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Pubbl. Mar, 15 Nov 2022

Il nucleo di democraticità effettiva degli accordi tra amministrazione e privati

Matteo Di Iasio



Scopo del presente contributo è quello di dimostrare il fondamento democratico dell´istituto degli accordi tra amministrazione e privati, disciplinato dall´art. 11 della legge n. 241 del 1990. Attraverso un´interpretazione teleologica e sistematica dell´istituto degli accordi e prendendo in esame alcune specifiche fattispecie applicative si intende evidenziare la portata innovativa di tali moduli bilaterali consensuali diretti a colmare il deficit di democraticità effettiva di cui storicamente risente l´azione amministrativa.


Sommario: 1. Introduzione; 2. Inquadramento normativo e natura giuridica degli Accordi tra Amministrazione e privati; 3. La "codecisione" tra privati e amministrazione tramite l'utilizzo degli accordi; 4. La consensualità nella pianificazione del territorio: estrinsecazione del principio di democraticità; 5. Gli accordi con gli enti del terzo settore: strumenti per la sussidiarietà orizzontale; 6. Conclusioni 

Sommario: 1. Introduzione; 2. Inquadramento normativo e natura giuridica degli Accordi tra Amministrazione e privati; 3. La "codecisione" tra privati e amministrazione tramite l'utilizzo degli accordi; 4. La consensualità nella pianificazione del territorio: estrinsecazione del principio di democraticità; 5. Gli accordi con gli enti del terzo settore: strumenti per la sussidiarietà orizzontale; 6. Conclusioni 

1. Introduzione

Con il presente elaborato si intende analizzare l’istituto degli accordi tra Amministrazione e privati, disciplinato dall’art. 11 della l.n. 241 del 1990, dimostrando, attraverso la disamina della loro disciplina generale e di alcune specifiche fattispecie applicative, il fondamento democratico di tali moduli bilaterali consensuali, per merito dei quali si assiste ad una notevole valorizzazione della partecipazione dei cittadini al procedimento amministrativo.

L’analisi prende avvio dal disposto normativo, mettendone in luce i tratti caratteristici da cui può desumersi la portata innovativa della disposizione che delinea il concetto di attività amministrativa consensuale, la quale consente ai privati cittadini, in ossequio ad una concezione di democrazia diretta, di definire, in collaborazione con l’Amministrazione, l’assetto di interessi maggiormente adeguato al perseguimento dell’interesse pubblico.

Si procede poi con l’analisi di specifiche fattispecie riconducibili all’istituto degli accordi dalle quali emerge con chiarezza il nucleo di effettiva democraticità di questi ultimi. 

2. Inquadramento normativo e natura giuridica degli Accordi tra Amministrazione e privati 

Per lungo tempo, la dottrina amministrativa ha individuato nell’elemento soggettivo il tratto caratterizzante l’agere amministrativo, pertanto, in ossequio a tale concezione, si faceva rientrare nel novero dell’attività amministrativa qualsiasi atto adottato da una pubblica amministrazione, indipendentemente dalla sua veste giuridica formale [1].   

Con l’avvento dello Stato di diritto, durante la seconda metà dell’Ottocento, si afferma, invece, l’idea secondo cui l’azione amministrativa deve necessariamente esercitarsi attraverso l’emanazione di provvedimenti amministrativi unilaterali, in quanto, considerati dalla dottrina maggioritaria, gli unici strumenti giuridici in grado di garantire il rispetto del fondamentale principio di legalità [2].  

Tuttavia, nel corso degli anni, parte della dottrina mette in discussione l’idea di una necessaria unilateralità dell’azione amministrativa, evidenziando che, nell’esperienza giuridica concreta, vi sono già specifiche disposizioni disciplinanti accordi collegati con l’esercizio del potere amministrativo.

La dottrina sottolinea, inoltre, come a livello costituzionale non sia prevista alcuna preclusione per l’esercizio del potere tramite l’impiego di strumenti civilistici da parte dell’amministrazione, in quanto gli unici vincoli costituzionali sono costituiti dal rispetto dei principi di buon andamento e imparzialità, disciplinati dall’art. 97 della Costituzione, il cui rispetto può essere assicurato anche attraverso l’utilizzo di moduli privatistici [3].   

A tali riflessioni dottrinali, a sostegno dell’impiego di strumenti consensuali per l’esercizio dell’azione amministrativa, segue l’intervento del legislatore, che con l’emanazione della l.n. 241 del 1990 introduce l’art. 11, rubricato “Accordi tra amministrazione e privati”, fornendo dunque un sostrato normativo all’ idea della negoziazione della funzione amministrativa.

