il giudice nazionale, in Dir. Pen. Cont., Rivista trimestrale, 2018, 6, p. 173 ss.

[11] Cfr. G. MAGLIONE, Oltre il delitto, oltre il castigo. Teoria, prassi e critica della giustizia riparativa, in www.altrodiritto.unifi.it.

[12] Cass., Sezioni Unite Penali, n. 36272 del 31 marzo 2016, Sorcinelli, Rv. 267238.

[13] A. SANNA, L’istituto della messa alla prova: alternativa al processo o processo senza garanzie?, in Cass. Pen., 2015, 3, p. 1278.

[14] Corte Cost., Sent. 21 marzo 2018, n. 141, commentata da A. ZAPPULLA, La prima (ma non ultima) pronuncia d’incostituzionalità in tema di modifica dell’imputazione e messa alla prova, in Dir. Pen. Cont., rivista trimestrale, 2018, 10, p. 241 ss.

[15] Cfr. Cass., Sez. V, Sent. 23 febbraio 2015, n. 2401, in Guida dir., 2015, p. 78. L’ordinanza di ammissione di messa alla prova presuppone l’accertamento sommario, allo stato degli atti (Cass. Pen. n. 28826/18), sia dell’insussistenza delle condizioni per la pronuncia della sentenza di proscioglimento, sia della sussistenza della colpevolezza (per il fatto antigiuridico cristallizzato nel capo di imputazione). Il consenso dell’imputato, successivo al suddetto vaglio preliminare del Giudice, permette di inquadrare il fatto-reato ai fini delle prescrizioni della messa alla prova anche in punto di quantum del contenuto della stessa.

[16] Cass. Pen., Sez. IV, Sent. n. 39283 del 30 agosto 2018. La Sentenza affronta anche il problema delle accuse elevate a carico dell’imputato nel capo di imputazione da un punto di vista temporale. La mancata corrispondenza fra la sentenza e il capo di imputazione origina un atto abnorme. Si ritiene dunque che, data la siffatta rilevanza del capo di imputazione, la condotta riparatoria dell’imputato che aspiri alla concessione del beneficio della messa alla prova debba coincidere perfettamente con l’imputazione in quanto, in caso contrario, la sentenza di estinzione del reato violerebbe il principio fra il chiesto e il pronunciato seppure a fronte della mancata pregressa impugnazione dell’ordinanza di ammissione all’istituto.

[17] F. REGGIO, Giustizia Dialogica. Luci e ombre della Restorative Justice, in Filosofia del Diritto, Milano, Franco Angeli, 2010, p.2. Con la messa alla prova, quale istituto rientrante nel più ampio novero della giustizia riparativa, il reato viene considerato principalmente quale danno alla persona comportandone un coinvolgimento anche processuale di tipo attivo. Tale positiva partecipazione deve necessariamente essere affiancata a quella dell’imputato il quale deve porsi in una condizione di remissione ovvero di allineamento e non di scontro difensivo. Infatti, la finalità della giustizia riparativa è il pentimento dell’imputato, che si oppone - rectius deve (dovrebbe) opporsi - all’attività di strategia difensiva sedente nella differente scelta di celebrazione del processo penale, che si rivolge non solo alla persona offesa ma anche all’intera comunità in cui il reato si è consumato e al centro della quale di pone la persona offesa e danneggiata. Ciò comporta altresì ed in maniera imprescindibile la condivisione comune di possibili risposte, nell’ottica della sicurezza sociale, alle necessità poste in luce dall’evento antigiuridico. Cfr. anche M. BOUCHARD, Breve storia (e filosofia) della giustizia riparativa, in Questione Giustizia, 2, 2015, p. 72.

[18] Cass. Pen., Sez. II, 30 luglio 2019 n. 34878 secondo cui il Giudice non può ammettere l’imputato alla messa alla prova se l’offerta risarcitoria non appaia proporzionata rispetto al pregiudizio patrimoniale subito dalla persona offesa.

[19] M. DONINI, Le tecniche di degradazione fra sussidiarietà e non punibilità, in Ind. Pen., 2003, p. 75 ss.

[20] Amplissima è la letteratura giuridica al riguardo ma ci si limita a citare CALDERANO, La funzione della pena nella sua evoluzione, in Rass. Studi Penit., 1976, p. 21; VASSALLI, Funzione e insufficienza della pena, in Riv. It., 1955, p. 3 ss.; PETROCELLI, Retribuzione e difesa nel progetto del Codice Penale del 1949, in Riv. It., 1950, p. 699 ss.

[21] F. CARNELUTTI, in Meditazione sull’essenza della pena, in Riv. It., 1955, p. 3 ss.

[22] F. CARNELUTTI, ibidem, ci ha insegnato cheIl delitto viene dal cuore perché non è altro che una insufficienza di amore. La pena deve venire dal cuore perché non deve essere altro che una sovrabbondanza d’amore. Se il delinquente non sa amare, non c’è altro mezzo per guidarlo che insegnargli ad amare”. Ebbene, in tale ottica non vi è spazio per una trattativa fra la giustizia penale e l’illecito commesso dall’imputato se non in termini di vero e concreto pentimento.   

[23] G. MOSCONI, La crisi postmoderna del diritto penale e i suoi effetti sull’istituzione penitenziaria, in Rass. Pen. Crim., 2001, 1, 3, p. 3-35.

[24] Cfr. P. Ferrua, Una messa alla prova sul filo del rasoio costituzionale, in AA. VV., Strategie di deflazione penale e rimodulazione del giudizio in absentia, Torino, Giappichelli, 2015, p. 183.

[25] Cfr. Cass. Pen., VI Sez., n. 28826/2018 che nel proprio considerato in diritto delinea in maniera esaustiva l’istituto della messa alla prova con le sue finalità affrontandone i limiti di applicabilità. Nella Sentenza si richiama la matrice anglosassone di questo procedimento elevato a strumento di deflazione processuale e di alleggerimento della gravosa situazione carceraria, imposto anche dalla Corte EDU con la condanna inflitta all’Italia l’8 gennaio 2013 nel caso Torregiani contro Italia.

[26] R. BARTOLI, La sospensione del procedimento con messa alla prova: una goccia deflattiva nel mare del sovraffollamento?, in Dir. Pen. Proc., 2014, 6, p. 666.

[27] 1761-1835. Secondo il noto giurista la controspinta sarebbe rappresentata dal dolore che verrebbe procurato, attraverso la pena, a chi commette un crimine. La pena servirebbe a punire chi ha commesso un atto antigiuridico ma fungerebbe anche quale deterrente nella perseverazione del crimine posto che la sola minaccia sanzionatoria non è sufficiente al mantenimento dell’ordine sociale.