Gli accordi costituiscono, dunque, una forma di esercizio consensuale della potestà ammnistrativa, determinando il superamento dell’idea di un’attività amministrativa esclusivamente autoritativa, in favore di forme di esercizio del potere su base consensuale, fondate sulla proficua collaborazione tra Amministrazione e amministrati [4]. 

La previsione di tale disposizione ha così posto fine al dibattito sull’ammissibilità degli accordi tra P.A. e privati attinenti all’esercizio della funzione pubblica, prevedendo infatti una generalizzazione dell’istituto [5].   

Con tale norma è stato previsto che «in accoglimento di osservazioni e proposte presentate a norma dell’articolo 10, l’amministrazione procedente può concludere, senza pregiudizio dei diritti dei terzi, e in ogni caso nel perseguimento del pubblico interesse, accordi con gli interessati al fine di determinare il contenuto discrezionale del provvedimento finale ovvero in sostituzione di questo» [6].

Dall’analisi del co. 1 della disposizione, possono desumersi alcuni degli aspetti fondamentali dell’istituto degli accordi. Primo aspetto, desumibile dalla formulazione normativa, che sarà il fulcro della presente trattazione, è rappresentato dal fatto che la stipula degli accordi costituisce uno dei possibili esiti della partecipazione al procedimento amministrativo da parte dei cittadini [7]. 

Tale interpretazione, del primo inciso della disposizione, troverebbe conferma alla luce di diverse argomentazioni: la prima costituita dal dato letterale della norma, che collega espressamente la stipula degli accordi all’accoglimento di osservazioni e proposte provenienti dalle parti procedimentali; la seconda argomentazione sarebbe, invece, rinvenibile alla luce di un’interpretazione sistematica della disposizione, la quale, infatti, non a caso, è collocata dal Legislatore al capo III della l.n. 241 del 1990, dedicato alla partecipazione al procedimento amministrativo, ed inoltre come norma di chiusura dello stesso, pertanto gli accordi  potrebbero qualificarsi quali strumenti di codecisione, all’esito di una proficua collaborazione tra privato e amministrazione; in terzo luogo, tale tesi sarebbe sostenibile, in virtù di un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’intero capo dedicato alla partecipazione, che sarebbe stato predisposto al fine di garantire il rispetto del fondamentale principio  democratico, poiché l’insieme di queste disposizioni consentirebbe  ai privati di prendere parte all’esercizio del potere amministrativo sino a prevedere la possibilità di definirne il contenuto discrezionale o la sostituzione  del provvedimento tramite la stipula degli accordi, questi ultimi, dunque, contengono in sé un nucleo di “democraticità effettiva” [8]. 

Il secondo aspetto, che si ricava dal co. 1 dell’art. 11, attiene alla tipologia di accordi stipulabili. Nel dettato normativo, si fa, infatti, riferimento a due distinte formule: gli accordi procedimentali e gli accordi sostitutivi del provvedimento. I primi rappresentano il contenuto discrezionale del provvedimento che l’Amministrazione adotta successivamente; i secondi, invece, sono diretti a sostituire integralmente il provvedimento [9].  Nell’originaria versione della disposizione, la principale differenza tra i due tipi di accordi risiedeva nel fatto che quelli sostitutivi trovassero applicazione esclusivamente nei casi previsti dalla legge, erano quindi soggetti alla riserva di legge. Con la l.n. 15 del 2005, tale inciso è stato abrogato, conseguentemente anche gli accordi sostitutivi divengono atipici al pari degli accordi procedimentali e pertanto sarebbero sempre stipulabili, purché vi sia una norma di conferimento del potere, in quanto anch’essi risentono della tipicità del provvedimento amministrativo. Ulteriore aspetto di rilievo, contenuto nel co. 1 dell’art. 11, riguarda i due precisi limiti a cui gli accordi devono conformarsi: il perseguimento dell’interesse pubblico e l’assenza del pregiudizio dei terzi [10].  Quanto al primo limite, esso consegue alla natura pubblicistica dell’attività, la quale, seppur esercitata tramite moduli privatistici, rimane assoggettata al suo vincolo funzionale, ossia al perseguimento delle finalità stabilite dalla legge. Per quanto concerne il secondo limite, esso viene inteso come una sorta di clausola di salvaguardia della posizione giuridica dei terzi eventualmente incisi dal contenuto dell’accordo. Tuttavia, parte della dottrina ha evidenziato come a tale inciso possa attribuirsi un’ulteriore sfumatura di significato, che corrobora la natura pubblicistica degli accordi, in base alla quale l’assenza di pregiudizi nei confronti dei terzi potrebbe intendersi come una ponderazione degli interessi maggiormente adeguata ai bisogni della collettività, che pertanto garantirebbe l’attuazione del principio costituzionale del buon andamento ed una maggiore stabilità dei rapporti giuridici [11].  

Analizzato il primo comma dell’art. 11, che consente di inquadrare a livello sistematico l’istituto degli accordi, può procedersi con la definizione della loro natura giuridica desumibile dalla specifica disciplina degli stessi. Il tema della natura giuridica degli accordi è stato oggetto di un ampio dibattito dottrinale e giurisprudenziale, sul punto si sono contrapposti due principali orientamenti.

La prima tesi, definita panprivatistica, riconduce l’istituto degli accordi nell’alveo dei contratti di diritto comune, pertanto l’amministrazione, nella stipula degli stessi, non eserciterebbe alcun potere pubblico, ma spenderebbe la propria autonomia negoziale. L’adozione di questa impostazione comporterebbe notevoli conseguenze sulla disciplina applicativa dell’istituto, che però non risultano confermate dal dettato normativo e pertanto la giurisprudenza maggioritaria ha ritenuto tale tesi non condivisibile.

La seconda tesi, maggiormente accreditata in giurisprudenza, attribuisce agli accordi natura pubblicistica. Il ragionamento posto alla base di tale interpretazione trova fondamento nella peculiare disciplina degli accordi, i quali sono atti che l’amministrazione pone in essere con il consenso del privato, ma comunque soggetti al vincolo pubblicistico.

L’elemento definitorio degli accordi, dal quale dipende la loro validità, sarebbe dunque la compatibilità con l’interesse pubblico, come precisato dal co. 1 della disposizione.

Conseguentemente a tale funzionalizzazione pubblicistica degli accordi, il legislatore prevede espressamente al co. 2 dell’art. 11 che «Ad essi si applicano, ove non diversamente previsto, i principi del Codice civile in materia di obbligazione e contratti in quanto compatibili» [12].  

Risulterebbe pertanto evidente l’intento del legislatore di non assimilare gli accordi ai contratti, escludendo l’applicazione del fondamentale principio civilistico “pacta sunt servanda” e limitando l’applicazione delle disposizioni civilistiche ai soli principi, qualora risultino compatibili con l’interesse pubblico [13]. 

Lo stesso co. 2 dispone, inoltre, che «gli accordi di cui al presente articolo devono essere motivati ai sensi dell’articolo 3», introducendo in tal modo un elemento tipicamente riconducibile all’attività amministrativa, che accentua ancor di più la linea di demarcazione con i contratti.

Ulteriore argomento normativo, che dimostrerebbe la natura pubblicistica degli accordi, viene ricondotto al co. 4 della disposizione, secondo cui «Per sopravvenuti motivi di interesse pubblico l’amministrazione recede unilateralmente l’accordo, salvo l’obbligo di provvedere alla liquidazione di un indennizzo in relazione agli eventuali pregiudizi verificatisi in danno al privato» [14].  

L’espresso riferimento alla sopravvenienza degli interessi pubblici non consentirebbe di ricondurre la facoltà di recedere, riconosciuta in capo all’amministrazione, all’istituto del recesso del diritto civile. Sicché, quale ulteriore conferma della natura pubblicistica degli accordi, il recesso ex art. 11 sarebbe così assimilabile al potere di revoca ex art. 21-quinquies della stessa l.n. 241/1990 [15].   

Altro elemento normativo, che consente di ricondurre il recesso ex art. 11 all’istituto della revoca, supportando, pertanto, ulteriormente la tesi pubblicistica, è rinvenibile nell’indennizzo, previsto dal co. 4 della disposizione, qualora lo scioglimento dell’accordo abbia pregiudicato la posizione giuridica dei privati.

L’indennizzo costituisce, infatti, la tipica forma di ristoro riconosciuta al privato, eventualmente leso da un’attività amministrativa legittima. Tale forma di ristoro è presente anche nella disciplina della revoca, quale meccanismo di contemperamento allo speciale potere di recesso riconosciuto in capo all’amministrazione, al fine di garantire un riequilibrio economico [16].  

Dalla disamina dei tratti caratterizzanti la disciplina degli accordi, emergono, dunque, con chiarezza, le ragioni in virtù delle quali la giurisprudenza maggioritaria attribuisce a quest’ultimi natura pubblicistica. 

3. La “codecisione” tra privati e amministrazione tramite l’utilizzo degli accordi 

Con l’introduzione dell’istituto degli accordi tra privati e amministrazione, viene, di fatto, istituzionalizzato il “modello convenzionale” dell’attività amministrativa consentendo «all’Amministrazione di ricercare il consenso del privato, al fine di contemperare gli opposti interessi in gioco e di definire un assetto di interessi concordato, che costituirà il contenuto del provvedimento o sostituirà il contenuto del provvedimento stesso» [17]. Si assiste, pertanto, ad una notevole valorizzazione della partecipazione procedimentale, in quanto, per merito degli accordi, il privato cittadino assume le vesti di “codecisore” [18].    

La partecipazione dei privati, infatti, non si limita all’intervento nel procedimento, ma viene portata ad un livello successivo, potendo pervenire ad una definizione in accordo con l’Amministrazione, nel rispetto dei principi costituzionali, della più adeguata ponderazione degli interessi.

La previsione di questi istituti testimonia l’esigenza, recepita dal legislatore, di affiancare un modello decisionale alternativo alla rigidità delle tecniche di government, le quali risultano fondate sul binomio gerarchia + procedure e sul principio di monopolio delle decisioni da parte dello Stato [19].  

Lo stile decisionale del government si caratterizza per l’assunzione di decisioni unilaterali da parte dello Stato, relegando quindi i soggetti privati ad un ruolo marginale. Quest’ultimo si ispira alla logica di un rapporto di completa subordinazione del cittadino allo Stato, non conforme all’idea di Stato democratico e pluralista, propria della nostra Costituzione.

Tale tecnica di assunzione delle decisioni pubbliche, storicamente, affonda le proprie radici nella concezione dell’Amministrazione monolitica, elaborata dal filosofo Max Weber, che si presenta, dunque come una struttura impermeabile ed autonoma, ispirata ad una logica di massima razionalizzazione, che la rende avulsa da qualsiasi ingerenza esterna, contraddistinta da un’organizzazione fortemente gerarchica [20].   

Le ragioni a sostegno di questa ricostruzione si ritenevano fossero la garanzia di maggiore efficienza e affidabilità conseguenti all’ adozione di tale modello.

Tuttavia, con il complessificarsi della società, a seguito degli importanti cambiamenti politici verificatisi nel corso del 900, per merito dei quali si assiste alla costituzionalizzazione dei diritti sociali e dunque alla proliferazione dei bisogni della collettività a cui lo Stato ha il dovere costituzionale di far fronte ed inoltre, con il moltiplicarsi dei centri di potere, il modello del government entra in crisi, poiché a causa della rigidità organizzativa che lo contraddistingue, risulta anacronistico e inadeguato rispetto alla nuove esigenze della società complessa. 

Al fine dunque di far fronte a queste nuove esigenze, il Legislatore, sulla scorta di quanto avvenuto nel mondo aziendale, nel quale il modello dell’azienda fordista, fondato sul centralismo burocratico, era stato sostituito dal modello del new public management, caratterizzato invece da un sistema decentralizzato di organizzazioni interdipendenti, adotta una serie di interventi volti a predisporre un modello di amministrazione in cui alla logica del dominio, propria del provvedimento unilaterale, si affianca la logica contrattuale, riconducibile invece all’istituto degli accordi sia tra amministrazioni, sia con i soggetti privati [21].  Tale modello di assunzione delle decisioni pubbliche prende il nome di governance e si caratterizza per la compartecipazione di soggetti pubblici e privati. Prevalentemente, le decisioni all’interno del modello della governance sono assunte secondo la logica del bottom up, ossia partono dal basso, su iniziativa delle parti, e si concretizzano con la stipula di un accordo [22].   

A tale approccio decisionale possono in parte ricondursi gli accordi con i privati, disciplinati dall’art. 11 della legge 241 del 1990. In particolare, gli accordi ex art. 11 possono intendersi quali istituti applicativi del concetto di public governance, ossia di quella modalità di governo basata sul consenso e la partecipazione degli attori pubblici e privati, appartenenti a settori profit e non- profit, che insieme collaborano e decidono su tematiche di interesse comune [23].  

 In sostanza, per ottemperare a bisogni complessi e realizzare obiettivi comuni, le decisioni pubbliche sono assunte sulla base di una relazione di partenariato con soggetti privati tramite un bilanciamento degli interessi e una condivisione di competenze. Il concetto di public governance si sviluppa come evoluzione ed affinamento della dottrina aziendalista del NPM, infatti, seppur entrambe le dottrine muovono dall’ assunto della necessità di superare il modello di amministrazione weberiano, fondato sulla gerarchia e il rigido formalismo burocratico, queste presentano delle sostanziali differenze [24].  

La dottrina del NPM, essendo di eredità aziendalista, si ispira a logiche di natura prettamente economica, le quali sostituiscono alla rigidità della legalità formale la flessibilità dei criteri di efficienza, efficacia ed economicità.

La dottrina del NPG si fonda, invece, sui valori della partecipazione attiva, valorizzando dunque i rapporti con l’esterno attraverso un’attività amministrativa diretta a catalizzare le energie presenti sul territorio mediante la collaborazione e il contrappeso degli interessi in gioco.

Sul piano giuridico, alla logica decisionale della public governance si ricollegano importanti riforme amministrative, di cui quella di maggior rilievo è rappresentata dalla costituzionalizzazione del principio di sussidiarietà orizzontale nell’art. 118 co. 4 della Costituzione, il quale si esplica nell’ambito dei rapporti tra Autorità e libertà e si basa sul presupposto secondo cui alla cura dei bisogni collettivi e alle attività di interesse generale provvedono direttamente i privati cittadini, sia come singoli sia come associati, e i pubblici poteri intervengono in via sussidiaria in funzione di coordinamento, controllo e promozione [25].  

La norma sancisce, pertanto, il principio secondo cui le attività di interesse generale non sono monopolio dei pubblici poteri, ma possono essere svolte anche da privati. Il principio trova fondamento in due capisaldi della nostra Costituzione: l’art. 2 disciplinante il dovere dei consociati di solidarietà politica, economica e sociale; l’art. 1 disciplinante il principio democratico, poiché la sussidiarietà offre una nuova lettura della sovranità popolare, intesa come la possibilità di intervenire nell’attività di interesse generale, ponendosi in collaborazione con la pubblica amministrazione.

A quest’ottica di collaborazione e partecipazione attiva dei privati, possono ricondursi diverse fattispecie applicative dell’istituto degli accordi, dalle quali emerge con chiarezza il nucleo di effettiva democraticità degli stessi. Alcune di esse possono individuarsi nell’ambito del governo del territorio e dunque all’interno della disciplina urbanistica, attraverso le quali il privato codetermina la gestione del territorio con la Pubblica Amministrazione.

Altre fattispecie, inquadrabili nello schema degli accordi ex art. 11, che costituiscono un’ulteriore testimonianza della democraticità dell’istituto, si individuano nelle Convenzioni disciplinate dal Codice del terzo settore, previste allo scopo di introdurre moduli consensuali alternativi ai contratti pubblici con soggetti non profit per lo svolgimento di attività con finalità di interesse generale. 

4.  La consensualità nella pianificazione del territorio: estrinsecazione del principio di democraticità 

La previsione di modelli consensuali nell’ambito del governo del territorio, è stata per lungo tempo negata dalla dottrina maggioritaria, in quanto, coerentemente con una visione autoritativa dell’Amministrazione, si riteneva che la pianificazione urbanistica fosse una competenza esclusiva del potere autoritativo in virtù della necessaria posizione di terzietà per la definizione degli assetti del territorio.

Tale interpretazione viene, nel corso degli anni, sconfessata da parte della dottrina e della giurisprudenza, divenuta col tempo maggioritaria, la quale riconosce invece la possibilità di pervenire a tecniche di pianificazione consensuale [26-27].   

Questa impostazione trova fondamento nell’istituto degli accordi ex art. 11 della legge sul procedimento amministrativo, ai quali, in tal modo, si riconosce il ruolo di fondamento normativo sul quale poggia l’intera urbanistica consensuale.  Sicché, l’art. 11 esercita la sua vis attractiva rispetto ai diversi moduli convenzionali presenti oggi in svariate norme di legge, che tradizionalmente si raggruppano nella categoria delle convenzioni urbanistiche e degli accordi di pianificazione [28]. 

Tali fattispecie possono quindi definirsi quali nuovi modelli di governance orizzontale del territorio, attuativi dei principi costituzionali di partecipazione e sussidiarietà, che ammettono il partenariato pubblico – privato nel perseguimento dell’interesse pubblico funzionale ad un regolare, armonico e sostenibile sviluppo economico e sociale della città [29]. 

Pertanto, conseguentemente al riconoscimento delle tecniche di pianificazione negoziata con il privato, si può affermare che le scelte urbanistiche sono sempre più il frutto di una negoziazione tra l’ente detentore della potestà ed i singoli privati o aggregazioni di essi, che da tali scelte verranno incisi.

Le ragioni a sostegno della negoziazione dell’esercizio della potestà pianificatoria si individuano nella maggiore efficienza, celerità ed economicità nel conseguimento degli obiettivi definiti dal piano.  Peraltro, l’esigenza di ricercare un punto di convergenza tra interessi pubblici e privati coinvolti nella pianificazione urbanistica, non si spiega solamente alla luce delle sopracitate ragioni; l’urbanistica consensuale rappresenta l’esempio più evidente della trasformazione in senso democratico e moderno della P.A. Questa tecnica ha, infatti, l’innegabile pregio di favorire l’assunzione di scelte pubbliche di ampio respiro non più limitate alla disciplina dell’uso del territorio, ma estese agli interessi socioeconomici della collettività [30].  

A titolo esemplificativo, quale fattispecie inquadrabile nel novero dell’urbanistica negoziata, in particolare tra i c.d. “accordi a monte”, ovverosia formule convenzionali con cui si perviene alla codeterminazione delle scelte urbanistiche generali,  può menzionarsi il caso del PRG di Roma, approvato nel 2008, il quale  prevede al proprio interno delle aree, definite PRINT (Programmi integrati di intervento), in relazione alle quali, i privati proprietari delle aree possono elaborare delle proposte di intervento dirette a garantire un miglioramento della qualità urbana ed ambientale, contribuendo così al perseguimento dell’interesse pubblico in cambio di un implemento degli indici di edificabilità.

Tali aree presentano una loro edificabilità minima prescritta dal piano, la quale però può essere modificata sulla base delle proposte dei privati, rispetto alle quali l’amministrazione può: concedere maggiore edificabilità e conseguentemente a tale implemento riconosciuto, richiedere un contributo straordinario; in alternativa, riconoscere maggiore edificabilità riservandosene una parte per distribuirla nella maniera ritenuta maggiormente opportuna.

Il PRG di Roma si muove quindi sulla falsariga dell’urbanistica contrattata, in quanto risulterebbe evidente che, qualora i proprietari convengano con l’Amministrazione ad ottenere un aumento della volumetria, seppur a fronte del pagamento di un contributo o della cessione di parte di essa in forma di compensazione, si è in presenza di un accordo sostitutivo del provvedimento tramite il quale vengono codeterminate le prescrizioni urbanistiche [31].  

Attraverso l’utilizzo degli accordi urbanistici si garantisce dunque un proficuo rapporto di collaborazione, che consente uno sviluppo innovativo degli spazi urbani, tramite l’impiego di risorse economiche private e senza, dunque, un carico fiscale aggiuntivo a discapito dei cittadini.  

Si deve però precisare che, per quanto gli accordi urbanistici rappresentino una forma di partecipazione del privato, all’interno di essi possono annidarsi alcuni rischi costituiti dall’intento della controparte privata di voler far prevalere propri interessi particolari ed egoistici, riducendo notevolmente gli effetti positivi della partecipazione democratica [32]. 

Pertanto, al fine di salvaguardare il nucleo di democraticità effettiva di tali accordi, non sarebbe sufficiente vincolare questi ultimi al perseguimento di finalità pubblicistiche, ma risulterebbe anche opportuno garantire una partecipazione dell’intera cittadinanza per evitare eventuali suoi pregiudizi, consentendo così una sorta di verifica preventiva da parte della popolazione.

La legittimità della copianificazione potrebbe pertanto tutelarsi tramite la previsione di istituti propri di un procedimento altamente partecipato, non limitato alla fase di osservazioni del piano adottato, ma riferibile ad una consultazione diretta della cittadinanza, precedente all’adozione di tali strumenti. In tal modo, potrebbero, infatti, effettivamente intercettarsi le specifiche esigenze della collettività, accertando così le opere di urbanizzazione secondaria considerate realmente necessarie, garantendo inoltre con tali modalità il rispetto dei principi di pubblicità e trasparenza dell’azione amministrativa [33]. 

5. Gli accordi con gli enti del terzo settore: strumenti per la sussidiarietà orizzontale 

Accanto agli accordi attinenti al governo del territorio, ulteriori fattispecie applicative assimilabili agli accordi ex art. 11 della legge n. 241 del 1990, ove emerge con chiarezza la matrice democratica dell’istituto, sono le diverse tipologie di convenzioni tra le Amministrazioni e gli enti del terzo settore, disciplinate dal Codice del Terzo Settore agli articoli 56 e 57.

Le fattispecie si differenziano principalmente per lo specifico ambito applicativo, ma sono tutte assimilabili allo schema procedimentale degli accordi tra Amministrazione e privati.

L’Anac, nelle linee guida n. 32 del 20 gennaio 2016 le definisce, come «lo strumento giuridico mediante il quale il soggetto pubblico riconosce in capo all’organizzazione i requisiti necessari per il perseguimento di obiettivi di interesse pubblico, mette a disposizione di tale soggetto le risorse necessarie per il perseguimento degli obiettivi predefiniti, controlla, verifica e valuta l’operato dell’organizzazione con riferimento all’attività affidata» [34]. 

A fini esemplificativi, si prende in esame l’art. 56 del Codice del Terzo Settore, rubricato “Convenzioni”, in quanto norma con un ambito applicativo più vasto rispetto all’art. 57.  La disposizione prevede che le P.P.A.A. possono sottoscrivere convenzioni con le organizzazioni di volontariato e le associazioni di promozione sociale iscritte da almeno sei mesi nel Registro unico nazionale del Terzo settore, finalizzate allo svolgimento di attività o servizi sociali di interesse generale, se più favorevoli rispetto al ricorso al mercato, da espletarsi in favore dei terzi [35].

 La ratio della disposizione si individua nell’intento del legislatore di sottrarre alcuni soggetti, in possesso di una determinata qualifica del Terzo settore, alla disciplina del Codice dei contratti pubblici, stabilendo un regime speciale di rapporto con la pubblica amministrazione in virtù della particolare del loro agire [36]. 

L’utilizzo del modello convenzionale descritto viene circoscritto dal legislatore sotto un duplice profilo: da un lato, sotto il profilo soggettivo poiché impiegabile solo nel rapporto con Odv e Aps, trattandosi di enti del terzo settore composti da personale prevalentemente volontario, di conseguenza caratterizzate da  una connotazione solidaristica più accentuata rispetto agli altri enti del Terzo settore [37]; dall’altro lato, sotto il profilo oggettivo, in quanto applicabile alle sole attività o servizi sociali di interesse generale, espressione che, sulla scorta del diritto euro-unitario, si riferisce a quell’insieme di attività essenziali per garantire la coesione sociale e territoriale, che pertanto costituiscono una componente principale della cittadinanza europea, indispensabile per beneficiare a pieno dei dritti fondamentali [38].  

La disposizione prevede, inoltre, conformemente alla natura giuridica degli enti del Terzo settore, che le convenzioni possono prevedere esclusivamente il rimborso delle spese effettivamente sostenute e documentate per l’erogazione del servizio, in applicazione del principio di effettività delle spese. Da tali caratteristiche può quindi desumersi con chiarezza come tali convenzioni non siano assimilabili allo schema contrattuale; la causa delle stesse, infatti, non sarebbe costituita dallo scambio tra la prestazione del servizio e il pagamento del corrispettivo, bensì dal sostegno anche finanziario della pubblica amministrazione, allo svolgimento da parte degli enti del Terzo settore di un’attività di interesse generale finalizzata al soddisfacimento dei bisogni della comunità [39].   

Presupposto ulteriore a cui è subordinata l’applicazione dell’art. 56, che presenta alcune problematicità dal punto di vista applicativo, è rappresentato dal “maggior favore rispetto al ricorso al mercato”.

Tale locuzione ha la finalità di enucleare il giusto punto di equilibrio tra la tutela della concorrenza quale principio euro-unitario, cui deve uniformarsi l’attività amministrativa, e il favor espresso dal principio di sussidiarietà orizzontale.

La clausola, per questioni di ragionevolezza, va intesa come una formula sintetica che compendia una valutazione complessiva, svolta dalla P.A., sugli effetti del ricorso ad una convenzione in luogo dell’applicazione della disciplina di diritto comune per l’affidamento dei servizi sociali, nel senso che non ci si può limitare ad una valutazione solamente economica, poiché tale prospettiva risulterebbe in contrasto con il principio di sussidiarietà orizzontale.

L’ammissibilità di tali strumenti non può, pertanto, subordinarsi esclusivamente al dato economico; al contrario, l’espressione “maggior favore rispetto al mercato” è una formula sintetica che compendia una valutazione complessiva, che la P.A. è tenuta a compiere nel ricorrere all’impiego delle convenzioni, tenendo conto della capacità di questi strumenti di conseguire gli obiettivi di solidarietà, accessibilità e universalità e valorizzando inoltre le risorse sociali aggiuntive rispetto a quelle dell’amministrazione [40].  

La disposizione al fine di rendere compatibile l’erogazione delle sovvenzioni oggetto delle convenzioni con quanto disposto dall’art. 12 della legge 241 del 1990, in base al quale si prevede che l’attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere è subordinata alla pubblicazione da parte delle amministrazioni dei criteri e delle modalità a cui queste ultime devono attenersi, dispone che la stipula delle convenzioni deve necessariamente essere preceduta da un’attività amministrativa procedimentalizzata [41].  

In particolare, l’amministrazione è tenuta a svolgere una procedura comparativa in ossequio ai principi di trasparenza e imparzialità definendo prioritariamente i requisiti di partecipazione, definibili da parte dell’Amministrazione discrezionalmente in relazione alla specifica attività di interesse generale da realizzare. L’oggetto di tale attività procedimentale è la comparazione fra le proposte delle diverse odv e aps volta ad accertare l’idoneità di un soggetto a svolgere una determinata attività qualificata di interesse pubblico.

La previsione dello strumento convenzionale, introdotto dal legislatore all’art. 56 del d.lgs. n. 117 del 2017 introduce un istituto di governance orizzontale, che consente a soggetti della società civile di collaborare effettivamente con l’amministrazione per il perseguimento di interessi della collettività.

La disposizione rappresenta una risposta adeguata alla notevole diffusione delle organizzazioni no profit all’interno del nostro paese, che ad oggi costituiscono una realtà sociale fortemente radicata. Quanto detto, viene supportato dalla presenza di dati raccolti nell’indagine ISTAT, datata 2017; questi ultimi, infatti, testimoniano un elevato incremento del numero di Onlus registratosi in controtendenza al generale contesto economico degli anni 2011-2013, caratterizzato da una recessione profonda e prolungata. Dal dicembre 2015, si è assistito ad un notevole incremento pari all’11,6% in più di organizzazioni no profit presenti ed attive sul territorio, rispetto ai dati raccolti nell’anno 2011; a questo si aggiunge, conseguenzialmente, un maggior coinvolgimento del numero di soggetti impiegati nell’ambito dell’attività del terzo settore, registrando un incremento di volontari, pari al 16,2% [42]. 

Dinanzi a questo fenomeno il legislatore ha quindi avvertito l’esigenza di riformare la materia del Terzo settore, prevedendo, tra gli altri istituti, quello delle convenzioni ex art. 56, le quali presentano la natura giuridica degli accordi amministrativi ex art. 11 della l.n. 241 del 1990, che, conformemente alla loro natura giuridica di istituti di partecipazione procedimentale, divengono strumento fondamentale per l’attuazione del principio di sussidiarietà orizzontale, poiché consentono di sottrarre la disciplina dei rapporti tra amministrazione e organizzazioni di volontariato e associazioni di promozione sociale al codice dei contratti pubblici, in virtù della peculiare finalità di solidarietà sociale che tali enti svolgono. 

6. Conclusioni

In conclusione, alla luce dell’analisi compiuta su alcune delle fattispecie applicative dell’istituto degli accordi tra amministrazione e privati, può dunque affermarsi che la previsione di tali moduli bilaterali consensuali, previsti al fine di assicurare una maggiore celerità del procedimento amministrativo e nell’intento di deflazionare i contenziosi, non si limita alla suddette finalità, bensì presenta una portata notevolmente innovativa, poiché delinea un nuovo modello di amministrazione non più fondato esclusivamente sulla logica dell’imposizione, rinvenibile nel provvedimento amministrativo, ma che si ispira  al consenso con il privato, valorizzandone la partecipazione.

Per merito degli accordi, infatti, la partecipazione dei privati giunge sino alla codecisione con la P.A. circa la più adeguata ponderazione degli interessi coinvolti all’interno del procedimento amministrativo, realizzando a pieno il fondamentale principio democratico sancito dall’art. 1 della Costituzione, con un conseguente notevole affievolimento del deficit di democraticità di cui storicamente risente il procedimento amministrativo.

Come osservato da avveduta dottrina e giurisprudenza, gli accordi amministrativi contengono al proprio interno un nucleo di democraticità effettiva, in quanto assumono il ruolo di fondamentale modulo procedimentale a cui si ricollegano diverse fattispecie di governance orizzontale, contribuendo pertanto ad una trasformazione in senso democratico del rapporto tra cittadinanza e P.A.


Note e riferimenti bibliografici

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[6] Art. 11, comma 1, della legge n. 241 del 1990; 
[7]  F. TIGANO, Gli accordi sostitutivi o integrativi del provvedimento, in Tigano F., Sandulli M., Codice dell’azione amministrativa, Milano, Giuffrè, 2017, pp. 658;
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[10] – [11]  F. TIGANO, Gli accordi sostitutivi o integrativi del provvedimento, in Tigano F., Sandulli M., Codice dell’azione amministrativa, Milano, Giuffrè, 2017, pp. 661;
[12] Art. 11, comma 2, della legge n. 241 del 1990; 
[13] R. GIOVAGNOLI, R. CHIEPPA, Manuale di diritto amministrativo, Milano, Giuffrè, 2018. Pp. 531 e ss.;
[14] Art. 11, comma 4, della legge n. 241 del 1990; 
[15] R. GIOVAGNOLI, R. CHIEPPA, Manuale di diritto amministrativo, Milano, Giuffrè, 2018. Pp. 531 e ss.;
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[18] F. TIGANO, Gli accordi sostitutivi o integrativi del provvedimento, in Tigano F., Sandulli M., Codice dell’azione amministrativa, Milano, Giuffrè, 2017, pp. 658;
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